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Sezione I civile; sentenza 28 ottobre 1980, n. 5777; Pres. Granata, Est. V. D'Orsi, P.M. Leo (concl....

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Sezione I civile; sentenza 28 ottobre 1980, n. 5777; Pres. Granata, Est. V. D'Orsi, P.M. Leo (concl. conf.); Occari (Avv. Calzolari, Borgatti) c. Fall. Dell'Olio e altri. Cassa Trib. Ferrara 7 marzo 1978 Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 2 (FEBBRAIO 1981), pp. 413/414-417/418 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23171350 . Accessed: 25/06/2014 03:19 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.14 on Wed, 25 Jun 2014 03:19:19 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione I civile; sentenza 28 ottobre 1980, n. 5777; Pres. Granata, Est. V. D'Orsi, P.M. Leo(concl. conf.); Occari (Avv. Calzolari, Borgatti) c. Fall. Dell'Olio e altri. Cassa Trib. Ferrara 7marzo 1978Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 2 (FEBBRAIO 1981), pp. 413/414-417/418Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171350 .

Accessed: 25/06/2014 03:19

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

lite riguardava la continenza delle due cause ed era di per sé esclusa dal fatto che trattandosi di due domande amministra tive distinte, rispetto alle quali si poneva un problema di di

versa decorrenza dalla pensione, necessariamente doveva essere

proposta una nuova domanda giudiziale. Tale domanda, peraltro, non poteva che essere introdotta, in

virtù dell'art. 444 cod. proc. civ. davanti al pretore, non pre vedendo l'art. 20 legge n. 533/1973 la competenza del giudice unico del lavoro presso il tribunale competente per la domanda

più ampia. Di fatto il tribunale aveva, invece, affermato il principio

della non proponibilità della nuova domanda in contrasto con

il principio che ogni domanda amministrativa legittima la pro

posizione di una azione processuale.

Con il secondo mezzo la stessa ricorrente denuncia erronea

e falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ. nonché degli art. 39, 2° comma, e 96 stesso codice in relazione all'art. 152

legge n. 533/1973. Sostiene, a fondamento del mezzo di impugnazione, che la

fattispecie della continenza di causa si diversifica da quella della incompetenza che, comportando la proposizione di una

domanda davanti ad un giudice non competente, implica la

condanna alle spese, mentre nel caso di continenza entrambe

le domande sono proposte correttamente dal punto di vista

processuale, sol che si presentano in rapporto di contenente

a contenuto di guisa che ragioni di economia processuale ne

consigliano la trattazione congiunta. È evidente allora che in tal caso non può sorgere problema

di responsabilità per proposizione di domanda infondata o te

meraria.

Stante il suo carattere assorbente va trattato quest'ultimo mo

tivo che deve essere accolto. Il problema sottoposto all'esame

di questa corte postula infatti una corretta interpretazione del

l'art. 152 disp. att. in relazione all'art. 96 cod. proc. civile. Il

cit. art. 152, come è noto, esonera dall'obbligo del pagamento delle spese processuali il lavoratore soccombente nei giudizi

promossi per ottenere prestazioni previdenziali nei confronti de

gli istituti di assistenza e previdenza « a meno che la pretesa

non sia manifestamente infondata e temeraria».

La legge n. 153 del 1969 aveva all'art. 57 stabilito uguale

principio con una formulazione pressocché identica a quella dell'art. 152 disp. att., precisando che la non ripetibilità delle

spese era esclusa « a meno che il giudizio intentato verso gli

stessi (istituti assicurativi e previdenziali) non sia manifesta

mente infondato e temerario».

Diversa è la formulazione del 1° comma dell'art. 96 cod.

proc. civ. il quale stabilisce che « se risulta che la parte soccom

bente ha agito o resistito in giudizio con malafede il giudice,

su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al

risarcimento dei danni che liquida, anche d'ufficio, nella sen

tenza ».

La stessa norma nel successivo comma contempla poi alcune

ipotesi di responsabilità processuale aggravata nel caso in cui

il giudice accerti l'inesistenza del diritto della parte, indipen

dentemente dal dolo o dalla colpa grave di questa.

Ora da un attento esame della lettera e dello spirito dell'art.

96 cod. proc. civ. sembra che debba escludersi qualsiasi cor

relazione immediata tra la disposizione dell'art. 152 disp. att.

cod. proc. civ. e detta norma, la quale può unicamente fornire

elementi di interpretazione per chiarire il significato e la por

tata di lite temeraria cui fa chiaro riferimento lo stesso art. 152.

L'art. 96, infatti, investe l'azione in quanto tale nel suo com

plesso sia per ciò che concerne i suoi presupposti che le sue

condizioni di carattere formale sostanziale, come può evincersi

dalla ampiezza della formula di cui si è avvalso il legislatore

« se risulta che la parte ha agito o resistito in giudizio », di

guisa che può sempre profilarsi una responsabilità processuale

aggravata della parte soccombente ove o l'attore o il convenuto

siano soccombenti anche su sole questioni di carattere pregiu

diziale di rito, ove tali questioni siano state sollevate con la

consapevolezza della loro infondatezza o con grave negligenza

e, turbando in tal modo il regolare e leale andamento del pro

cesso, si traducano in un danno per l'altra parte.

La previsione normativa si riferisce quindi sia alla soccom

benza nel merito che alla soccombenza che trova ragione in

motivi di ordine processuale. Specifica finalità della norma in

vero è la riparazione del danno processuale che non trova cau

sa in una responsabilità extraprocessuale bensì nelle modalità

di esercizio dei diritti in sede processuale, sicché qualunque

situazione connessa a tale esercizio del potere di azione e di

eccezione, di qualunque natura, può assumere rilevanza poten

do costituire un momento generico del danno processuale.

L'art. 152 disp. att. cod. proc. civ. prescinde invece da detta

finalità, giacché la sanzione a carico del lavoratore si traduce

non tanto nell'obbligo del risarcimento del danno, quanto in

quello della rifusione delle spese giudiziali, conseguenza ovvia

mente meno grave e che si ricollega all'obbligo generale sancito

dall'art. 91 cod. proc. civile.

È evidente allora che il legislatore, in considerazione delle

particolari condizioni economiche di uno dei soggetti del rap

porto processuale, ha inteso derogare in favore di questi al

principio dell'art. 96 ripristinando solo l'obbligo del propo nente al pagamento delle spese ove ricorrano alcuni presuppo sti in parte diversi da quelli previsti dall'art. 96 stesso.

L'art. 152 disp. att. cod. proc. civ. condiziona, infatti, l'obbli

go della rifusione delle spese processuali a favore degli enti assi

curativi ed assistenziali alla contemporanea e concorrente presen za di tre fatti decisivi: a) che il lavoratore sia totalmente soccom

bente; b) su una pretesa manifestamente infondata; c) che la

stessa pretesa sia altresì' temeraria, nel senso desumibile dall'art.

96 cod. proc. civile.

L'elemento caratteristico di differenziazione, e nel contempo

limitativo rispetto all'art. 96, è costituito, però, dal collegamento della responsabilità processuale alla sola pretesa, espressione che

indubbiamente il legislatore ha inteso usare nella sua esatta ac

cezione tecnico-giuridica, sostituendola al più generico termine

« giudizio » contenuto nell'art. 57 legge n. 153 del 1969.

Orbene pretesa è il diritto soggettivo fatto valere con l'azio

ne, il contenuto sostanziale cioè di questa. E proprio perché la responsabilità attiene unicamente al diritto

esercitato dal lavoratore, il legislatore ha condizionato la respon sabilità del lavoratore alla fondatezza (che attiene al merito della

causa) della pretesa stessa.

Se avesse voluto, viceversa, ricomprendere tutta l'attività pro

cessuale, e di merito, avrebbe adottato la terminologia usata al

l'art. 96 cod. proc. civ. che pone in luce tutti gli aspetti dell'azio

ne e non uno solo di essi, quello che afferisce al contenuto del

l'azione medesima.

11 riferimento è fatto quindi esplicitamente all'azione ed alle

modalità in cui essa si estrinseca perché attraverso la domanda

giudiziale trovi realizzazione la pretesa di una delle parti, ma

esclusivamente a quest'ultima. Si è voluto di fatto svincolare il lavoratore da una responsa

bilità per atti meramente formali, che normalmente sono rappor tabili all'andamento ed alla condotta difensiva, sanzionando la

ripetibilità delle spese solo ove sia fatto valere, con dolo o colpa

grave, un diritto in definitiva insussistente.

Ne consegue che l'obbligo del pagamento delle spese proces suali da parte del lavoratore soccombente non può ravvisarsi,

diversamente da come hanno ritenuto i giudici del tribunale, ove

la soccombenza sia in diretta ed esclusiva dipendenza dell'esito

della risoluzione di una questione di carattere processuale, come

nella specie. La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio ad al

tro giudice il quale deciderà relativamente alle spese di causa

uniformandosi ai principi qui enunciati.

Si ritiene opportuno riservare allo stesso giudice di rinvio la

liquidazione delle spese di questo giudizio di cassazione.

Per questi motivi, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 28 otto

bre 1980, n. 5777; Pres. Granata, Est. V. D'Orsi, P. M. Leo

(conci, conf.); Occari (Avv. Calzolari, Borgatti) c. Fall. Del

l'Olio e altri. Cassa Trib. Ferrara 7 marzo 1978.

Tributi in genere — Fallimento — Pagamento di prestazioni pro

fessionali svolte a favore dell'imprenditore poi fallito — Cu

ratore sostituto d'imposta — Esclusione (D. pres. 29 settem

bre 1973 n. 600, disposizioni comuni in materia di accerta

mento delle imposte sui redditi, art. 23, 25, 64).

Il carattere tassativo dell'elencazione dei sostituti d'imposta con

tenuto nell'art. 23 d. pres. WO/1973 impedisce di configurare

a carico del curatore del fallimento l'obbligo d'effettuare la ri

tenuta d'acconto sulle somme pagate ad un libero professio

nista per le prestazioni professionali svolte a favore dell'im

prenditore poi fallito. (1)

(1) È la prima volta che la Cassazione si pronuncia sulla questione,

risolta precedentemente in senso difforme, oltre che dalla sentenza

cassata (Trib. Ferrara 7 marzo 1978, Foro it., Rep. 1978, voce Tri

buti in genere, n. 356), da altri giudici di merito (Trib. Milano

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415 PARTE PRIMA

La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Il dottore com

mercialista Giovanni Occari svolse attività professionale a fa

vore della ditta Dell'Olio di Angela Dell'Olio e Luciano Ta

rabini.

Essendo poi tale ditta fallita, insinuò nel fallimento il suo cre

dito per le prestazioni professionali svolte.

Con decreto 22 dicembre 1977 il giudice delegato approvò e

rese esecutivo con riporto parziale comportante l'attribuzione

all'Occari della somma di lire 13.198.812 corrispondente al sud

detto credito.

Il curatore del fallimento, in sede di pagamento, trattenne sul

l'importo la somma di lire 1.498.137, a titolo di ritenuta d'accon

to, in applicazione dell'art. 25 d. pres. 29 settembre 1973 n. 600.

Ritenendo arbitraria tale trattenuta, per non essere il curatore

del fallimento un sostituto d'imposta del fallito, l'Occari in data

31 dicembre 1977 propose ricorso al giudice delegato.

Tanto il ricorso, quanto il successivo reclamo al tribunale, ven

nero, però, respinti. Con atto 4 maggio 1978 l'Occari ha proposto ricorso per cas

sazione svolgendo due mezzi di annullamento illustrati con me

moria. Il curatore del fallimento non ha svolto alcuna difesa.

Motivi della decisione. — Il Tribunale di Ferrara, chiamato a

decidere la questione relativa alla sussistenza dell'obbligo del

curatore del fallimento di effettuare la ritenuta d'acconto sulle

somme pagate dall'amministrazione fallimentare ad un libero pro

fessionista, che aveva prestato la sua opera professionale a fa

vore dell'imprenditore poi fallito, ha risolto la questione stessa in

senso affermativo.

Facendo sue le argomentazioni svolte dal giudice delegato

(pronunciatosi nello stesso senso) il tribunale ha osservato a so

stegno della sua decisione: a) che il curatore si sostituisce al

fallito tanto nei rapporti processuali che in quelli sostanziali;

b) che il curatore ha una sua propria collocazione nei confronti

degli incombenti fiscali ed ha una partecipazione attiva tanto al

l'iter accertativo quanto a quello impositivo; c) che l'elenco dei

soggetti tenuti alla ritenuta alla fonte posto dall'art. 23 d. pres. 29

settembre 1973 n. 600 non può ritenersi tassativo; d) che non si

verte in tema di soddisfazione di un nuovo credito del falli

mento, ma di un credito già esistente, per il quale era prevista la

ritenuta d'acconto; e) che la ritenuta d'acconto operata dal cura

tore non intacca la par condicio creditorum perché incide su

somme già riconosciute e attribuite (al lordo) ai singoli creditori;

/) che non vi era alcun ostacolo a ritenere che il curatore, do

vendo operare le ritenute d'acconto, fosse del pari obbligato alla

tenuta dei registri obbligatori per tutte le imprese.

Il ricorso proposto dal dott. Occari avverso la suddetta deci

sione si articola in due mezzi, i quali per ragioni di logica si

stematica debbono essere esaminati nell'ordine inverso a quelìO

con cui sono stati formulati.

Col secondo mezzo, infatti, il ricorrente sostiene la nullità

della sentenza per la mancanza della motivazione in quanto il

tribunale, invece di rispondere alle critiche mosse al provvedi

3 dicembre 1977, ibid., n. 355, in relazione ad emolumenti arretrati

dovuti ad ex dipendenti dell'impresa fallita; Trib. Genova 25 giugno 1977, id.. Rep. 1977, voce cit., n. 349). Nel senso della sentenza ri

portata, si sono espressi Trib. Udine 7 gennaio 1977, ibid., n. 434; Trib. Napoli 21 luglio 1976, id., Rep. 1976, voce cit., n. 324; Trib.

Macerata 30 aprile 1975, e Trib. Milano 19 dicembre 1974, id., Rep. 1975, voce cit., nn. 364, 365.

Sull'esclusione dell'assoggettabilità a ritenuta d'acconto del com

penso spettante al curatore (che non è titolare di un rapporto d'opera professionale in quanto investito di una funzione pubblicistica, con

feritagli nell'interesse della giustizia) cfr. Cass. 11 luglio 1974, n. 2051, id., Rep. 1974, voce Ricchezza mobile, n. 211; e 5 aprile 1974, n. 955, id., 1974, I, 1003. Per l'analoga soluzione adottata nell'ipo tesi di condanna alle spese giudiziali pronunciata a favore del di fensore antistatario della parte vincitrice, cons. Cass. 27 marzo 1979, n. 1774, id., 1979, I, 1792, con nota di richiami.

Sulla natura della ritenuta d'acconto e sul rapporto, che si isti tuisce tra il sostituto, obbligato alla ritenuta, e lo Stato, che è au tonomo rispetto al rapporto d'imposta, cons. Cass. 3 luglio 1979, n. 3725, id., Rep. 1979, voce Tributi in genere, e in Bollettino trib., 1979, 1513, con nota di Poli.

In dottrina, cons. De Rosa, Ritenuta d'acconto e procedure con

corsuali, in Rass. imp. dir., 1979, 7; Oldoini, Le imposte dirette nel

fallimento dell'imprenditore commerciale, in Dir. e pratica trib., 1977, I, 217; Pagliacci, Curatela fallimentare e ritenuta d'acconto sui compensi dovuti a ex dipendenti dell'impresa fallita, in Riv. dir.

lav., 1976, II, 5.70; Pajarui, Fallimento e fisco (panorami di giuris prudenza), in Ciur. comm., 1977, I, 149; Santacà, Le responsabilità del curatore nel rapporto giurìdico d'imposta, in Dir. fall., 1976, I, 494; Turchi, Crediti concorsuali e ritenuta d'acconto, in Giur. comm., 1976, I, 242.

mento del giudice delegato, si sarebbe limitato a riprodurre lette

ralmente il contenuto del provvedimento reclamato.

Questa corte ritiene che il mezzo non possa essere accolto

perché il tribunale non è venuto meno all'obbligo giuridico di

motivare la sentenza, ma l'ha motivata con le stesse argomenta zioni svolte dal giudice delegato, le quali nella loro concatena

zione logica confutavano la tesi sostenuta dal reclamante.

Del resto un giudice di gravame, allorché conferma il provve dimento impugnato, ben può adottare le argomentazioni giuridi che svolte nel provvedimento medesimo, mostrando cosi di farle

proprie. E non ha alcun obbligo di ricercare nuove e diverse ar

gomentazioni. Il primo mezzo del ricorso che censura il contenuto delle argo

mentazioni giuridiche addotte dal tribunale è, invece, fondato.

Con tale mezzo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa

applicazione degli art. 23 segg. d. pres. 29 settembre 1973 n. 600, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., e sostiene: 1) che

l'elencazione dei soggetti sostituti d'imposta tenuti ad operare le

ritenute d'acconto è tassativa e tra tali soggetti non è compreso il curatore del fallimento; 2) che quando il legislatore fiscale ha

voluto imporre al curatore determinati obblighi lo ha detto espres samente: es. art. 10 dello stesso d. pres. n. 600 del 1973; 3) che

il curatore, svolgendo una funzione pubblicistica per la realizza

zione dei fini propri del fallimento, non è il continuatore, né il

sostituto del fallito; 4) che la natura dell'incarico conferitogli non consente di ricomprenderlo tra i soggetti esercenti un'atti

vità di tipo imprenditoriale.

Il mezzo, come già si è detto, deve essere accolto.

La questione che - esso sottopone all'esame di questa corte con

siste nello stabilire se il curatore del fallimento, allorché nel

l'esecuzione dei pagamenti disposti dal piano di riparto si trovi

a corrispondere somme per prestazioni professionali a favore del

l'imprenditore successivamente fallito, debba o meno operaie le ritenute fiscali cui l'imprenditore era tenuto.

Tale questione non è stata prima d'ora decisa dalla giurispru denza di questa corte, la quale ha invece esaminato la questione relativa all'assoggettabilità a ritenuta d'acconto del compenso

spettante al curatore del fallimento e l'ha risolta in senso nega

tivo, osservando che decisiva in proposito non è la permanenza o meno della qualità di imprenditore del commerciante fallito,

ma la qualificazione dell'attività del curatore. Siccome questo è

un ausiliario di giustizia che ripete i suoi poteri dal tribunale

fallimentare e li esercita su un piano pubblicistico e nell'ambito

di un processo con criteri, modalità e responsabilità del tutto

particolari, estranei a quelli che caratterizzano la prestazione dell'attività professionale vera e propria, questa corte ha escluso

che potesse trovare applicazione la ritenuta d'acconto (sent. 5

aprile 1974, n. 955, Foro it., 1974, I, 1003; 11 luglio 1974, n.

2051, id., Rep. 1974, voce Ricchezza mobile, n. 211).

Ad uguale conclusione (di esclusione, cioè, dell'applicabilità della ritenuta d'acconto) questa corte è pervenuta nel caso di

condanna alle spese giudiziali pronunciata direttamente a fa

vore del difensore della parte vittoriosa perché distrattario delle

spese medesime (sent. 10 febbraio 1975, n. 511, id., Rep. 1975, voce cit., n. 202; 16 luglio 1976, n. 2811, id., Rep. 1976, voce

cit., n. 301; 27 marzo 1979, n. 1774, id., 1979, I, 1792). Ma si tratta di decisioni che presentano aspetti di notevole

diversità dalla questione in esame, si da non poter fornire alcun

decisivo apporto per la sua soluzione.

La questione oggi sottoposta all'esame di questa corte ha incon

trato soluzioni contrastanti da parte dei giudici di merito. La dot

trina prevalente è nel senso dell'insussistenza dell'obbligo della

ritenuta a carico del curatore ed è tale la soluzione, cui si per

viene, a parere di questa corte, secondo una corretta impostazio ne del problema.

La questione deve essere esaminata da un duplice angolo di

prospettiva: l'uno fallimentare, l'altro fiscale; l'uno relativo alla

figura giuridica del curatore, l'altro a quella del sostituto d'im

posta e alla peculiarità dell'istituto della ritenuta d'acconto.

Sulla figura del curatore del fallimento non occorre spendere molte parole. È noto che egli non deriva le sue funzioni da quel le del debitore insolvente, quasi che diventasse un "rappresen tante legale di lui.

È curatore del fallimento, non del fallito e pur nella sua

poliedrica veste di ausiliario del giudice, amministratore, depo

sitario, è in realtà un organo dell'ufficio fallimentare.

Anche se si indugia a mettere in risalto il carattere di'organo esecutivo per distinguerlo dall'organo formativo della volontà,

che è il giudice delegato, è innegabile che quale organo ha la

stessa natura degli altri organi. E come questa corte ha precisato

(sent. 11 luglio 1974, n. 2051, cit.) egli si colloca in un rapporto inte

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

rorganico dell'ufficio fallimentare, che presiede il processo ese

cutivo concorsuale. I compiti del curatore del fallimento vanno, quindi, desunti

esclusivamente dalla legge e non è possibile ritenere che egli, al

di fuori delle strette incombenze dell'ufficio, sia tenuto a « cu

rare » l'esecuzione di obblighi non rispettati dall'imprenditore poi fallito.

Dovrà sostituirsi a auesto solo nei rapporti e nelle incom

benze per le quali sussiste un'esplicita previsione normativa, se

condo i noti meccanismi della procedura concorsuale.

Conviene, quindi, spostare l'indagine nel campo prettamente fiscale.

La ritenuta d'acconto sulle somme dovute per prestazioni pro fessionali fu istituita dall'art. 3 legge 28 ottobre 1970 n. 801,

il quale introdusse un nuovo sistema nell'art. 128 d. pres. 29 gen naio 1958 n. 645.

Questo articolo prevedeva la ritenuta d'acconto per somme

corrisposte a vario titolo a stranieri e ad italiani domiciliati al

l'estero e, fra le varie ipotesi, era prevista anche quella delle

somme dovute a titolo di compenso per l'esercizio di arti o pro fessioni. L'obbligo della ritenuta era imposto a « chiunque » cor

rispondesse le somme, ma tale parola non deve trarre in inganno

nel senso di far ritenere che la ritenuta d'acconto fosse un

istituto articolato soltanto sulla base della natura del credito.

La figura giuridica cui aveva dato luogo l'istituzione della ri

tenuta alla fonte (sia o meno d'acconto) era già nota ed è quella

della sostituzione.

In proposito era già stato opportunamente osservato che la

sostituzione tributaria non poteva inquadrarsi negli schemi di

diritto privato. Essa è stata vista come un fenomeno di tecnica

tributaria: uno strumento tecnico di maggior comodità di esa

zione, talché il sostituto d'imposta è un debitore posto fin dal

l'origine del rapporto al posto di chi è il vero debitore d'imposta,

in base alla capacità contributiva.

E la -fisionomia dell'istituto, prescindendo da riferimenti più

antichi, è stata nettamente delineata con gli art. 14, 127, 128,

169 e 264 d. pres. 29 gennaio 1958 n. 645, dai quali traspare — tranne che nell'art. 128 ispirato a diversa ratio, stante la re

sidenza all'estero del contribuente — la precisa qualificazione

che deve avere il sostituto d'imposta: egli deve essere un de

terminato soggetto, che riveste una particolare qualifica.

II suddetto art. 3 legge 28 ottobre 1970 n. 801 previde la rite

nuta d'acconto nelle somme corrisposte per prestazioni professio

nali da parte de « le regioni, le province, i comuni, le per

sone giuridiche private e pubbliche, le società e le associa

zioni di ogni genere e gli imprenditori commerciali».

Emerse, cosi, in modo ancor più evidente che rilevante per

l'operatività di tale sistema di esazione era tanto la natura del

credito, quanto la qualità del soggetto erogatore delle somme.

Nel caso, infatti, di somme corrisposte allo stesso titolo da parte

di soggetti diversi da quelli indicati dalla legge non si doveva

far luogo alla ritenuta d'acconto.

Questo principio di incombenza dell'obbligo di effettuare la

ritenuta solo sui soggetti predeterminati dal legislatore, è ripe

tuto nel d. pres. 29 settembre 1973 n. 600, attualmente vigente,

i cui art. 23 segg. indicano i soggetti dalla cui qualità non si

può prescindere sulla base della natura del credito da sottopor

re a ritenuta, pure indicata nei suddetti articoli.

L'elencazione dei soggetti non può ritenersi puramente esem

plificativa. Essa è tassativa.

Un'elencazione esemplificativa sarebbe stata incompatibile sia

con la funzionalità del sistema, perché avrebbe lasciato troppo

ampio campo di applicazione all'interprete, sia col principio del

la tassatività degli obblighi tributari e delle relative sanzioni (art.

7 e 47 d. pres. n. 600 del 1973), principio che richiede una spe

cifica indicazione dei soggetti cui fanno carico gli adempimenti

fiscali e nei cui confronti possono essere applicate le relative

sanzioni. Gli è che un'elencazione esemplificativa avrebbe dovuto far

leva unicamente sulla natura del credito; ma in tal caso non si

comprenderebbe quali altri soggetti avrebbero dovuto effettuare

la trattenuta, posto che l'elenco comprende persone giuridiche e

persone fisiche e, tra gli altri, amministrazioni dello Stato, enti

pubblici territoriali, banche, società ed enti emittenti obbliga

zioni.

Ma la tassatività dell'elencazione si spiega agevolmente ove si

consideri che il soggetto, nei cui confronti deve essere effettuata

la ritenuta, dopo che questa è stata applicata, non può soppor

tare le conseguenze dell'eventuale mancato versamento della trat

tenuta all'erario.

Il prelievo alla fonte con una ritenuta (sia o meno d'acconta)

non è che un modo di pagamento dei tributi adottato dallo Stato

Il Foro Italiano — 1981 — Parle I-27.

e il prelevatore agisce per conto dello Stato e non per conto del

contribuente. Come già si è detto, egli è costituito esattore del

l'imposta e a tale rapporto il contribuente è estraneo.

Il rapporto tra l'obbligato alla ritenuta e lo Stato è cioè di

stinto ed autonomo rispetto al rapporto d'imposta facente capo al soggetto che subisce la ritenuta o nei cui confronti viene ef

fettuata la rivalsa.

Questa corte, infatti, in un'ipotesi in cui lo Stato pretendeva da un contribuente il versamento delle somme trattenute dal sog

getto obbligato alla ritenuta e non versate al fisco, ha affermato

il principio che lo Stato, in tali casi, deve richiedere le somme

a colui che, dopo aver effettuato la ritenuta, ha incamerato la

relativa somma e non può richiedere al contribuente di pagare nuovamente l'imposta (sent. 3 luglio 1979, n. 3725, id., Rep. 1979,

voce cit., n. 233).

La conseguenza di questo ragionamento è che è lo Stato a sce

gliere i soggetti che ritiene adatti a tale lavoro di « esazione » e

che li sceglie o sulla base della loro natura di persone giuridi che pubbliche o di società o della loro qualità di imprenditori

persone fisiche, soggetti tutti tenuti ad una contabilità controlla

ta o facilmente controllabile, dalla quale è possibile desumere

con certezza se e quali ritenute siano state effettuate.

E ciò anche a distanza di anni.

Lo Stato, cioè, si serve dell'organizzazione contabile di sog

getti da lui predeterminati.

Una contabilità simile a quella dell'impresa non è certo impo

sta al curatore del fallimento e per di più il suo ufficio non ha

quella previsione di durata e continuazione di attività sussi

stente in tutti i soggetti tenuti ad effettuare le ritenute, potendo

il fallimento chiudersi in breve tempo od essere revocato e re

stando cosi il fisco impossibilitato ad effettuare un controllo sulle

ritenute eventualmente effettuate.

In questa visione logica della regolamentazione legislativa della

ritenuta d'acconto appare, quindi, coerente che il legislatore non

abbia menzionato il curatore del fallimento — né, tanto meno,

l'ufficio fallimentare — tra i soggetti tenuti ad effettuare la rite

nuta e l'abbia menzionato solo a proposito di altre incombenze,

come, ad esempio, nell'art. 10 d. pres. n. 600 del 1973 per la

presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta

in corso al momento della dichiarazione di fallimento, negli art.

10 d. pres. n. 598 del 1973 e 73 d. pres. n. 597 del 1973 per la

redazione del conto di profitti e perdite da collegare alla dichia

razione, nell'art. 74 bis d. pres. n. 633 del 1972 in materia di

imposta sul valore aggiunto, articolo introdotto col d. pres. 23 di

cembre 1974 n. 687, che ha fatto carico al curatore di adempiere

agli obblighi di fatturazione e registrazione per le operazioni ef

fettuate anteriormente alla dichiarazione di fallimento o di liqui

dazione coatta amministrativa, sempreché i relativi termini non

siano ancora scaduti.

Deve conclusivamente ritenersi che i sostituti d'imposta (art.

64 d. pres. n. 600 del 1973) tenuti ad effettuare le ritenute alla

fonte, sono solo quelli indicati esplicitamente dalla legge e che

11 curatore del fallimento, non essendo compreso tra i soggetti

indicati, non è tenuto ad operare le ritenute d'acconto al mo

mento del pagamento dei crediti per prestazioni professionali

disimpegnate a favore dell'imprenditore successivamente fallito.

Le suesposte argomentazioni sono sufficienti per confutare

quelle del provvedimento impugnato, che va cassato con rinvio

della causa per nuovo esame allo stesso tribunale fallimentare

sulla base dei principi affermati.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio

di cassazione.

Per questi motivi, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione II civile; sentenza 21 otto

bre 1980, n. 5650; Pres. Tamburrino, Est. Giardina, P. M.

Morozzo Della Rocca '(conci, conf.); Soc. Aurelia Prima 1970

(Avv. A. Leone) c. Capotondi (Avv. Schiavone) e Francesca

ni; Franceschini (Avv. Donzelli) c. Soc. Aurelia Prima 1970 e

Capotondi. Conferma App. Roma 18 aprile 1978.

Procedimento civile — Domanda riconvenzionale di risoluzione

per inadempimento proposta in sede di precisazione delle con

clusioni — Tardività (Cod. civ., art. 1453; cod. proc. civ., art. 167).

Proposta dall'attore domanda diretta ad ottenere l'adempimento

di un contratto, è da considerare tardiva la domanda riconven

zionale di risoluzione per inadempimento proposta dal conve

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