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Sezione I civile; sentenza 28 marzo 1960, n. 641; Pres. Lonardo P., Est. Straniero, P. M. Silocchi...

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Sezione I civile; sentenza 28 marzo 1960, n. 641; Pres. Lonardo P., Est. Straniero, P. M. Silocchi (concl. conf.); Gelati (Avv. Barrera, Giuffredi) c. S.r.l. A. Salvi (Avv. Magrone, Jesu), Fall. Gelati (Avv. Ughi, Ghidini), I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicannella, Nardone) ed altri Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 4 (1960), pp. 557/558-561/562 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23151301 . Accessed: 28/06/2014 13:09 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.142.30.239 on Sat, 28 Jun 2014 13:09:11 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione I civile; sentenza 28 marzo 1960, n. 641; Pres. Lonardo P., Est. Straniero, P. M. Silocchi(concl. conf.); Gelati (Avv. Barrera, Giuffredi) c. S.r.l. A. Salvi (Avv. Magrone, Jesu), Fall.Gelati (Avv. Ughi, Ghidini), I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicannella, Nardone) ed altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 4 (1960), pp. 557/558-561/562Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151301 .

Accessed: 28/06/2014 13:09

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

dirotte all'accertamento di crediti nei confronti della massa fallimentare.

Un'eccezione però a questo principio ricorre nell'ipotesi che su un'azione giudiziale del genere siasi già pronunciato il giudice ordinario con sentenza emessa prima della dichia

razione di fallimento e non ancora passata in giudicato. In tal caso, infatti, l'art. 95, 3° comma, della legge

fallimentare prevede espressamente che il giudizio di appello sulla menzionata azione di accertamento di credito prosegua in sede ordinaria, davanti al giudice naturale della impugna zione (cfr. Cass. 28 maggio 1955, n. 1658, Foro it., 1955,

I, 795). Nè in contrario rileva che la lettera della citata norma

disciplini l'ipotesi dell'impugnazione proposta dal falli

mento, perchè sarebbe assurdo ritenere, sempre in tema di

accertamento crediti verso la massa fallimentare, che il

giudice della impugnazione cambi a seconda che il gravame sia proposto dagli organi fallimentari piuttosto che dal

preteso creditore.

Orbene, nella specie di causa, posto che la sentenza

impugnata era stata emessa prima della dichiarazione

di fallimento della Ditta Albuzza e non era ancora passata in giudicato, bene ha fatto la Corte di merito a pronunciarsi sul relativo atto di appello, anche se questo sia vertito, in tutto o in parte, come assume il ricorrente Fallimento, in tema di accertamento di crediti verso la massa falli

mentare. (Omissis) Per questi motivi, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione I civile ; sentenza 28 marzo 1960, n. 641 ; Pres.

Lonardo P., Est. Straniero, P. M. Silocchi (conci,

conf.) ; Gelati (Avv. Barrera, Giuffredi) c. S.r.l. A.

Salvi (Avv. Marrone, Jesu), Fall. Gelati (Avv. Ughi,

Giiidini), I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicannella, Nar

done) ed altri.

(Conferma App. Bologna 14 marzo 1958)

Fallimento — Impresa individuale — Liquidazione —

Non costituisce cessazione dell'esercizio (R. d. 16

marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 10).

Qualora la liquidazione non abbia per oggetto soltanto il pa

gamento delle passività ma anche il compimento degli af

fari in corso o comunque una forma di attività industriale

diretta alla produzione di beni o servizi, non può dirsi

cessato, ai fini della assoggettabilità a fallimento, l'eser

cizio della impresa. (1)

(1) La sentenza confermata nel dispositivo, ma parzialmente corretta nella motivazione, App. Bologna 14 marzo 1958, è pub blicata in Foro it., 1958, I, 1336, con nota di richiami.

La Cassazione conferma la propria giurisprudenza fissata

con la sentenza 23 settembre 1958, n. 3035 (id., Rep. 1958, voce Fallimento, n. 156), di cui riproduciamo la parte essenziale

della motivazione, non riportata in questa rivista, 1959, 1, 1142: « La tesi del ricorrente non è però fondata. Non è infatti

assolutamente dimostrato che, durante il periodo di cosiddetta

« liquidazione » il Pietro Romanazzi abbia continuato nell'eser

cizio della sua attività industriale e commerciale ; che siano stati

cioè intrapresi nuovi affari, o condotti a compimento affari in

corso ; svolta, insomma, l'attività industriale diretta alla pro duzione di beni o di servizi, in cui si concreta l'esercizio del

l'impresa commerciale (art. 2195, n. 1, cod. civ.). Per l'azienda

individuale la fase della liquidazione non è regolata dalla legge ;

e, a differenza delle società le quali sopravvivono durante la

liquidazione, e non cessano di esistere se non con la cancella

zione dal registro delle imprese a liquidazione avvenuta (art. 2456 cod. civ.), l'imprenditore persona fisica può cessare dal

l'esercizio dell'impresa, astenendosi dall'esercitarla, in fatto ;

mentre non può certo costituire continuazione di detto eserci

zio la « liquidazione » (e la nomina di un liquidatore, cioè di un

mandatario dell'imprenditore), se ha per oggetto soltanto il pa

gamento delle passività, il tentativo di estinguerle con un ac

La Corte, ecc. — La questione che, con l'unico motivo del ricorso, il Gelati propone all'esame di questo Supremo collegio, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione, da parte della Corte di Bologna, dell'art. 10 r. decreto 16 marzo 1942 n. 267, in relazione all'art. 2082 cod. civ., con cerne la decorrenza del termine, di cui alla citata disposi zione della legge fallimentare, quando l'imprenditore indi viduale abbia fatto seguire alla materiale cessazione del l'esercizio dell'attività economica, che formava oggetto spe cifico della sua impresa, una fase di liquidazione dell'impresa medesima.

La sentenza impugnata ha ritenuto che la detta decor renza debba coincidere con la chiusura della liquidazione dal momento che questa normalmente si estrinseca in un

complesso di rapporti e negozi giuridici, i quali, non diver

samente dalla specifica attività di produzione e di scambio,

rappresentano un'attività obiettivamente commerciale, ne

cessaria per concludere il ciclo vitale della impresa e tale

pertanto da ritenersi compresa nel periodo di esercizio di

quest'ultima indipendentemente dalla esistenza o meno di

un minimo di organizzazione aziendale nei suoi elementi

personali e reali. L'assolutezza del principio non può es

sere, invero, assoggettata a limitazioni in dipendenza di

un elemento estrinseco, contingente ed empirico, quale la

persistenza della organizzazione, quando, invece, la fase

della liquidazione, per quanto si articoli in atti e momenti

diversi, è sempre, sia dal punto di vista economico sia da

quello giuridico, unitaria ed inscindibile, diretta, cioè, nel

suo complesso, a definire tutti i rapporti pendenti. La tesi opposta è, invece, sostenuta dal ricorrente, sotto

il profilo che per la decorrenza del termine deve aversi

riguardo soltanto al momento in cui l'impresa individuale

viene posta in liquidazione.

Dopo aver premesso che i requisiti dell'attività econo

mica, dell'organizzazione, della professionalità e del fine

di lucro, espressi nell'art. 2082 cod. civ., debbono ritenersi

tutti egualmente essenziali per l'esistenza dell'impresa, ri

leva, invero, il Gelati che lo status d'imprenditore vien meno, in ogni caso, quando l'imprenditore medesimo cessa la sua

normale attività economica professionale ed inizia il pro cesso di disintegrazione della organizzazione aziendale, dal

momento che le eventuali successive operazioni di liquida zione non sono volte ad ulteriore scambio di beni ma alla

realizzazione del valore di quelli esistenti, al soddisfo di

passività, alla regolamentazione di rapporti giuridici già in atto, ovverossia si concretano in attività che, quando

pur sono economiche ed oggettivamente commerciali, non

sono più compiute professionalmente nè sono sorrette da una

organizzazione apposita.

L'opposto principio, affermato dalla giurisprudenza della Cassazione per le società irregolari, non può inoltre

suggerire soluzione ad esso analoga, dal momento che

fondamentalmente diverse sono le situazioni giuridiche dei

soggetti: nell'un caso, infatti, la società, sia regolare sia

irregolare, nasce per l'esercizio di una impresa, ha sin dal

cordo stragiudiziale con i creditori. II che, appunto, sembra es

sere avvenuto nella fattispecie, nella quale il liquidatore dott.

Picerni si limitò a discutere in Bari con i creditori, nel tenta

tivo di evitare la dichiarazione di fallimento ; ma non risulta

che abbia, in nome e per conto del suo mandante, continuato

l'esercizio dell'impresa. La dichiarazione di fallimento, quindi, deve ritenersi in definitiva come riguardante un imprenditore che, alcuni mesi prima, aveva cessato l'esercizio della impresa

(art. 10 legge fallimentare) ». Con tale sentenza (seguita poi dal Trib. Poma 29 aprile

1959, Dir. fallim., 1959, II, 436 e dal Trib. Genova 17 febbraio

1959, Temi gen., 1959, 109) la Corte ha delimitato il principio sancito con la precedente sentenza n. 2079 del 1958 (Foro it.,

1958, I, 1451), con cui si era ritenuta non cessata l'impresa finché fosse in corso un'attività diretta a predisporre la chiu

sura e la fine dell'impresa stessa.

Per l'analogo problema in tema di società, v. Trib. Milano

24 aprile 1959, id., 1959, I, 1579, con ampia nota di richiami, cui adde Santtteli, La liquidazione delle imprese individuali e

decorrenza del termine ex art. 10 legge fall., in Temi naf>., 1959,

III, 173.

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559 PARTE PRIMA 560

l'origine lo status 'd'imprenditrice collettiva quale elemento

della sua stessa natura e condizione della sua esistenza

giuridica e può estinguersi soltanto a seguito di liquida zione ; nell'altro, invece, l'imprenditore individuale è tale

soltanto se, in un determinato momento della sua vita, decide di esercitare professionalmente un'attività econo

mica organizzata al fine dello scambio di beni, non è obbli

gatoriamente soggetto ad apposita procedura di liquida zione ed estinzione della sua impresa e, quando cessa mate

rialmente tale attività, che non gli è affatto connaturata, resta egualmente soggetto di diritto.

Le censure non sono fondate.

Questa Corte, con ripetute decisioni (sentenze 5 ottobre

1959, n. 2682, Foro it., Mass., 508 ; 23 gennaio 1957, n. 197,

id., Eep. 1957, voce Società, n. 509 ; 20 gennaio 1955, n. 150, id., Eep. 1955, voce cit., n. 507), ha affermato due

principi correlativi ; che la dichiarazione di fallimento della

società è possibile fino a quando la liquidazione non sia

chiusa e che soltanto da tal chiusura decorre il termine in

questione nella presente causa. Con sentenza 17 giugno 1958, n. 2079 (id., 1958,1, 1451), ha, inoltre, precisato che

i principi in questione, già ritenuti validi pur quando si

tratti di impresa esercita da società non registrata (sen tenza 19 novembre 1956, n. 4265, id., Rep. 1956, voce

cit., nn. 474, 475), debbono essere applicati anche nel

caso dell'imprenditore individuale, perchè sostanzialmente unico è il concetto di liquidazione e la vita dell'impresa individuale continua per tutto il periodo di tempo nel quale

venga esplicata un'attività diretta a predisporre la chiusura e la fine dell'impresa medesima. A giustificazione, sia della

soluzione in se stessa, sia della parificazione fra i due tipi di impresa si è, inoltre, dedotto che la liquidazione consta normalmente di una serie, più o meno complessa, di opera zioni (di realizzazione di crediti, di alienazione di attrez

zature e prodotti, di definizione di affari in corso, di rego lamento di rapporti col Fisco e con i dipendenti) sostanzial mento non dissimili, nell'intrinseco contenuto e nella por tata pratica, da quelle che vengono effettuate quando la

impresa si svolge regolarmente e soltanto diversamente caratterizzate nel fine ; che, nel corso della liquidazione, le necessità di questa possono anche esigere che gli affari in corso vengano condotti a compimento e persino che ne

vengano intrapresi di nuovi ; che siffatti aspetti di neces sità od opportunità si presentano, con caratteristiche so stanzialmente identiche, tanto nell'impresa individuale

quanto in quella di carattere collettivo.

D'altra parte, le ragioni per le quali il Gelati chiede l'annullamento della sentenza della Corte di Bologna non sono convincenti, nè in quanto si propongono lo scopo di

scindere, per la particolare questione, l'impresa collettiva da quella individuale, nè in quanto, più genericamente, vogliono inficiare il principio di diritto.

Sotto il primo profilo va, invero, considerato che la

obbligatorietà del procedimento di liquidazione, quale pre messa assolutamente necessaria della estinzione, non costi tuisce una caratteristica essenziale di qualsiasi specie di

impresa collettiva, dal momento che questa Corte ha già ritenuto (sentenza 12 giugno 1957, n. 2195, Foro it., Eep. 1957, voce cit., n. 486), in via di interpretazione dell'art. 2275 cod. civ., che nelle società semplici la fase della liqui dazione può essere esclusa dalla volontà dei soci. D'altra

parte, la sopravvivenza ex lege delle società nel corso della

liquidazione, indipendentemente dalle attività effettiva mente svolte in tal fase, cui fa da contrappeso il concetto

amplissimo della estinzione quale eliminazione ad ogni effetto dal novero dei soggetti di diritto, e, viceversa, la

possibilità che ha l'imprenditore persona fisica, per un verso, di far cessare l'esercizio dell'impresa con una semplice astensione di fatto e, per l'altro, di sopravvivere quale soggetto di diritto anche dopo detta cessazione, non rap presentano elementi differenziali di assoluto valore indica tivo nella soluzione del problema e non importano, in parti colare, la conseguenza, per argumentum a contrario, che

l'impresa individuale debba ritenersi cessata, in ogni caso, sin dal momento in cui, con atto unilaterale di volontà,

l'imprenditore abbia posto termine all'esercizio professio

naie della sua attività, indipendentemente dalla conside

razione di quanto siasi effettivamente svolto in concreto

nella fase della liquidazione, pur volontariamente eletta. La

necessità che, in ogni caso, anche quando esista una situa

zione formale, debba prevalere la realtà obiettiva, è stata,

invero, affermata da questa Corte proprio in tema di società,

quando ha precisato (sentenza 16 maggio 1959, n. 1448, Foro it., Mass., 270) che la chiusura delle operazioni di

liquidazione e la cancellazione dal registro delle imprese, se

di norma importano estinzione dell'ente sotto il profilo di

una presunzione (di diritto) di corrispondenza con l'effet

tiva cessazione delle attività sociali, non determinano, in

vece, tale conseguenza quando di fatto tale corrispondenza non si sia verificata e, in particolare, quando siano rimaste

ancora in sospeso contestazioni con uno o più creditori.

Nè, ciò posto, un diverso principio può essere adottato in tema di impresa individuale quando sia certo che, nel

corso della liquidazione, siano state eseguite dall'impren ditore, direttamente o per tramite di un suo mandatario, una o più operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere nell'esercizio dell'impresa,

quando quest'ultima era caratterizzata dal fine di gestione e dallo scopo di lucro, ovvero comunque tali da rivelarsi come manifestazioni di un'attività economica, sia pur svolta esclusivamente in funzione della disintegrazione dell'azienda.

Anche in tal caso, infatti, la realtà obiettiva, che porta a configurare la liquidazione come una ultima manifesta zione commerciale della vita dell'impresa, deve pur sempre imporsi, e prevalere, questa volta, sulla semplice manife

stazione della volontà unilaterale di cessazione, e sulla carat terizzazione soggettiva che impronta l'azione dell'impren ditore in ordine ad attività, che da tale caratterizza zione non vengono snaturate nella rispettiva essenza. Ciò tanto più in quanto l'accettazione di un opposto principio può anche risolversi in pericolo di frodi da parte di debitori maliziosi.

Il problema è pertanto solo di concreta indagine e di misura, consiste, cioè, nell'opportunità o meno di esclu dere che, ai fini della dichiarazione di fallimento, possano essere inclusi sotto un comune denominatore, con effetti

identici, tanto i casi nei quali la fase terminale dell'impresa abbia compreso anche manifestazioni che costituiscano

comunque espressioni di dinamismo economico quanto gli altri nei quali, invece, l'ambito del processo di liquida zione sia stato in realtà ristretto a trattare i problemi connessi alle proporzioni di ripartizione ed al modo di

pagamento delle passività e presupponga, quindi, persino esaurite sia l'alienazione di qualsiasi cosa dotata di valore

patrimoniale sia la definizione e riscossione di ogni even tuale credito. Esso, d'altra parte, può dirsi già risolto da

questa Corte, sotto un profilo di delimitazione in senso restrittivo del principio espresso in termini generali ed estensivi nella precedente sentenza n. 2079 del 1958, con la sentenza 23 settembre 1958, n. 3035 (Foro it., 1959, I, 1142), quando quest'ultima ha precisato che non co stituisce continuazione di esercizio della impresa la liqui dazione che abbia per oggetto soltanto il pagamento delle

passività o il tentativo di estinguerle con un accordo estra

giudiziale con i creditori e, viceversa implicitamente, come reso palese dalla contrapposizione nella motivazione, che continuazione si ha quando, nel periodo della liquidazione, siasi svolta, sotto forma di nuovi affari o di compimento di quelli in corso, quell'attività industriale diretta alla

produzione di beni o diservizi, in cui, ai sensi dell'art. 2195, n. 1, cod. civ., si concreta l'esercizio della impresa com merciale.

La necessità di una più precisa puntualizzazione dei

limiti, in ordine ad un argomento che va comunque inte

grato col richiamo alla necessità che gli eventuali nuovi affari si inquadrino pur sempre nella già rilevata caratte rizzazione soggettiva finalistica della disintegrazione azien

dale, è, infine, superata nella specie dalla considerazione che la sentenza impugnata ha avuto cura di precisare che un anno prima della dichiarazione di fallimento del Gelati il liquidatore aveva ancora in corso numerose pratiche

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

inerenti alla definizione dei rapporti giuridici ed economici col personale ed altrettanto numerose contestazioni e pen denze con il Fisco e con gli enti previdenziali ed assistenziali, non aveva ancora completato il realizzo delle merci esistenti

nei magazzini e doveva, infine, alienare due autoveicoli

di proprietà dell'imprenditore e recuperare beni fittizia

mente intestati o affidati a terzi.

Tale complesso di attività ancora in corso e persino da

iniziare, la cui esistenza i Giudici del merito hanno accer

tato con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede perchè logico ed adeguatamente motivato, si inquadra, invero, nella interpretazione, anche rigorosa, del concetto

di esercizio d'impresa nella fase di liquidazione e giustifica

pertanto, nella fattispecie, la decisione della Corte di Bo

logna, quando pur non la si possa accettare nei suoi termini

generali. Esso assorbe, altresì, in quanto, ovviamente, per la natura stessa delle attività, presuppone la preesistenza della organizzazione aziendale, almeno nei suoi elementi

strutturali più essenziali, l'ulteriore quesito, risolto in via

complementare dalla stessa Corte, sulla necessità o meno

della continuazione, in ogni caso, di tale organizzazione. Per questi motivi, rigetta, ecc.

il giudice che ha pronunciato la sentenza non vale a jar decorrere il termine d'impugnazione per il Pubblico mini stero presso il giudice competente a decidere sull'impu gnazione. (2)

Il termine per proporre impugnazione decorre, per il Pub blico ministero presso il giudice ad quem, dal giorno in cui egli riceve il fascicolo d'ufficio contenente l'originale del dispositivo della sentenza comunicato alle parti, an corché la trasmissione del fascicolo stesso sia avvenuta su disposizione del presidente del tribunale e non ad

opera del cancelliere. (3)

La Corte,' ecc. — Con il primo mezzo si denuncia la violazione del testo attuale art. 72 cod. proc. civ., dello art. 119 cod. civ., e degli art. 12, n. 3, 16, 2° comma, legge 27 maggio 1929 n. 847.

La censura consiste nella ripetizione del primo motivo di appello, che cioè il Procuratore generale, quale rappre sentante del P. m. presso il giudice di appello non sarebbe

legittimato a proporre l'appello, trattandosi di causa di annullamento di matrimonio, nella quale il P. m. avrebbe

potuto esercitare l'azione. L'innovazione introdotta nel te sto dell'art. 72 con la legge 30 luglio 1950 n. 534 non avrebbe avuto altri scopi che di ampliare i poteri del P. m.

(2) In senso conforme Cass. 10 giugno 1959, n. 1765, Foro it., 1959, I, 913, con ampia nota di richiami, cui acide Satta, op. cit., pag. 247.

(3) Non constano precedenti in termini (la sentenza cassata su questo punto, è richiamata sub nota 1).

Cass. 10 maggio 1958, n. 1549, Foro it., Rep. 1958, voce

Sentenza, n. 152, ritiene che la comunicazione dei provvedimenti del giudice deve avvenire nelle forme per essi tassativamente

previste negli art. 136 cod. proc. civ. e 45 disp. attuaz. cod.

proc. civ., sì che qualsiasi forma diversa, che il cancelliere arbi trariamente attui, non può determinare una legale conoscenza del provvedimento del giudice da parte dei rispettivi destinata ri.

Ai fini della decorrenza dei termini per il regolamento di

competenza, Cass. 11 giugno 1959, n. 1775, id., Mass., 334, ritiene idonea la comunicazione in cui il dispositivo sia stato riportato non integralmente, ma tuttavia in modo da identificarlo agevol mente, nei suoi estremi con la sentenza in cui esso è contenuto ; Cass. 3 dicembre 1959, n. 3490, ibid., 658, riaffermando che le

formalità previste nell'art. 136 cod. proc. civ., non sono prescritte a pena di nullità, richiede la certezza che la parte sia stata debi

tamente informata dell'esistenza e del contenuto del provvedi mento (tale non è la richiesta del difensore tendente ad ottenere che

la sentenza, numericamente indicata, gli sia comunicata al nuovo

domicilio) ; Cass. 10 ottobre 1958, n. 3189, id., Rep. 1958, voce

Competenza civ., n. 505, ritiene idonea l'offerta in visione del

l'originale ai procuratori, che vi abbiano apposto il visto (così anche Cass. 5 marzo 1955, n. 650, id., Rep. 1955, voce cit., n. 496 ; 26 maggio 1950, n. 1331, id., Rep. 1950, voce cit., n. 502) ; Cass. 27 giugno 1958, n. 2307, id., Rep. 1958, voce cit., n. ^06, prende in considerazione la notificazione ad istanza di parte che

preceda o sostituisca la comunicazione di ufficio (vedi anche

Cass. 2 gennaio 1951, n. 16, id., 1951, I, 292, con ampia nota di

richiami) ; Cass. 25 luglio 1957, n. 3157, id., Rep. 1957, voce

cit., n. 385, considera sufficiente l'attestazione del cancelliere di avere personalmente comunicato ai procuratori delle parti il provvedimento (Cass. 7 aprile 1952, n. 928, id., Rep. 1952, voce cit., n. 487, ritiene però insufficiente la semplice attesta

zione del cancelliere di aver comunicato, in un certo giorno, il

dispositivo al procuratore mediante lettera non raccomandata) ; Cass. 17 febbraio 1955, n. 460, id., Rep. 1955, voce cit., n. 497, la firma del patrono posta in calce all'avviso ; Cass. 23 dicembre

1949, n. 2636, id., Rep. 1949, voce cit., n. 459, afferma che

per comunicazione della sentenza deve intendersi quella che il

cancelliere è tenuto a dare con semplice biglietto, con qualsiasi mezzo e modo, per il quale la parte viene ufficialmente a cono

scenza della sentenza.

Infine, secondo Cass. 12 novembre 1942, id., 1943, I, 63, il termine per proporre il regolamento decorre ancorché la comu

nicazione del cancelliere non sia eseguita sui moduli regolamen tari dell'art. 45 disp. attuaz. cod. proc. civile.

In dottrina si vedano : Lancellotti, Comunicazione degli atti (dir. proc. civ.), nel Novissimo digesto it., Ili, pag. 486 ;

Punzi, La notificazione degli atti nel processo civile, Milano, 1959,

pag. 47 e segg. ; Andrioli, Commento, cit., pag. 379 e segg. ;

Lezioni, cit., pag. 426 e segg.

CORTE SDPREMA DI CASSAZIONE.

Sezioni unite civili ; sentenza 23 marzo 1960, n. 605 ; Pres.

Cataldi P., Est. Flore, P. M. Pomodoro (conci,

conf.) ; Figurelli (Avv. Andrioli) c. Procuratore gene rale presso la Corte d'appello di Bari, Bianchi e Cam

panini.

(Cassa App. Bari 18 dicembre 1957)

Ministero pubblico ili materia eivile — Intervento

del P. m. in cause che avrebbe potuto proporre — Impugnazioni del P. m. presso il giudice « ad

quem » — Ammissibilità (Cod. proc. civ., art. 72). Ministero pubblico in materia civile —• Cause matri

moniali — Impugnazioni — Comunicazione della

sentenza al P. m. presso il giudice « a quo » -—

Effetti per il P. m. presso il giudice « ad quem »

(Cod. proc. cìy., art. 72). Ministero pubblico in materia civile — Cause matri

moniali — Impugnazioni — Decorrenza del ter

mine — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 72, 133,

136 ; disp. attuaz. cod. proc. cìy., art. 1, 7).

Il Pubblico ministero presso il giudice competente a decidere

sulVimpugnazione è legittimato a proporre appello avverso

la sentenza resa in causa d'annullamento di matrimonio

ohe il Pubblico ministero avrebbe potuto proporre. (1) La comunicazione della sentenza al Pubblico ministero presso

(1) Non risultano precedenti giurisprudenziali in termini eccezion fatta per la sentenza (su altro punto) cassata App. Bari, riassunta, sotto la data 20 novembre 1957, nel nostro

Rep. 1958, voci Ministero pubblico, nn. 9, 10, e Matrimonio, un. 121, 122. Contra Liebman, Manuale, I, pag. 180.

Sulla storia e sul significato delle modifiche all'art. 72 cod.

proc. civ., si vedano per tutti, Vassalli F., Pubblico ministero e cause matrimoniali, in Giur. it., 1950, IV, 113 ; Andrioli, Commento, Is, pag. 204 ; Lesioni, I, pag. 341.

Da ultimo Satta, Commentario, I, pag. 246 e segg., contesta che il potere d'impugnazione del P. m. vada inteso come una

manifestazione dell'intervento, poiché la legge può concedere a

suo piacimento il potere d'impugnazione al P. m.

Che il P. m. possa impugnare le sentenze che abbiano accolto

le sue conclusioni è riconosciuto, da ultimo, da Cass. 19 maggio

1958, n. 1642, Foro it., Rep. 1958, voce Ministero pubblico, n. 7, e 19 febbraio 1957, n. 582, id., 1957, I, 1456, con ampia nota di

richiami. Per riferimenti, consulta Cass. 4 agosto 1949, n. 2152, id..,

1950, I, 296 : la sentenza del tribunale, ove il P. m. abbia parte

cipato al gradi zio, non dev'essere notificata al Procuratore

generale, nè fatta da lui notificare, ma al (e dal) Procuratore della

Repubblica che si è costituito.

IL Fobo Italiano — Volume LXXXIIl — Parte I-37,

G. D. M.

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