Sezione I civile; sentenza 28 marzo 1960, n. 641; Pres. Lonardo P., Est. Straniero, P. M. Silocchi(concl. conf.); Gelati (Avv. Barrera, Giuffredi) c. S.r.l. A. Salvi (Avv. Magrone, Jesu), Fall.Gelati (Avv. Ughi, Ghidini), I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicannella, Nardone) ed altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 4 (1960), pp. 557/558-561/562Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151301 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
dirotte all'accertamento di crediti nei confronti della massa fallimentare.
Un'eccezione però a questo principio ricorre nell'ipotesi che su un'azione giudiziale del genere siasi già pronunciato il giudice ordinario con sentenza emessa prima della dichia
razione di fallimento e non ancora passata in giudicato. In tal caso, infatti, l'art. 95, 3° comma, della legge
fallimentare prevede espressamente che il giudizio di appello sulla menzionata azione di accertamento di credito prosegua in sede ordinaria, davanti al giudice naturale della impugna zione (cfr. Cass. 28 maggio 1955, n. 1658, Foro it., 1955,
I, 795). Nè in contrario rileva che la lettera della citata norma
disciplini l'ipotesi dell'impugnazione proposta dal falli
mento, perchè sarebbe assurdo ritenere, sempre in tema di
accertamento crediti verso la massa fallimentare, che il
giudice della impugnazione cambi a seconda che il gravame sia proposto dagli organi fallimentari piuttosto che dal
preteso creditore.
Orbene, nella specie di causa, posto che la sentenza
impugnata era stata emessa prima della dichiarazione
di fallimento della Ditta Albuzza e non era ancora passata in giudicato, bene ha fatto la Corte di merito a pronunciarsi sul relativo atto di appello, anche se questo sia vertito, in tutto o in parte, come assume il ricorrente Fallimento, in tema di accertamento di crediti verso la massa falli
mentare. (Omissis) Per questi motivi, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 28 marzo 1960, n. 641 ; Pres.
Lonardo P., Est. Straniero, P. M. Silocchi (conci,
conf.) ; Gelati (Avv. Barrera, Giuffredi) c. S.r.l. A.
Salvi (Avv. Marrone, Jesu), Fall. Gelati (Avv. Ughi,
Giiidini), I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicannella, Nar
done) ed altri.
(Conferma App. Bologna 14 marzo 1958)
Fallimento — Impresa individuale — Liquidazione —
Non costituisce cessazione dell'esercizio (R. d. 16
marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 10).
Qualora la liquidazione non abbia per oggetto soltanto il pa
gamento delle passività ma anche il compimento degli af
fari in corso o comunque una forma di attività industriale
diretta alla produzione di beni o servizi, non può dirsi
cessato, ai fini della assoggettabilità a fallimento, l'eser
cizio della impresa. (1)
(1) La sentenza confermata nel dispositivo, ma parzialmente corretta nella motivazione, App. Bologna 14 marzo 1958, è pub blicata in Foro it., 1958, I, 1336, con nota di richiami.
La Cassazione conferma la propria giurisprudenza fissata
con la sentenza 23 settembre 1958, n. 3035 (id., Rep. 1958, voce Fallimento, n. 156), di cui riproduciamo la parte essenziale
della motivazione, non riportata in questa rivista, 1959, 1, 1142: « La tesi del ricorrente non è però fondata. Non è infatti
assolutamente dimostrato che, durante il periodo di cosiddetta
« liquidazione » il Pietro Romanazzi abbia continuato nell'eser
cizio della sua attività industriale e commerciale ; che siano stati
cioè intrapresi nuovi affari, o condotti a compimento affari in
corso ; svolta, insomma, l'attività industriale diretta alla pro duzione di beni o di servizi, in cui si concreta l'esercizio del
l'impresa commerciale (art. 2195, n. 1, cod. civ.). Per l'azienda
individuale la fase della liquidazione non è regolata dalla legge ;
e, a differenza delle società le quali sopravvivono durante la
liquidazione, e non cessano di esistere se non con la cancella
zione dal registro delle imprese a liquidazione avvenuta (art. 2456 cod. civ.), l'imprenditore persona fisica può cessare dal
l'esercizio dell'impresa, astenendosi dall'esercitarla, in fatto ;
mentre non può certo costituire continuazione di detto eserci
zio la « liquidazione » (e la nomina di un liquidatore, cioè di un
mandatario dell'imprenditore), se ha per oggetto soltanto il pa
gamento delle passività, il tentativo di estinguerle con un ac
La Corte, ecc. — La questione che, con l'unico motivo del ricorso, il Gelati propone all'esame di questo Supremo collegio, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione, da parte della Corte di Bologna, dell'art. 10 r. decreto 16 marzo 1942 n. 267, in relazione all'art. 2082 cod. civ., con cerne la decorrenza del termine, di cui alla citata disposi zione della legge fallimentare, quando l'imprenditore indi viduale abbia fatto seguire alla materiale cessazione del l'esercizio dell'attività economica, che formava oggetto spe cifico della sua impresa, una fase di liquidazione dell'impresa medesima.
La sentenza impugnata ha ritenuto che la detta decor renza debba coincidere con la chiusura della liquidazione dal momento che questa normalmente si estrinseca in un
complesso di rapporti e negozi giuridici, i quali, non diver
samente dalla specifica attività di produzione e di scambio,
rappresentano un'attività obiettivamente commerciale, ne
cessaria per concludere il ciclo vitale della impresa e tale
pertanto da ritenersi compresa nel periodo di esercizio di
quest'ultima indipendentemente dalla esistenza o meno di
un minimo di organizzazione aziendale nei suoi elementi
personali e reali. L'assolutezza del principio non può es
sere, invero, assoggettata a limitazioni in dipendenza di
un elemento estrinseco, contingente ed empirico, quale la
persistenza della organizzazione, quando, invece, la fase
della liquidazione, per quanto si articoli in atti e momenti
diversi, è sempre, sia dal punto di vista economico sia da
quello giuridico, unitaria ed inscindibile, diretta, cioè, nel
suo complesso, a definire tutti i rapporti pendenti. La tesi opposta è, invece, sostenuta dal ricorrente, sotto
il profilo che per la decorrenza del termine deve aversi
riguardo soltanto al momento in cui l'impresa individuale
viene posta in liquidazione.
Dopo aver premesso che i requisiti dell'attività econo
mica, dell'organizzazione, della professionalità e del fine
di lucro, espressi nell'art. 2082 cod. civ., debbono ritenersi
tutti egualmente essenziali per l'esistenza dell'impresa, ri
leva, invero, il Gelati che lo status d'imprenditore vien meno, in ogni caso, quando l'imprenditore medesimo cessa la sua
normale attività economica professionale ed inizia il pro cesso di disintegrazione della organizzazione aziendale, dal
momento che le eventuali successive operazioni di liquida zione non sono volte ad ulteriore scambio di beni ma alla
realizzazione del valore di quelli esistenti, al soddisfo di
passività, alla regolamentazione di rapporti giuridici già in atto, ovverossia si concretano in attività che, quando
pur sono economiche ed oggettivamente commerciali, non
sono più compiute professionalmente nè sono sorrette da una
organizzazione apposita.
L'opposto principio, affermato dalla giurisprudenza della Cassazione per le società irregolari, non può inoltre
suggerire soluzione ad esso analoga, dal momento che
fondamentalmente diverse sono le situazioni giuridiche dei
soggetti: nell'un caso, infatti, la società, sia regolare sia
irregolare, nasce per l'esercizio di una impresa, ha sin dal
cordo stragiudiziale con i creditori. II che, appunto, sembra es
sere avvenuto nella fattispecie, nella quale il liquidatore dott.
Picerni si limitò a discutere in Bari con i creditori, nel tenta
tivo di evitare la dichiarazione di fallimento ; ma non risulta
che abbia, in nome e per conto del suo mandante, continuato
l'esercizio dell'impresa. La dichiarazione di fallimento, quindi, deve ritenersi in definitiva come riguardante un imprenditore che, alcuni mesi prima, aveva cessato l'esercizio della impresa
(art. 10 legge fallimentare) ». Con tale sentenza (seguita poi dal Trib. Poma 29 aprile
1959, Dir. fallim., 1959, II, 436 e dal Trib. Genova 17 febbraio
1959, Temi gen., 1959, 109) la Corte ha delimitato il principio sancito con la precedente sentenza n. 2079 del 1958 (Foro it.,
1958, I, 1451), con cui si era ritenuta non cessata l'impresa finché fosse in corso un'attività diretta a predisporre la chiu
sura e la fine dell'impresa stessa.
Per l'analogo problema in tema di società, v. Trib. Milano
24 aprile 1959, id., 1959, I, 1579, con ampia nota di richiami, cui adde Santtteli, La liquidazione delle imprese individuali e
decorrenza del termine ex art. 10 legge fall., in Temi naf>., 1959,
III, 173.
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559 PARTE PRIMA 560
l'origine lo status 'd'imprenditrice collettiva quale elemento
della sua stessa natura e condizione della sua esistenza
giuridica e può estinguersi soltanto a seguito di liquida zione ; nell'altro, invece, l'imprenditore individuale è tale
soltanto se, in un determinato momento della sua vita, decide di esercitare professionalmente un'attività econo
mica organizzata al fine dello scambio di beni, non è obbli
gatoriamente soggetto ad apposita procedura di liquida zione ed estinzione della sua impresa e, quando cessa mate
rialmente tale attività, che non gli è affatto connaturata, resta egualmente soggetto di diritto.
Le censure non sono fondate.
Questa Corte, con ripetute decisioni (sentenze 5 ottobre
1959, n. 2682, Foro it., Mass., 508 ; 23 gennaio 1957, n. 197,
id., Eep. 1957, voce Società, n. 509 ; 20 gennaio 1955, n. 150, id., Eep. 1955, voce cit., n. 507), ha affermato due
principi correlativi ; che la dichiarazione di fallimento della
società è possibile fino a quando la liquidazione non sia
chiusa e che soltanto da tal chiusura decorre il termine in
questione nella presente causa. Con sentenza 17 giugno 1958, n. 2079 (id., 1958,1, 1451), ha, inoltre, precisato che
i principi in questione, già ritenuti validi pur quando si
tratti di impresa esercita da società non registrata (sen tenza 19 novembre 1956, n. 4265, id., Rep. 1956, voce
cit., nn. 474, 475), debbono essere applicati anche nel
caso dell'imprenditore individuale, perchè sostanzialmente unico è il concetto di liquidazione e la vita dell'impresa individuale continua per tutto il periodo di tempo nel quale
venga esplicata un'attività diretta a predisporre la chiusura e la fine dell'impresa medesima. A giustificazione, sia della
soluzione in se stessa, sia della parificazione fra i due tipi di impresa si è, inoltre, dedotto che la liquidazione consta normalmente di una serie, più o meno complessa, di opera zioni (di realizzazione di crediti, di alienazione di attrez
zature e prodotti, di definizione di affari in corso, di rego lamento di rapporti col Fisco e con i dipendenti) sostanzial mento non dissimili, nell'intrinseco contenuto e nella por tata pratica, da quelle che vengono effettuate quando la
impresa si svolge regolarmente e soltanto diversamente caratterizzate nel fine ; che, nel corso della liquidazione, le necessità di questa possono anche esigere che gli affari in corso vengano condotti a compimento e persino che ne
vengano intrapresi di nuovi ; che siffatti aspetti di neces sità od opportunità si presentano, con caratteristiche so stanzialmente identiche, tanto nell'impresa individuale
quanto in quella di carattere collettivo.
D'altra parte, le ragioni per le quali il Gelati chiede l'annullamento della sentenza della Corte di Bologna non sono convincenti, nè in quanto si propongono lo scopo di
scindere, per la particolare questione, l'impresa collettiva da quella individuale, nè in quanto, più genericamente, vogliono inficiare il principio di diritto.
Sotto il primo profilo va, invero, considerato che la
obbligatorietà del procedimento di liquidazione, quale pre messa assolutamente necessaria della estinzione, non costi tuisce una caratteristica essenziale di qualsiasi specie di
impresa collettiva, dal momento che questa Corte ha già ritenuto (sentenza 12 giugno 1957, n. 2195, Foro it., Eep. 1957, voce cit., n. 486), in via di interpretazione dell'art. 2275 cod. civ., che nelle società semplici la fase della liqui dazione può essere esclusa dalla volontà dei soci. D'altra
parte, la sopravvivenza ex lege delle società nel corso della
liquidazione, indipendentemente dalle attività effettiva mente svolte in tal fase, cui fa da contrappeso il concetto
amplissimo della estinzione quale eliminazione ad ogni effetto dal novero dei soggetti di diritto, e, viceversa, la
possibilità che ha l'imprenditore persona fisica, per un verso, di far cessare l'esercizio dell'impresa con una semplice astensione di fatto e, per l'altro, di sopravvivere quale soggetto di diritto anche dopo detta cessazione, non rap presentano elementi differenziali di assoluto valore indica tivo nella soluzione del problema e non importano, in parti colare, la conseguenza, per argumentum a contrario, che
l'impresa individuale debba ritenersi cessata, in ogni caso, sin dal momento in cui, con atto unilaterale di volontà,
l'imprenditore abbia posto termine all'esercizio professio
naie della sua attività, indipendentemente dalla conside
razione di quanto siasi effettivamente svolto in concreto
nella fase della liquidazione, pur volontariamente eletta. La
necessità che, in ogni caso, anche quando esista una situa
zione formale, debba prevalere la realtà obiettiva, è stata,
invero, affermata da questa Corte proprio in tema di società,
quando ha precisato (sentenza 16 maggio 1959, n. 1448, Foro it., Mass., 270) che la chiusura delle operazioni di
liquidazione e la cancellazione dal registro delle imprese, se
di norma importano estinzione dell'ente sotto il profilo di
una presunzione (di diritto) di corrispondenza con l'effet
tiva cessazione delle attività sociali, non determinano, in
vece, tale conseguenza quando di fatto tale corrispondenza non si sia verificata e, in particolare, quando siano rimaste
ancora in sospeso contestazioni con uno o più creditori.
Nè, ciò posto, un diverso principio può essere adottato in tema di impresa individuale quando sia certo che, nel
corso della liquidazione, siano state eseguite dall'impren ditore, direttamente o per tramite di un suo mandatario, una o più operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere nell'esercizio dell'impresa,
quando quest'ultima era caratterizzata dal fine di gestione e dallo scopo di lucro, ovvero comunque tali da rivelarsi come manifestazioni di un'attività economica, sia pur svolta esclusivamente in funzione della disintegrazione dell'azienda.
Anche in tal caso, infatti, la realtà obiettiva, che porta a configurare la liquidazione come una ultima manifesta zione commerciale della vita dell'impresa, deve pur sempre imporsi, e prevalere, questa volta, sulla semplice manife
stazione della volontà unilaterale di cessazione, e sulla carat terizzazione soggettiva che impronta l'azione dell'impren ditore in ordine ad attività, che da tale caratterizza zione non vengono snaturate nella rispettiva essenza. Ciò tanto più in quanto l'accettazione di un opposto principio può anche risolversi in pericolo di frodi da parte di debitori maliziosi.
Il problema è pertanto solo di concreta indagine e di misura, consiste, cioè, nell'opportunità o meno di esclu dere che, ai fini della dichiarazione di fallimento, possano essere inclusi sotto un comune denominatore, con effetti
identici, tanto i casi nei quali la fase terminale dell'impresa abbia compreso anche manifestazioni che costituiscano
comunque espressioni di dinamismo economico quanto gli altri nei quali, invece, l'ambito del processo di liquida zione sia stato in realtà ristretto a trattare i problemi connessi alle proporzioni di ripartizione ed al modo di
pagamento delle passività e presupponga, quindi, persino esaurite sia l'alienazione di qualsiasi cosa dotata di valore
patrimoniale sia la definizione e riscossione di ogni even tuale credito. Esso, d'altra parte, può dirsi già risolto da
questa Corte, sotto un profilo di delimitazione in senso restrittivo del principio espresso in termini generali ed estensivi nella precedente sentenza n. 2079 del 1958, con la sentenza 23 settembre 1958, n. 3035 (Foro it., 1959, I, 1142), quando quest'ultima ha precisato che non co stituisce continuazione di esercizio della impresa la liqui dazione che abbia per oggetto soltanto il pagamento delle
passività o il tentativo di estinguerle con un accordo estra
giudiziale con i creditori e, viceversa implicitamente, come reso palese dalla contrapposizione nella motivazione, che continuazione si ha quando, nel periodo della liquidazione, siasi svolta, sotto forma di nuovi affari o di compimento di quelli in corso, quell'attività industriale diretta alla
produzione di beni o diservizi, in cui, ai sensi dell'art. 2195, n. 1, cod. civ., si concreta l'esercizio della impresa com merciale.
La necessità di una più precisa puntualizzazione dei
limiti, in ordine ad un argomento che va comunque inte
grato col richiamo alla necessità che gli eventuali nuovi affari si inquadrino pur sempre nella già rilevata caratte rizzazione soggettiva finalistica della disintegrazione azien
dale, è, infine, superata nella specie dalla considerazione che la sentenza impugnata ha avuto cura di precisare che un anno prima della dichiarazione di fallimento del Gelati il liquidatore aveva ancora in corso numerose pratiche
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
inerenti alla definizione dei rapporti giuridici ed economici col personale ed altrettanto numerose contestazioni e pen denze con il Fisco e con gli enti previdenziali ed assistenziali, non aveva ancora completato il realizzo delle merci esistenti
nei magazzini e doveva, infine, alienare due autoveicoli
di proprietà dell'imprenditore e recuperare beni fittizia
mente intestati o affidati a terzi.
Tale complesso di attività ancora in corso e persino da
iniziare, la cui esistenza i Giudici del merito hanno accer
tato con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede perchè logico ed adeguatamente motivato, si inquadra, invero, nella interpretazione, anche rigorosa, del concetto
di esercizio d'impresa nella fase di liquidazione e giustifica
pertanto, nella fattispecie, la decisione della Corte di Bo
logna, quando pur non la si possa accettare nei suoi termini
generali. Esso assorbe, altresì, in quanto, ovviamente, per la natura stessa delle attività, presuppone la preesistenza della organizzazione aziendale, almeno nei suoi elementi
strutturali più essenziali, l'ulteriore quesito, risolto in via
complementare dalla stessa Corte, sulla necessità o meno
della continuazione, in ogni caso, di tale organizzazione. Per questi motivi, rigetta, ecc.
il giudice che ha pronunciato la sentenza non vale a jar decorrere il termine d'impugnazione per il Pubblico mini stero presso il giudice competente a decidere sull'impu gnazione. (2)
Il termine per proporre impugnazione decorre, per il Pub blico ministero presso il giudice ad quem, dal giorno in cui egli riceve il fascicolo d'ufficio contenente l'originale del dispositivo della sentenza comunicato alle parti, an corché la trasmissione del fascicolo stesso sia avvenuta su disposizione del presidente del tribunale e non ad
opera del cancelliere. (3)
La Corte,' ecc. — Con il primo mezzo si denuncia la violazione del testo attuale art. 72 cod. proc. civ., dello art. 119 cod. civ., e degli art. 12, n. 3, 16, 2° comma, legge 27 maggio 1929 n. 847.
La censura consiste nella ripetizione del primo motivo di appello, che cioè il Procuratore generale, quale rappre sentante del P. m. presso il giudice di appello non sarebbe
legittimato a proporre l'appello, trattandosi di causa di annullamento di matrimonio, nella quale il P. m. avrebbe
potuto esercitare l'azione. L'innovazione introdotta nel te sto dell'art. 72 con la legge 30 luglio 1950 n. 534 non avrebbe avuto altri scopi che di ampliare i poteri del P. m.
(2) In senso conforme Cass. 10 giugno 1959, n. 1765, Foro it., 1959, I, 913, con ampia nota di richiami, cui acide Satta, op. cit., pag. 247.
(3) Non constano precedenti in termini (la sentenza cassata su questo punto, è richiamata sub nota 1).
Cass. 10 maggio 1958, n. 1549, Foro it., Rep. 1958, voce
Sentenza, n. 152, ritiene che la comunicazione dei provvedimenti del giudice deve avvenire nelle forme per essi tassativamente
previste negli art. 136 cod. proc. civ. e 45 disp. attuaz. cod.
proc. civ., sì che qualsiasi forma diversa, che il cancelliere arbi trariamente attui, non può determinare una legale conoscenza del provvedimento del giudice da parte dei rispettivi destinata ri.
Ai fini della decorrenza dei termini per il regolamento di
competenza, Cass. 11 giugno 1959, n. 1775, id., Mass., 334, ritiene idonea la comunicazione in cui il dispositivo sia stato riportato non integralmente, ma tuttavia in modo da identificarlo agevol mente, nei suoi estremi con la sentenza in cui esso è contenuto ; Cass. 3 dicembre 1959, n. 3490, ibid., 658, riaffermando che le
formalità previste nell'art. 136 cod. proc. civ., non sono prescritte a pena di nullità, richiede la certezza che la parte sia stata debi
tamente informata dell'esistenza e del contenuto del provvedi mento (tale non è la richiesta del difensore tendente ad ottenere che
la sentenza, numericamente indicata, gli sia comunicata al nuovo
domicilio) ; Cass. 10 ottobre 1958, n. 3189, id., Rep. 1958, voce
Competenza civ., n. 505, ritiene idonea l'offerta in visione del
l'originale ai procuratori, che vi abbiano apposto il visto (così anche Cass. 5 marzo 1955, n. 650, id., Rep. 1955, voce cit., n. 496 ; 26 maggio 1950, n. 1331, id., Rep. 1950, voce cit., n. 502) ; Cass. 27 giugno 1958, n. 2307, id., Rep. 1958, voce cit., n. ^06, prende in considerazione la notificazione ad istanza di parte che
preceda o sostituisca la comunicazione di ufficio (vedi anche
Cass. 2 gennaio 1951, n. 16, id., 1951, I, 292, con ampia nota di
richiami) ; Cass. 25 luglio 1957, n. 3157, id., Rep. 1957, voce
cit., n. 385, considera sufficiente l'attestazione del cancelliere di avere personalmente comunicato ai procuratori delle parti il provvedimento (Cass. 7 aprile 1952, n. 928, id., Rep. 1952, voce cit., n. 487, ritiene però insufficiente la semplice attesta
zione del cancelliere di aver comunicato, in un certo giorno, il
dispositivo al procuratore mediante lettera non raccomandata) ; Cass. 17 febbraio 1955, n. 460, id., Rep. 1955, voce cit., n. 497, la firma del patrono posta in calce all'avviso ; Cass. 23 dicembre
1949, n. 2636, id., Rep. 1949, voce cit., n. 459, afferma che
per comunicazione della sentenza deve intendersi quella che il
cancelliere è tenuto a dare con semplice biglietto, con qualsiasi mezzo e modo, per il quale la parte viene ufficialmente a cono
scenza della sentenza.
Infine, secondo Cass. 12 novembre 1942, id., 1943, I, 63, il termine per proporre il regolamento decorre ancorché la comu
nicazione del cancelliere non sia eseguita sui moduli regolamen tari dell'art. 45 disp. attuaz. cod. proc. civile.
In dottrina si vedano : Lancellotti, Comunicazione degli atti (dir. proc. civ.), nel Novissimo digesto it., Ili, pag. 486 ;
Punzi, La notificazione degli atti nel processo civile, Milano, 1959,
pag. 47 e segg. ; Andrioli, Commento, cit., pag. 379 e segg. ;
Lezioni, cit., pag. 426 e segg.
CORTE SDPREMA DI CASSAZIONE.
Sezioni unite civili ; sentenza 23 marzo 1960, n. 605 ; Pres.
Cataldi P., Est. Flore, P. M. Pomodoro (conci,
conf.) ; Figurelli (Avv. Andrioli) c. Procuratore gene rale presso la Corte d'appello di Bari, Bianchi e Cam
panini.
(Cassa App. Bari 18 dicembre 1957)
Ministero pubblico ili materia eivile — Intervento
del P. m. in cause che avrebbe potuto proporre — Impugnazioni del P. m. presso il giudice « ad
quem » — Ammissibilità (Cod. proc. civ., art. 72). Ministero pubblico in materia civile —• Cause matri
moniali — Impugnazioni — Comunicazione della
sentenza al P. m. presso il giudice « a quo » -—
Effetti per il P. m. presso il giudice « ad quem »
(Cod. proc. cìy., art. 72). Ministero pubblico in materia civile — Cause matri
moniali — Impugnazioni — Decorrenza del ter
mine — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 72, 133,
136 ; disp. attuaz. cod. proc. cìy., art. 1, 7).
Il Pubblico ministero presso il giudice competente a decidere
sulVimpugnazione è legittimato a proporre appello avverso
la sentenza resa in causa d'annullamento di matrimonio
ohe il Pubblico ministero avrebbe potuto proporre. (1) La comunicazione della sentenza al Pubblico ministero presso
(1) Non risultano precedenti giurisprudenziali in termini eccezion fatta per la sentenza (su altro punto) cassata App. Bari, riassunta, sotto la data 20 novembre 1957, nel nostro
Rep. 1958, voci Ministero pubblico, nn. 9, 10, e Matrimonio, un. 121, 122. Contra Liebman, Manuale, I, pag. 180.
Sulla storia e sul significato delle modifiche all'art. 72 cod.
proc. civ., si vedano per tutti, Vassalli F., Pubblico ministero e cause matrimoniali, in Giur. it., 1950, IV, 113 ; Andrioli, Commento, Is, pag. 204 ; Lesioni, I, pag. 341.
Da ultimo Satta, Commentario, I, pag. 246 e segg., contesta che il potere d'impugnazione del P. m. vada inteso come una
manifestazione dell'intervento, poiché la legge può concedere a
suo piacimento il potere d'impugnazione al P. m.
Che il P. m. possa impugnare le sentenze che abbiano accolto
le sue conclusioni è riconosciuto, da ultimo, da Cass. 19 maggio
1958, n. 1642, Foro it., Rep. 1958, voce Ministero pubblico, n. 7, e 19 febbraio 1957, n. 582, id., 1957, I, 1456, con ampia nota di
richiami. Per riferimenti, consulta Cass. 4 agosto 1949, n. 2152, id..,
1950, I, 296 : la sentenza del tribunale, ove il P. m. abbia parte
cipato al gradi zio, non dev'essere notificata al Procuratore
generale, nè fatta da lui notificare, ma al (e dal) Procuratore della
Repubblica che si è costituito.
IL Fobo Italiano — Volume LXXXIIl — Parte I-37,
G. D. M.
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