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sezione I civile; sentenza 29 gennaio 1996, n. 655; Pres. Corda, Est. Felicetti, P.M. Carnevali...

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sezione I civile; sentenza 29 gennaio 1996, n. 655; Pres. Corda, Est. Felicetti, P.M. Carnevali (concl. diff.); Panza (Avv. Biagetti, Marino) c. Soc. La Fondiaria assicurazioni (Avv. Tosti). Cassa App. Roma 30 settembre 1993 Source: Il Foro Italiano, Vol. 119, No. 3 (MARZO 1996), pp. 853/854-857/858 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23190844 . Accessed: 28/06/2014 08:53 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.105.245.44 on Sat, 28 Jun 2014 08:53:35 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 29 gennaio 1996, n. 655; Pres. Corda, Est. Felicetti, P.M. Carnevali(concl. diff.); Panza (Avv. Biagetti, Marino) c. Soc. La Fondiaria assicurazioni (Avv. Tosti). CassaApp. Roma 30 settembre 1993Source: Il Foro Italiano, Vol. 119, No. 3 (MARZO 1996), pp. 853/854-857/858Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23190844 .

Accessed: 28/06/2014 08:53

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

condanna subita dal D'Amico il banco era costretto a ridurre

l'utilizzazione del dipendente; — che, conseguentemente, non essendo il lavoratore in gra

do di assolvere tutti i compiti contrattualmente previsti, la riso

luzione del rapporto non poteva reputarsi illegittima. Con il terzo motivo si denunzia violazione dell'art. 2119 c.c.

per avere il tribunale riconosciuto la gravità del comportamento del D'Amico e la sua potenziale idoneità a compromettere il

rapporto di lavoro, anche in considerazione della natura dell'i

stituto datore di lavoro, e tuttavia omesso di trarre da tali pre messe le dovute conseguenze. Si deduce:

— che l'elemento fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro viene meno anche per comportamenti tenuti dal lavora

tore al di fuori dello svolgimento dell'attività lavorativa ove essi

si riflettano nell'ambiente di lavoro; — che la particolare gravità del reato commesso dal D'Ami

co induceva a ritenere irrimediabilmente compromesso il rap

porto fiduciario; — che, trattandosi di un dipendente operante in un settore

delicato come quello del credito, il licenziamento per giusta causa

previsto dall'art. 70 del regolamento del personale costituiva l'u

nico provvedimento ragionevolmente adeguato. Nell'ordine logico vanno esaminati nell'ordine il primo, il terzo

ed il secondo motivo.

Il primo motivo è infondato. La richiamata norma regola mentare contempla «comportamento o atti disonorevoli o che

comunque rivelino mancanza di senso di rettitudine».

In ordine al significato delle qualificazioni in essa adottate

il tribunale ha affermato: — che la disonorevolezza del comportamento è in relazione

alle mansioni assegnate al lavoratore (ha osservato al riguardo che ciò che può essere disonorevole per i dipendenti che hanno

contatti qualificati con la clientela o che rappresentano la banca

non lo è per altri lavoratori che svolgono mansioni non impli canti particolare responsabilità o fiducia);

— che il giudizio sulla rettitudine sarebbe già contenuto nella

condanna penale se non si potesse tener conto del passato del

lavoratore né formulare giudizi di previsione in relazione al pro

seguimento del rapporto di lavoro.

Il ricorrente non indica specificatamente i canoni ermeneutici

ritenuti violati e, sotto il profilo della motivazione, l'interpreta zione del tribunale appare, per entrambe le espressioni conside

rate, del tutto coerente: certamente, la norma riguarda tutti i

dipendenti ma ciò non esclude, considerate la varietà di com

portamenti che possono astrattamente ritenersi disonorevoli e

l'esigenza che essi incidano sul rapporto di lavoro, che l'esten

sione del concetto di disonorevole» sia proporzionale alla fidu

cia, responsabilità, esposizione rispetto all'esterno, insite nelle

mansioni; né esclude che per determinare se un atto riveli o

no mancanza di rettitudine possa farsi ricorso ad una valutazio

ne del contesto nel quale esso si colloca e della situazione psico

logica dell'autore.

E, una volta correlata la qualificazione di un comportamento come disonorevole al tipo di mansioni, e la manifestazione di

mancanza di rettitudine ad un giudizio complessivo anche pro

gnostico, non vi è contraddizione nell'avere il giudice di appello

negato in concreto l'una e l'altra pur avendo riconosciuto che

detenzione e spaccio di stupefacenti suscitano riprovevolezza (che

peraltro non implica «disonorevolezza») nella società e nell'am

biente di lavoro.

Quanto infine al rilievo del ricorrente sui contatti con la clien

tela insiti nell'attività del commesso, il tribunale ha negato la

loro esistenza nella specie, e la rilevanza delle mansioni in con

creto svolte rispetto a quelle contrattualmente esigibili non è

investita dal motivo esaminato.

Anche il terzo motivo è infondato poiché la violazione di leg

ge presuppone accertata la situazione di fatto cui la legge è rife

rita e nella specie il giudice di merito, cui è devoluto l'apprezza mento dei fatti addotti come giusta causa di licenziamento, ha

ritenuto il comportamento del lavoratore, grave in sé, non già

idoneo, ma potenzialmente idoneo a compromettere il rapporto di lavoro (per escludere poi che lo stesso comportamento, tenu

to al di fuori dell'attività lavorativa, giustificava nel caso con

creto il recesso). Il secondo motivo del ricorso è, per contro, fondato.

Deve preliminarmente osservarsi che il tribunale, prima di esa

minare l'incidenza della condanna riportata dal D'Amico sullo

Il Foro Italiano — 1996.

svolgimento delle mansioni, ha escluso che il comportamento addebitato al lavoratore fosse tale da rivelare mancanza di retti

tudine e ha affermato la relatività della nozione di «disonorevo

le» alle mansioni proprie del singolo dipendente, ma non ha

considerato assorbita l'indagine sul carattere disonorevole del

comportamento in quella sull'attitudine a rivelare mancanza di senso di rettitudine (non ha esamninato il rapporto, nella nor

ma regolamentare, tra comportamento disonorevole e compor tamento che comunque riveli mancanza di rettitudine e una even

tuale inclusione della prima caratteristica nella seconda non può

quindi ritenersi neppure implicitamente affermata). Le considerazioni sull'incidenza del reato sullo svolgimento

delle mansioni risultano pertanto intese, nella motivazione della

sentenza impugnata, anche al riscontro del carattere disonore

vole, in rapporto al tipo di mansioni, del comportamento tenu

to dal lavoratore.

Ciò premesso, non può non rilevarsi che sotto tale profilo

l'argomentazione del tribunale risulta carente. Essa si articola nelle seguenti osservazioni: — «la banca ha elencato una serie di mansioni che il com

messo potrebbe in astratto svolgere nell'ambito dell'azienda, per le quali non sarebbe disposta a dare fiducia al lavoratore; in

realtà non contesta che il D'Amico, come altri commessi, fosse

adibito al recapito di documenti all'interno dell'azienda, ecc., attività che non comporta un contatto qualificato e personale con colleghi o altri individui, né possibilità di approfittare delle mansioni per procurarsi illecitamente lucro»;

— «il mansionario prevede inoltre numerose altre attività del

commesso il cui svolgimento non sarebbe controindicato» per il dipendente.

Ma, se doveva determinarsi l'incidenza sul rapporto di lavoro

di un comportamento estraneo all'attività lavorativa al fine di

annoverarlo o no tra i comportamenti disonorevoli di cui al

l'art. 70 del citato regolamento, l'accertamento non poteva es

sere limitato alle mansioni in concreto espletate dal dipendente, dovendo invece essere esteso al complesso delle mansioni esigi bili dallo stesso ex art. 2103 c.c.

Per le svolte considerazioni la sentenza impugnata deve essere

annullata in relazione al motivo accolto e la causa deve essere

rinviata per nuovo esame ad altro giudice, designato in disposi

tivo, il quale si atterrà al principio innanzi enunciato.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 29 gen naio 1996, n. 655; Pres. Corda, Est. Felicetti, P.M. Car

nevali (conci, diff.); Panza (Avv. Biagetti, Marino) c. Soc.

La Fondiaria assicurazioni (Aw. Tosti). Cassa App. Roma

30 settembre 1993.

Arbitrato e compromesso — Arbitrato irrituale — Determina

zione arbitrale — Inesistenza — Successiva azione giudiziaria — Proponibilità — Condizioni — Accertamento.

Il giudice ordinario — cui le parti, deducendo la inesistenza,

per mancanza dei requisiti essenziali, della pronuncia degli arbitri irrituali, chiedono di risolvere la questione in prece

denza sottoposta ad essi — prima di decidere sulla proponibi lità dell'azione, deve stabilire se la determinazione dei ridetti requisiti sia stata operata dalle parti o dalle stesse rimessa

agli arbitri e, in caso di esito negativo dell'indagine, è tenuto a verificare in applicazione dell'art. 1374 c.c. se la medesima

pronuncia arbitrale contenga gli elementi, richiesti a pena di

nullità dall'art. 829 c.p.c., compatibili con la natura e la strut

tura dell'arbitrato irrituale. (1)

(1) Senza riprodurre il patto arbitrale venuto in rilievo e senza indica

re la reale portata della determinazione adottata nella specie, tra il 1986

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PARTE PRIMA

Svolgimento del processo. — 1. - Panza Stanislao, con cita zione notificata il 30 marzo 1988, conveniva davanti al Tribu nale di Latina La Fondiaria s.p.a., deducendo di essere assicu rato presso di essa, con due polizze, contro gli infortuni e di

essere rimasto vittima, nel 1986, di un grave incidente stradale che gli aveva cagionato un'invalidità permanente del 50%.

Chiedeva la condanna della convenuta al pagamento dell'in dennizzo dovutogli, non avendo gli arbitri — ai quali si era fatto ricorso come stabilito nelle polizze stipulate — emesso al cun giudizio in proposito.

Il Tribunale di Latina rigettava la domanda, ritenendo che

gli arbitri avevano deciso nel senso della non indennizzabilità del danno e che pertanto era improponibile ogni azione dinanzi al giudice ordinario.

La sentenza veniva appellata dal Panza, ma anche l'appello veniva respinto dalla Corte d'appello di Roma.

Il Panza ricorre per cassazione formulando un unico motivo, al quale La Fondiaria s.p.a. resiste con controricorso. Il Panza ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione. — 1. - Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione degli art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., in relazione alla violazione o falsa applicazione degli art. 1349 e 1362 ss. c.c., nonché degli art. 808 ss. c.p.c., 24 Cost, e 2907 c.c. Deduce, inoltre, l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Sostiene al riguardo che erroneamente la corte d'appello ha ritenuto preclusa in sede giurisdizionale l'azionabilità del diritto all'indennizzo affermando che era intervenuta la decisione degli arbitri. Si osserva che la clausola di una delle sue polizze preve

e il 1988, dagli arbitri irrituali, la corte attinge la soluzione, faticosa mente riassunta in massima, attraverso un iter argomentativo approssi mativo e poco lineare.

Dopo avere, infatti, ricondotto il considerato arbitrato irrituale al mandato, nella prospettiva (da ultimo condivisa, sia pure con precisa zioni, da Cass. 22 luglio 1995, n. 8243, Foro it., 1996, I, 620, con osservazioni di C.M. Barone) di una verosimile adesione all'imposta zione della richiamata Cass. 18 gennaio 1992, n. 595, id., 1992, I, 1414, con nota redazionale [orientata a distinguere nettamente (a differenza della successiva Cass. 4 ottobre 1994, n. 8046, id., 1995, I, 1520, con osservazioni critiche di C.M. Barone) l'arbitrato irrituale da quello ri tuale], la corte finisce per creare una singolare commistione tra l'uno e l'altro, reputando applicabili al primo requisiti prescritti per la sen tenza arbitrale dall'art. 829 c.p.c. (nel testo vigente prima della riforma del 1994), e, disattendendo, cosi, la direttiva della pur invocata sent, n. 595 del 1992 che, ravvisando nella determinazione degli arbitri irri tuali un contratto e non un lodo «che tiene luogo alla sentenza», aveva invece decisamente escluso l'applicabilità, anche in via analogica, alla ridetta determinazione delle «norme del codice di rito». Peraltro, anche il richiamo della medesima corte all'art. 1374 c.c. (su cui, Sacco, L'in tegrazione, in Trattato diretto da Rescigno, 10, Torino, 1995, 523 ss.; Galgano, Degli effetti del contratto, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 68 ss.) appare poco convincente non solo e non tanto perché, in mancanza della esatta indicazione del contenuto del patto arbitrale in discussione, la sua prospettata integrabilità (oltretutto collegata pure ad ipotesi non agevolmente conciliabile con l'affermazio ne della nullità della pattuizione che faccia dipendere dalla volontà del debitore della prestazione, come ad es. gli arbitri irrituali, la determina zione di elementi essenziali della stessa prestazione dedotta in obligatio ns. in motivazione, Cass. n. 8243 del 1995, cit.) si rivela indiscriminata e incontrollabile, ma anche e soprattutto perché l'impostazione in parte qua della riportata sentenza prescinde del tutto dalla più pertinente ten denza seguita da Cass. 30 ottobre 1991, n. 11650, Foro it., Rep. 1991, voce Arbitrato, n. 94 (parte non riprodotta nel Foro, 1992, I, 1465, con nota di richiami). Con la ripetuta sent. n. 11650 del 1991, comple tamente ignorata nella specie, la II sezione civile, coerentemente con l'operato riconoscimento della riconducibilità al mandato del rapporto parti-arbitri irrituali, ha, infatti, affermato che per la individuazione dei poteri di questi ultimi «deve farsi riferimento, in assenza di partico lari limitazioni o specificazioni, al mandato che riguarda un determina to rapporto e perciò deve ritenersi che detto mandato comprenda, ai sensi dell'art. 1708 c.c., non solo gli atti per i quali è stato conferito ma anche quelli necessari al suo compimento, con la conseguenza che esso attribuisce agli arbitri irrituali il potere di servirsi, nell'ambito del l'oggetto designato, di ogni mezzo giuridico idoneo a definire il rappor to cui inerisce l'arbitrato». E cosi, per l'approssimazione, la disinfor mazione e la incoerenza esibite, anche la riportata sentenza si inserisce nel filone delle pronunzie fuorviami, sempre più frequentemente rese, in materia arbitrale, dalla (I sezione civile della) corte, in progressiva, e forse ormai inarrestabile, erosione dell'esercizio della funzione nomo filattica. [C.M. Barone]

Il Foro Italiano — 1996.

deva un «arbitraggio» e l'altra un arbitrato libero, per cui l'o

perato degli arbitri avrebbero valutato alla stregua dell'art. 1349 c.c. quanto ad una polizza, e quanto all'altra sulla base dei

principi che regolano gli arbitrati irrituali, con particolare rife

rimento alle garanzie procedimentali ed al loro esperimento in

conformità del mandato.

Secondo il ricorrente, la sentenza della corte d'appello avreb be violato tanto l'art. 1349 c.c. quanto le altre norme indicate

nel motivo, avendo omesso di rilevare che la «decisione» degli arbitri era del tutto priva di quell'attività logico-valutativa de

mandata ad essi dalle polizze e che dei tre arbitri, uno non

si era affatto pronunciato. Al riguardo, la sentenza sarebbe vi ziata anche da vizi motivazionali, avendo confermato la senten za del tribunale con espressioni di merito stile.

2. - Il ricorso è fondato. Va premesso che, secondo giurispru denza di questa corte, la clausola con la quale si devolve ad

arbitri la soluzione di controversie inerenti ad un contratto, im

plica la rinuncia delle parti alla tutela in sede giurisdizionale dei diritti nascenti dal contratto stesso, con la conseguente im

proponibilità delle relative domande dinanzi agli organi della

giurisdizione, salvo che detta clausola divenga inefficace per la

sopravvenuta impossibilità di far regolare dagli arbitri il rap porto controverso, perché il mandato sia rimasto ineseguito da

gli arbitri, o perché gli stessi abbiano emesso una statuizione viziata da nullità (Cass. 15 luglio 1994, n. 6648, Foro it., Rep. 1994, voce Arbitrato, n. 98; 5 settembre 1992, n. 10240, id.,

Rep. 1992, voce cit., n. 70). Nel caso di specie la sentenza impugnata ha ritenuto che con

entrambe le clausole delle due polizze la parti «avevano dato

espresso mandato di comporre la controversia in questione ad un collegio arbitrale». Ha ritenuto, cioè, che con dette clausole fosse stata prevista la soluzione della controversia attraverso un arbitrato libero. Ha inoltre ritenuto la improponibilità della do manda proposta dall'odierno ricorrente, giacché l'arbitrato ave va avuto luogo, concludendosi con una pronuncia per lui nega tiva. (Omissis)

3. - Il compromesso, cosi come la clausola compromissoria, sono espressamente disciplinati negli art. 806 ss. c.p.c. in rela zione all'arbitrato rituale, ivi regolato. L'arbitrato libero non trova espressa disciplina nella legge, ma si fonda sull'autono mia contrattuale privata la quale consente, ex art. 1322, 2° com

ma, c.c., di concludere contratti atipici, purché diretti a realiz zare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridi co. Lo stesso va detto per la clausola compromissoria in arbitrato

libero, la quale costituisce una pattuizione autonoma, anche se connessa al contratto cui accede.

Tale contratto e detta clausola sono sottoposti, ai sensi del l'art. 1323, alle norme generali che regolano i contratti e, in

particolare, all'art. 1374 c.c., il quale prevede che questi obbli

gano le parti non solo a quanto è in essi espresso «ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge».

Ciò significa che il contenuto del contratto o della clausola

negoziale non è solo quello in essi «espresso» con la stipulazio ne, ma anche quello che consegue all'integrazione legislativa della volontà negoziale, la quale può essere cogente o suppletiva. La

prima ricorre quando la norma determina coattivamente il con tenuto del rapporto contrattuale modificandone uno o più ele menti in contrasto con la volontà espressa dalle parti. La secon da quando, avendo le parti omesso di determinare in qualche sua parte il contenuto del contratto, l'integrazione legislativa interviene per determinarla in via suppletiva.

Mentre nel caso di arbitrato rituale gli art. 816 ss. c.p.c. di

sciplinano specificamente le modalità di emanazione della deci sione arbitrale, e in particolare i requisiti del lodo e le ipotesi in cui esso è nullo, con norme in parte suppletive e in parte cogenti, nel caso di arbitrato libero, trattandosi di negozio ati

pico, nessuna disciplina espressa è rinvenibile al riguardo nella

legge.

Certamente, le parti — nel rispetto delle norme generali im

perative — possono regolare il procedimento di arbitrato e le modalità di emanazione della decisione arbitrale, sotto il profi lo formale e sostanziale, anche con riferimento ai requisiti della decisione. In questo caso, il mancato rispetto di tali regole, con trattualmente stabilite, comporterà la violazione degli obblighi degli arbitri, legati alle parti che hanno stipulato il compromes so o la clausola compromissoria da un contratto tradizional mente qualificato di mandato (Cass. 18 gennaio 1992, n. 595,

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

id., 1992,1, 1414; 27 marzo 1987, n. 3005, id., Rep. 1987, voce

cit., n. 109). Ciò comporterà, parimenti, l'eccesso dai limiti del

la procura a disporre — transattivamente o a mezzo di negozio

di accertamento — dei diritti controversi: procura conferita agli

arbitri contestualmente al mandato.

Ne deriverà — secondo i principi generali — l'inefficacia del

la decisione arbitrale, per essere stata emanata in violazione della

procura, sempre che tale violazione si risolva in una sostanziale

carenza del potere, cosi come usato dagli arbitri. Le parti, pe

raltro, nel prevedere un arbitrato irrituale, possono non avere

determinato né le modalità di emanazione della decisione arbi

trale, né i requisiti minimi che essa deve avere.

In tal caso, ove non risulti la volontà delle parti di rimettere

agli stessi arbitri la determinazione di questi elementi, dovrà

procedersi all'integrazione del contratto ex art. 1374 c.c. e, in

mancanza di norme espresse che regolano la fattispecie, l'inte

grazione del contratto — stante Yeadem ratio fra arbitrato ri

tuale e arbitrato irrituale — dovrà avvenire applicando all'arbi

trato irrituale, nelle parte compatibili con la sua struttura e na

tura, gli art. 816 ss. c.p.c. Ne deriva che il giudice di merito, ove si denunci — come

nel caso di specie — l'inesistenza della decisione arbitrale ai

fini della proponibilità dell'azione dinanzi al giudice ordinario, per la mancanza dei requisiti necessari perché il responso degli arbitri possa qualificarsi come «decisione», dovrà vagliare anzi

tutto se le parti hanno stabilito espressamente e direttamente

detti requisiti o ne abbiano rimesso la determinazione agli arbi

tri. In mancanza, dovrà stabilire se la decisione arbitrale con

tenga i requisiti stabiliti dall'art. 829 c.p.c. a pena di nullità

compatibili con la struttura e natura dell'arbitrato irrituale.

In entrambi i casi dovrà trarre le conseguenze in ordine alla

proponibilità della domanda davanti al giudice ordinario in re

lazione all'eventuale «inesistenza» del giudizio arbitrale, sotto

il profilo della sua inefficacia, ovvero della sua nullità.

La sentenza impugnata, avendo omesso di valutare tali profi

li in ordine alla proponibilità della domanda, ha violato gli art.

1362 ss. c.c., che imponevano la previa interpretazione delle

clausole arbitrali, in guisa tale da determinarne esattamente il

contenuto in riferimento ai requisiti che la decisione arbitrale

doveva avere, alla stregua dei quali andava valutato il verbale

sottoscritto dagli arbitri, nella sua motivazione e nel suo dispo

sitivo, al fine di valutarne l'efficacia preclusiva dell'azione di

nanzi al giudice ordinario.

Per tale assorbente ragione la sentenza va cassata, con rinvio

ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, che farà appli

cazione dei principi sopra indicati.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 23 gen

naio 19%, n. 498; Pres. F.E. Rossi, Est. Rordorf, P.M. Gam

bardella (conci, diff.); Tutino (Aw. Inzillo, Saccomanno)

c. Soc. Fleming (Aw. Badolati). Cassa App. Reggio Cala

bria, decr. 23 giugno 1992.

Società — Società di capitali — Denunzia di gravi irregolarità — Reclamo alla corte d'appello

— Ricorso per cassazione

— Inammissibilità (Cost., art. Ill; cod. civ., art. 2409; cod.

proc. civ., art. 737, 739). Società — Società di capitali — Denunzia di gravi irregolarità

— Reclamo alla corte d'appello — Spese del giudizio — Prin

cipio deHa soccombenza — Inapplicabilità (Cod. civ., art. 2409; cod. proc. civ., art. 91).

È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto con

cui la corte d'appello, in riforma del provvedimento del tri

II Foro Italiano — 1996.

bunale, pronuncia in ordine alla denuncia proposta ai sensi

dell'art. 2409 c.c. (1) Posto che il principio della soccombenza presuppone un contra

sto di posizioni giuridicamente rilevanti e che, nel procedi

mento ex art. 2409 c.c., il ricorrente e la società non possono

considerarsi parti contrapposte, va cassato il decreto con cui

la corte d'appello, accogliendo il reclamo della società e ri

formando il provvedimento emesso dal tribunale, condanna

il ricorrente alla rifusione delle spese processuali. (2)

(1-2) I. - Il procedimento di cui all'art. 2409 c.c. rientra nell'ambito

della giurisdizione volontaria, non essendo diretto a dirimere conflitti di interesse né ad accertare diritti, bensì' all'adozione di provvedimenti a tutela di interessi che l'ordinamento considera meritevoli (v., e*pluri

bus, App. Bologna 6 dicembre 1991, Foro it., Rep. 1994, voce Società,

n. 693; Trib. Napoli 10 febbraio 1994, ibid., n. 700; Trib. Lecce 6

maggio 1993, id., Rep. 1993, voce cit., n. 851; Trib. Napoli 23 marzo

1992, id., Rep. 1992, voce cit., n. 545; Trib. Reggio Emilia 1° settem

bre 1986, id., 1987, I, 1284). Avverso il decreto con cui il tribunale si pronunzia in via definitiva sulla denunzia di gravi irregolarità è, quindi, certamente ammissibile il reclamo alla corte d'appello ai sensi dell'art.

739 c.p.c. (v. Cass. 27 marzo 1992, n. 3799, id., 1992, I, 3010; 15

gennaio 1985, n. 60, id., 1985, I, 2693; e, più in generale, v. Chirga, Il procedimento per irregolarità della gestione sociale, Padova, 1994,

passim). Ben più controversa appare, invece, l'ammissibilità del reclamo av

verso il decreto del tribunale che, senza concludere il procedimento,

disponga l'ispezione della società (fra le voci contrarie alla reclamabili

tà immediata, v. Gatti, Il problema della soggezione a reclamo imme

diato dell'ordine di ispezione giudiziale ex art. 2409, 2° comma, c.c.,

in Giur. it., 1991, I, 2, 602; Rordorf (estensore della sentenza in epi

grafe), L'ispezione della società ex art. 2409 c.c., in Società, 1985, 591;

Alfonso, Osservazioni sulla reclamabilità del decreto di ispezione giu diziale della società per azioni, in Giur. comm., 1992, II, 260; mentre

fra le opinioni favorevoli: Pajardi, Funzioni e contenuto dell'art. 2409

c.c.: una norma aperta, in Dir. fallim., 1988, II, 446; Ferrara-Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1987, 553; ma v. anche le osser

vazioni di Bassilana, Sul problema della reclamabilità immediata del

provvedimento ex art. 2409 c.c., in Giur. comm., 1992, II, 956). La Corte di cassazione si è pronunziata per la tesi della reclamabilità

immediata (v. sent. 16 marzo 1993, n. 3127, Foro it., 1995, I, 975,

con nota di A. Barone), e ha accolto il ricorso ex art. Ill Cost, avver

so il decreto con cui la corte territoriale ha negato l'ammissibilità del

reclamo; in particolare, si chiarisce in motivazione che il ricorso alla

norma costituzionale appare in questo caso giustificato dal fatto che

il provvedimento della corte d'appello (che può considerarsi definitivo

vista la preclusione al ricorso ordinario in Cassazione prevista dall'art.

739, 3° comma, c.p.c.) costituisce una violazione del diritto dell'inte

ressato al doppio grado di giudizio (v. Spagnuolo, in Giur. comm.,

1994, II, 567 e Camilletti, id., 1995, II, 848; in senso contrario, di

recente, Cass. 6 aprile 1995, n. 4039, Foro it., Mass., 500, e Giust.

civ., 1995, I, 2399). La sentenza in epigrafe raccoglie il testimone e, pur non contestando

esplicitamente tali argomentazioni, precisa che, ove la corte d'appello non dichiari l'inammissibilità del reclamo, ma si pronunci nel merito

riformando la decisione del tribunale, il relativo decreto non può essere

equiparato ad una sentenza, essendo privo dei requisiti della decisorietà

e della definitività e che, perciò, non è impugnabile ex art. Ili, 2°

comma, Cost, (sul punto si segnala, peraltro, il consolidato orienta

mento della giurisprudenza di legittimità: Cass. 27 marzo 1992, n. 3799,

cit.; 15 gennaio 1985, n. 60, cit.; 19 febbraio 1990, n. 1226, Foro it.,

Rep. 1990, voce cit., n. 694; 5 agosto 1987, n. 6720, id., Rep. 1988,

voce cit., n. 598). II. - Strettamente connessa alla collocazione del procedimento ex art.

2409 c.c. nell'ambito della volontaria giurisdizione, appare anche la ve

xata quaestio relativa alle spese processuali (v. Vullo, Sull'ammissibili

tà della condanna alle spese nel procedimento ex art. 2409 c.c., in Giur.

it., 1994, I, 2, 259; nonché App. Milano 27 febbraio 1992, Foro it.,

Rep. 1992, voce cit., n. 582). Notevoli sono le incertezze della giurisprudenza di merito, nel valuta

re la possibile applicazione della norma di cui all'art. 91 c.p.c., che

sancisce il principio della soccombenza, anche al procedimento di de

nunzia per gravi irregolarità. Alcune decisioni, infatti, ammettono aper

tamente la condanna del soccombente alla rifusione delle spese giudi

ziali (v. Trib. Ancona 27 ottobre 1992, id., Rep. 1993, voce cit., n.

659; App. Milano 2 giugno 1992, id., Rep. 1992, voce Spese giudiziali

civili, n. 15; Trib. Cassino 22 aprile 1992, ibid., voce Società, n. 570;

Trib. Genova 30 aprile 1991, id., Rep. 1991, voce cit., n. 626), mentre

in altre si ritiene la soccombenza assolutamente incompatibile con la

natura di volontaria giurisdizione propria del procedimento in esame

(v. App. Venezia 19 dicembre 1991, id., Rep. 1993, voce cit., n. 658;

App. Napoli 29 gennaio 1988, id., Rep. 1988, voce cit., n. 588; Trib.

Napoli 15 marzo 1986, id., Rep. 1987, voce cit., n. 540).

L'odierna pronuncia (tentando un passo avanti rispetto a Cass. 16

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