sezione I civile; sentenza 26 febbraio 2002, n. 2769; Pres. Losavio, Est. Cultrera, P.M. Raimondi(concl. diff.); Fall. soc. Cemim (Avv. Bucci) c. Mancinelli (Avv. Pauri). Cassa App. Ancona 19giugno 1999 e decide nel meritoSource: Il Foro Italiano, Vol. 125, No. 5 (MAGGIO 2002), pp. 1363/1364-1367/1368Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23198341 .
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PARTE PRIMA 1364
giuntamente stipulanti il presente contratto o della loro r.s.u.».
7. - Oltre che rispettosa del criterio letterale, l'intepretazione delle norme collettive effettuate dal tribunale si presenta anche
come l'unica coerente sia con la volontà delle parti sociali che
con il tipo di rappresentatività sindacale nei luoghi di lavoro che
caratterizza l'attuale assetto delle relazioni industriali. Ed inve
ro, con l'introduzione delle r.s.u. le parti sociali hanno inteso
garantire indirizzi di politica sindacale idonei ad esprimere la volontà della collettività dei lavoratori, devolvendone l'attua
zione ad un organo collegiale destinato ad operare con ampia autonomia e libertà di scelta decisionale.
In quest'ottica risulta coerente con le suddette finalità e del
tutto legittimo un accordo (interconfederale) o un contratto col
lettivo (a carattere nazionale o locale) diretto a riservare — co
me si afferma essere avvenuto nel caso di specie — tre ore delle
dieci previste dall'art. 20 statuto dei lavoratori alle organizza zioni sindacali stipulanti i contratti collettivi applicabili nell'u nità produttiva, ed a lasciare la gestione delle altre sette ore al
l'organismo (collegiale) delle r.s.u., chiamato a disporne la ri
partizione sulla base di proprie libere determinazioni. Finirebbe
di contro per porsi in palese contrasto con le ragioni sopra espo ste un accordo o contratto dal contenuto simile a quello deli
neato dal sindacato ricorrente, che ha sostenuto come nel caso
di specie si fossero volute assegnare — a fronte delle tre ore de
volute alle r.s.u. delle organizzazioni firmatarie del contratto
collettivo applicabile in azienda — le sette ore residuali di as
semblea alle altre organizzazioni non sottoscrittrici del suddetto
contratto.
Una soluzione simile a quella patrocinata dal ricorrente de
terminerebbe un'inammissibile segmentazione dell'attività sin
dacale e lungi dall'agevolare — come hanno voluto i firmatari
del protocollo d'intesa e dell'accordo interconfederale — una
politica unitaria (di innegabile utilità per i lavoratori segnata mente in sede di contrattazione decentrata in relazione alla
quale le nuove r.s.u. sono state chiamate a spiegare la loro atti
vità), causerebbe una deregulation della materia con effetti de
vastanti per le varie componenti del mondo sindacale e con in
negabili ricadute negative per l'intera collettività dei lavoratori.
8. - Per concludere, contrariamente a quanto sostenuto dalla
Slai Cobas nei suoi motivi di ricorso, la sentenza impugnata si
sottrae a qualsiasi censura non avendo violato alcuna norma le
gale né alcuna disposizione contrattuale.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 26 feb
braio 2002, n. 2769; Pres. Losavio, Est. Cultrera, P.M.
Raimondi (conci, diff.); Fall. soc. Cemim (Avv. Bucci) c. Mancinelli (Avv. Pauri). Cassa App. Ancona 19 giugno 1999
e decide nel merito.
Privilegio — Credito del liquidatore sociale — Privilegio ge
nerale sui mobili — Esclusione (Cod. civ., art. 2229, 2751
bis).
Non godono del privilegio generale sui mobili previsto dall 'art.
2751 bis, n. 2, c.c. i compensi dovuti al liquidatore di società
di capitali. ( 1 )
(1) In termini, Cass. 17 agosto 1998, n. 8083, Foro it., 2000,1, 1413, con nota di M. Fabiani cui si rinvia; Apromolla, Ancora sul privilegio dei creditori dei liquidatori della società fallita, in Dir. fallim., 2000, li, 429. Nella pronuncia in rassegna i giudici di legittimità prendono le distanze da Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 1, Foro it., 1998,1, 315, che aveva esteso il privilegio generale ai prestatori d'opera anche non in
tellettuale, affermando che la natura dell'attività prestata dal liquidatore sociale è assolutamente peculiare, non catalogabile secondo alcune delle figure previste dagli art. 2751 ss. c.c., con la conseguenza che per il numerus clausus delle cause di prelazione, nessun privilegio può es
II Foro Italiano — 2002.
Svolgimento del processo. — Loris Mancinelli ha proposto
domanda d'insinuazione al passivo del fallimento della società
consortile p.a. Cemim del credito in lire 20.550.890, relativo al l'onorario dovutogli quale liquidatore della fallita, di cui lire 16.884.990, per onorari, chieste in privilegio ai sensi dell'art. 2751 bis o in subordine ex art. 2761, 2° comma, c.c., ed il resi
duo, per rivalse tributarie e contributive e spese di liquidazione della parcella chieste.
Avverso il decreto del giudice delegato che ha ammesso il
credito escludendo la prelazione, il Mancinelli, con atto 19
aprile 1995, ha proposto opposizione ex art. 98 1. fall, innanzi al
Tribunale di Ancona che l'ha rigettata con sentenza n. 1058 del
4 febbraio - 3 novembre 1997. Il tribunale ha sostenuto che il
liquidatore non può essere considerato un prestatore d'opera
intellettuale, essendovi dubbi circa la natura contrattuale del
rapporto che lo lega alla società e, comunque, la sua attività ha
pur sempre natura gestoria e non è riconducibile al paradigma della norma richiamata contenuta nell'art. 2751 bis c.c. Tanto
meno il credito è assistito dal privilegio speciale di cui all'art.
2761 c.c. non potendo questo riconoscersi quando le cose sul
quale deve essere esercitato non esistono più. Detta sentenza, gravata dal Mancinelli, innanzi alla Corte
d'appello di Ancona è stata riformata, con conseguente ricono
scimento del privilegio con sentenza n. 231 del 6 maggio 1999.
La curatela fallimentare impugna tale pronunzia per cassazio
ne con ricorso articolato in unico motivo.
11 Mancinelli resiste con controricorso.
Motivi della decisione. — Con l'unico motivo articolato il
fallimento ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2751 bis, n. 2, c.c., osservando che la corte territoriale
ha fondato la sua decisione, richiamandosi alla sentenza della
Consulta n. 1 del 1998 (Foro it., 1998,1, 315) che ha dichiarato l'incostituzionalità della norma in esame nella parte in cui li
mita il privilegio ai crediti per prestazione d'opera intellettuale,
sostenendo, sbrigativamente, e, quindi, con motivazione insuffi
ciente, la natura contrattuale del rapporto fra società e liquida tore. Deduce che il privilegio in esame non deriva au
tomaticamente dallo svolgimento di un'attività autonoma, ma
spetta, in realtà, solo in presenza di un contratto d'opera ricon
ducibile alla categoria delineata nell'art. 2222 c.c. E, dunque,
prescindendo dalla natura contrattuale o non del rapporto che
lega il liquidatore alla società, non basta il fondamento contrat
tuale dell'attività svolta a giustificare la prelazione, posto che il
suo riconoscimento, nell'ambito della procedura fallimentare,
determina lesione della par condicio creditorum. La previsione della norma in esame del resto conferma tale interpretazione, avendo il legislatore indicato le fattispecie contrattuali speci
fiche, ai nn. 3 e 4 dell'art. 2751 bis c.c. in esame, che determi
nano il trattamento privilegiato, il che vuol dire che non è suffi
ciente un imprecisato rapporto contrattuale a giustificarlo.
sere riconosciuto. Nella motivazione è adeguatamente sviluppato l'ar
gomento del particolare rapporto che lega il liquidatore alla società (ad
esempio, per Cass. 19 febbraio 1991, n. 1735, id., Rep. 1991, voce La
voro (rapporto), n. 407, non è un rapporto di lavoro subordinato) con la
precisazione che la mancata previsione di una prelazione ad hoc trova
ampia giustificazione nel fatto che il regime dei privilegi è destinato ad
assumere rilievo effettivo nel caso di insolvenza del debitore-società, sì
che parrebbe politically correct la scelta di non preferire il liquidatore ad altri creditori, essendo il primo comunque non estraneo al dissesto
dell'impresa. In questa cornice i due argomenti da ultimo evidenziati creano una
inopportuna sovrabbondanza di motivazione. Infatti, da una parte, il
numero chiuso dei privilegi è divenuto nel tempo una sorta di fata mor
gana, visto che uno dei più cospicui attentati al principio della par con dicio creditorum si annida proprio nella smisurata proliferazione dei
privilegi (cfr. M. Fabiani, Un mito infranto: la certezza delle cause di
prelazione, id., 2000, I, 1413; Persico, Linee di tendenza verso l '«afflevolimento» del principio di uguaglianza tra i creditori, in Nuo
ve leggi civ., 2000, 616; Tucci, Il legislatore italiano degli anni no
vanta e il paradosso dei privilegi, in Giur. it., 1999, 1985). Dall'altra
parte l'affermazione che il privilegio non spetta al liquidatore perché coinvolto nel dissesto dell'impresa, rischia di divenire un pericoloso obiter dictum, con l'effetto che la negazione del privilegio più che at
teggiamento non premiale sembra rivelarsi una scelta afflittiva, spesso ingiustificata di fronte a molti professionisti che magari hanno assolto al loro compito su incarico dell'autorità giudiziaria cercando di conte nere i danni procurati dall'imprenditore. Qualche riga in meno sarebbe stata forse opportuna. [M. Fabiani]
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
La motivazione della corte di merito, pertanto, deve esser in
tegrata in conseguenza di un'indagine, che è stata omessa, di
retta ad accertare se il rapporto in esame abbia, anzitutto, natura
contrattuale, e, quindi, se sia qualificabile in termini di contratto
d'opera. La corte territoriale nella sentenza impugnata applica la pro
nuncia del giudice delle leggi citata sostenendo che non osta al
riconoscimento della natura contrattuale del rapporto fra liqui datore e società il fatto che questo si istituisca mediante l'atto
assembleare ed acquisiti natura organica che rileva solo all'e
sterno, ma non esclude il carattere intersoggettivo del rapporto interno. Rileva, ancora, che i contenuti caratteristici, che con
sentono di qualificare intellettuale l'attività, prescindono dal
fatto che tale attività sia svolta da persona avente titolo profes
sionale, poiché non sono sovrapponibili professionalità ed in
tellettualità che non si denota per la libertà e la discrezionalità
dell'operato, che sono comuni ad altre tipologie, o per la man
canza di rischio professionale, posto che il liquidatore non è un
imprenditore come non lo è l'amministratore.
Il motivo è fondato.
Come il resistente rileva, nell'interpretazione della corte ter
ritoriale, la sentenza del giudice delle leggi indicata è stata, in
sostanza, fonte di un'equazione fra rapporto contrattuale e con
tratto d'opera non intellettuale, che giustifica il trattamento pre ferenziale del credito relativo al compenso richiesto dall'organo sociale considerato.
Tale conclusione è errata.
La premessa teorica da cui occorre procedere è rappresentata dalla conclamata natura eccezionale della normativa che preve de i casi in cui è accordato il privilegio che, dunque, non può trovare applicazione al di fuori del previsto numerus clausus, oltre il quale altre ragioni di credito non godono di trattamento
preferenziale.
Trattandosi, dunque, di verificare se il credito del liquidatore rientri in tali ipotesi tassative, va, ancora in linea prioritaria, ri
levato che rappresenta dato pacifico nell'interpretazione fornita
dalla giurisprudenza, e condivisa anche da larga parte della dot
trina, la premessa logica dell'impostazione della sentenza in
esame che afferma la natura contrattuale del rapporto interno
che lega l'amministratore alla società, atteso che la natura del
rapporto di immedesimazione organica nei confronti dei terzi
non ha, infatti, valore esauriente con riguardo ad esso (v. Cass.
n. 2755 del 1969, id., Rep. 1970, voce Società, n. 198). È dato altrettanto pacifico, nella giurisprudenza di questa corte, che
tale rapporto non è, però, catalogabile secondo lo schema nego ziale previsto dall'art. 2229 c.c., e segnatamente dall'art. 2230
c.c., per tutte le ragioni espresse nelle pronunzie, richiamate an
che dalle parti — n. 2542 del 1983 (id., 1983,1, 1244) e n. 9692 del 1995 (id., Rep. 1996, voce Privilegio, n. 17) — il cui indi rizzo, al quale si ritiene di aderire, segna i tratti distintivi fra la
figura dell'amministratore, e per l'effetto del liquidatore, che
secondo autorevole dottrina può essere qualificato «l'ammini
stratore della liquidazione», e quella del prestatore d'opera in
tellettuale.
Nel primo arresto si afferma che anche «pur ammessa tale
natura contrattuale, non ne viene come necessaria conseguenza che si tratti di un contratto di prestazione intellettuale. Oggetto dell'attività dell'amministratore non è solo il compimento di atti
giuridici per conto della società, perché, costituendo l'organo al
quale è commessa la gestione dell'impresa sociale, deve occu
parsi della sua organizzazione e predisporre e curare lo svolgi mento dell'attività in cui consiste l'oggetto sociale. L'attività
amministrativa, dunque, si salda all'attività di esercizio dell'im
presa e chi è incaricato di amministrare deve affrontare i rischi
ad essa connessi».
Siffatta costruzione viene richiamata e fatta propria da questa corte nella seconda pronunzia citata, nella quale si ribadisce che
l'attività dell'amministratore, e per esso del liquidatore, nel suo
complesso, ha carattere continuativo e si identifica nella gestio ne stessa dell'impresa sociale, tanto sotto il profilo dell'orga nizzazione interna quanto sul piano esterno. Si tratta, dunque, di
un'attività troppo ampia ed indeterminata per essere ricondotta
alla mera applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche occor renti all'adempimento delle singole prestazioni d'opera intel
lettuale le quali, ove in concreto esplicate dallo stesso ammini
stratore, restano assorbite nel più vasto ambito della gestione
dell'impresa.
Il Foro Italiano — 2002.
La sentenza citata conclude, infine, affermando che i compiti suddetti non possono ricondursi all'alternativa fra prestazione di
lavoro subordinata e prestazione d'opera intellettuale, pur pre sentando caratteri di entrambe le categorie; indi, collega la man
cata estensione del privilegio ad una precisa scelta del legislato re fondata essenzialmente su di una ragione di equità, ove si
tenga conto del fatto che il regime dei privilegi è destinato ad
assumere pratico rilievo specie in casi dell'insolvenza del debi
tore e che, pur non potendosi automaticamente imputare al
l'amministratore l'insolvenza di una società, apparirebbe poco
plausibile che proprio i crediti di coloro che hanno condotto la
gestione dell'impresa siano preferiti agli altri creditori. Non vi è ragione di discostarsi da tale costruzione ermeneuti
ca, peraltro, successivamente in altri arresti (v. Cass. n. 3064 del
2001, id., 2001, I, 1545, nella quale l'attività amministrativa
viene qualificata come attività imprenditoriale e non libero
professionale; n. 7637 del 1995, id., Rep. 1995, voce Profes sioni intellettuali, n. 196; n. 8601 del 1987, id., Rep. 1988, voce cit., n. 137, ed ancora, in termini analoghi, n. 1662 del 2000, id., Rep. 2000, voce Società, n. 698).
Non appare, infatti, corretto l'assunto del Mancinelli, secon
do cui lo scenario normativo di riferimento, così come emendato
in chiave maggiormente aderente al dettato costituzionale dalla
sentenza del giudice delle leggi n. 1 del 1998, consentirebbe di attribuire al credito derivante dal rapporto fra la società ed il suo
organo gestorio il rango preferenziale previsto dall'art. 2751
bis, n. 2, c.c. per la figura negoziale del contratto d'opera. La soluzione così enunciata appare davvero troppo semplici
stica, né trova giustificazione nella sentenza citata, che ha solo
dichiarato l'illegittimità costituzionale della detta disposizione normativa nella parte in cui non attribuisce prelazione anche ai
crediti vantati dai prestatori d'opera non intellettuale negli ul
timi due anni della loro prestazione, data l'omogeneità delle
categorie dei soggetti predetti nella comune riconducibilità al
contratto previsto dall'art. 2222 c.c.
Sulla base di tale postulato non è, infatti, consentito ammette
re icasticamente che il liquidatore possa essere qualificato sic et
simpliciter un prestatore di lavoro autonomo, apparendo piutto sto il sillogismo sul quale si articola la motivazione della sen
tenza impugnata frutto di un'equazione che la pronunzia del
giudice delle leggi non enuncia, né consente.
Il contratto d'opera, regolato dagli art. 2222 ss. c.c., rappre senta una forma contrattuale che dà luogo ad un risultato (v. Cass. 19 agosto 1992, n. 9676, id., Rep. 1993, voce Lavoro
(rapporto), n. 454) che non viene, però, qualificato specifica mente come avviene, per esemplificare, nei contratti di appalto o di trasporto. La sua peculiarità sta nel fatto che suddetto ri
sultato, in cui si concreta la prestazione, può essere materiale o
non, e si concreta non necessariamente in un vantaggio econo
mico, ma nell'esito utile dell'attività svolta nell'interesse del
committente che la legge cataloga nella tipologia del lavoro
autonomo, connotato dal fatto che l'obbligato si impegna ad
eseguire l'opera in piena libertà, con i propri mezzi ed in posi zione di indipendenza, nonché con assunzione in proprio, e non
a carico del committente, del rischio economico relativo.
Se caratteristica essenziale di tale impegno è il perseguimento di un risultato e la sopportazione del rischio per l'ipotesi in cui
esso non venga perseguito, evidentemente tale schema nego ziale mal si addice al rapporto organico, fra amministratore o li
quidatore e società, dal quale esula la previsione del risultato, in
quanto per sua natura inconciliabile con la natura stessa dell'at
tività di gestione dell'impresa collettiva e di predisposizione
degli strumenti necessari al suo esercizio, tanto che l'ammini
stratore ha diritto al compenso quale che sia il risultato della sua
attività, apprezzabile o non in termini economici, sia esso con
forme alle aspettative dei soci, ovvero criticabile. Tantomeno
può ipotizzarsi a carico di detto organo la sopportazione del ri
schio, che intanto esiste in quanto esista l'obbligo del persegui mento di un certo risultato, restando, sempre e comunque, a ca
rico della società il rischio conseguente alle scelte operate dal
suo organo gestorio. Se, difatti, l'attività amministrativa «è
quell'attività che viene svolta per il raggiungimento dell'og
getto sociale e cioè lo svolgimento di un'attività economica che
si converte nell'esercizio dell'impresa» (Cass. cit.), il rischio che ne consegue sotto ogni profilo, ivi compreso quello deri
vante da una situazione d'insolvenza determinata dalla cattiva
amministrazione dell'attività d'impresa, resta a carico dell'ente
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1367 PARTE PRIMA
sociale e non si trasmette a chi lo ha governato, salvi i rimedi
consentiti alla società o ai terzi dagli art. 2392, 2393 e 2394 c.c.
Il contratto in discussione rappresenta, piuttosto, e, in conclu
sione, un negozio tipico, perché previsto espressamente dal co
dice civile negli art. 2361 ss., ma a sé stante, perché dotato di un
proprio schema negoziale nel quale si rinvengono tratti omolo
ghi a quelli di altre figure negoziali, dalle quali riprende alcune connotazioni (per esemplificare la responsabilità tipica del con tratto di mandato, ovvero profili che lo equiparano al lavoro su
bordinato), senza, però, esaurirne le caratteristiche alle quali, di
volta in volta, si aggiungono specifici elementi individualiz zanti. Ed, invero, se dal contratto di prestazione d'opera mutua
la caratteristica consistente nel fatto che il prestatore — il liqui
datore nel nostro caso — si impegna a fornire un opus e cioè
l'amministrazione nella fase della liquidazione, se ne discosta
nel fatto che tale opus non è determinato dai contraenti pre ventivamente nella fase della predisposizione dell'assetto nego ziale, perché il suo contenuto non è determinabile aprioristica
mente, identificandosi con la stessa attività dell'impresa il cui
contenuto è talmente ampio da non poter essere predefinito con
apposita regolamentazione negoziale, ma è piuttosto scandito
secondo le linee guida poste dai limiti e dagli scopi prefissati dal legislatore, nel cui rispetto l'organo di gestione dovrà svol
gere il suo ruolo di direzione e d'indirizzo dell'impresa, sia
nella sua fase fisiologica che in quella che ne precede lo scio
glimento, in una situazione di immedesimazione che determina, non già e non solo, la mera imputazione alla sfera della società
degli atti da lui compiuti, ma la loro diretta ed automatica attri
buzione ad essa con la conseguenza che detti atti sono a tutti gli
effetti, tanto interni, perché incidenti sulla sfera soggettiva della
persona giuridica, che esterni, perché destinati ad avere influen
za nei confronti dei terzi, atti della società.
Non giova, infine, a fondare le ragioni del ricorrente il ri
chiamo alla pronunzia delle sezioni unite n. 10680 del 14 di cembre 1994 {id., 1995, I, 1486) che ha affermato la competen za del giudice del lavoro nelle liti fra amministratore e società
sul presupposto che nei rapporti interni nulla esclude la sussi
stenza di un rapporto obbligatorio che è stato definito in termini
di parasubordinazione. Siffatta affermazione conforta l'opinione secondo la quale sicuramente sotto il profilo interno, la teoria
dell'immedesimazione organica non è appagante, ma non per
questo attribuisce a tale contratto la caratterizzazione tipica che
il ricorrente propone. Alla luce di quanto precede, il ricorso devesi accogliere e la
sentenza impugnata deve essere cassata.
Decidendo nel merito, il credito del ricorrente deve essere
ammesso al passivo della procedura resistente nell'importo ri
chiesto di lire 20.550.890 in chirografo.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 22 feb braio 2002, n. 2560; Pres. Panebianco, Est. Plenteda, P.M.
Abbrutì (conci, conf.); Soc. Sia - Società immobiliare alber ghiera (Avv. Pastore) c. Concordato preventivo Soc. Sia -
Società immobiliare alberghiera (Avv. Brancadoro). Con
ferma App. Roma 8 maggio 2000.
Concordato preventivo — Sentenza di omologazione
— Ap
pello — Termine — Decorrenza (Cod. proc. civ., art. 133,
136; r.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 183).
A seguito della declaratoria d'incostituzionalità della norma di
cui all'art. 183, 3° comma, l. fall., il termine di quindici gior ni (di per sé sufficiente a garantire il diritto di difesa) per proporre appello avverso la sentenza resa dal tribunale nel
giudizio di omologazione del concordato preventivo, decorre
dal momento in cui le parti hanno avuto comunicazione della
Il Foro Italiano — 2002.
sentenza senza che sia indispensabile la comunicazione con
giunta con l'affissione. (1)
Svolgimento del processo. — Il 9 settembre 1998 il Tribunale
di Bologna [s/c] omologò il concordato preventivo richiesto
dalla società Sia - Società immobiliare alberghiera s.p.a., la quale, lamentando il mancato accoglimento di alcune istanze
contenute nella proposta, propose appello con atto notificato il 4
e il 17 dicembre 1998. La Corte d'appello di Roma, con sentenza depositata l'8
maggio 2000, ha dichiarato l'impugnazione inammissibile per ché proposta oltre il termine di quindici giorni dalla comunica
(1) La legge fallimentare del 1942, proiettata nell'ottica di privile giare la celerità dei procedimento rispetto alla garanzia da assicurare al
fallito, ai creditori e ai terzi (cfr. M. Fabiani, Giusto processo e ruolo del giudice delegato, in Fallimento, 2002, 271), conteneva diverse pre visioni secondo le quali i termini per la proposizione delle impugnazio ni sia endofallimentari che connesse a normali giudizi di cognizione, decorrevano o dal momento del deposito dell'atto o dal momento del
compimento di una formalità, l'affissione contemplata dall'art. 17 1. fall.
II giudice delle leggi, sensibile all'incalzare delle corti di merito e della letteratura che pretendevano una lettura di tali norme in confor mità alla Costituzione e segnatamente al disposto dell'art. 24 quale principio a tutela del diritto di difesa, ha quindi ripetutamente scardi nato le disposizioni in tema d'impugnazione sostituendo all'affissione la comunicazione quale adempimento del cancelliere previsto sia nella
legge fallimentare medesima, sia nel codice di rito agli art. 133 e 136. Nella motivazione della sentenza si trova traccia di questo percorso evolutivo con la menzione di molte decisioni nelle quali, appunto, si è introdotto come dies a quo del gravame la data della comunicazione. In
termini, per il giudizio di omologazione, Cass. 6 luglio 1999, n. 7013, Foro it., Rep. 2000, voce Concordato preventivo, n. 42; 11 novembre
1986, n. 6576, id., Rep. 1987, voce Fallimento, n. 556; 15 gennaio 1985, n. 67, id.. Rep. 1985, voce Concordato preventivo, n. 68; in dot
trina, Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2002, 650; Tede
schi, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, 755; Carboni, Il
processo di omologazione del concordato preventivo, Padova, 1994, 230; contra, Bonsignori, Processi concorsuali minori, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ. diretto da F. Galgano, Padova, 1997, XXIII, 304, ad avviso del quale la pronuncia di incostituzionalità ha reso ap plicabili i principi generali della decorrenza dell'impugnazione dalla notificazione nel termine breve ordinario di trenta giorni.
Per quanto attiene al caso particolare dell'appello avverso la senten za resa nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, si se
gnala che per App. Catania 22 novembre 1982, Foro it., Rep. 1983, vo ce cit., n. 55, il termine breve di quindici giorni per proporre l'appello avverso la sentenza che omologa il concordato preventivo decorre per il debitore non costituito dalla notificazione della sentenza.
Questo risultato che pone come dies a quo l'effettuazione del
l'adempimento della comunicazione di cancelleria è apparso ai più ap pagante, anche nel contesto dei giudizi ordinari di cognizione, come è dimostrato dalla vicenda che ruota attorno all'interpretazione dell'art. 18 1. fall. Infatti, Cass., sez. un., 3 giugno 1996, n. 5104, id., 1996, I, 2361, alla cui nota di richiami si rinvia, componendo un conflitto di
giurisprudenza ha affermato che il termine breve per l'opposizione da
parte del debitore avverso la sentenza dichiarativa di fallimento decorre dalla comunicazione ad opera della cancelleria dell'estratto della sen tenza stessa e non dalla sua notificazione. Si è cioè ritenuta la suffi cienza della comunicazione in luogo della notificazione. In tale pro spettiva, la decisione in rassegna rappresenta un elemento di continuità laddove esclude che la comunicazione debba essere accompagnata dal
l'affissione, sostenendo che il primo adempimento è interamente sosti tutivo del secondo.
Anche in relazione alla congruità di un termine breve di quindici giorni per l'appello, Cass. 2560/02 non si discosta dai precedenti: cfr. Cass. 26 giugno 2000, n. 8663, id., Rep. 2000, voce Fallimento, n. 609; Corte cost. 25 maggio 1990, n. 271, id., 1991, I, 333 (in tema di oppo sizione allo stato passivo); Cass. 2 novembre 1998, n. 10915, id., 1999, I, 103 (in tema d'appello avverso la sentenza nel giudizio di opposizio ne al fallimento); 11 novembre 1986, n. 6576, cit. (in tema di appello sulla sentenza di omologazione del concordato fallimentare).
In controtendenza rispetto a questo indirizzo si segnala che nel d.d.l.
approvato dal consiglio dei ministri nella seduta del 1 ° marzo 2002, de finito «disegno di legge recante modifiche al r.d. 267/42 recante disci
plina del fallimento», si è previsto sia con riferimento all'opposizione a fallimento che al procedimento di omologazione del concordato pre ventivo, che il termine d'impugnazione decorra non più dalla comuni cazione ma dalla notificazione della sentenza dichiarativa (art. 7, 8 e 48 del testo). Per tali giudizi e per quelli d'appello avverso le sentenze in materia di opposizione alla sentenza dichiarativa, il termine del grava me è stato esteso da quindici a trenta giorni.
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