sezione I civile; sentenza 29 luglio 2004, n. 14462; Pres. De Musis, Est. Plenteda, P.M.Gambardella (concl. parz. diff.); Banca popolare dell'Etruria e del Lazio (Avv. Maccarone,Allegrucci) c. Cardenà e altro (Avv. Cecconi). Conferma App. Roma 6 marzo 2001Source: Il Foro Italiano, Vol. 128, No. 5 (MAGGIO 2005), pp. 1445/1446-1449/1450Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23200616 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 29 lu
glio 2004, n. 14462; Pres. De Musis, Est. Plenteda, P.M.
Gambardella (conci, parz. diff.); Banca popolare dell'Etru
ria e del Lazio (Avv. Maccarone, Allegrucci) c. Cardenà e
altro (Avv. Cecconi). Conferma App. Roma 6 marzo 2001.
Contratti bancari — Cassette di sicurezza — Furto — Re
sponsabilità della banca (Cod. civ., art. 1225, 1337, 1375, 1839).
Non è configuratile, in caso di furto degli oggetti immessi in
una cassetta di sicurezza, una esclusione o una limitazione
dell'obbligo risarcitorio della banca, che si fondi sull'assen
za di esplicite informazioni da parte dell'utente circa l'uso
intensivo della cassetta, non essendo ascrivibili al cliente do
veri di informativa in tal senso. (1)
Svolgimento del processo. — Con atto 18 ottobre 1985 Car
denà Candido e Carlo convennero dinanzi al Tribunale di Roma
la Banca popolare dell'alto Lazio — già Banca popolare di
Amatrice — perché ne fosse accertata la colpa grave nella ge
stione del servizio di cassette di sicurezza, in relazione ad un
furto di preziosi ivi depositati, avvenuto presumibilmente il 31
ottobre 1980, e fosse condannata a risarcire i danni, oltre la mi
sura prevista dalla clausola limitativa della responsabilità ad un
milione di lire. La banca resistette invocando il caso fortuito ex art. 1839 c.c.
(1) La pronuncia delle sezioni unite 1° luglio 1994, n. 6225, Foro
it., 1994, I, 3422, con nota di Catalano, nonché la coeva sentenza
6226/94, id., Rep. 1994, voce Contratti bancari, n. 19, chiarivano come
non risulti violato il principio di cui all'art. 1225 c.c. in ordine alla pre vedibilità del danno risarcibile, considerato che, se la legge non con
sente al debitore di conoscere certe circostanze (nel caso: il contenuto
di una cassetta di sicurezza nel contratto di cui all'art. 1839 c.c.), la
prevedibilità del danno sarà determinata con riguardo a tutte le altre
circostanze conoscibili (quali, ad esempio, lo stato di agiatezza del
cliente, conosciuto dalla banca in ragione di altri rapporti con lui tratte
nuti). In dottrina si sottolinea, in particolare, che il diritto del cliente a non
rivelare informazioni circa il contenuto della cassetta non consente alla
banca un'efficiente valutazione dei rischi da inadempimento ed impli ca, in linea di fatto, l'assunzione da parte della medesima di un rischio
illimitato. La necessità di evitare una simile evenienza ha indotto gli istituti di credito ad adottare clausole che prevedano l'utilizzo della
cassetta per la custodia di cose di valore non eccedente un determinato
ammontare, facendo carico al cliente di non inserirvi beni di valore
complessivamente superiore, e che, correlativamente, neghino oltre tale
soglia la responsabilità della banca per la perdita dei beni medesimi.
L'adozione di siffatte clausole ha generato un acceso dibattito dottri
nale dal quale sono emerse due ricostruzioni antitetiche. Infatti, ci si è
chiesti se le clausole in esame integrino pattuizioni limitative dell'og
getto negoziale, in quanto dirette ad istituire un collegamento tra la
portata delle obbligazioni bancarie e l'entità del canone di abbona
mento a carico dell'utente, come tali perfettamente lecite; oppure val
gono a porre un argine alla responsabilità bancaria e siano, pertanto,
soggette ex art. 1341 c.c. al requisito della specifica approvazione per iscritto, oltre che inficiate da nullità, ai sensi dell'art. 1229 c.c., in ipo tesi di inadempimento imputabile a dolo o colpa grave.
Sul punto, cfr. Liace, Il servizio di cassetta di sicurezza e la respon sabilità illimitata della banca. Brevi riflessioni di economia del diritto, in Contratto e impr., 2004, 95; Bitetto, Cassette di sicurezza: le con
seguenze inattese della responsabilità illimitata della banca, in Danno
e resp., 2003, 1095; Siconolfi, Cassette di sicurezza, in Studium iuris,
2003, 986; Ghini, Caratteri e limiti del servizio delle cassette di sicu
rezza, in Impresa, 2002, 836; Capitelli, Le cassette di sicurezza tra ca
so fortuito, limitazioni di responsabilità bancaria e prova del danno, in
Rass. dir. civ., 2001, 198; Maccaboni, Cassette di sicurezza e respon sabilità della banca: una questione solo apparentemente risolta, in
Dano e resp., 2001, 917; Ambanelli, Cassette di sicurezza e responsa bilità delia banca, in Contratti. 2000, 389; G. Bellantuono, Cassette
di sicurezza, responsabilità della banca e asimmetrie informative, in
Foro it., 2000, I, 533; Bonetta, Corte di cassazione e titolari di cas
sette di sicurezza derubati: l'«onda» protettiva continua, in Danno e
resp., 2000, 504; Gnani, Cassette di sicurezza, segretezza, prova del
danno e prova testimoniale, in Resp. civ., 2000. 640; Patruno, Brevi
riflessioni, anche «de iure condendo», sulla responsabilità della banca
nel servizio delle cassette di sicurezza, in Giust. civ., 2000, I, 3281;
Scoditti, La responsabilità della banca nel servizio delle cassette di si
curezza, in Danno e resp., 2000, 344; Andò, La responsabilità della
banca nella gestione del servizio «cassette di sicurezza», in Mondo
bancario, 1997, fase. 6, 57.
Il Foro Italiano — 2005.
Il tribunale con sentenza 28 aprile 1998 condannò l'istituto di
credito al pagamento della somma di lire 1.111.258.000, inclusi
gli interessi al tasso annuo del 6,41 per cento sulla media del
valore capitale del risarcimento.
La banca impugnò la decisione, appellata in via incidentale
anche dai Cardenà; la Corte d'appello di Roma con sentenza 6
marzo 2001 ha accolto in parte l'appello principale, riducendo
la misura del risarcimento di lire 64.810.629, per la quale ha
condannato gli attori alla restituzione, ed ha respinto l'appello incidentale compensando per un quarto le spese processuali, nella differenza poste a carico della banca.
Per quanto ancora qui rileva, la corte territoriale ha disatteso
la doglianza avverso l'accertamento del c.t.u. circa le manche
volezze del sistema di sicurezza nella gestione del servizio,
avendo verificato la correttezza dell'indagine compiuta; ha co
munque considerato che il primo giudice aveva avuto modo di
accertare la scarsa professionalità del personale dipendente, che
aveva consentito che il furto si compisse senza nemmeno effra
zione.
Del pari ha respinto, anche perché nuovo, l'addebito mosso
dalla banca ai Cardenà di avere violato il dovere di correttezza
nell'esecuzione del contratto, secondo cui essi avrebbero dovuto
dare avviso dell'uso intensivo che come orafi avrebbero fatto
della cassetta, onde consentire alla banca di concludere il con
tratto a condizioni diverse da quelle praticate, ovvero di non
concluderlo affatto ed ha rilevato che la difesa in primo grado era stata riferita all'obbligazione di non introdurre nella cassetta
valori superiori a lire un milione. Ha, comunque, negato che
oggetto del contratto fosse l'onere di custodire il contenuto
della cassetta, essendo invece quello di custodire i locali e le
cassette e di vigilare sulla loro integrità, per cui la condotta del
cliente era irrilevante.
Ha ritenuto raggiunta la prova — così condividendo il giudi
zio del tribunale — della consistenza dei beni depositati nella
cassetta, analizzando gli specifici elementi sui quali il primo
giudice aveva fondato il proprio convincimento; e del valore di
essi, suffragato dalla c.t.u., alla quale entrambe le parti avevano
opposto censure.
Quanto alla rivalutazione monetaria ha corretto, in accogli mento della doglianza della banca, l'indice applicato del 3,44 a
quello del 3,24, con una differenza in meno rispetto a quanto stabilito dal tribunale di lire 37.622.300, ed ha utilizzato il crite rio equitativo di stima, tenuto conto della natura del debito di
valore.
Ha invece confermato la pronunzia sugli interessi legali re
spingendo la doppia censura, che era stata fondata sulla circo
stanza che la loro richiesta non fosse stata fatta in termini di lu
cro cessante, del quale era peraltro mancata la prova, e sul fatto
che fosse stato illegittimo il calcolo compiuto dal tribunale sulla
somma rivalutata.
Ha infatti giudicato irrilevante che essi debbano essere valu
tati come espressione del lucro cessante, una volta che la do
manda a riguardo era stata proposta; mentre ha ritenuto corretto
il calcolo operato dal primo giudice sulla media tra la somma
originariamente dovuta a titolo risarcitorio e quella attualizzata
per effetto degli indici Istat alla data della sentenza.
Propone ricorso per cassazione con quattro motivi la Banca
popolare dell'Etruria e del Lazio; resistono con controricorso
Candido e Carlo Cardenà.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione. — È senza pregio l'eccezione di nul
lità della notifica del ricorso, proposta dai controricorrenti sotto
il profilo che unica è stata la copia di esso consegnata al difen
sore.
La loro costituzione, con la notifica ed il deposito del contro
ricorso, ha infatti sanato il dedotto vizio con efficacia ex tunc
(Cass., sez. un., 9859/97, Foro it., 1997, I, 3137; 11174/03, id., Rep. 2003, voce Impugnazioni civili, n. 88; 2501/02, id.. Rep. 2002, voce cit., n. 70; 1952/98, id., Rep. 1998, voce cit., n. 50; 271/93, id.. Rep. 1994, voce Lavoro e previdenza (controver
sie), n. 232). Ma infondato è anche il ricorso, in tutte le sue articolazioni.
Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e
falsa applicazione degli art. 345 c.p.c., 1225, 1337 e 1375 c.c.;
nonché l'insufficiente motivazione sul punto della controversia
relativo alla violazione di controparte del dovere di correttezza
nella esecuzione del contratto, a causa delle mancate informa
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PARTE PRIMA 1448
zioni sull'uso intensivo che essi avevano fatto della cassetta di sicurezza.
Rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dall'impugnata sentenza, non era stata introdotta in grado di appello una diversa contestazione della pretesa, giacché erano rimaste identiche le
circostanze di fatto e ne era solo mutata la qualificazione giuri dica.
Precisa la banca di avere ribadito in secondo grado la richie sta di rigetto della domanda risarcitoria — o in subordine la sua
limitazione a lire un milione — semplicemente prospettando
che era mancato l'accordo aggiuntivo previsto dall'art. 16 del
contratto, in ordine alla specifica utilizzazione della cassetta,
posto che non si era contestato ai Cardenà l'inadempimento contrattuale per avere immesso valori oltre lire un milione, né si era eccepita la limitazione di responsabilità, ma si era addebi tato a controparte di avere utilizzato la cassetta «per soddisfare
stabilmente ... l'esigenza di custodia dei propri gioielli, anzi di
quelli più preziosi ed originali... in tal modo facendo illegitti mamente ricadere sulla banca un (inesistente) obbligo di garante responsabile dei valori e dei preziosi, strumentale all'esercizio della loro impresa».
In tal modo, prosegue la ricorrente, si era preclusa alla banca
qualunque iniziativa, come quella di rifiutare la conclusione o il rinnovo del contratto o di richiedere cautele assicurative, in re
lazione ad un rischio risarcitorio elevato; sicché la fattispecie rientrava nella previsione dell'art. 1225 c.c., non essendo pre vedibile un danno pari a quello liquidato.
E poiché gli attori avevano invocato con l'atto di citazione, con riferimento al citato art. 16, i principi di buona fede nella
conclusione, nell'esecuzione e nell'interpretazione del contratto e i criteri di corrispettività funzionale delle prestazioni dedotte, il motivo d'appello non aveva presentato elementi di novità ed erroneamente la corte territoriale aveva collegato il «dovere di avviso» dei cassettisti all'obbligazione di custodire della banca, senza valutare che essa se avvisata dai Cardenà, avrebbe potuto determinarsi nel modo più sopra indicato, dovendo tale «dovere di avviso» essere posto in relazione alla legittima esigenza del
l'impresa bancaria di conoscere, in una ottica di reciproca buo na fede, il proprio rischio e di cautelarsi in conseguenza, tanto
più che i clienti avevano usato la cassetta per un utilizzo profes sionale mai comunicato.
La censura sostanzialmente addebita alla corte territoriale ca renze di motivazione, in ordine alla contestata violazione del
dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto, e l'errore di valutazione di tale prospettazione in appello, ritenuta nuova e
pertanto contraria al disposto dell'art. 345 c.p.c. Va osservato, a riguardo, che la sentenza impugnata ha rile
vato che con le difese di primo grado la banca, a fronte della domanda risarcitoria dei Cardenà, aveva opposto la violazione da parte loro dell'obbligazione di non introdurre valori superiori al milione di lire nella cassetta di sicurezza; salvo in appello a dedurre la violazione dei doveri di correttezza nell'esecuzione del contratto, in particolare del dovere d'informazione della loro
qualità di orafi e dell'uso intensivo che avrebbero fatto della
cassetta, tanto da impedire alla banca ogni opportuna valutazio ne in ordine alla stipula o meno del contratto, ovvero in ordine alle sue condizioni.
Ha, comunque, aggiunto che anche in appello l'odierna ricor rente era incorsa nell'errore di ritenere che oggetto del contratto fosse l'onere di custodire il contenuto delle cassette e non già i locali in cui erano collocate e ad un tempo di vigilare sulla loro
integrità; ragione questa che aveva finito per rendere superflua ogni discussione in ordine alla differenziazione dell'onere di
custodire e vigilare il contenuto della cassetta. E su tale considerazione è pervenuta al rigetto dell'impugna
zione, sul punto. La decisione merita di essere condivisa.
Quanto al profilo di ordine processuale, al di là delle ragioni prospettate dalla ricorrente, giova a disattendere l'assunto della corte territoriale — secondo cui la tesi della banca in grado di
appello non avrebbe potuto trovare ingresso per il divieto dello ius novorum di cui all'art. 345 c.p.c.
— la circostanza che, trat tandosi di eccezione, e non di domanda, volta, come era, a pa ralizzare la pretesa attrice, la sua novità, comunque, non ne im
pediva la deduzione, alla stregua del testo anteriforma, che trova
applicazione alla fattispecie, trattandosi di giudizio introdotto sotto quella disciplina.
Il Foro Italiano — 2005.
Tuttavia, come la sentenza impugnata rileva, non essendo ri feribile l'onere della custodia a carico dell'istituto di credito al contenuto della cassetta, ma ai locali, su di essi e sulla integrità delle cassette riversandosi il dovere di vigilanza dell'obbligato, nessun rilievo assume l'entità degli oggetti in esse immessi e
conseguentemente non può quell'obbligo essere differenziato e
graduato in relazione al loro' contenuto, permanendo invece il dovere di custodire, a prescindere dall'intensità di uso del servi zio (Cass. 4946/01, id., Rep. 2001, voce Contratti bancari, n.
58; 750/97, id., Rep. 1997, voce cit., n. 18; 8820/95, ibid., n. 19; 2067/95, id., Rep. 1995, voce cit., n. 30; 1339/95, ibid., n. 32) e non essendo ascrivibili al cliente, in sede di esecuzione del con
tratto, obblighi diversi da quelli volti al rispetto delle clausole
negoziali, di cui nessuna violazione è stata lamentata, né essen do ipotizzabili violazioni della clausola generale di buona fede, una volta che il contraente ha fatto uso delle naturali potenzia lità del contratto, cui era estraneo —
proprio in riferimento al
l'obbligo di vigilanza della banca, nei termini suindicati, e alla specifica natura del contratto —
qualunque dovere d'informati
va da parte del cliente, in ordine ai beni immessi e al loro valo
re.
Né la prospettazione di violazione del dovere di buona fede, in relazione a tale obbligo, riferita alla fase di formazione del
negozio, può avere miglior sorte.
Avuto, infatti, riguardo alla predetta natura giuridica del ne
gozio; alla sua funzione tipica, da un lato diretta ad ottenere e dall'altro a mettere a disposizione una complessa struttura mate
riale, tecnica ed organizzativa, che realizzi condizioni di sicu
rezza, superiori a quelle raggiungibili dal cliente nella sua sfera
privata (Cass. 1129/76, id., 1976, I, 1531), la quale incide sulla entità e sulla ampiezza delle obbligazioni assunte dalla banca; alla responsabilità di essa, che trova limite esclusivo nel fortui
to, che, per essere esimente, deve essere imprevedibile e inevi
tabile, contrariamente a quanto nella specie si è verificato —
preminente funzione delle cassette di sicurezza essendo proprio quella di prevenire il furto — tanto più se si tiene conto delle manchevolezze accertate nella gestione del servizio; alla ricono sciuta illegittimità, ai sensi dell'art. 1229 c.c., delle clausole li mitative della responsabilità ad un determinato valore dei beni da custodire (Cass., sez. un., 6225/94, id., 1994, I, 3422), gli elementi, di cui la ricorrente invoca il diritto all'informazione, in riferimento alla sua facoltà di determinarsi liberamente, verso la conclusione o meno del contratto, e in ordine al suo contenu
to, avrebbero dovuto, con l'uso dell'ordinaria diligenza, essere
direttamente assunti o richiesti alla parte interessata e non og getto di una pretesa nei confronti del cliente; giacché i doveri di correttezza e buona fede nella fase di formazione del contratto non concernono la convenienza per l'uno o per l'altro dei sog getti, essa rientrando nell'alea ordinaria della contrattazione —
sempreché la valutazione errata non sia frutto del dolo di con
troparte, posto in essere attraverso una sua specifica condotta —
ma solo le circostanze che lo rendono invalido o inefficace (art. 1338 c.c.).
Ne consegue l'erroneità del richiamo dell'art. 1225 c.c. Del pari erroneo è il richiamo della sent. 17947/02 (non mas
simata) di questa corte, portata a sostegno della tesi dell'uso ra
gionevole della cassetta, posto che quella decisione, pur avendo
riguardato la stessa fattispecie e la medesima banca, ha avuto ad
oggetto la misura del risarcimento e non l'obbligo risarcitorio, in relazione ad una liquidazione che ha tenuto conto delle speci fiche circostanze di fatto, non utilizzabili oltre l'area di quel contenzioso.
Inammissibile è il secondo motivo, con cui si deducono l'er ronea e la falsa applicazione degli art. 2697 c.c. e 116 c.p.c. e la
insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto della deci
sione, relativo alla valutazione delle prove circa l'entità e il va lore dei beni depositati.
Addebita la ricorrente alla corte territoriale di non avere ade
guatamente considerato il ritardo di quaranta giorni nella de nuncia del furto, rispetto alla data in cui era avvenuto, tanto più che il tribunale aveva apprezzato come elemento indiziario il fatto che la denunzia era stata presentata nell'immediatezza del
l'evento; di avere utilmente apprezzato le testimonianze che avevano riferito che i Cardenà avevano depositato tutti i loro
gioielli qualche giorno prima della festa di Ognissanti, in quanto preoccupati del maggior rischio di furto nel loro negozio in un
periodo sequenziale di festività — che in realtà era stato un pe riodo normale di sabato e domenica — mentre nessuna prova
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
era stata dedotta che i Carderia avessero osservato la chiusura,
anziché il sabato, il lunedì successivo, giorno di chiusura degli
esercizi degli artigiani; al di là di altre incongruenze emerse
nella escussione dei testimoni, che avevano impedito agli indizi
di assumere i caratteri della gravità, precisione e concordanza.
Quanto alla stima tecnica, ha rilevato la contraddittorietà
della valutazione, da un lato fondata sulla c.t.u. e dall'altro
compiuta in via equitativa, sebbene in difetto di acquisizioni
probatorie certe, dal momento che era stata eseguita su docu
menti forniti dalla parte e privi di data certa.
La corte di merito aveva peraltro mancato di esaminare l'ec
cezione d'inattendibilità delle valutazioni del c.t.u., riferite al
laboratorio artigiano dei Cardenà e derivate da un accesso ese
guito tredici anni dopo il furto; come pure aveva mancato di te
ner conto della condotta processuale degli attori, che avevano
richiesto con la citazione la somma di lire 540.000.000, ridotta
in sede di precisazione delle conclusioni a lire 233.000.000, pur
dichiarando di avere essi stessi compilato i cartellini e il registro
delle merci e quindi di essere stati in grado di quantificare con
precisione il valore dei beni.
Le censure mosse alla sentenza e le osservazioni ai criteri di
quantificazione della misura del risarcimento mirano in realtà ad
un riesame delle risultanze probatorie, inammissibile in sede di
legittimità, diretto com'è a conseguire risultati diversi da quelli della decisione impugnata, la quale ha analiticamente conside
rato, svalutandole, le critiche al primo giudice, in ordine al ri
tardo nella descrizione dei preziosi e alle festività che avevano
giustificato il loro deposito nella cassetta; ed ha, soprattutto, po
sitivamente apprezzato, dandone rilievo e congrua motivazione
sul piano logico, i dati risultanti dalla prova testimoniale, dalle
diapositive e dai registri di carico dei preziosi, giudicati utili al
raggiungimento della prova della consistenza dei preziosi di
chiarati come rubati, pacifica essendo la possibilità che il conte
nuto della cassetta, nel momento dell'avvenuta lesione della sua
integrità, sia dimostrato attraverso le normali presunzioni e che
l'entità del danno sia stimata dal giudice con valutazione equi
tativa (Cass. 3000/82, id., Rep. 1982, voce cit., n. 13). Il terzo motivo è infondato.
Denunzia la ricorrente la violazione e la falsa applicazione
degli art. 1223, 1226, 2697 c.c. e l'insufficiente e contradditto
ria motivazione sui capi relativi alla rivalutazione monetaria e al
danno da lucro cessante, rispettivamente quantificati in via
equitativa, secondo gli indici Istat (cento per cento) e con il ren
dimento medio dei titoli di Stato e dei depositi vincolati a ter
mine, poi riportati al tasso degli interessi legali, e non secondo
indici di rivalutazione scelti ad hoc.
Rileva che la liquidazione del danno ex art. 1226 c.c. suppone che sia stata provata l'esistenza del danno e che sia impossibile la prova del suo preciso ammontare, impossibilità nella specie
rimasta indimostrata, giacché, al contrario, era risultato possi
bile provare il valore attualizzato degli oggetti rubati.
In ogni caso erronee sarebbero l'applicazione dell'indice di
rivalutazione pari al cento per cento dell'indice Istat, in quanto la corte d'appello avrebbe dovuto attualizzare le singole com
ponenti del valore originario dei gioielli, applicando i relativi
coefficienti di rivalutazione, tenuto conto del modesto incre
mento nel tempo dell'oro, come documentato in appello, e di
sponendo per le pietre preziose la consulenza tecnica come da
richiesta di essa banca — su cui la corte non si era pronunciata — in luogo di utilizzare l'indice del costo della vita.
Alla rivalutazione operata muove altresì la ricorrente l'adde
bito della mancanza di motivazione, essendosi la corte di merito
limitata ad affermare che fosse «condivisibile l'iter argomenta tivo del tribunale», che nulla aveva a riguardo specificato.
Quanto al lucro cessante ha rilevato che la risarcibilità in via
cumulativa con la aestimatio e la taxatio è subordinata alla pro
va della sua sussistenza, che era mancata, irrilevante essendo la
circostanza che Candido Cardenà avesse corrisposto tra il 1989
e il 1998 tassi passivi alla stessa banca ricorrente, dal momento
che tale finanziamento non è prova del presunto maggior danno
subito dall'impresa degli attori, in difetto di collegamento tra
essa e l'attività di uno di loro.
Contesta in ogni caso la ricorrente la possibilità di far ricorso
alla liquidazione equitativa, mancando la prova della sua precisa
entità o dell'impossibilità di fornirla; e a riguardo la decisione
impugnata sarebbe illegittima, perché priva di motivazione e
perché la valutazione non aveva utilizzato presunzioni persona
li. Foro Italiano — 2005.
lizzate, che avevano cioè tenuto conto delle condizioni e qualità
personali del Cardenà; e perché, infine, aveva omesso di dare
conto delle censure mosse dalla banca alla sentenza di primo
grado, che aveva supplito d'ufficio alle carenze di prova sul
punto, così violando ancora l'art. 2697 c.c.
Quanto al primo profilo, che attiene alla liquidazione equita tiva ex art. 1226 c.c., la deduzione sulla prova del danno e della
sua misura è assorbita da quanto rilevato in merito al motivo
che precede. Senza fondamento è, invece, la doglianza in ordine all'indice
di rivalutazione.
La corte territoriale ha ritenuto impossibile procedere alla di
stinta rivalutazione o attualizzazione, in riferimento all'oro e
alle pietre preziose, in considerazione delle ragioni che avevano
giustificato la stima di valore dei gioielli con criteri equitativi, considerato che essa era avvenuta su documenti, cartellini e dia
positive, che rendevano affidabile la valutazione del consulente
di ufficio, pur restando priva di riscontri precisi. Le valutazioni di segno contrario della ricorrente, che pro
pongono criteri rivalutativi diversificati e ne sostengono l'appli
cabilità, impingono nel fatto e sono pertanto inammissibili,
mentre è infondata la censura incentrata sul vizio di motivazio
ne, avendo la corte di merito adeguatamente esplicitato le ragio
ni del suo convincimento.
Quanto al lucro cessante, la possibilità che con la rivalutazio
ne siano cumulati gli interessi, la prima giovando a reintegrare il
patrimonio del danneggiato del danno emergente e gli altri co
stituendo il corrispettivo del mancato godimento dell'equiva
lente pecuniario del bene perduto, non può essere messa in di
scussione, con la deduzione che sia mancata la prova della sus
sistenza del danno da lucro cessante.
A riguardo la corte territoriale, dopo aver disatteso il motivo
d'appello, secondo cui i primi giudici non avevano considerato
che la richiesta degli interessi legali dei Cardenà non era stata
formulata a titolo di lucro cessante, ed aver osservato che co
munque la domanda sul punto vi era stata, ha implicitamente
ritenuto provata per presunzioni l'esistenza di tale mancato lu
cro, una volta che aveva fatto riferimento agli investimenti im
prenditoriali dei Cardenà ed ha, richiamando la sentenza
1712/95 di questa corte a sezioni unite (id., 1995, I, 1470) ed altre successive, che la prova del pregiudizio del mancato go
dimento del bene o del suo equivalente in denaro hanno affer
mato essere possibile con tutti i mezzi, anche presuntivi, rite
nuto che quel fatto costitutivo del petitum fosse stato non solo
allegato, ma anche provato e fosse stato correttamente liquidato
dal tribunale, alla luce della richiamata giurisprudenza, allorché
ha calcolato tali interessi sulla media tra la somma originaria
mente dovuta a titolo risarcitorio e quella attualizzata per ef
fetto degli indici Istat alla data della sentenza.
Inammissibile è, infine, il quarto motivo.
Con esso sono dedotte la violazione e la falsa applicazione
degli art. 91 e 92 c.p.c., oltre alla contraddittoria motivazione
sul punto della compensazione delle spese processuali, priva di
logica motivazione.
Tale motivazione si era infatti fondata sulla parziale reciproca
soccombenza, in relazione alla conferma di gran parte della
sentenza appellata. Osserva, invece, la ricorrente che i Cardenà erano stati total
mente soccombenti sull'appello incidentale, mentre la banca era
risultata parzialmente vittoriosa, tanto che controparte era stata
condannata al rimborso di lire 64.810.629 oltre interessi.
La corte di merito ha fondato sulla reciproca soccombenza la
statuizione sulle spese, avendo respinto l'appello incidentale dei
Cardenà e parzialmente — in parte minima — accolto quello
principale della banca.
Ciò posto, la decisione non è sindacabile in sede di legittimi tà, dal momento che si conforma al principio di soccombenza di
cui all'art. 91 c.p.c., il quale stabilisce solo il divieto di porre, anche parzialmente, le spese processuali a carico della parte
vittoriosa, mentre, nel caso di soccombenza reciproca, esula dal
sindacato di legittimità e rientra nei poteri del giudice del merito
la valutazione dell'opportunità o meno di disporre la compensa
zione e della sua misura, nonché di decidere quale delle parti
debba essere condannata, senza nemmeno il dovere di tenere
conto del rapporto di proporzionalità tra la rispettiva soccom
benza, della quale, peraltro, l'impugnata sentenza si è perfino
fatta carico.
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