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Sezione I civile; sentenza 22 ottobre 1959, n. 3027; Pres. Lorizio P., Est. Arras, P. M. Tavolaro...

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Sezione I civile; sentenza 22 ottobre 1959, n. 3027; Pres. Lorizio P., Est. Arras, P. M. Tavolaro (concl. conf.); Tommasi (Avv. Romanelli) c. Scalera (Avv. Orgera) Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 4 (1960), pp. 623/624-629/630 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23151320 . Accessed: 25/06/2014 08:07 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.20 on Wed, 25 Jun 2014 08:07:25 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione I civile; sentenza 22 ottobre 1959, n. 3027; Pres. Lorizio P., Est. Arras, P. M. Tavolaro(concl. conf.); Tommasi (Avv. Romanelli) c. Scalera (Avv. Orgera)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 4 (1960), pp. 623/624-629/630Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151320 .

Accessed: 25/06/2014 08:07

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623 PARTE PRIMA 624

Non contrasta, infine, il patto ili esame col principio della limitazione vitalizia dell'usufrutto sancito dall'art.

979, 1° comma, cod. civ., l'osservanza di codesta norma

risultando pienamente assicurata sol che si consideri che

la durata dell'usufrutto congiuntivo resta pur sempre con

tenuta nei limiti della vita del più longevo tra i titolari

contemporaneamente investiti del diritto.

Nelle suesposte considerazioni trova conferma la esat

tezza della già fatta affermazione, e cioè che il principio, dettato dall'art. 698 cod. civ. per la disciplina dell'accresci

mento nei legati di usufrutto, non ha quel carattere anomalo

e di eccezione che il ricorrente pretende attribuirgli. Col secondo mezzo di annullamento si denuncia la vio

lazione degli art. 773, 796, 1362 e segg., 788 cod. civ., nonché

difetto di motivazione ai sensi dell'art. 360, ri. 5, cod.

proc. civ., e si assume che la sentenza impugnata sarebbe

incorsa in errore per non aver avvertito la essenziale diffe

renza tra l'accrescimento de iure, discendente dalla unità

dell'attribuzione e dell'oggetto nella disposizione testamen

tale, e la clausola espressa di accrescimento necessaria nella

donazione a norma dell'art. 773. Tale clausola, nella specie, mancherebbe del tutto, dacché le espressioni contenute

nell'atto costitutivo e nella scrittura privata a questo pre

cedente, in base alle quali la Corte del merito ha accertato la

sussistenza della clausola medesima, avrebbe dovuto essere

interpretata, non già nel senso che l'intero usufrutto si sa

rebbe estinto alla morte del cousufruttuario superstite, sibbene nel senso che la durata dell'usufrutto era commisu

rata, per le rispettive quote ideali, alla vita di ciascuno

degli usufruttuari, e che i fondi dovevano essere restituiti

liberi fro quota dopo la morte di ciascuno degli usufruttuari.

Né, si conclude, la Corte del merito poteva trarre argo mento per la decisione dalla scrittura che aveva preceduto l'atto pubblico, quest'ultimo soltanto potendo determinare

la portata della donazione anche in ordine all'eventuale

accrescimento.

Ma anche queste censure sono prive di fondamento.

Non è esatto, anzitutto, che la sentenza impugnata sia

incorsa nella confusione addebitatale dal ricorrente, tra

accrescimento de iure e accrescimento negoziale, dal mo

mento che ha avuto cura di indagare se dall'atto pubblico costitutivo della donazione o dalla precedente scrittura

privata, in detto atto espressamente ed integralmente confermata, emergesse la manifestazione di volontà del

donante diretta a porre in essere la clausola di accresci

mento. E a conclusione di tale indagine, condotta nel

rispetto delle norme di ermeneutica, ha espresso il motivato

convincimento che siffatta manifestazione di volontà in

dubbiamente sussistesse.

Onde è che le censure contenute nel mezzo in esame si

rivelano sostanzialmente dirette a sostituire una interpre tazione propria del ricorrente a quella che i Giudici del

l'appello hanno tratto dai documenti di causa, interpreta zione quest'ultima che riflettendo una quaestio voluntatis e

risultando congruamente motivata ed immune da vizi

logici e giuridici, si sottrae al sindacato in questa sede di

legittimità. Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione I civile ; sentenza 22 ottobre 1959, n. 3027 ; Pres.

Lorizio P., Est. Arras, P. M. Tavolaro (conci, conf.) ; Tommasi (Aw. Romanelli) c. Scalera (Avv. Orgera).

(Cassa App. Roma 19 maggio 1958)

Arbitrato — Decreto di esecutorietà del lodo — Ri

fiuto — Diritto degli arbitri al compenso — Perdita — Presupposti (Cod. proc. civ., art. 813, 2° comma, 814 ; cod. civ., art. 2236).

Il rifiuto del decreto di esecutorietà al lodo arbitrale priva gli arbitri del diritto al compenso, sol se sia giustificato dal

comportamento doloso o gravemente colposo degli arbitri

stessi. (1)

La Corte, ecc. — Fatto. — Michele e Salvatore Scalera

da un lato e Michele Olian deferirono ai dottor Angelo

Tommasi, prof. Mario Rotondi ed on. Armando Angelini,

quali arbitri amichevoli compositori, la risoluzione di al

cune controversie. La nomina ad arbitro degli on. Angelini e prof. Rotondi fu fatta rispettivamente dagli Scalera e

dall'Olian, il dottor Tommasi fu nominato terzo arbitro

e presidente del collegio d'accordo dagli altri due arbitri.

Il termine per la pronuncia del lodo a seguito di proroghe risultò fissato al 15 luglio 1954. Quale fondo spese ed ono

rari per gli arbitri le parti versarono in giusta metà lire 14

milioni. Al lodo, sottoscritto il 2 luglio e depositato presso la Cancelleria della Pretura di Roma il 17 luglio 1954, il

Pretore negò l'esecutorietà (decreto 15 luglio 1954) perchè era sottoscritto da due arbitri, ed i tre arbitri nelle confe

renze personali del 17 e 18 giugno 1954 si erano limitati

a delibare la causa (tale il significato attribuito alla

dichiarazione contenuta nel lodo, secondo cui la causa era

stata decisa « in via di massima »), rinviando la delibera

zione ad una successiva conferenza, che non vi era più stata.

Il provvedimento del Pretore reclamato fu confermato

dal Presidente del Tribunale di Roma, il quale, dalla narra

tiva del lodo, rilevò che nei giorni 17 e 18 giugno 1954 la

causa era stata decisa in via di massima e rinviato l'esame

della minuta del lodo, alla cui stesura era stato delegato il

presidente, al 30 giugno, che in tale adunanza l'arbitro

Angelini non si era presentato ed era rimasto assente anche

all'adunanza del 2 luglio ore 11, fissata, come da comunica

zione a lui fatta, per la lettura e firma del testo definitivo, da ciò desunse che la decisione definitiva della causa era av

venuta il 30 giugno, mentre il 18 giugno vi era stato solo

un progetto di decisione, e pertanto risultava almeno dub

bio che il lodo fosse frutto della decisione di tutti gli arbi

tri in conferenza personale. A seguito della negata esecutorietà del lodo, i fra

telli Scalera richiesero al dottor Tommasi la metà della

somma che si era attribuita a titolo di compenso quale

presidente del collegio arbitrale, con riserva di chiedere

tale restituzione anche agli altri arbitri. La richiesta venne

respinta. Quindi con citazione 17-22 giugno 1955 Michele e Sal

vatore Scalera convennero avanti il Tribunale di Roma i

predetti Angelo Tommasi, Mario Rotondi ed Armando

Angelini per sentirli dichiarare tenuti a restituire agli istanti metà di quanto avevano percepito a titolo di com

penso per l'opera prestata quali componenti del collegio arbitrale nella vertenza fra essi Scalera e il Michele Olian, e per sentirli di conseguenza condannare al pagamento a favore degli attori della complessiva somma di lire 7 mi

lioni con gli interessi dalla domanda e le spese del giudizio. Si costituirono in giudizio le parti, tranne l'Angelini rimasto

contumace.

I convenuti eccepirono che nelle conferenze personali del 17 e 18 giugno i tre arbitri avevano deciso la causa, restando aperta solo la possibilità di apportare qualche mo

difica di contorno, fino alla sottoscrizione del lodo ; che se

(1) La sentenza del Tribunale di Roma 27 luglio 1950, confermata in appello dalla decisione cassata dalla Suprema corte, è riassunta in Foro it., Rep. 1957, voce Arbitrato, nn. 104, 105.

App. Palermo 5 febbraio 1952 (id., 1952, I, 1018) ha ritenuto « che gli arbitri perdono il diritto al compenso nelle ipotesi di dolo ed a titolo di colpa, soltanto nelle due ipotesi dell'art. 813 cod. proc. civile. Non può quindi essere escluso il loro diritto al

compenso nè nell'ipotesi di colpa ordinaria, nè nell'ipotesi di

colpa grave ». In dottrina, sulla responsabilità degli arbitri, vedi : Car

nelutti, Lez. dir. proc. civ., Padova, 1923, vol. Ili, pag. 438, n. 273 ; Satta, Dir. proc. civ., Padova, 1957, pagg. 663 e segg. e 667 e segg. ; Redenti, Compromesso, in Nuovissimo digesto italiano, pag. 791 ; Biamonti, Arbitrato, in Enciclopedia del

diritto, pagg. 920-921. La sentenza riportata è annotata fla Barba, in Giust. civ.,

1960, I, 311.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

quella decisione aveva subito qualche maggiore modifica, ciò era dipeso dal nuovo atteggiamento assunto da Salva tore Scalera, il quale, dopo avere mancato all'invito di pre sentarsi e fatto dire dai suoi legali che non si era presentato, perchè non aveva nulla da aggiungere a quanto dichiarato dal fratello, aveva viceversa, il 30 giugno 1954, notificato ai componenti il Collegio una diffida, nella quale aveva af fermato l'esistenza di convenzioni scritte, sempre negata dalle parti in tutto il corso del giudizio, assumendo che da esse avrebbero potuto sorgere, « e specie per quelle riguar danti i terzi, responsabilità a carico dell'istante » ; che in tale diffida Salvatore Scalera aveva intimato agli arbitri di tener conto di quanto dichiarato « per il completamento dell'istruttoria in ordine all'acquisizione in giudizio dell'in

terrogatorio di esso Scalera, ed in specie del testo integrale delle convenzioni intercedute fra esso istante e l'Olian, come di quelle riguardanti i terzi ».

I convenuti precisarono che, pur essendo l'istruttoria esaurita ed imminente la scadenza del termine per l'emis sione del lodo, gli arbitri si erano subito nuovamente con

vocati, ma l'Angelini, sebbene regolarmente invitato per il

30 giugno e per il 2 luglio, non si era presentato. I convenuti spiegarono che nessun addebito poteva loro

essere rivolto se le ulteriori conferenze personali non erano

seguite con la partecipazione di tutti gli arbitri, e se il lodo non era stato sottoscritto anche dal terzo arbitro, ed ecce

pirono che il rischio del mancato raggiungimento del risul

tato dell'opera prestata, e per la quale era dovuto il com

penso, stava a carico di chi aveva conferito l'incarico, onde

questi non poteva chiedere alcuna restituzione se l'opera era

stata prestata e le spese effettuate, potendo la responsabilità

degli arbitri, quali prestatori di lavoro professionale, essere

configurata solo in caso di dolo o di colpa grave in tema di

errore professionale. I convenuti chiesero pertanto che la domanda degli

attori fosse respinta, e che, in subordine, fosse dichiarato che

di nessuna responsabilità poteva farsi loro carico e che, se

una responsabilità potesse esistere, questa doveva far carico

all'arbitro degli Scalera, tenuto a sollevare i convenuti

dalle domande contro di loro spiegate. II Tribunale, premesso che la lite doveva essere decisa

sul presupposto della inesistenza giuridica del lodo, e che il

rapporto posto in essere fra le parti e gli arbitri rientrava

nello schema della locatio operis, la quale ha per oggetto una

determinata opera e dà origine ad una obbligazione di risul

tato, osservò che gli arbitri, non avendo nella specie adem

piuto alla loro obbligazione perchè il lodo era giuridicamente inesistente, non avevano diritto ad alcun compenso e dove

vano restituire quanto era stato loro corrisposto, perchè

oggettivamente non dovuto. Il Tribunale rilevò che, per

quanto la decisione apparisse iniqua in riferimento all'atti

vità dagli arbitri prestata ed alla lunga e difficile istrutto

ria svolta dal presidente del collegio arbitrale, durata circa

quindici mesi, essa era l'unica conforme alle regole di di

ritto. Pertanto, con sentenza 1-27 luglio 1956, condannò il

Tommasi a restituire la somma di lire 3.325.000 agli at

tori, ed il Rotondi e l'Angelini a restituire ciascuno ai me

desimi la somma di lire 1.750.000, oltre gli interessi legali dalla domanda, e compensò le spese.

Avverso la sentenza proposero appello il dottor Tom

masi ed il prof. Rotondi, deducendo : a) che la locatio

operis, avendo per oggetto la prestazione di un'opera intel

lettuale è ispirata al concetto che il professionista non as

sume l'obbligo nè garantisce il risultato che l'altra parte intende raggiungere attraverso la sua opera, e pertanto il professionista ha diritto al compenso indipendentemente dal risultato utile dell'opera prestata, perchè il beneficio

ed il rischio della medesima rimangono esclusivamente a

profitto ed a carico del cliente ; 6) che le conseguenze ini

que, cui il Tribunale era pervenuto, si ricollegavano ad una

inesatta impostazione giuridica della questione ; e) che il

diritto degli arbitri al compenso sussiste anche quando il

lodo è nullo, o viene annullato o revocato, e viene meno

per compensazione in fattispecie in cui gli arbitri debbano

rispondere di danni per dolo o colpa grave, fattispecie estranee al caso in esame ; d) che, anche a ritenere gli ar

II Poro Italiano — Volume LXXXIII — Parie 7-41.

bitri tenuti ad una obbligazione di risultato, il compenso nella fattispecie era dovuto per la considerazione decisiva che il risultato propostosi dalle parti era mancato per il fatto illegittimo degli Scalera, che si erano comportati in modo da impedire che il lodo giungesse al suo finale perfe zionamento ; e) che nessuna contestazione poteva sorgere sull'ammontare del compenso, essendosi gli arbitri limi tati a ritenere g'importi che le parti avevano versato allo inizio del procedimento, e comunque, ove la misura del com

penso non fosse stata accertata, avrebbe potuto la Corte

provvedere a determinarla, ovvero a rimettere le parti avanti il Presidente del tribunale per la liquidazione del

compenso.

Appellarono incidentalmente i fratelli Scalera limi tatamente al capo della sentenza di condanna dello Angelini, chiedendo che fosse nei di lui confronti dichiarata cessata la materia del contendere, e sulla pronuncia di compensazione delle spese.

La Corte di appello di Roma, con sentenza 14 marzo 19 maggio 1958, rigettò l'appello principale ed eccolse, per quanto di ragione, quello incidentale : dichiarò pertanto ces sata la materia del contendere nei confronti dell'Angelini e confermò nel resto la decisione del Tribunale, ponendo le spese del giudizio di appello a carico degli appellanti dot tor. Tommasi e prof. Rotondi. Premesso che il diniego del

decreto di esecutorietà al lodo aveva impedito allo stesso

di diventare sentenza arbitrale, onde l'attività degli arbi tri era sfociata in un atto giuridicamente inesistente, che alla fattispecie della inesistenza giuridica d'una sentenza non poteva applicarsi, neppure per analogia, la normativa che ha per presupposto una sentenza esistente, e che perciò nella specie non poteva farsi richiamo all'art. 813 cod. proc. civ., per trame la regola del diritto al compenso, perchè non si versava nell'ipotesi della sentenza nulla od annulla

bile, ma in quella di una non sentenza, cioè di un atto non

idoneo a produrre alcun effetto giuridico, la Corte conside

rò che, inquadrato il rapporto obbligatorio interno, fra arbi tri e parti interessate, nello schema della locazione di opera intellettuale, poiché questa postula un'obbligazione di risul

tato, il diritto al compenso non sorge se il risultato, oggetto della prestazione contrattualmente dovuta, non si consegue. Onde nel caso in esame, in cui non si era verificato l'esito

finale del procedimento arbitrale, cioè il lodo-sentenza, nessun onorario poteva spettare agli arbitri.

La Corte prese in esame le altre tesi dei convenuti com

parsi, che l'emanazione di un valido lodo era mancata, non

per loro colpa, ma per la condotta dell'arbitro Angelini,, che, non partecipando alle adunanze del collegio, aveva

impedito che questo provvedesse sia pure ad imporre quella

registrazione delle convenzioni, che tardivamente uno degli Scalera aveva indicato, e ad eliminare quelle preoccupa zioni di ordine fiscale che avevano motivato il comporta mento del medesimo, il quale, pur potendolo, non aveva

dato le dimissioni per consentire la sua sostituzione : e

che il Salvatore Scalera, pretendendo, con la diffida 30

giugno 1954, che gli fosse reiterato l'invito ad essere interro

gato, pur essendo stata l'istruttoria da tempo dichiarata

chiusa, e parlando solo allora di votazioni scritte, la cui esi stenza era stata in precedenza negata, aveva in sostanza

inteso impedire la formazione del lodo, ed in merito osservò che la diffida dello Scalera era diretta ad ottenere il com

pletamento dell'istruttoria e non significava volontà di revocare l'incarico o di recedere dal rapporto ; che il compor tamento dell'Angelini non poteva considerarsi fatto di un

terzo perchè riguardava un partecipe del collegio arbitrale, e tale contegno, se ritenuto di desistenza ingiustificata, avrebbe dovuto provocare la sua sostituzione (art. 811

cod. proc. civ.). Il dissenso degli arbitri sulla necessità di

sospendere ogni pronuncia fino alla regolarizzazione fi

scale di determinati atti, e comunque il dissenso circa l'ema

nazione dei provvedimenti istruttori, che avrebbero potuto rimuovere l'ostacolo frapposto all'emanazione della deci

sione definitiva, non era fatto estraneo ai poteri doveri in

combenti agli arbitri come tali, ed era irrilevante che tali

fatti dovessero imputarsi a colpa di tutti gli arbitri o di

alcuni di essi.

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627 PARTE PRIMA 628

In ogni caso anche a ritenere che la prestazione intellat

tuale fosse ritenuta impossibile per causa non imputabile

agli arbitri, una volta che una sentenza arbitrale non era

venuta a giuridica esistenza, nessun obbligo incombeva alle

parti di corrispondere l'onorario agli arbitri, perchè non era

stata prodotta alcuna opera idonea in tutto o in parte ad

arrecare una qualsiasi utilità alle parti interessate.

Contro questa sentenza hanno proposto ricorso per cas

sazione il dottor Angelo Tommasi ed il prof. Mario Rotondi

con tre mezzi di gravame, resistono con controricorso Mi

chele e Salvatore Scalera.

Diritto. —- Le doglianze dei ricorrenti riflettono :

a) l'omessa motivazione, per avere la Corte negato il

diritto degli arbitri al compenso per il solo fatto che ora

stato ricusato il decreto di esecutorietà del lodo, senza in

dagare quindi sui motivi del rifiuto se imputabili a dolo o

colpa grave dei ricorrenti, perchè solo in tal caso il com

penso non sarebbe stato dovuto (violazione degli art. 156 e

segg. ; 306 e segg. cod. proc. civ. ; 2909 cod. civ., in relazione

all'art. 360, nn. 3, 5, cod. proc. civ.) ;

b) l'indagine se l'inadempimento della prestazione fosse

da addebitarsi ad essi ricorrenti, ovvero dovuta a causa

a loro non imputabile, indagine del tutto omessa dalla Corte, la quale, inquadrato il rapporto nello schema della locazione

di opera intellettuale che postula un risultato, ha negato il diritto al compenso per il solo fatto che il risultato non si

era conseguito (violazione e falsa applicazione degli art.

1218 e segg. ; 1453 e segg. ; 2222 e segg. ; 2229 e segg. ; 1703 e segg. ; 1720 e segg. cod. civ. ; 806 e segg. cod. proc. civ. in relazione all'art. 360, nn. 3, 5, stesso codice) ;

e) l'omesso esame del comportamento dello Scalera, il

quale, nell'imminenza della decisione aveva diffidato il

Collegio a non emettere il lodo, denunciando l'esistenza di

convenzioni non registrate, senza per altro provvedere alla

loro registrazione e produzione, che dapprima erano state

sempre negate, e del comportamento dell'arbitro degli Scalera che, col suo assenteismo, aveva impedito agli altri

arbitri di provvedere sulle istanze dello Scalera (violazione

degli art. 1710, 1715, 1720, 1723 e segg. ; 1218, 1227, 2055,

2041, 1359 cod. civ., in relazione all'art. 360, nn. 3, 5, cod.

proc. civ.). Il ricorso è fondato.

Occorre premettere che nel sistema del vigente codice di

rito la sentenza arbitrale si configura come un atto com

plesso (o se si vuole come la risultante di un procedimento

complesso), e consegue alla fusione del lodo pronunciato

dagli arbitri col decreto del pretore (o con l'ordinanza del

presidente del tribunale) che lo dichiara esecutivo e gli conferisce efficacia di sentenza, per cui, se al lodo viene

ricusata l'esecutività, la sentenza arbitrale non viene ad esi

stenza, perchè manca uno degli elementi che concorrono a formarla.

Ora la Corte di merito, inquadrato il contratto di arbi trato nello schema della locazione di opera intellettuale, schema che postula un'obbligazione di risultato, ha nella

specie negato il diritto degli arbitri al compenso perchè ha escluso che la prestazione fosse stata resa, in quanto era mancato il risultato finale del procedimento, cioè il lodo sentenza.

Un tale ragionamento evidentemente non si giustifica sulla base delle suesposte premesse. Esso sarebbe valido se la prestazione degli arbitri dovesse avere per contenuto la pronuncia della sentenza arbitrale, perchè, solo in tale

caso, l'inesistenza della sentenza arbitrale porterebbe ne cessariamente a ritenere che la prestazione sia mancata, e pertanto non vi sia diritto a compenso. Ma l'obbligo che assumono gli arbitri, accettando la nomina, e quindi il ri sultato che essi promettono e che a loro può essere solo ri

chiesto, è di pronunciare il lodo nel termine fissato dalla

legge o dalle parti (la validità e regolarità del lodo attiene alla buona esecuzione della prestazione e non alla sua esi

stenza). Il conferimento al lodo della efficacia di sentenza va oltre il risultato dagli arbitri dovuto, e non rientra nei loro poteri-doveri, ma in quelli del pretore.

Pertanto il rifiuto del pretore di rendere esecutivo il lodo impedirà che la sentenza arbitrale venga ad esistenza,

ma non annullerà la prestazione, eliminando il lodo, che

esiste per il fatto stesso che non è stato ritenuto formal

mente regolare per essere dichiarato esecutivo, e quindi non

risolve la questione se il compenso agli arbitri sia dovuto

per la prestazione da loro in tale modo resa.

Vero che il lodo non reso esecutivo è inefficace, e che

privo di valore resta anche il giudizio logico in esso conte

nuto (il lodo rituale se non perviene a sentenza non si con

verte in lodo irrituale) ; ma ciò non porta a ritenere che la

prestazione degli arbitri sia mancata, ma solo che l'obbli

gazione non è stata dagli stessi esattamente eseguita, pro nunciando un lodo, al quale il pretore non potesse rifiutare

il decreto di esecutività.

La questione del diritto degli arbitri al compenso non

doveva quindi essere esaminata e risolta, come ha fatto la

Corte di merito, sotto il profilo meramente oggettivo della

inesistenza di una prestazione, attribuendo a contenuto della

medesima la pronuncia del lodo-sentenza, anziché del lodo

solo, ma sotto il diverso profilo soggettivo se il mancato

conferimento al lodo della efficacia di sentenza, potesse ricondursi, come a sua causa, ad un comportamento doloso

o gravemente colposo del ricorrente.

Il contratto di arbitrato, che sorge fra le parti, con

la nomina degli arbitri e l'accettazione da parte loro

dell'incarico, viene dalla migliore dottrina e dalla giuris

prudenza assimilato ad un rapporto, in cui concorrono sia

elementi del mandato sia della locazione di opera intellet

tuale. Mediante tale contratto gli arbitri assumono l'obbligo di pronunciare il lodo, ed a loro volta le parti si obbligano a rimborsare le spese ed a corrispondere agli arbitri il com

penso. Assumendo l'obbligo di pronunciare il lodo gli ar

bitri si rendono per ciò stesso responsabili della loro ina

dempienza, nei limiti posti dalla legge. L'avere il codice di

rito (art. 813, 2° comma) previsto l'obbligo degli arbitri

di risarcire il danno in soli due casi (pronuncia del lodo oltre

il termine, se la sentenza viene per tale motivo annullata,

rinuncia, senza giustificato motivo, all'incarico accettato) se esclude che l'obbligo del risarcimento sorga anche negli altri casi di nullità del lodo, non elimina la responsabilità

per i danni arrecati con dolo o con colpa grave, sancita

dall'art. 2236 cod. civ. a carico dei prestatori d'opera in

tellettuale. Il diritto degli arbitri ad ottenere il rimborso

delle spese e ad avere corrisposto il compenso è espressa mente previsto dall'art. 814 cod. proc. civile. Esso viene

meno nei casi previsti dall'art. 813 e, quando sia stata rico

nosciuta la responsabilità degli arbitri per i danni arrecati

con dolo o con colpa grave (art. 2236 cod. civ.), la perdita del compenso non rappresenta in tale caso e nell'altro che

una forma di risarcimento.

Ora i ricorrenti si dolgono perchè è stato negato il loro

diritto al compenso, senza che indagine veruna sia stata svolta sul loro comportamento per stabilire se essi, pronun ciando il lodo, avessero agito con dolo o colpa grave ed aves sero cagionato danno alle parti, e lamentano inoltre che sia mancato anche l'esame della condotta tenuta da uno degli Scalera e dall'altro arbitro nell'imminente scadenza del

termine entro cui avrebbe dovuto essere pronunciato il

lodo, esame che assumono decisivo per giustificare il loro

operato. E le doglianze sono fondate. Avendo i Giudici di merito

ritenuto che la prestazione dovuta dagli arbitri fosse il

lodo-sentenza, anziché il lodo, hanno escluso il diritto al

compenso senza neppure proporsi il problema, e quindi senza motivare sul punto, se il diritto dovesse invece essere

agli arbitri riconosciuto, non potendo la loro inadempienza considerarsi dolosa o gravemente colposa e produttiva di

danno alle parti. Un tale esame era invece essenziale, per chè solo quando fosse dimostrato che gli arbitri, pronun ciando il lodo, avevano agito dolosamente o con colpa grave, e che perciò erano tenuti a risarcire il danno cagio nato alle parti, il diritto al compenso poteva essere negato. In tale indagine, che deve essere pertanto compiuta, assu mono rilevanza la condotta di uno degli Scalera e quella del l'altro arbitro, dei quali, mentre era imminente la scadenza del termine entro cui il lodo doveva essere pronunciato sotto

pena di risarcimento dei danni, l'uno denuncia l'esistenza di

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Page 5: Sezione I civile; sentenza 22 ottobre 1959, n. 3027; Pres. Lorizio P., Est. Arras, P. M. Tavolaro (concl. conf.); Tommasi (Avv. Romanelli) c. Scalera (Avv. Orgera)

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

convenzioni non registrate, sempre prima negate e che non

registra nè produce, e l'altro si rende assente impedendo ogni provvedimento su tale istanza. L'esame di tali circo

stanze, di evidente rilevanza per la valutazione del compor tamento degli odierni ricorrenti allo scopo di stabilire se sia stato improntato a dolo od a colpa grave, è del tutto man cato.

Per questi motivi, cassa ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

I

Sezione II civile ; sentenza 22 settembre 1959, 11. 2594 ; Pres. Di Pilato P., Est. Modigliani, P. M. Silocchi

(conci, diff.) ; Comune di Gravina di Puglia (Avv. Gabrone) c. Caradonna (Avv. Caradonna).

(Cassa Trib. Bari 31 dicembre 19-57)

Liti comunali Autorizzazione a stare in giudizio Produzione in Cassazione — Sanatoria — Am

missibilità (E. d. 4 febbraio 1915 n. 148, t. u. legge com. e prov., art. 131, n. 5 ; cod. proc. ci v.. art. 372).

La produzione in Cassazione dell'autorizzazione a stare in

giudizio, concessa al sindaco dal consiglio comunale, vale a sanare, operando retroattivamente, le irregolarità,

inf iciatiti, a causa della mancanza di detta autorizzazione, le precedenti fasi del giudizio. (1)

II

Sezione I civile ; sentenza 5 agosto 1959, n. 2453 ; Pres.

Fragali P., Est. Vistoso, P. M. Gentile (conci, conf.) ; Comune di Valguarnera (Avv. Giannini, Termine) c. Prato (Avv. Navarra, Giorgianni).

(Conferma App. Caltanissetta 22 marzo 1958)

Liti comunali Autorizzazione a stare in jjiudizio Produzione in Cassazione — Sanatoria per

i jjiudizi precedenti — Esclusione (R. d. 4 febbraio

1915 n. 148, art. 131, n. 5; cod. proc. civ., art. 372).

La produzione in Cassazione delVautorizzazione a stare in

giudizio, concessa al sindaco dall'organo deliberante, non

può valere a sanare le irregolarità delle precedenti fasi del giudizio, dovute alla mancanza di detta autorizzazione. (2)

III

Sezione III civile ; sentenza 29 luglio 1959, n. 2430 ; Pres.

Lombardo P., Est. Stile, P. M. Caldarera (conci,

diff.) ; Comune di Pescara (Avv. Anbrioli, Pierantozzi) c. Roscioli (Avv. Conte, Tempesta), Comune di Mon

tesilvano (Avv. Mazzone) c. Roscioli (Avv. Coiste,

Tempesta).

(Conferma App. L'Aquila 2 agosto 1957)

Liti comunali — Enti pubblici Autorizzazione o

approvazione a stare in {(iudizio — Dichiarazione

di improcedibilità del (jiudizio di merito Pro

duzióne dell'autorizzazione o dell'approvazione in

Cassazione -— Preclusione.

Il principio secondo cui l'autorizzazione o l'approvazione a

stare in giudizio, prodotta per la prima volta in Cassa

zione da un ente pubblico (nella specie, comune), vale non

solo a rendere regolare il contraddittorio in quella sede,

ma anche a sanare, operando retroattivamente, le irrego larità che eventualmente inficiano, a causa della mancanza

in sede di merito, i giudizi precedenti, non può trovare ap

plicazione nei casi in cui il giudice di merito abbia rile vato la mancanza dell'autorizzazione o dell'approvazione e ne abbia dedotto Vinammissibilità della domanda o

dell'impugnazione. (3)

(1-3) Il testo della sentenza n. 2430 del 1959 è riportato retro, 418 : ne riproduciamo una delle massime per pubblicare la nota di Ruggiero Sandulli a suo commento, unitamente con le sentenze n. 2594 e n. 2453 del 1959, che pubblichiamo di seguito.

* ♦ *

Sulla determinazione del comune di stare in giudizio e sulla produzione del documento relativo in Cassazione.

Sommario. — 1. Posizione del problema. — 2. Giurisprudenza della Corte di cassazione. — 3. Giurisprudenza del Consiglio di Stato. — 4. Stato della dottrina. — 5. Ricostruzione dogma tica. — 6. Il problema sul piano processuale. — 7. Tempera menti al rigore dei principi. — 8. Ragioni che ostano ad

un'ampia sanatoria. — 9. Difficoltà di ammettete la iegola rizzazione quando sia intervenuta una pronuncia in ordine al difetto della capacità processuale.

1. — Posizione del problema. — 1. — In queste tre sentenze la Corte di cassazione ha avuto modo di occuparsi del problema relativo alla sanatoria della irregolarità (rilevata e dichiarati dal giudice di merito), derivante dalla mancanza della determi nazione comunale di stare in giudizio (cosiddetta « autorizza zione » a stare in giudizio concessa dall'organo deliberante

all'organo titolare della rappresentanza legale dell'ente), a

seguito della produzione nel giudizio di Cassazione del docu mento contenente tale determinazione.

In fattispecie concrete quasi analoghe, la Cassazione ha

seguito orientamenti diversi.

2. — Il problema affrontato dalla Corte suprema va inqua drato in quello più ampio, relativo alla regolarità o meno della costituzione del rapporto processuale e alla conseguente validità o meno degli atti processuali, compiuti dall'organo dotato della

rappresentanza legale di un ente pubblico, senza che preventi vamente sia intervenuta la determinazione dell'ente di stare in giudizio.

Dalla soluzione negativa di tale questione, costantemente ammessa sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza (1), discende

la soluzione del problema se il successivo intervento, nel corso

delle varie fasi del processo, della determinazione dell'ente di

stare in giudizio valga a sanare il vizio inficiante l'attività

processuale svolta dall'organo investito della rappresentanza legale dell'ente, e se la determinazione, intervenuta nel giudizio di Cassazione, riesca ugualmente a sanare l'attività processuale, svolta dal rappresentante dell'ente, anche nel caso in cui sia

intervenuta una pronuncia del giudice di merito, la quale abbia

dichiarato, in base alla situazione esistente al momento di essa,

a causa della mancanza della determinazione, l'irritualità degli atti processuali, posti in essere da,l rappresentante dell'ente, con la conseguenziale dichiarazione di improponibilità (2) della

domanda o dell'impugnazione.

3. — Le persone giuridiche — private e pubbliche —

stanno in giudizio in persona del titolare dell'organo, che, secondo i rispettivi ordinamenti, le rappresenta (sindaco, presi dente dell'ente, ecc.), previa determinazione dell'organo delibe

rante competente, il quale può essere tanto un organo diverso da

quello che ha la rappresentanza dell'ente, quanto lo stesso organo che ne ha la rappresentanza (come, per es., nel caso degli enti

minori di beneficenza). Generalmente, il titolare della rappresentanza processuale

dell'ente non è titolare della potestà di decisione di partecipare ad un giudizio, in quanto, normalmente, mentre l'organo dotato della rappresentanza processuale (che di solito è il titolare della

rappresentanza legale) dell'ente, è un organo meramente ese

(1) Cfr. da ultimo, la sentenza della Cassazione n. 1316 del 6 maggio 1959 (Foro it., Mass., 244), nella quale è detto che «l'inosser vanza delle norme legali e statutarie, le quali impongano la necessità di una preventiva autorizzazione dell'ente rappresentato al proprio rap presentante sostanziale, affinchè questi possa costituirsi in giudizio per l'ente, dà luogo a nullità della costituzione dell'ente ».

(2) In ordine alla terminologia da usare, si ritiene che il termine « improponibilità » sia più indicato di quelli di « inammissibilità » e di « improcedibilità », parlandosi nel 3° comma dell'art. 382 cod. proc. civ. di « causa che non poteva essere proposta ».

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