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sezione I civile; sentenza 23 giugno 1998, n. 6238; Pres. R. Sgroi, Est. De Musis, P.M. Raimondi(concl. conf.); Mangione (Avv. Grasso, Perrone) c. Fall. soc. Tvr Telecomunicazioni (Avv.Amiconi). Conferma App. Roma 14 novembre 1994Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 1 (GENNAIO 1999), pp. 211/212-215/216Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193040 .
Accessed: 25/06/2014 03:59
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PARTE PRIMA
mancato riconoscimento della suddetta qualifica e la correspon sione di un trattamento di fine rapporto, inferiore rispetto al
dovuto, chiedeva la condanna della Democrazia cristiana al pa
gamento di tutte le differenze retributive e del trattamento di
fine rapporto, previo accertamento della qualifica di capo servi
zio a partire dal 1970.
Costituitosi il contraddittorio, il Pretore di Roma all'esito del
l'istruttoria con sentenza 29 gennaio 1990 rigettava integralmente il ricorso. Su gravame del Laudani, il Tribunale di Roma con
sentenza 25 settembre 1995 rigettava l'appello. (Omissis) Motivi della decisione. — Con il primo motivo del ricorso
il Laudani deduce violazione e falsa applicazione degli art. 110, 299 e 331 c.p.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.). In particolare, sostiene
il ricorrente che nel corso del giudizio di appello e prima della
costituzione dell'appellata Democrazia cristiana, quest'ultima ave
va cessato di esistere, ed alla stessa erano succeduti — fatto
questo che poteva ritenersi notorio — tre diversi partiti politici
(Partito popolare italiano, Centro cristiani democratici e Cri
stiani democratici uniti), dei quali solo il primo si era costituito
ritualmente in giudizio. Il tribunale avrebbe dovuto, per effetto
di tale successione, ordinare l'integrazione del contraddittorio
nei confronti dei due successori non costituiti, il cui difetto ave
va, dunque, comportato la nullità del procedimento e della sen
tenza impugnata. La censura è infondata e pertanto va rigettata. Come sostiene il ricorrente, i successori a titolo universale
della parte deceduta nel corso del giudizio, devono tutti parteci
pare al giudizio, quali litisconsorti necessari di natura proces
suale, essendo irrilevante la trasmissione all'uno o all'altro di
essi, per effetto di alienazione o disposizione testamentaria, del
la titolarità del bene cui attiene la controversia (cfr., ex pluri mis, Cass. 2 agosto 1995, n. 8452, Foro it., Rep. 1995, voce
Procedimento civile, n. 95; 15 maggio 1995, n. 5311, ibid., n.
96; 15 luglio 1985, n. 4141, id., Rep. 1986, voce cit., n. 28); ne consegue che ricorrendo — come detto — una situazione
di litisconsorzio necessario che, a norma dell'art. 331 c.p.c., deve essere mantenuto anche nella fase di impugnazione, la man
canza dell'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti
gli eredi, determina la nullità assoluta — rilevabile d'ufficio an
che in Cassazione — del procedimento e della conseguente sen
tenza, che impone la cassazione della decisione impugnata con
rinvio allo stesso giudice, perché provveda ad emettere l'ordine
di integrazione del contraddittorio omesso in precedenza (cfr., in tali precisi sensi, tra le altre, Cass. 19 marzo 1981, n. 1632, id., Rep. 1981, voce Impugnazioni civili, n. 126).
Tali principi, affermati dalla costante giurisprudenza di que sta corte — ed a cui si richiama il ricorrente — non possono trovare applicazione però nella fattispecie, oggetto della presen te controversia, atteso che detti principi presuppongono neces
sariamente il verificarsi di una successione universale, sicura mente non ravvisabile nel caso di specie.
In punto di fatto va precisato che il ricorso d'appello è stato
proposto e notificato nei confronti della Democrazia cristiana.
Orbene, come si evince dalla documentazione esibita, nel corso del giudizio di appello la Democrazia cristiana aveva modifica to la propria denominazione in Partito popolare italiano, il quale si era pertanto ritualmente costituito nel termine di cui all'art. 416 c.p.c. A tale data (17 marzo 1995), si era già verificata la costituzione del Ccd (Centro cristiani democratici) mentre il Cdu (Cristiani democratici uniti) non era ancora sorto.
Alla stregua della documentazione in atti emerge che l'opi nione del ricorrente, secondo cui — come detto — si verte nella
fattispecie in esame in un'ipotesi di successione universale, con
conseguente necessità di rispettare il litisconsorzio necessario, non può essere condivisa.
Ed invero, l'inquadrabilità dei partiti politici nello schema delle associazioni non riconosciute di cui all'art. 36 c.c., e l'im
possibilità finché dura l'associazione di chiedere da parte dei
singoli associati la divisione del fondo comune, in ragione del
disposto dell'art. 37 c.c., portano a configurare la costituzione del Ccd, come conseguenza del recesso dal partito della Demo crazia cristiana di alcuni soci, intenzionati appunto a fondare un nuovo partito, e non certo come un'ipotesi di successione a titolo universale tra soggetti. Neanche il rapporto tra Partito
popolare italiano e Partito cristiani unitari può qualificarsi co me rapporto di successione a titolo universale, fenomeno que sto che presuppone la scomparsa del dante causa come soggetto
Il Foro Italiano — 1999.
giuridico e la trasmissione dell' universum ius nel patrimonio del
l'avente causa.
A fronte di tale situazione e di un costante indirizzo giuris
prudenziale secondo cui la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l'onere di indicare non soltanto i soggetti che debbono partecipare al giudizio ma anche di provare i pre
supposti di fatto che giustificano l'integrazione stessa (cfr., ex
plurimis, Cass. 7 maggio 1997, n. 3975, id., Rep. 1997, voce
Procedimento civile, n. 241; 2 marzo 1996, n. 1632, id., Rep.
1996, voce Intervento in causa e litisconsorzio, n. 8), non può dubitarsi dell'infondatezza del primo motivo del ricorso, che
pertanto va rigettato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 23 giugno 1998, n. 6238; Pres. R. Sgroi, Est. De Musis, P.M. Raimon
di (conci, conf.); Mangione (Avv. Grasso, Perrone) c. Fall,
soc. Tvr Telecomunicazioni (Avv. Amiconi). Conferma App. Roma 14 novembre 1994.
Società — Obbligo di convocazione del consiglio di amministra
zione — Responsabilità dei singoli amministratori (Cod. civ., art. 2260, 2327, 2447).
Sussiste la responsabilità di ciascun amministratore e non del
solo presidente nel caso in cui la mancata convocazione del
consiglio di amministrazione abbia impedito all'assemblea l'a
dozione dei provvedimenti necessari a seguito di perdita di
capitale ed il singolo amministratore non abbia messo in mo ra il presidente sollecitando la convocazione del consiglio. (1)
(1) Sulla base del principio in epigrafe (del quale non constano pre cedenti specifici) la Corte di cassazione afferma la responsabilità del l'amministratore di società per azioni nel caso in cui, verificatasi la riduzione del capitale sociale al disotto del limite legale a seguito di
perdite superiori al terzo, la protratta mancata convocazione del consi
glio di amministrazione e, conseguentemente, dell'assemblea aveva im
pedito a quest'ultima di adottare le determinazioni previste dall'art. 2447 c.c. (riduzione del capitale con contestuale aumento fino al minimo legale o trasformazione della società). Nel caso in esame, più in partico lare, la Suprema corte ha disatteso l'eccezione secondo la quale la man cata riunione del consiglio di amministrazione (necessaria per deliberare la convocazione dell'assemblea) sarebbe dipesa unicamente dal compor tamento del suo presidente, unico organo legittimato a convocarlo, e che pertanto solo questi sarebbe da considerare responsabile della viola zione dell'obbligo di convocare «senza indugio» l'assemblea.
In proposito difatti, pur riconoscendo che i singoli amministratori non hanno il potere di convocare il consiglio, la Cassazione osserva che gli stessi «debbono ritenersi dotati del potere di pretendere che il presidente provveda a tale convocazione e con uno specifico ordine del
giorno», discendendo tale potere, per un verso, dalla responsabilità gra vante su ciascuno del controllo sulla gestione societaria e, per altro ver so, dal regime di responsabilità solidale e dal connesso potere di con trollo dell'operato degli altri amministratori. Il medesimo potere-dovere di mettere in mora il presidente al fine della convocazione del consiglio di amministrazione viene poi indicato quale unico modo di esonero dal la responsabilità solidale tra amministratori.
Il principio brevemente descritto appare sostanzialmente corretto in quanto volto ad escludere che tanto la mera inerzia quanto altri com portamenti non diretti ad ottemperare all'obbligo dell'immediata con vocazione dell'assemblea possano valere come assenza di colpa ed esi mente da responsabilità. Lo stesso, tuttavia, avrebbe potuto essere ri collegato nel caso di specie non tanto all'art. 2260, 2° comma, c.c., quanto, trattandosi di società per azioni e vertendosi in un'ipotesi di responsabilità degli amministratori verso la società, all'art. 2392 c.c., in una più articolata prospettiva che tenesse conto sia delle diverse fatti specie di responsabilità che tale articolo descrive (responsabilità per vio lazione di obblighi specifici o dell'obbligo di diligenza, 1° comma, e violazione dell'obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestio
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Motivi della decisione. — {Omissis). Con il primo motivo di
ricorso, denunziandosi vizio di motivazione, si deduce che la
corte d'appello non ha tenuto conto: che il consiglio di ammini
strazione veniva convocato unicamente dal suo presidente e che
il Mangione non aveva alcun potere né per disporre tale convo
cazione né per determinare il correlato ordine del giorno; che
dal giugno 1983 al marzo 1984, epoca in cui fu conosciuto il
bilancio del 1983, il consiglio di amministrazione non si era mai
riunito e si era riunito invece solo il collegio sindacale, il quale nulla aveva eccepito in ordine alle passività della società; che
ne, 2° comma), sia dei connessi limiti che la regola della responsabilità solidale incontra.
Per la necessità di una delibera consiliare di convocazione dell'assem
blea, v. Trib. Milano 6 aprile 1995, Foro it., Rep. 1996, voce Società, n. 634, e Giur. it., 1996, I, 2, 514; Trib. Biella 15 marzo 1995, Foro
it., Rep. 1995, voce cit., nn. 748, 749, e Giur. it., 1995, I, 2, 700, secondo cui la convocazione dell'assemblea in assenza di una previa delibera consiliare costituisce grave irregolarità denunciabile ex art. 2409
c.c.; Trib. Catania 30 settembre 1993, Foro it., 1994, I, 890, con nota
di L. Nazzicone; v. anche Trib. Cassino 14 maggio 1990, id., Rep.
1991, voce cit., n. 412, che ritiene viziata da inesistenza la successiva
delibera assembleare; 23 marzo 1990, ibid., n. 413; App. Roma 20 feb
braio 1989, ibid., n. 411, e Riv. dir. comm., 1991, II, 175, con nota
di Salimei; in dottrina, adesivamente v. Ferrara-Corsi, Gli imprendi tori e le società, Milano, 1992, 490; Campobasso, Diritto commerciale.
Diritto delle società, Torino, 1992, 283.
In tema di responsabilità degli amministratori per mancata convoca
zione dell'assemblea in violazione del disposto dell'art. 2447 c.c. (e, in caso di eventuali nuove operazioni, dell'art. 2449 c.c.), cfr. Trib.
Massa Carrara 9 dicembre 1995, Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 833, e Danno e resp., 1996, 497, con nota di Daccò; Trib. Torino 10 feb
braio 1995, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 709, e Fallimento, 1995,
1150, con nota di Gaffuri, con riferimento alla responsabilità nei con
fronti dei creditori sociali ex art. 2394; 24 dicembre 1994, Foro it.,
Rep. 1995, voce cit., n. 917, e Dir. fallim., 1995, II, 857, che afferma
la concorrente responsabilità dei sindaci; Cass. 5 febbraio 1988, Visco
nti, Foro it., Rep. 1989, voce cit., nn. 396, 397; Giur. it., 1989, II,
379, e Cass, pen., 1989, 287, che ritiene ricorrere l'ipotesi di reato di
cui all'art. 2630 c.c.; 29 aprile 1986, n. 2970, Foro it., 1986, I, 2787, con nota di richiami, secondo la quale la responsabilità per le nuove
operazioni intraprese dopo la perdita del capitale prescinde dalla circo
stanza che le stesse rientrino o meno nella normale attività sociale; Trib.
Roma 21 maggio 1984, id., Rep. 1985, voce cit., n. 355, e Società,
1985, 724; App. Milano 28 settembre 1982, Foro it., Rep. 1984, voce
cit., n. 794, e Società, 1983, 630.
Per altri profili di tale ipotesi di responsabilità, v. Cass. 12 giugno
1997, n. 5275, Foro it., 1997, I, 2907, con nota di richiami, che affer
ma l'irrilevanza della conoscenza da parte dei terzi creditori di una cau
sa di scioglimento della società ai fini della responsabilità degli ammini
stratori per le operazioni intraprese successivamente; 19 settembre 1995, n. 9887, id., 1996, I, 2873, con nota di Vidiri; Società, 1996, 282, con nota di Zagra, e Giust. civ., 1996, I, 3255, con nota di Romano,
circa i rapporti tra l'azione individuale del terzo creditore e quella eser
citata dal curatore fallimentare nell'interesse della massa dei creditori;
sui limiti della responsabilità solidale tra amministratori, v., di recente,
Cass. 4 aprile 1998, n. 3483, Foro it., Mass., 368, che esclude la porta ta esimente dell'adozione di fatto del metodo disgiuntivo nell'ammini
strazione della società; 24 marzo 1998, n. 3110, ibid., 328, secondo
la quale i singoli membri del consiglio di amministrazione, pur non
essendo titolari in via esclusiva di alcun potere di controllo, sono pur
sempre individualmente tenuti ad agire affinché venga esercitata la vigi lanza sull'amministrazione e rispondono solidalmente della relativa omis
sione a meno che non forniscano la prova di una diligente attivazione
a tal fine e del comportamento ostativo degli altri componenti del con
siglio. Si ritiene inoltre che la tardiva convocazione dell'assemblea, ferma
la responsabilità degli amministratori, non incida sulla validità delle de
liberazioni assunte. In tal senso, v. Cass. 29 ottobre 1994, n. 8928,
id., Rep. 1995, voce cit., n. 626; Giust. civ., 1995, I, 1895, e Società,
1995, 359, con nota di Taurini, la quale esclude la necessità di una
delibera all'unanimità per la revoca dello scioglimento; App. Firenze
11 giugno 1993, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 575, e Giur. comm.,
1994, II, 429, con nota di D'Angelo, secondo cui, in assenza di precise indicazioni normative, il limite temporale deve ritenersi coincidere con
la convocazione in qualunque tempo dell'assemblea.
Deve anche ricordarsi che la giurisprudenza è costante nel qualificare l'omessa convocazione dell'assemblea nel caso de quo in termini di gra
ve irregolarità ai sensi dell'art. 2409 c.c.: così Trib. Biella 15 marzo
1995, cit.; Trib. Como 3 febbraio 1994, Foro it., Rep. 1994, voce cit.,
n. 707, e Società, 1994, 669; App. Milano 19 ottobre 1993, Foro it.,
Rep. 1994, voce cit., n. 708, e Società, 1994, 54, con nota di Ambrosi
II Foro Italiano — 1999.
il 16 marzo 1984 e il 24 luglio 1984 il consiglio aveva convocato
l'assemblea perché deliberasse ai sensi dell'art. 2447 c.c., anche
se poi nella prima di tali riunioni l'assemblea non aveva adotta
to alcuna decisione; che il Mangione, pur avendo approvato il bilancio 1983 nella riunione del consiglio del 30 maggio 1984, nella successiva riunione del 22 giugno 1984 aveva chiesto ap
profondimenti su tale bilancio; che il 29 giugno 1984 l'approva
zione, da parte dell'assemblea, della relazione al bilancio e di
questo stesso, era avvenuta con il voto contrario del Mangione; che pertanto costui, sia per aver partecipato alla riunione del
consiglio che convocava l'assemblea per l'adozione dei provve dimenti di cui all'art. 2447 c.c., sia per aver espresso voto con
trario all'approvazione del bilancio 1983, sia perché, in quanto socio di minoranza, non aveva possibilità di determinare il voto
dell'assemblea, non versava in colpa. Con il secondo motivo, denunziandosi violazione e falsa ap
plicazione degli art. 1218, 1223, 2246, 2247 e 2260 c.c., si dedu
ce: a) che la responsabilità del Mangione non ricorreva, ai sensi
dell'art. 2260, ultimo comma, c.c. — il quale esclude la respon sabilità degli amministratori che dimostrino di essere esenti da
colpa — perché il Mangione — che aveva approvato solo la
relazione al bilancio 1983 — non aveva approvato tale bilancio
e perché al Mangione non era addebitabile il fatto che l'assem
blea avesse omesso di decidere nella prima riunione fissata per l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 2447 c.c.; b) che
il danno era stato determinato: senza alcuna dimostrazione del
la sua quantificazione; senza l'individuazione di un nesso di cau
salità tra lo stesso e il comportamento tenuto dal Mangione;
senza rilevare l'incidenza decisiva di fattori esterni alla società;
senza tener conto che il Mangione, avendo partecipazione mi
noritaria nella società, non avrebbe avuto potere di incidere sul
l'adozione da parte dell'assemblea dei provvedimenti di cui al
l'art. 2447 c.c.
ni; Trib. Bologna 26 giugno 1990, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n.
663; App. Napoli 29 gennaio 1988, id., Rep. 1988, voce cit., n. 574, e Società, 1988, 736, con nota di Marescotti; per l'affermazione della
stessa regola anche in relazione alle società sportive, v. Trib. Napoli 20 maggio 1986, Foro it., 1987, I, 1604, con nota di Vronu. In argo mento v. anche Trib. Trieste 29 marzo 1995, id., 1995, I, 2263, con
nota di L. Nazzicone, che esclude dal novero delle gravi irregolarità la mancata adozione da parte del consiglio di amministrazione della
delibera che accerta il verificarsi di una causa di scioglimento, in quan to l'art. 2449, 5° comma, c.c. non prescriverebbe l'obbligo di adozione, ma solo di darvi pubblicità.
In ordine al carattere automatico della causa di scioglimento prevista dall'art. 2448, n. 4, c.c., talché le delibere ex art. 2447 c.c. costituireb
bero condizioni risolutive dell'avvenuto scioglimento con effetto ex tunc, v. Cass. 5 maggio 1995, n. 4923, id., Rep. 1995, voce cit., n. 904, e Giust. civ., 1995, I, 2038; 28 gennaio 1995, n. 1035, Foro it., Rep.
1995, voce cit., n. 906, e Giur. it., 1995, I, 1, 1675; 29 ottobre 1994, n. 8928, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 905; Giust. civ., 1995, I,
1895, e Società, 1995, 359, con nota di Taurini. Per la giurisprudenza di merito, v., da ultimo, Trib. Napoli 5 febbraio 1998, Foro it., 1998,
I, 3015, con nota di R. Rordorf, che ritiene insuscettibile di omologa zione la delibera assembleare declaratoria dell'avvenuto scioglimento della
società; App. Firenze 11 giugno 1993, id., Rep. 1994, voce cit., n. 594; Trib. Cagliari 9 febbraio 1987, id., Rep. 1988, voce cit., n. 755; contra, Trib. Perugia 26 marzo 1983, id., Rep. 1983, voce cit., n. 463.
In dottrina, circa la responsabilità degli amministratori per la viola
zione dell'obbligo specifico di convocazione dell'assemblea, v. F. Bo
nelli, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, Mi
lano, 1992, 11 s.; Id., La responsabilità degli amministratori, in Tratta
to delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, Torino, 1991,
4, t. 4, 328 s.; A. Traversi, Responsabilità di amministratori e sindaci
per omessa convocazione dell'assemblea, in Fisco, 1995, 7041; L. Gaf
furi, Responsabilità degli amministratori per il compimento di «nuove
operazioni», in Fallimento, 1995, 1153 s. In relazione allo scioglimento della società per riduzione del capitale sociale ed al conseguente divieto
di nuove operazioni, v., più di recente, Ambr. Romano, Responsabilità
degli amministratori per la violazione del divieto di nuove operazioni, in Giust. civ., 1996, I, 3258 s.; G. Vidiri, Responsabilità degli ammini
stratori per nuove operazioni e fallimento della società, in Foro it.,
1996, I, 2873; A. Schermi, Problematiche, e proposte di soluzione,
sullo scioglimento di società per azioni per riduzione del capitale al
di sotto del minimo legale, in Giust. civ., 1995, I, 1897 s.; A. Maurizi,
Capitale e riduzione per perdite, in Riv. dir. comm., 1993, I, 465; R.
Rordorf, Perdita del capitale e responsabilità per nuove operazioni, in Società, 1992, 1486 s. [P. Gallo]
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PARTE PRIMA
I due motivi, che in quanto connessi possono essere esamina
ti congiuntamente, sono infondati.
Tali sono il primo motivo e la censura sub a) del secondo
motivo.
La ratio decidendi della corte d'appello è consistita nei rilie
vi: che nell'anno 1983 l'andamento gestionale della società ave
va avuto un decremento progressivo, raggiungendo nell'aprile il passivo di lire 900.000.000, ammontare superiore al capitale
sociale; che conseguentemente costituiva omissione grave del con
siglio di amministrazione il non essersi, dal giugno 1983 al mar
zo 1984, riunito al fine di indire l'assemblea per l'adozione dei
provvedimenti di cui l'art. 2447 c.c.
È pertanto irrilevante, in relazione all'indicata ratio, il com
portamento tenuto dal Mangione successivamente al marzo 1984,
avendo la corte d'appello individuato come decisivo il ritardo
(nella riunione del consiglio di amministrazione) protrattosi nel
menzionato periodo. È altresì irrilevante che il Mangione, in quanto socio minori
tario, non avesse possibilità di incidere decisivamente sulle deci
sioni dell'assemblea dal momento che l'addebito che gli è mos
so è quello del ritardo nella riunione del consiglio di ammini
strazione.
La deduzione poi che il consiglio di amministrazione venisse
convocato dal presidente, abilitato altresì a fissare l'ordine del
giorno, non concreta valida censura perché — ipotizzato che
la disciplina statutaria conferisse tale potere (solo) al presidente — i singoli amministratori debbono ritenersi dotati del potere di pretendere che il presidente provveda a tale convocazione
e con uno specifico ordine del giorno. Tale potere scaturisce dai rilievi: a) che ogni singolo ammini
stratore è responsabile del controllo sulla gestione societaria e
pertanto egli deve ritenersi abilitato a mettere in moto qualun
que meccanismo necessario che gli consenta di provvedere ap
pieno al controllo stesso e di porre in essere gli adempimenti che questo richieda; b) che i singoli amministratori sono soli
dalmente responsabili e tale solidarietà non può non importare che il singolo amministratore abbia anche il potere di controlla
re l'operato degli altri amministratori.
Peraltro, anche a voler ipotizzare che la messa in mora del
presidente del consiglio di amministrazione a convocare questo stesso e con un determinato ordine del giorno non determini
l'obbligo del presidente di provvedere in tal senso, la messa in
mora costituirebbe, per gli altri amministratori — stante la pre visione della solidarietà della responsabilità — l'unico modo di
esonero da questa stessa.
La censura sub b) del secondo motivo è inammissibile perché non investe la ratio decidendi consistita nell'affermazione che
con l'atto di appello non era stata mossa alcuna doglianza av
verso la statuizione del tribunale concernente la determinazione
dell'ammontare del danno.
Peraltro la censura, se ritenuta come prospettante omissione
di pronunzia su questioni devolute al giudice dell'impugnazio ne, è inammissibile in quanto l'esame dell'atto di appello —
consentito in relazione alla denunzia di error in procedendo —
rivela che con tale atto non è stata proposta impugnazione né
in ordine alla quantificazione del danno né in ordine al nesso
di causalità tra il comportamento illegittimo e il danno stesso.
II ricorso dev'essere pertanto respinto.
Il Foro Italiano — 1999.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 15 giu
gno 1998, n. 5948; Pres. Volpe, Est. Corona, P.M. Gam
bardelia (conci, conf.); Nevoni e altro (Avv. Costa, Guli
na) c. Arzilla e altri (Aw. Tessarolo, Fontana). Cassa App.
Firenze 12 aprile 1995.
Comunione e condominio — Condominio negli edifici — Edifi
cio costruito prima dell'entrata in vigore del codice civile vi
gente — Disciplina applicabile — Fattispecie (Cod. civ., art.
1117). Comunione e condominio — Condominio negli edifici — Cose
di proprietà comune — Muri maestri — Titolo contrario —
Appartenenza esclusiva al proprietario dell'intero edificio (Cod.
civ., art. 1117).
La disciplina della comunione e del condominio negli edifici dettata dal codice del 1865 è stata abrogata dall'attuale codi
ce civile, il quale regola compiutamente l'intera materia, con
seguendone che l'attribuzione delle parti comuni viene ad es
sere prevista dall'art. 1117 c.c. vigente, le cui disposizioni si
applicano anche agli edifici costruiti prima dell'entrata in vi
gore del nuovo testo. (1) Il proprietario di un intero edificio può attribuire ad altri, per
titolo, la comproprietà del portone, dell'atrio e delle scale, che resta circoscritta a queste determinate parti comuni, e non
si estende necessariamente alla titolarità dei muri maestri ag
gettanti sul portone, sull'atrio e sulle scale, la quale resta nel
la sua esclusiva appartenenza. (2)
(1) Viene confermato l'orientamento costante della Suprema corte, secondo il quale la disciplina dettata dal codice civile del 1865, in difet to di un'espressa disposizione transitoria, non può trovare applicazione nella controversia attinente all'individuazione dei diritti di condominio, anche se trattasi di fabbricato preesistente: relativamente a fattispecie concernenti edifici costruiti prima del 1942, in materia di parti comuni del fabbricato, v., altresì, Cass. 7 settembre 1976, n. 3111, Foro it., 1977, I, 903, in motivazione, con nota di A. Masi; 9 ottobre 1972, n. 2964, id., Rep. 1972, voce Comunione e condominio, n. 36; 25 otto bre 1968, n. 3544, id., Rep. 1969, voce cit., n. 79. In senso conforme al principio di cui alla massima, cfr. Cass. 4 luglio 1991, n. 7369, id., Rep. 1991, voce cit., n. 154, e 5 febbraio 1983, n. 964, id., Rep. 1983, voce cit., n. 89, entrambe citate nella sentenza odierna, in tema di indi viduazione dei diritti del proprietario dell'ultimo piano di un edificio, non più disciplinati dall'art. 554 c.c. abrogato (la prima di tali pronun zie precisa che l'applicazione dell'art. 1127 c.c. vigente non può ritener si in contrasto con il divieto di irretroattività della legge posto dall'art. 11 disp. prel. c.c., costituendo la sopraelevazione esercizio di una delle facoltà contenute nel diritto di proprietà, che ben può essere limitata o soppressa dalla legge sopravvenuta; sempre in materia di sopraeleva zione, v. anche Cass. 19 dicembre 1975, n. 4192, id., 1976, I, 650, con nota di G. Branca, in particolare sulla questione concernente il
pagamento della relativa indennità. In dottrina, v. G. Terzago, Il con
dominio, Milano, 1993, 119.
(2, 4) Entrambe le sentenze affrontano problematiche connesse al
l'applicazione dell'art. 1117 c.c., che individua tra le parti dell'edificio
oggetto di proprietà comune, tra i proprietari dei diversi piani dello
stabile, se il contrario non risulta dal titolo, una serie di cose indicate
espressamente o per relationem. Cass. 5948/98 ribadisce l'orientamento giurisprudenziale secondo cui
la comproprietà non è una necessità, atteso che la norma in oggetto riconosce in modo esplicito la possibilità che su tali cose esista, in virtù dell'autonomia privata, un diritto diverso dal condominio, mentre, se il titolo non dispone altrimenti, si presume che le cose, gli impianti ed i servizi, di cui i proprietari dei piani o delle porzioni di piano godo no in comune, appartengono ad essi in comproprietà. Circa il diverso indirizzo seguito dai giudici di legittimità in ordine alla presunzione legale di comunione enunciata nel citato art. 1117 ed alla possibile de stinazione particolare del bene in questione, v., da ultimo, Cass. 12 febbraio 1998, n. 1498, Foro it., 1998, I, 1898, cui si rinvia all'ampia nota di riferimenti giurisprudenziali, anche in ordine al concetto di «ti tolo contrario»; per una peculiare fattispecie relativa ad un muro mae stro di un edificio condominiale appartenente, per titolo, ad uno sol tanto dei condomini, v. Cass. 15 febbraio 1996, n. 1154, id., 1996, I, 2127, citata in motivazione come «ipotesi inconsueta», che analizza il problema della ripartizione delle spese per la relativa conservazione tra tutti i partecipanti. La decisione in rassegna si segnala anche per l'approfondimento della tesi della presunzione, che non contempla un fatto di conoscenza, ma regola l'attribuzione di determinati beni; in
dottrina, sulla natura particolare di tale presunzione iuris tantum, che
può essere superata soltanto dal «titolo» e non da altri mezzi di prova,
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