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Sezione I civile; sentenza 28 ottobre 1980, n. 5777; Pres. Granata, Est. V. D'Orsi, P.M. Leo(concl. conf.); Occari (Avv. Calzolari, Borgatti) c. Fall. Dell'Olio e altri. Cassa Trib. Ferrara 7marzo 1978Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 2 (FEBBRAIO 1981), pp. 413/414-417/418Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171350 .
Accessed: 25/06/2014 03:19
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
lite riguardava la continenza delle due cause ed era di per sé esclusa dal fatto che trattandosi di due domande amministra tive distinte, rispetto alle quali si poneva un problema di di
versa decorrenza dalla pensione, necessariamente doveva essere
proposta una nuova domanda giudiziale. Tale domanda, peraltro, non poteva che essere introdotta, in
virtù dell'art. 444 cod. proc. civ. davanti al pretore, non pre vedendo l'art. 20 legge n. 533/1973 la competenza del giudice unico del lavoro presso il tribunale competente per la domanda
più ampia. Di fatto il tribunale aveva, invece, affermato il principio
della non proponibilità della nuova domanda in contrasto con
il principio che ogni domanda amministrativa legittima la pro
posizione di una azione processuale.
Con il secondo mezzo la stessa ricorrente denuncia erronea
e falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ. nonché degli art. 39, 2° comma, e 96 stesso codice in relazione all'art. 152
legge n. 533/1973. Sostiene, a fondamento del mezzo di impugnazione, che la
fattispecie della continenza di causa si diversifica da quella della incompetenza che, comportando la proposizione di una
domanda davanti ad un giudice non competente, implica la
condanna alle spese, mentre nel caso di continenza entrambe
le domande sono proposte correttamente dal punto di vista
processuale, sol che si presentano in rapporto di contenente
a contenuto di guisa che ragioni di economia processuale ne
consigliano la trattazione congiunta. È evidente allora che in tal caso non può sorgere problema
di responsabilità per proposizione di domanda infondata o te
meraria.
Stante il suo carattere assorbente va trattato quest'ultimo mo
tivo che deve essere accolto. Il problema sottoposto all'esame
di questa corte postula infatti una corretta interpretazione del
l'art. 152 disp. att. in relazione all'art. 96 cod. proc. civile. Il
cit. art. 152, come è noto, esonera dall'obbligo del pagamento delle spese processuali il lavoratore soccombente nei giudizi
promossi per ottenere prestazioni previdenziali nei confronti de
gli istituti di assistenza e previdenza « a meno che la pretesa
non sia manifestamente infondata e temeraria».
La legge n. 153 del 1969 aveva all'art. 57 stabilito uguale
principio con una formulazione pressocché identica a quella dell'art. 152 disp. att., precisando che la non ripetibilità delle
spese era esclusa « a meno che il giudizio intentato verso gli
stessi (istituti assicurativi e previdenziali) non sia manifesta
mente infondato e temerario».
Diversa è la formulazione del 1° comma dell'art. 96 cod.
proc. civ. il quale stabilisce che « se risulta che la parte soccom
bente ha agito o resistito in giudizio con malafede il giudice,
su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al
risarcimento dei danni che liquida, anche d'ufficio, nella sen
tenza ».
La stessa norma nel successivo comma contempla poi alcune
ipotesi di responsabilità processuale aggravata nel caso in cui
il giudice accerti l'inesistenza del diritto della parte, indipen
dentemente dal dolo o dalla colpa grave di questa.
Ora da un attento esame della lettera e dello spirito dell'art.
96 cod. proc. civ. sembra che debba escludersi qualsiasi cor
relazione immediata tra la disposizione dell'art. 152 disp. att.
cod. proc. civ. e detta norma, la quale può unicamente fornire
elementi di interpretazione per chiarire il significato e la por
tata di lite temeraria cui fa chiaro riferimento lo stesso art. 152.
L'art. 96, infatti, investe l'azione in quanto tale nel suo com
plesso sia per ciò che concerne i suoi presupposti che le sue
condizioni di carattere formale sostanziale, come può evincersi
dalla ampiezza della formula di cui si è avvalso il legislatore
« se risulta che la parte ha agito o resistito in giudizio », di
guisa che può sempre profilarsi una responsabilità processuale
aggravata della parte soccombente ove o l'attore o il convenuto
siano soccombenti anche su sole questioni di carattere pregiu
diziale di rito, ove tali questioni siano state sollevate con la
consapevolezza della loro infondatezza o con grave negligenza
e, turbando in tal modo il regolare e leale andamento del pro
cesso, si traducano in un danno per l'altra parte.
La previsione normativa si riferisce quindi sia alla soccom
benza nel merito che alla soccombenza che trova ragione in
motivi di ordine processuale. Specifica finalità della norma in
vero è la riparazione del danno processuale che non trova cau
sa in una responsabilità extraprocessuale bensì nelle modalità
di esercizio dei diritti in sede processuale, sicché qualunque
situazione connessa a tale esercizio del potere di azione e di
eccezione, di qualunque natura, può assumere rilevanza poten
do costituire un momento generico del danno processuale.
L'art. 152 disp. att. cod. proc. civ. prescinde invece da detta
finalità, giacché la sanzione a carico del lavoratore si traduce
non tanto nell'obbligo del risarcimento del danno, quanto in
quello della rifusione delle spese giudiziali, conseguenza ovvia
mente meno grave e che si ricollega all'obbligo generale sancito
dall'art. 91 cod. proc. civile.
È evidente allora che il legislatore, in considerazione delle
particolari condizioni economiche di uno dei soggetti del rap
porto processuale, ha inteso derogare in favore di questi al
principio dell'art. 96 ripristinando solo l'obbligo del propo nente al pagamento delle spese ove ricorrano alcuni presuppo sti in parte diversi da quelli previsti dall'art. 96 stesso.
L'art. 152 disp. att. cod. proc. civ. condiziona, infatti, l'obbli
go della rifusione delle spese processuali a favore degli enti assi
curativi ed assistenziali alla contemporanea e concorrente presen za di tre fatti decisivi: a) che il lavoratore sia totalmente soccom
bente; b) su una pretesa manifestamente infondata; c) che la
stessa pretesa sia altresì' temeraria, nel senso desumibile dall'art.
96 cod. proc. civile.
L'elemento caratteristico di differenziazione, e nel contempo
limitativo rispetto all'art. 96, è costituito, però, dal collegamento della responsabilità processuale alla sola pretesa, espressione che
indubbiamente il legislatore ha inteso usare nella sua esatta ac
cezione tecnico-giuridica, sostituendola al più generico termine
« giudizio » contenuto nell'art. 57 legge n. 153 del 1969.
Orbene pretesa è il diritto soggettivo fatto valere con l'azio
ne, il contenuto sostanziale cioè di questa. E proprio perché la responsabilità attiene unicamente al diritto
esercitato dal lavoratore, il legislatore ha condizionato la respon sabilità del lavoratore alla fondatezza (che attiene al merito della
causa) della pretesa stessa.
Se avesse voluto, viceversa, ricomprendere tutta l'attività pro
cessuale, e di merito, avrebbe adottato la terminologia usata al
l'art. 96 cod. proc. civ. che pone in luce tutti gli aspetti dell'azio
ne e non uno solo di essi, quello che afferisce al contenuto del
l'azione medesima.
11 riferimento è fatto quindi esplicitamente all'azione ed alle
modalità in cui essa si estrinseca perché attraverso la domanda
giudiziale trovi realizzazione la pretesa di una delle parti, ma
esclusivamente a quest'ultima. Si è voluto di fatto svincolare il lavoratore da una responsa
bilità per atti meramente formali, che normalmente sono rappor tabili all'andamento ed alla condotta difensiva, sanzionando la
ripetibilità delle spese solo ove sia fatto valere, con dolo o colpa
grave, un diritto in definitiva insussistente.
Ne consegue che l'obbligo del pagamento delle spese proces suali da parte del lavoratore soccombente non può ravvisarsi,
diversamente da come hanno ritenuto i giudici del tribunale, ove
la soccombenza sia in diretta ed esclusiva dipendenza dell'esito
della risoluzione di una questione di carattere processuale, come
nella specie. La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio ad al
tro giudice il quale deciderà relativamente alle spese di causa
uniformandosi ai principi qui enunciati.
Si ritiene opportuno riservare allo stesso giudice di rinvio la
liquidazione delle spese di questo giudizio di cassazione.
Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 28 otto
bre 1980, n. 5777; Pres. Granata, Est. V. D'Orsi, P. M. Leo
(conci, conf.); Occari (Avv. Calzolari, Borgatti) c. Fall. Del
l'Olio e altri. Cassa Trib. Ferrara 7 marzo 1978.
Tributi in genere — Fallimento — Pagamento di prestazioni pro
fessionali svolte a favore dell'imprenditore poi fallito — Cu
ratore sostituto d'imposta — Esclusione (D. pres. 29 settem
bre 1973 n. 600, disposizioni comuni in materia di accerta
mento delle imposte sui redditi, art. 23, 25, 64).
Il carattere tassativo dell'elencazione dei sostituti d'imposta con
tenuto nell'art. 23 d. pres. WO/1973 impedisce di configurare
a carico del curatore del fallimento l'obbligo d'effettuare la ri
tenuta d'acconto sulle somme pagate ad un libero professio
nista per le prestazioni professionali svolte a favore dell'im
prenditore poi fallito. (1)
(1) È la prima volta che la Cassazione si pronuncia sulla questione,
risolta precedentemente in senso difforme, oltre che dalla sentenza
cassata (Trib. Ferrara 7 marzo 1978, Foro it., Rep. 1978, voce Tri
buti in genere, n. 356), da altri giudici di merito (Trib. Milano
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415 PARTE PRIMA
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Il dottore com
mercialista Giovanni Occari svolse attività professionale a fa
vore della ditta Dell'Olio di Angela Dell'Olio e Luciano Ta
rabini.
Essendo poi tale ditta fallita, insinuò nel fallimento il suo cre
dito per le prestazioni professionali svolte.
Con decreto 22 dicembre 1977 il giudice delegato approvò e
rese esecutivo con riporto parziale comportante l'attribuzione
all'Occari della somma di lire 13.198.812 corrispondente al sud
detto credito.
Il curatore del fallimento, in sede di pagamento, trattenne sul
l'importo la somma di lire 1.498.137, a titolo di ritenuta d'accon
to, in applicazione dell'art. 25 d. pres. 29 settembre 1973 n. 600.
Ritenendo arbitraria tale trattenuta, per non essere il curatore
del fallimento un sostituto d'imposta del fallito, l'Occari in data
31 dicembre 1977 propose ricorso al giudice delegato.
Tanto il ricorso, quanto il successivo reclamo al tribunale, ven
nero, però, respinti. Con atto 4 maggio 1978 l'Occari ha proposto ricorso per cas
sazione svolgendo due mezzi di annullamento illustrati con me
moria. Il curatore del fallimento non ha svolto alcuna difesa.
Motivi della decisione. — Il Tribunale di Ferrara, chiamato a
decidere la questione relativa alla sussistenza dell'obbligo del
curatore del fallimento di effettuare la ritenuta d'acconto sulle
somme pagate dall'amministrazione fallimentare ad un libero pro
fessionista, che aveva prestato la sua opera professionale a fa
vore dell'imprenditore poi fallito, ha risolto la questione stessa in
senso affermativo.
Facendo sue le argomentazioni svolte dal giudice delegato
(pronunciatosi nello stesso senso) il tribunale ha osservato a so
stegno della sua decisione: a) che il curatore si sostituisce al
fallito tanto nei rapporti processuali che in quelli sostanziali;
b) che il curatore ha una sua propria collocazione nei confronti
degli incombenti fiscali ed ha una partecipazione attiva tanto al
l'iter accertativo quanto a quello impositivo; c) che l'elenco dei
soggetti tenuti alla ritenuta alla fonte posto dall'art. 23 d. pres. 29
settembre 1973 n. 600 non può ritenersi tassativo; d) che non si
verte in tema di soddisfazione di un nuovo credito del falli
mento, ma di un credito già esistente, per il quale era prevista la
ritenuta d'acconto; e) che la ritenuta d'acconto operata dal cura
tore non intacca la par condicio creditorum perché incide su
somme già riconosciute e attribuite (al lordo) ai singoli creditori;
/) che non vi era alcun ostacolo a ritenere che il curatore, do
vendo operare le ritenute d'acconto, fosse del pari obbligato alla
tenuta dei registri obbligatori per tutte le imprese.
Il ricorso proposto dal dott. Occari avverso la suddetta deci
sione si articola in due mezzi, i quali per ragioni di logica si
stematica debbono essere esaminati nell'ordine inverso a quelìO
con cui sono stati formulati.
Col secondo mezzo, infatti, il ricorrente sostiene la nullità
della sentenza per la mancanza della motivazione in quanto il
tribunale, invece di rispondere alle critiche mosse al provvedi
3 dicembre 1977, ibid., n. 355, in relazione ad emolumenti arretrati
dovuti ad ex dipendenti dell'impresa fallita; Trib. Genova 25 giugno 1977, id.. Rep. 1977, voce cit., n. 349). Nel senso della sentenza ri
portata, si sono espressi Trib. Udine 7 gennaio 1977, ibid., n. 434; Trib. Napoli 21 luglio 1976, id., Rep. 1976, voce cit., n. 324; Trib.
Macerata 30 aprile 1975, e Trib. Milano 19 dicembre 1974, id., Rep. 1975, voce cit., nn. 364, 365.
Sull'esclusione dell'assoggettabilità a ritenuta d'acconto del com
penso spettante al curatore (che non è titolare di un rapporto d'opera professionale in quanto investito di una funzione pubblicistica, con
feritagli nell'interesse della giustizia) cfr. Cass. 11 luglio 1974, n. 2051, id., Rep. 1974, voce Ricchezza mobile, n. 211; e 5 aprile 1974, n. 955, id., 1974, I, 1003. Per l'analoga soluzione adottata nell'ipo tesi di condanna alle spese giudiziali pronunciata a favore del di fensore antistatario della parte vincitrice, cons. Cass. 27 marzo 1979, n. 1774, id., 1979, I, 1792, con nota di richiami.
Sulla natura della ritenuta d'acconto e sul rapporto, che si isti tuisce tra il sostituto, obbligato alla ritenuta, e lo Stato, che è au tonomo rispetto al rapporto d'imposta, cons. Cass. 3 luglio 1979, n. 3725, id., Rep. 1979, voce Tributi in genere, e in Bollettino trib., 1979, 1513, con nota di Poli.
In dottrina, cons. De Rosa, Ritenuta d'acconto e procedure con
corsuali, in Rass. imp. dir., 1979, 7; Oldoini, Le imposte dirette nel
fallimento dell'imprenditore commerciale, in Dir. e pratica trib., 1977, I, 217; Pagliacci, Curatela fallimentare e ritenuta d'acconto sui compensi dovuti a ex dipendenti dell'impresa fallita, in Riv. dir.
lav., 1976, II, 5.70; Pajarui, Fallimento e fisco (panorami di giuris prudenza), in Ciur. comm., 1977, I, 149; Santacà, Le responsabilità del curatore nel rapporto giurìdico d'imposta, in Dir. fall., 1976, I, 494; Turchi, Crediti concorsuali e ritenuta d'acconto, in Giur. comm., 1976, I, 242.
mento del giudice delegato, si sarebbe limitato a riprodurre lette
ralmente il contenuto del provvedimento reclamato.
Questa corte ritiene che il mezzo non possa essere accolto
perché il tribunale non è venuto meno all'obbligo giuridico di
motivare la sentenza, ma l'ha motivata con le stesse argomenta zioni svolte dal giudice delegato, le quali nella loro concatena
zione logica confutavano la tesi sostenuta dal reclamante.
Del resto un giudice di gravame, allorché conferma il provve dimento impugnato, ben può adottare le argomentazioni giuridi che svolte nel provvedimento medesimo, mostrando cosi di farle
proprie. E non ha alcun obbligo di ricercare nuove e diverse ar
gomentazioni. Il primo mezzo del ricorso che censura il contenuto delle argo
mentazioni giuridiche addotte dal tribunale è, invece, fondato.
Con tale mezzo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa
applicazione degli art. 23 segg. d. pres. 29 settembre 1973 n. 600, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., e sostiene: 1) che
l'elencazione dei soggetti sostituti d'imposta tenuti ad operare le
ritenute d'acconto è tassativa e tra tali soggetti non è compreso il curatore del fallimento; 2) che quando il legislatore fiscale ha
voluto imporre al curatore determinati obblighi lo ha detto espres samente: es. art. 10 dello stesso d. pres. n. 600 del 1973; 3) che
il curatore, svolgendo una funzione pubblicistica per la realizza
zione dei fini propri del fallimento, non è il continuatore, né il
sostituto del fallito; 4) che la natura dell'incarico conferitogli non consente di ricomprenderlo tra i soggetti esercenti un'atti
vità di tipo imprenditoriale.
Il mezzo, come già si è detto, deve essere accolto.
La questione che - esso sottopone all'esame di questa corte con
siste nello stabilire se il curatore del fallimento, allorché nel
l'esecuzione dei pagamenti disposti dal piano di riparto si trovi
a corrispondere somme per prestazioni professionali a favore del
l'imprenditore successivamente fallito, debba o meno operaie le ritenute fiscali cui l'imprenditore era tenuto.
Tale questione non è stata prima d'ora decisa dalla giurispru denza di questa corte, la quale ha invece esaminato la questione relativa all'assoggettabilità a ritenuta d'acconto del compenso
spettante al curatore del fallimento e l'ha risolta in senso nega
tivo, osservando che decisiva in proposito non è la permanenza o meno della qualità di imprenditore del commerciante fallito,
ma la qualificazione dell'attività del curatore. Siccome questo è
un ausiliario di giustizia che ripete i suoi poteri dal tribunale
fallimentare e li esercita su un piano pubblicistico e nell'ambito
di un processo con criteri, modalità e responsabilità del tutto
particolari, estranei a quelli che caratterizzano la prestazione dell'attività professionale vera e propria, questa corte ha escluso
che potesse trovare applicazione la ritenuta d'acconto (sent. 5
aprile 1974, n. 955, Foro it., 1974, I, 1003; 11 luglio 1974, n.
2051, id., Rep. 1974, voce Ricchezza mobile, n. 211).
Ad uguale conclusione (di esclusione, cioè, dell'applicabilità della ritenuta d'acconto) questa corte è pervenuta nel caso di
condanna alle spese giudiziali pronunciata direttamente a fa
vore del difensore della parte vittoriosa perché distrattario delle
spese medesime (sent. 10 febbraio 1975, n. 511, id., Rep. 1975, voce cit., n. 202; 16 luglio 1976, n. 2811, id., Rep. 1976, voce
cit., n. 301; 27 marzo 1979, n. 1774, id., 1979, I, 1792). Ma si tratta di decisioni che presentano aspetti di notevole
diversità dalla questione in esame, si da non poter fornire alcun
decisivo apporto per la sua soluzione.
La questione oggi sottoposta all'esame di questa corte ha incon
trato soluzioni contrastanti da parte dei giudici di merito. La dot
trina prevalente è nel senso dell'insussistenza dell'obbligo della
ritenuta a carico del curatore ed è tale la soluzione, cui si per
viene, a parere di questa corte, secondo una corretta impostazio ne del problema.
La questione deve essere esaminata da un duplice angolo di
prospettiva: l'uno fallimentare, l'altro fiscale; l'uno relativo alla
figura giuridica del curatore, l'altro a quella del sostituto d'im
posta e alla peculiarità dell'istituto della ritenuta d'acconto.
Sulla figura del curatore del fallimento non occorre spendere molte parole. È noto che egli non deriva le sue funzioni da quel le del debitore insolvente, quasi che diventasse un "rappresen tante legale di lui.
È curatore del fallimento, non del fallito e pur nella sua
poliedrica veste di ausiliario del giudice, amministratore, depo
sitario, è in realtà un organo dell'ufficio fallimentare.
Anche se si indugia a mettere in risalto il carattere di'organo esecutivo per distinguerlo dall'organo formativo della volontà,
che è il giudice delegato, è innegabile che quale organo ha la
stessa natura degli altri organi. E come questa corte ha precisato
(sent. 11 luglio 1974, n. 2051, cit.) egli si colloca in un rapporto inte
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
rorganico dell'ufficio fallimentare, che presiede il processo ese
cutivo concorsuale. I compiti del curatore del fallimento vanno, quindi, desunti
esclusivamente dalla legge e non è possibile ritenere che egli, al
di fuori delle strette incombenze dell'ufficio, sia tenuto a « cu
rare » l'esecuzione di obblighi non rispettati dall'imprenditore poi fallito.
Dovrà sostituirsi a auesto solo nei rapporti e nelle incom
benze per le quali sussiste un'esplicita previsione normativa, se
condo i noti meccanismi della procedura concorsuale.
Conviene, quindi, spostare l'indagine nel campo prettamente fiscale.
La ritenuta d'acconto sulle somme dovute per prestazioni pro fessionali fu istituita dall'art. 3 legge 28 ottobre 1970 n. 801,
il quale introdusse un nuovo sistema nell'art. 128 d. pres. 29 gen naio 1958 n. 645.
Questo articolo prevedeva la ritenuta d'acconto per somme
corrisposte a vario titolo a stranieri e ad italiani domiciliati al
l'estero e, fra le varie ipotesi, era prevista anche quella delle
somme dovute a titolo di compenso per l'esercizio di arti o pro fessioni. L'obbligo della ritenuta era imposto a « chiunque » cor
rispondesse le somme, ma tale parola non deve trarre in inganno
nel senso di far ritenere che la ritenuta d'acconto fosse un
istituto articolato soltanto sulla base della natura del credito.
La figura giuridica cui aveva dato luogo l'istituzione della ri
tenuta alla fonte (sia o meno d'acconto) era già nota ed è quella
della sostituzione.
In proposito era già stato opportunamente osservato che la
sostituzione tributaria non poteva inquadrarsi negli schemi di
diritto privato. Essa è stata vista come un fenomeno di tecnica
tributaria: uno strumento tecnico di maggior comodità di esa
zione, talché il sostituto d'imposta è un debitore posto fin dal
l'origine del rapporto al posto di chi è il vero debitore d'imposta,
in base alla capacità contributiva.
E la -fisionomia dell'istituto, prescindendo da riferimenti più
antichi, è stata nettamente delineata con gli art. 14, 127, 128,
169 e 264 d. pres. 29 gennaio 1958 n. 645, dai quali traspare — tranne che nell'art. 128 ispirato a diversa ratio, stante la re
sidenza all'estero del contribuente — la precisa qualificazione
che deve avere il sostituto d'imposta: egli deve essere un de
terminato soggetto, che riveste una particolare qualifica.
II suddetto art. 3 legge 28 ottobre 1970 n. 801 previde la rite
nuta d'acconto nelle somme corrisposte per prestazioni professio
nali da parte de « le regioni, le province, i comuni, le per
sone giuridiche private e pubbliche, le società e le associa
zioni di ogni genere e gli imprenditori commerciali».
Emerse, cosi, in modo ancor più evidente che rilevante per
l'operatività di tale sistema di esazione era tanto la natura del
credito, quanto la qualità del soggetto erogatore delle somme.
Nel caso, infatti, di somme corrisposte allo stesso titolo da parte
di soggetti diversi da quelli indicati dalla legge non si doveva
far luogo alla ritenuta d'acconto.
Questo principio di incombenza dell'obbligo di effettuare la
ritenuta solo sui soggetti predeterminati dal legislatore, è ripe
tuto nel d. pres. 29 settembre 1973 n. 600, attualmente vigente,
i cui art. 23 segg. indicano i soggetti dalla cui qualità non si
può prescindere sulla base della natura del credito da sottopor
re a ritenuta, pure indicata nei suddetti articoli.
L'elencazione dei soggetti non può ritenersi puramente esem
plificativa. Essa è tassativa.
Un'elencazione esemplificativa sarebbe stata incompatibile sia
con la funzionalità del sistema, perché avrebbe lasciato troppo
ampio campo di applicazione all'interprete, sia col principio del
la tassatività degli obblighi tributari e delle relative sanzioni (art.
7 e 47 d. pres. n. 600 del 1973), principio che richiede una spe
cifica indicazione dei soggetti cui fanno carico gli adempimenti
fiscali e nei cui confronti possono essere applicate le relative
sanzioni. Gli è che un'elencazione esemplificativa avrebbe dovuto far
leva unicamente sulla natura del credito; ma in tal caso non si
comprenderebbe quali altri soggetti avrebbero dovuto effettuare
la trattenuta, posto che l'elenco comprende persone giuridiche e
persone fisiche e, tra gli altri, amministrazioni dello Stato, enti
pubblici territoriali, banche, società ed enti emittenti obbliga
zioni.
Ma la tassatività dell'elencazione si spiega agevolmente ove si
consideri che il soggetto, nei cui confronti deve essere effettuata
la ritenuta, dopo che questa è stata applicata, non può soppor
tare le conseguenze dell'eventuale mancato versamento della trat
tenuta all'erario.
Il prelievo alla fonte con una ritenuta (sia o meno d'acconta)
non è che un modo di pagamento dei tributi adottato dallo Stato
Il Foro Italiano — 1981 — Parle I-27.
e il prelevatore agisce per conto dello Stato e non per conto del
contribuente. Come già si è detto, egli è costituito esattore del
l'imposta e a tale rapporto il contribuente è estraneo.
Il rapporto tra l'obbligato alla ritenuta e lo Stato è cioè di
stinto ed autonomo rispetto al rapporto d'imposta facente capo al soggetto che subisce la ritenuta o nei cui confronti viene ef
fettuata la rivalsa.
Questa corte, infatti, in un'ipotesi in cui lo Stato pretendeva da un contribuente il versamento delle somme trattenute dal sog
getto obbligato alla ritenuta e non versate al fisco, ha affermato
il principio che lo Stato, in tali casi, deve richiedere le somme
a colui che, dopo aver effettuato la ritenuta, ha incamerato la
relativa somma e non può richiedere al contribuente di pagare nuovamente l'imposta (sent. 3 luglio 1979, n. 3725, id., Rep. 1979,
voce cit., n. 233).
La conseguenza di questo ragionamento è che è lo Stato a sce
gliere i soggetti che ritiene adatti a tale lavoro di « esazione » e
che li sceglie o sulla base della loro natura di persone giuridi che pubbliche o di società o della loro qualità di imprenditori
persone fisiche, soggetti tutti tenuti ad una contabilità controlla
ta o facilmente controllabile, dalla quale è possibile desumere
con certezza se e quali ritenute siano state effettuate.
E ciò anche a distanza di anni.
Lo Stato, cioè, si serve dell'organizzazione contabile di sog
getti da lui predeterminati.
Una contabilità simile a quella dell'impresa non è certo impo
sta al curatore del fallimento e per di più il suo ufficio non ha
quella previsione di durata e continuazione di attività sussi
stente in tutti i soggetti tenuti ad effettuare le ritenute, potendo
il fallimento chiudersi in breve tempo od essere revocato e re
stando cosi il fisco impossibilitato ad effettuare un controllo sulle
ritenute eventualmente effettuate.
In questa visione logica della regolamentazione legislativa della
ritenuta d'acconto appare, quindi, coerente che il legislatore non
abbia menzionato il curatore del fallimento — né, tanto meno,
l'ufficio fallimentare — tra i soggetti tenuti ad effettuare la rite
nuta e l'abbia menzionato solo a proposito di altre incombenze,
come, ad esempio, nell'art. 10 d. pres. n. 600 del 1973 per la
presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta
in corso al momento della dichiarazione di fallimento, negli art.
10 d. pres. n. 598 del 1973 e 73 d. pres. n. 597 del 1973 per la
redazione del conto di profitti e perdite da collegare alla dichia
razione, nell'art. 74 bis d. pres. n. 633 del 1972 in materia di
imposta sul valore aggiunto, articolo introdotto col d. pres. 23 di
cembre 1974 n. 687, che ha fatto carico al curatore di adempiere
agli obblighi di fatturazione e registrazione per le operazioni ef
fettuate anteriormente alla dichiarazione di fallimento o di liqui
dazione coatta amministrativa, sempreché i relativi termini non
siano ancora scaduti.
Deve conclusivamente ritenersi che i sostituti d'imposta (art.
64 d. pres. n. 600 del 1973) tenuti ad effettuare le ritenute alla
fonte, sono solo quelli indicati esplicitamente dalla legge e che
11 curatore del fallimento, non essendo compreso tra i soggetti
indicati, non è tenuto ad operare le ritenute d'acconto al mo
mento del pagamento dei crediti per prestazioni professionali
disimpegnate a favore dell'imprenditore successivamente fallito.
Le suesposte argomentazioni sono sufficienti per confutare
quelle del provvedimento impugnato, che va cassato con rinvio
della causa per nuovo esame allo stesso tribunale fallimentare
sulla base dei principi affermati.
Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio
di cassazione.
Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione II civile; sentenza 21 otto
bre 1980, n. 5650; Pres. Tamburrino, Est. Giardina, P. M.
Morozzo Della Rocca '(conci, conf.); Soc. Aurelia Prima 1970
(Avv. A. Leone) c. Capotondi (Avv. Schiavone) e Francesca
ni; Franceschini (Avv. Donzelli) c. Soc. Aurelia Prima 1970 e
Capotondi. Conferma App. Roma 18 aprile 1978.
Procedimento civile — Domanda riconvenzionale di risoluzione
per inadempimento proposta in sede di precisazione delle con
clusioni — Tardività (Cod. civ., art. 1453; cod. proc. civ., art. 167).
Proposta dall'attore domanda diretta ad ottenere l'adempimento
di un contratto, è da considerare tardiva la domanda riconven
zionale di risoluzione per inadempimento proposta dal conve
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