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Sezione I civile; sentenza 29 novembre 1983, n. 7151; Pres. Sandulli, Est. Rocchi, P. M. Grossi...

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Sezione I civile; sentenza 29 novembre 1983, n. 7151; Pres. Sandulli, Est. Rocchi, P. M. Grossi (concl. conf.); Fasolino (Avv. Petretti) c. Comune di Colleferro. Conferma App. Roma 25 febbraio 1980 Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1984), pp. 1909/1910-1915/1916 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23177225 . Accessed: 24/06/2014 22:03 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.77.128 on Tue, 24 Jun 2014 22:03:41 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione I civile; sentenza 29 novembre 1983, n. 7151; Pres. Sandulli, Est. Rocchi, P. M. Grossi(concl. conf.); Fasolino (Avv. Petretti) c. Comune di Colleferro. Conferma App. Roma 25febbraio 1980Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1984), pp. 1909/1910-1915/1916Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177225 .

Accessed: 24/06/2014 22:03

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

si risolve in una mera omissione emendabile con la procedu ra prevista dall'art. 288 c.p.c. (1)

Svolgimento del processo. — Con ricorso in data 11 ottobre

1976, Sansone Anna Maria e le altre lavoratrici indicate in

epigrafe convenivano in giudizio davanti al Piretore di Cosenza, in funzione di giudice del lavoro, la Standa s.p.a. chiedendo il riconoscimento del diritto ad essere inquadrate nella categoria B/3 a far tempo dal novembre 1972 e nel 3° livello a far tempo dal 1° luglio 1973, con la condanna della convenuta a pagare alle ricorrenti quanto dovuto in virtù di detto inquadramento, con

interesse e maggior danno.

Costituitosi il contraddittorio, la società resisteva alla domanda e ne chiedeva il rigetto.

Espletata l'istruttoria ammessa, il pretore adito accoglieva la

domanda e per l'effetto condannava da Standa « ad inquadrare le

ricorrenti nella categoria B » a far tempo dal novembre 1972 e

nel 3° livello dal luglio 1973, nonché al pagamento delle somme

relative alla differenza retributiva a partire dal novembre 1972

sulle quali saranno calcolati interessi legali e danno da svaluta zione.

Proponeva appello la Standa, in persona del responsabile degli affari legali; resistevano la Sansone e le altre lavoratrici appellate, le quali eccepivano, in via preliminare, l'inammissibilità dell'ap pello perché (proposto dal responsabile degli affari legali della

Stanida, privo di potere rappresentativo ed ancora la inammissibi lità dell'appello per intervenuta acquiescenza.

Con la sentenza impugnata, il tribunale dichiarava l'ìmproponi bilità dall'appello per intervenuta acquiescenza alla sentenza del

pretore, tale acquiescenza desumendo dal fatto che la sooietà Standa, sia pure sollecitata con diffide e precetti, rnon solo aveva

provveduto a quantizzare e liquidare le differenze retributive

(peraltro, neppure quantizzate nella sentenza impugnata e, pertan to, richiedenti altro autonomo giudizio) ma aveva riconosciuto anche la nuova qualifica attribuendola alle ricorrenti, come risul tava dai fogli paga allegati al fascicolo delle appellate, provve dendo infine anche a liquidare l'onorario al procuratore.

Ricorre, per cassazione, la Standa sp.a.; resistono, con contro

(1) L'affermazione riassunta in massima contraddice in maniera evidente le precedenti enunciazioni di sez. un. 9 marzo 1981, n. 1297, Foro it., 1981, I, 639, con osservazioni di C. M. Barone.

Pur non potendo disconoscersi (per le ragioni esposte nelle osserva zioni cit., condivise da Guarnieri, Sulla lettura del dispositivo in udienza, in Riv. dir. proc., 1983, 481 ss., spec. 509 testo e nota 220) l'esattezza della soluzione ora attinta dalla corte, deve tuttavia sottoli nearsi la disinformazione che contraddistingue la riportata sentenza. La sezione lavoro richiama, invero, due non recenti pronunzie (9 settem bre 1970, n. 1374, id., Rep. 1970, voce Sentenza civ., n. 23 e 17 luglio 1974, n. 2140, id., 1975, I, 648) ma non fa parola della successiva Cass. 22 febbraio 1978, n. 879, id., 1978, I, 850, che ha disatteso tanto la sent, del 1970 quanto quella del 1974 dimostrando la inattendibilità dell'una e dell'altra, e, quel che è più grave, ignora completamente lo specifico precedente contrario costituito dalla ricorda ta sez. un. n. 1297 del 1981. E, poiché la motivazione del rigetto della eccezione di inesistenza della impugnata sentenza, sollevata nella specie dalla società ricorrente, verosimilmente, proprio alla stregua della pronunzia del 1981, non autorizza in alcun modo a ritenerne superate le acquisizioni a causa della rilevata mancata considerazione e con seguente omessa confutazione della divergente impostazione delle sezioni unite, il contrasto con i risultati raggiunti da queste ultime originato dalla sentenza in esame appare a dir poco singolare.

Se e fino a quando sulla questione non torneranno nuovamente le sezioni unite, nelle controversie di lavoro, alla mancata sottoscrizione della sentenza di appello, da parte del presidente del collegio giudican te che ha dato lettura del dispositivo in udienza, potranno essere ricollegati effetti antitetici (nullità assoluta ed insanabile della pronun zia ovvero mera omissione eliminabile con la procedura dell'art. 288 c.p.c.) a seconda delle cognizioni e, forse, delle aprioristiche preferenze dei componenti dei collegi chiamati a pronunciarsi sull'argomento. E la situazione, è inutile dirlo, può verificarsi (cosi come è già accaduto stando alle molteplici segnalazioni delle note pubblicate su questa rivisla) in giudizi vertenti sui temi più disparati, con implicazioni ben più gravi di quelle della statuizione della riportata sentenza, per fortuna rivelatasi ininfluente sull'esito della causa.

La disinformazione che, malgrado la presenza di elaboratori elettronici nelle cancellerie delle singole sezioni della corte, sempre più spesso caratterizza le pronunzie di alcune di esse ha radici complesse sulle quali non è il caso di soffermarsi in questa sede. È certo, però, che una più attiva partecipazione dei presidenti dei collegi giudicanti alla fase decisoria e una più attenta lettura ad opera dei medesimi presidenti delle minute delle sentenze consentirebbero di ridurne, se non di eliminarne, le lacune, le approssimazioni, e gli errori, per lo più ascri vibili agli estensori, che offendono in egual misura gli interessi delle

parti e la credibilità della giustizia.

C. M. Barone

ri-corso, la Sansone e le altre lavoratrici in epigrafe indicate, le

quali hanno proposto ricorso incidentale condizionato.

Motivi della decisione. — (Omissis). Sempre preliminarmente,

poi, deve essere esaminata l'eccezione di inesistenza della sentenza

impugnata, sollevata in memoria dalla Standa, per mancanza

della sottoscrizione del presidente del collegio giudicante in calce

alila sentenza medesima.

L'eccezione non è fondata. Come questa Corte suprema ha

ripetutamente affermato (sent. 17 luglio 1974, n. 2140, Foro it.,

1975, I, 648; 9 settembre 1970, n. 1374, id., Rep. 1970, voce

Sentenza civ., in. 23) la nullità assoluta ed Insanabile della

sentenza per difetto di sottoscrizione del giudice (art. 161, 2°

comma, e 132, n. 5, c.p.c.) ricorre soltanto allorché l'omessa

sottoscrizione denoti mancanza di uno dei requisiti essenziali nel

processo formativo della deliberazione.

Quando, invece, il difetto di sottoscrizione non significhi assen za di partecipazione del giudice alila decisione, e dipenda sola mente da mera omissione materiale, la sentenza è conforme alla volontà del giudice, cosi' come risulta espressa nella deliberazione, e in tal caso essa manca solo di un elemento puramente esteriore di conferma della deliberazione stessa, costituito dalla sottoscri

zione, e a tale deficienza si può sopperire col procedimento di correzione ex art. 2S8 cjpjc.

E, nel caso di specie, non può dubitarsi che trattasi di mera omissione materiale, poiché, attesa la struttura del processo del lavoro che prevede la lettura del dispositivo in udienza (art. 437 nuovo testo c.pjc.), è documentalmente provato che alla delibera zione della sentenza impugnata parteciparono tutti i componenti del collegio, compreso il presidente, sicché la mancanza della sua firma in calce alla sentenza depositata, nella sua forma completa costituita da dispositivo a motivazione, non può costituire che una mera omissione materiale, peraltro non deducibile come motivo di cassazione (Cass. 29 dicembre 1967, n. 3025, id., 1968, I, 998, in motivazione). (Omissis)

C. M. Barone

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 29 no vembre 1983, n. 7151; Pres. Sandulli, Est. Rocchi, P. M. Gros si (conci, conf.); Fasolino (Avv. Petretti) c. Comune di Col

leferro. Conferma App. Roma 25 febbraio 1980.

Contratti della pubblica amministrazione — Simulazione —

Configurabili!;; — Fattispecie (Cod. civ., art. 1414).

È configurabile la simulazione nei contratti di appalto di opere pubbliche (nella specie, per godere del contributo dello Stato e

delle agevolazioni fiscali previste dalla l. 3 agosto 1949 n. 589, recante provvedimenti per agevolare l'esecuzione di opere

pubbliche di interesse degli enti locali, a seguito di licitazione

privata era stato stipulato contratto di appalto per la costruzio

ne di un mattatoio comunale, mentre in realtà si doveva solo

provvedere alla modifica ed ampliamento di quello già esisten

te). (1)

(1) La possibilità della simulazione di un contratto in cui è parte la

p.a. è stata ammessa, di recente, da Cass. 22 novembre 1978, n. 5444, Foro it., Rep. 1978, voce Contratti della p.a., n. 11 (nella specie, per l'esattezza, è stata ritenuta applicabile la disciplina civilistica per risol vere il problema dell'interpretazione dell'atto come vera e propria com

pravendita, in conformità alla sua apparenza, o come donazione dissimu lata da un apparente trasferimento a titolo oneroso). Ferrara, Della simulazione dei negozi giuridici, Roma, 1922, 92, nota 3, riferisce, però, che già la Cassazione di Torino, negli anni seguenti l'unificazio

ne, ebbe a dichiarare la simulazione di un contratto stipulato dal comune di Mondovì, che era ricorso a tale espediente per usufruire, anche allora, di benefici fiscali.

La configurabilità della simulazione sembra, invece, da escludersi se si bada al tenore di alcune massime, secondo cui nell'interpretazio ne dei contratti in cui è intervenuta la p.a. si deve stare a ciò che in

essi è detto e non si deve indagare quale possa essere la presumibile volontà delle parti, in contrasto col senso letterale della convenzione

(Cass. 8 gennaio 1968, n. 35, Foro it., Rep. 1968, voce Amministrazio ne dello Stato, n. 211; 18 maggio 1960, n. 1255, id., Rep. 1960, voce

cit., n. Ili; 28 gennaio 1960, n. 101, id., 1961, I, 382) ovvero che

prescrivono di interpretare tali contratti in coerenza con le norme che

disciplinano il processo di formazione della volontà dell'ente pubblico (Cass. 21 luglio 1960, n. 2071, id., Rep. 1960, voce Atto amministrati

vo, n. 81, in motivazione); nel senso però che nell'interpretazione del contratto va ricercata la comune intenzione dei contraenti, anche al di là del senso letterale delle parole usate, v. Cons. Stato, sez. IV, 17 marzo 1981, n. 252, id., Rep. 1981, voce Contratto della p.a., n. 65.

In dottrina, nel senso della configurabilità della simulazione, v.

Sacco (e De Nova), Obbligazioni e contratti, 10, in Trattato di dir.

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1911 PARTE PRIMA 1912

Svolgimento del processo. — Con contratto in forma pubblica amministrativa dei 24 gennaio 1972, il comune «di Colteferro

affidava al costruttore edile Crescenzio Fasolino, a seguito di

licitazione privata, ila costruzione del mattatoio comunale, per il

prezzo di lire 33.501.215, al netto del ribasso d'asta. Nell'atto era

precisato che l'opera usufruiva del contributo dello Stato e delle

agevolazioni fiscali, previsti, l'uno e te altre, dalla 1. 3 agosto 1949

n. 589, recante provvedimenti per agevolare l'esecuzione di opere

pubbliche di interesse degli enti locali.

Con citazione del 5 novembre 1973 il Fasolino, assumendo che

soltanto dopo la stipulazione dal contratto aveva constatato che il

costruendo mattatoio in realtà già esisteva e che il comune aveva

priv., diretto da Rescigno, Torino, 1982, II, 196; in particolare il

problema è stato affrontato da Di staso, La simulazione nei negozi

giuridici, Torino, 1960, 252, il quale, se esclude la simulazione negli atti che i pubblici funzionari compiono nell'esercizio di una funzione sovrana e protetti dalle garanzie costituzionali, la ritiene possibile, in

via di principio, nei negozi di diritto privato conclusi nell'esercizio di una gestione patrimoniale; in senso conforme v., anche, Ferrara, op. cit., 91 ss.

In ordine al diverso problema della simulazione dell'atto amministra

tivo, bisogna rilevare che la decisione citata in motivazione, Cons,

giust. amm. sic. 29 ottobre 1976, n. 287, Foro it., Rep. 1977, voce Atto amministrativo, n. 20, ne ammette la configurabilità, sia pure con un ambito di operatività ben più ristretto che nel campo privatistico, ma nega che la volontà dissimulata possa costituire valida volontà

dell'organo amministrativo e sottolinea, anzi, che la simulazione può « assumere rilevanza soltanto allorché si concreti in un difetto della

causa, dando luogo al vizio di eccesso di potere ».

Sul punto bisogna segnalare la posizione di Alessi, Sistema istitu

zionale del diritto amministrativo italiano, Milano, 1953, 296, per il

quale la volontà psicologica del funzionario preposto all'ufficio dell'en

te pubblico diventa giuridica volontà dell'ente soltanto se espressa con

quei minimo di riconoscibilità quale esplicazione delle funzioni affidate

al funzionario. Per contro, tutto ciò che resta mero fenomeno psicolo gico interno al funzionamento non può essere riferito all'ente. Escluso,

perciò, ogni rilievo alla riserva mentale, ritiene che la simulazione dell'atto amministrativo, per la divergenza tra volontà reale e volontà

manifestata, invalida il provvedimento simulato, senza che ne consegua,

per quanto innanzi detto, la validità del provvedimento dissimulato. Nella specifica materia dei contratti degli enti pubblici, è pur vero

che la fase della negoziazione e della stipulazione del contratto è

caratterizzata dall'« incontrastato dominio del diritto comune, in rela

zione alla manifestazione di volontà dell'organo che rappresenta la p.a. ed alla accettazione della controparte », come sostenuto nella sentenza

in epigrafe; però, l'assoluta indipendenza degli atti riguardanti la

formazione delle volontà negoziale da quelli del correlativo procedi mento amministrativo concerne solo il profilo della validità degli stessi e

non sussiste, invece, per quanto attiene alla loro efficacia, dal momento

che gli atti del procedimento amministrativo, presentandosi come fatti

di legittimazione o come fatti permissivi o impeditivi, si atteggiano come presupposti del contratto e ne condizionano l'efficacia (Cass. 5

aprile 1976, n. 1197, Foro it., Rep. 1977, voce Contratti della p.a., n.

13). Piti precisamente, gli atti amministrativi, che debbono precedere la

stipulazione dei contratti della p.a., sono considerati mezzi di integra zione della volontà e della capacità dell'ente pubblico e la loro

mancanza comporta, di regola, nei rapporti tra i contraenti, l'annullabi

lità, deducibile soltanto dalla p.a. alla cui tutela quei mezzi sono

preordinati (Cass. 21 aprile 1983, n. 2741, id., Mass., 579; 5 febbraio

1982, n. 671, id., Rep. 1982, voce cit., n. 10; 2 marzo 1978, n. 1041,

id., Rep. 1978, voce cit., n. 44; 9 luglio 1977, n. 3067, id., Rep. 1977, voce cit., n. 74; 11 marzo 1976, n. 855, id., Rep. 1976, voce cit., n. 18; 22 maggio 1973, n. 1493, id., 1974, I, 193).

Bisogna tener presente, inoltre, che l'organo che rappresenta la p.a. nella fase della stipulazione è vincolato alla volontà cosi come manifestata nella deliberazione di contrattare, nella quale la giurispru denza individua il corrispondente di quello che nei rapporti privati è il processo interiore di formazione della volontà (cfr. Cass. 23 ottobre

1971, n. 2992, id., Rep. 1971, voce cit., n. 13; 4 giugno 1966, n. 1614, id., Rep. 1967, voce Amministrazione dello Stato, n. 102; 28 aprile

1965, n. 752, id., Rep. 1965, voce cit., n. 76; 7 luglio 1964, n. 1773,

id., 1965, I, 118, in motivazione); ne consegue, perciò, che la

manifestazione definitiva della volontà di contrattare deve risultare necessariamente dall'apposito procedimento amministrativo (Cass. 6

aprile 1966, n. 905, id., Rep. 1966, voce cit., n. Ili; per la necessità della preventiva deliberazione dell'organo competente in ordine al

contenuto v., anche, Cass. 13 ottobre 1973, n. 2585, id., Rep. 1973, voce Contratti della p.a., n. 9; 10 ottobre 1973, n. 2542, ibid., voce

Comune, n. 94; 27 giugno 1972, n. 2199, id., Rep. 1972, voce Contratti della p.a., n. 7; 8 febbraio 1972, n. 329, id., Rep. 1973, voce Comune, n.

94 a). Occorre indagare, quindi, quali siano le possibili varianti determina

te dal verificarsi della simulazione all'interno del procedimento che

porta alla stipulazione del contratto dell'ente pubblico ed in che misura i requisiti di sostanza e di forma, richiesti per la validità del contratto della p.a., incidano sulla validità ed efficacia del contratto

dissimulato, che, ai sensi del 2° comma dell'art. 1414 c.c., va verificata secondo le regole generali (cfr., sul punto, Bianca, Diritto civile, Milano, 1984, III, 665; Petti, La simulazione e l'invalidità del

contratto, in Commentario teorico-pratico al c.c. diretto da V. De

inteso affidargli non la costruzione dell'opera ma la sua modifica

e il suo ampliamento; e ohe il lavoro appaltatogli in contratto

era, quindi, materialmen te ineseguibile, conveniva in giudizio il

comune di Colleferro dinanzi ai Tribunale di Velletri, chiedendo

in via principale, la risoluzione del contratto per colpa del

committente, con conseguente sua condanna al rimborso delle

spese ed al risarcimento dei danni; e, in via subordinata, la

declaratoria di nullità del contratto medesimo, per mancanza

dell'oggetto, anche in tal caso con condanna del comune al

rimborso delle spese e al risarcimento dei danni.

Nel costituirsi, il comune riconosceva che il contratto era stato

fittiziamente stipulato per opera diversa da quella che l'appaltato

Martino, Roma-Novara, 1984, 52; Messineo, II contratto in genere,

II, in Trattato di dir. civ. e comm. fondato da Cicu e Messineo,

Milano, 1972, 483). Le varianti in astratto ipotizzabili sono tre. Sembra, però, da

escludere che in concreto la volontà di stipulare un contratto simulato

possa essere espressa negli atti amministrativi che precedono la

stipulazione, quanto meno perché ne verrebbe inevitabilmente frustrato

quello che è lo scopo principale dell'intesa simulatoria: mantenere

segreto il reale contenuto del contratto, a prescindere da altre ragioni di convenienza e di opportunità, su cui non è il caso di soffermarsi.

Rimangono, perciò, le altre due ipotesi: (a) che siano simulati anche

gli atti amministrativi che precedono la simulazione, ovvero (6) che

non lo siano. In ogni caso il contratto simulato non produrrà effetto tra le parti,

secondo le regole generali. Infatti, l'intesa simulatoria intervenuta al

momento della stipulazione, altera il negozio ostensibile e ne frustra

gli effetti anche quando il suo contenuto sia conforme a quanto deliberato nella competente sede amministrativa.

Quando si tratti di simulazione relativa, il contratto dissimulato

potrà ritenersi valido ed efficace solo ove, per avventura, sia stato

espressamente autorizzato dall'organo deliberante dell'ente.

Nella ipotesi sub a, il contenuto del contratto sarà conforme a

quanto effettivamente deliberato, ma la deliberazione stessa dovrà

ritenersi invalida, per quanto abbiamo visto a proposito della simula

zione dell'atto amministrativo, ed il contratto stesso sarà, perciò, annullabile ad istanza della p.a.

Rimane l'ipotesi sub b, nella quale il contratto effettivamente

stipulato sarà diverso da quello autorizzato. A tal proposito è stato

deciso che il contratto stipulato dall'organo investito della rappresen tanza dell'ente pubblico deve ritenersi valido soltanto nei limiti della

sua corrispondenza allo schema predisposto dall'organo deliberante

dell'ente stesso (Cass. 27 marzo 1973, n. 839, Foro it., Rep. 1973, voce

Contratti della p.a., n. 31; 9 aprile 1965, n. 627, id., Rep. 1965, voce

Comune, n. 108). Sotto un altro profilo è stato più volte genericamente affermato che

la mancanza dei requisiti di validità (in particolare il difetto di

deliberazione) implica che gli impegni ed i contratti che gli enti

pubblici pongono in essere sono privi di qualsiasi effetto giuridico (Cass. 14 marzo 1974, n. 708, id., Rep. 1974, voce Contratti della p.a., n.

10; 7 agosto 1972, n. 2640, id., Rep. 1973, voce Comune, n. 93); altrove è stato, però, specificato che la mancanza degli atti amministrativi che devono precedere la stipulazione del contratto da parte della p.a. non dà luogo a nullità, ma a semplice annullabilità, che può essere fatta

valere solo dall'amministrazione, nel cui interesse gli atti stessi sono

richiesti (Cass. 24 febbraio 1972, n. 533, id., Rep. 1972, voce Contratti della p.a., n. 17). La nullità radicale viene, invece, ravvisata in quelle ipotesi in cui si verifichi un vizio di incompetenza tanto rilevante da assumere il carattere dello straripamento di potere e da determinare l'invasione dell'attività di un organo nella sfera dei poteri esclusivi di un altro organo, ovvero l'uso di poteri non configurabili in relazione

all'organo che abbia irregolarmente agito (Cass. 24 maggio 1979, n.

2996, id., Rep. 1979, voce cit., n. 68; 10 aprile 1978, n. 1668, id., 1978, I, 2819).

La massima è stata applicata nel senso di ritenere la mera annullabilità del contratto stipulato dal sindaco senza la preventiva deliberazione del consiglio comunale (Cass. 10 aprile 1978, n. 1668, cit.). La mera annullabilità è stata ritenuta anche nell'ipotesi del contratto stipulato dall'assessore comunale eccedendo i limiti della

delega all'uopo conferitagli dal sindaco (Cass. 12 febbraio 1979, n.

937, id., 1979, I, 2406, con osservazioni di C. M. Barone). L'attento esame di tale indirizzo giurisprudenziale porta a conclude

re, per l'evidente analogia delle fattispecie, che il contratto dissimulato, nell'ipotesi da ultimo prospettata, sia meramente annullabile, e che tale forma di invalidità possa essere fatta valere solo dalla p.a., ove la stessa non ritenga di doverlo ratificare.

Vi è stato, però, anche chi, in contrasto con il succitato orientamen to giurisprudenziale, ha ritenuto che al contratto concluso dal funzio nario in astratto legittimato a rappresentare l'ente pubblico, ma senza la preventiva delibera dell'organo competente, debba applicarsi la

disciplina prevista per il contratto concluso dal falsus procurator (Bernardini, Attività amministrativa di diritto privato: rilevanza della deliberazione a negoziare, nota a Trib. Napoli 12 aprile 1969 [id., Rep. 1970, voce Amministrazione dello Stato, n. 56], in Giur. it., 1970, I, 2, 424). Anche in tale prospettiva il contratto dissimulato non

produce effetti nei confronti dell'ente rappresentato (cfr. Messineo, op. cit., 449). Si tratta, però, di inefficacia in senso tecnico (cfr. Bianca, op. cit., 110 ss.; Sacco e De Nova, op. cit., 397 ss.; Messineo, op. cit., I, 248).

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

re avrebbe dovuto eseguire, al fine idi usufruire del contributo

dello Stato e delle agevolazioni fiscali predette, ma affermava che

il Fasolino ne era a conoscenza ed aveva in realtà accettato la

commissione dell'opera di restauro e idi ampliamento dei matta

toio esistente.

Di conseguenza il comune contestava la domanda e chiedeva, a

sua volta, la risoluzione del contratto per colpa dell'attore, con

conseguente condanna idi questo al risarcimento dei danni.

Con sentenza del 9 marzo-é aprile 1978 il tribunale dichiarava

risolto iper colpa del comune il contratto di appalto stipulato tra

le parti il 24 gennaio 1972 e condannava il convenuto al

risarcimento dei danni nella misura complessiva idi lire 6.349.181

oltre gli interessi del 10 % ed al pagamento delle spese del

giudizio. Osservava ili tribunale che, pur dovendosi ravvisare

l'oggetto reale del contratto nella ristrutturazione idei mattatoio, le

opere convenute non si erano potute eseguire per l'inerzia del

comune « tradottasi, quindi, in inadempimento e generica re

sponsabilità ».

Avverso detta sentenza proponeva appello il comune di Colle

ferro, con atto del 14 giugno 1978, censurando la decisione del

tribunale sotto molteplici aspetti. Si costituiva e resisteva il

Fasolino.

Con sentenza del 21 dicembre 1979-25 febbraio 1980 la Corte

d'appello di Roma, in aocoglimento parziale del gravame, con

dannava il comune di Colleferro a restituire al Fasolino la somma

di lire 850.000 versata a tìtolo di cauzione, e rigettava ogni altra

domanda proposta dallo stesso; confermava nel resto la decisione

impugnata. Osservava in particolare la corte romana, per quanto riguarda

il presente giudizio di cassazione, che: a) il contratto simulato, cioè il contratto di appalto -relativo alla costruzione del mattatoio, era del tutto privo di efficacia tra le parti e, quindi, non era

suscettibile di risoluzione per 'inadempimento; né poteva essere

dichiarato nullo per motivi diversi dalla sua inefficacia ex lege;

b) affinché potesse operarsi la conversione del negozio giuridico simulato in quello dissimulato, occorreva che il negozio simulato

contenesse in sé i requisiti di forma e di sostanza necessari per l'esistenza del diverso negozio (dissimulato) rispondente al comu

ne intento delle parti; c) tali requisiti non sussistevano nella

specie, dato che si verteva in tema -di appalto di opere pubbliche. Avverso detta sentenza, propone ricorso per cassazione il

Fasolino, sulla base di tre motivi.

Motivi della decisione. — Con il primo ed il terzo motivo del

ricorso, ohe, per motivi di evidente connessione, debbono essere

trattati congiuntamente, il ricorrente denuncia, rispettivamente, la

violazione dell'art. 1414 ex., in relazione all'art. 360, n. 3, c.px., e l'insufficiente -motivazione circa un punto decisivo della contro

versia costituito dalla accertata partecipazione del ricorrente me

desimo all'accordo simulatorio.

Deduce, in particolare, il Fasolino, che nei contratti della p.a., in ordine ai quali la sola volontà che assurge a giuridica esistenza è quella espressa nei modi stabiliti dalle leggi e dai

regolamenti, attraverso gli organi cui è attribuita la legale rappre sentanza degli enti pubblici e con i requisiti di forma e di

sostanza predeterminati, ogni volontà diversa da quella risultante

dagli atti non può rilevare ad alcun effetto e tanto meno per sostanziare un contenuto negoziale apparente, in antagonismo con

un contenuto negoziale reale. Conseguentemente, secondo l'assun

to, il contratto di appalto de quo — « avente tutti i requisiti di

forma per essere valido » — deve essere apprezzato con riferi

mento esclusivo al contenuto emergente (rectius, apparente) dalla

sua formulazione testuale, e non pure con riferimento al contenu

to « reale » preteso dal comune; e, in relazione a ciò, deve

constatarsi l'impossibilità della sua esecuzione « perché privo

dell'oggetto » (edificazione di un nuovo mattatoio) e dichiararsi la

sua nullità (imputabile all'ente), ai sensi dell'art. 1418 ex., in

relazione all'art. 1325 dello stesso codice.

Il ricorrente propone, in sostanza, il tema della rilevanza della

simulazione nei contratti conclusi dalla p.a. nella sua 'proiezione

privatistica e, specificamente, nei contratti di appalto di opere

pubbliche. Se, infatti, si ritiene che la disciplina privatistica della

simulazione possa estendersi agli atti della p.a. compiuti in

regime privatistico, la linea di decisione seguita dalla corte di

merito — la quale, pur non ponendosi espressamente il problema, 10 ha implicitamente risolto in chiave positiva — va confermata:

diversamente la stessa va corretta, tenendo conto della censura

proposta. Va rilevato, in limine, che la dottrina ha largamente dibattuto

11 (piti vasto) problema se i contratti di diritto pubblico siano

« fondamentalmente soggetti alle norme della legge civile » pro

nunciandosi, in maniera praticamente concorde, nel senso di rite

nere che, in mancanza di una disciplina propria, anche i

contratti idi diritto (pubblico sottostanno alla disciplina civilistica « atteso il valore catalizzante di quest'ultima nel quadro generale del sistema » e divergendo soltanto in ordine al punto (marginale) della individuazione del meccanismo di « estensione » della detta

disciplina. Tale meccanismo viene, infatti, ravvisato, da alcuni, nell'appli

cazione analogica e, da altri, nella applicazione diretta, giustificata dal ruolo e dalla natura della norma civilistica, come espressione di principi generali collocati nel codice civile essenzialmente per ragioni storiche.

A titolo di esemplificazione, è opportuno ricordare che la

dottrina ha in particolare ritenuto, nella prospettiva predetta, applicabile ai contratti di diritto pubblico, la disciplina civilistica

riguardante la oa,pacità, la volontà e le cause di perturbamento del processo psichico; la divergenza tra volontà effettiva e volon tà esternata; la conclusione, la interpretazione e l'esecuzione del

negozio, le cause di risoluzione. Ancora, ha escluso che la causa del contratto si iodentifìchi con l'interesse pubblico sottostante {e

cioè, secondo la logica negoziale, con l'intersse di una delle parti contraenti), ha riaffermato il valore fondamentale del principio di buona fede, ha ritenuto valido, anche per i contratti di diritto

pubblico, il principio della forma libera.

iLe riserve e le limitazioni, pure esistenti in proposito, attengo no, però, non a diversa soluzione del problema generale, ma soltanto alla constatazione della inapplicabilità dei principi civi listici a fattispecie particolari, per ragioni attinenti alla struttura del contratto, 'alla natura idei rapporto, alla qualità dei contraenti

per la eventuale interferenza di norme di diritto pubblico integra tive o modificative della comune disciplina privatistica « ma

affatto indipendenti dalla qualificazione del negozio ».

A fronte della generalizzata e decisa posizione della dottrina

nel senso predetto, la giurisprudenza al riguardo ha assunto toni

più cauti, ma sostanzialmente adesivi e, segnatamente sul proble ma che ci occupa, ha ritenuto che « nel campo degli atti

amministrativi la simulazione ha un ambito di operatività più ristretto che nel campo dei negozi giuridici privati, potendo assumere rilevanza soltanto allorché si concreti in un difetto della

causa del provvedimento, dando luogo al vizio di eccesso di

potere» (Cons, giust. amm. sic. n. 287/76, Foro it., Rep. 1977, voce Atto amministrativo, n. 20).

Orbene, va rilevato che le motivazioni di principio, adottate a

suffragio della estensione dei principi e della disciplina civilistica al settore dei contratti di diritto pubblico e al campo degli atti

amministrativi (con particolare riferimento proprio all'istituto del

la simulazione) valgono a maggior ragione allorché la p.a. realizzi il negozio in regime privatistico, cioè ricorrendo, per la realizza zione delle sue finalità anziché alla potestà pubblica, agli stru menti giuridici che sono ordinariamente propri delle generalità dei soggetti dell'ordinamento, cioè dei soggetti privati.

In tal caso, infatti, l'attività (di diritto privato) svolta dalla

p.a. rimane, per tutto quel che riguarda la disciplina dei rapporti che dalla stessa scaturiscono, fuori dal campo del diritto ammi

nistrativo, restando ovviamente, operanti le regole della disciplina amministrati via attinenti all'organizzazione della p.a. e alla forma

zione ed estrinsecazione delle sue determinazioni.

In particolare, nel contratto di appalto di opere pubbliche, pur dovendosi convenire che l'amministrazione si riserva, in relazione alle finalità per le quali agisce, una posizione preminente e

direttiva, non viene con ciò alterata la corrispettività delle presta zioni, né Viene mutata la funzione, cioè la causa in senso

giuridico del negozio, che è quella di conseguire un opus defini

tum, funzione essenzialmente privatistica anche se l'opera appalta ta sia destinata alla realizzazione di fini pubblici.

E non è chi non veda come, nella cornice privatistica del

sinallagma che si realizza attraverso un contratto di appalto (a

privato) di una opera pubblica, assuma specifica rilevanza la

causa del contratto in chiave squisitamente civilistica al di là

della destinazione pubblica dell'opera appaltata. Nella prospettiva delle considerazioni svolte, la corte ritiene di

poter giungere alla conclusione dell'operatività (in astratto) della

simulazione nei contratti di appalto di opere pubbliche, sia per la

tendenziale espansione ideila disciplina degli istituti civilistici in

genere nel settore dei contratti pubblici, sia per la incidenza, necessariamente ancor più penetrante della detta disciplina nell'at

tività negoziale privatistica della p.a., sia, infine, per la proiezione

tipicamente civilistica della « causa » come momento essenziale e

costitutivo del negozio, negli appalti di opere pubbliche. Tale conclusione è, d'altronde, pienamente compatibile con le

caratteristiche del procedimento di formazione del contratto (di diritto privato) della p.a., che vede succedere alla cjd. fase

preparatoria (C Pituita da atti che esauriscono la propria efficacia

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1915 PARTE PRIMA 1916

nell'interno della struttura amministrativa e che sono propedeutici alla stipulazione del contratto) e precedere la c.d. fase di appro vazione (in cui si perfeziona la manifestazione idi volontà del

l'amministrazione) la c.d. fase della negoziazione e della stipula zione del contratto la quale si caratterizza, da ohi lato, per il

rispetto delle forme e delle norme procedurali che regolano lo

svolgimento dell'attività della p.a. e, dall'altro, per l'incontrastato

dominio del diritto comune, in relazione alla manifestazione di

volontà dell'organo che rappresenta la p.a. ed alla accettazione

della controparte. Resta in tal modo stabilita la rilevanza del fenomeno della

simulazione nell'ambito negoziale che interessa, e assume, conse

guentemente, significato la ricerca della sussistenza in concreto di

tale fenomeno.

Detta ricerca la corte di merito ha compiuto con esame

approfondito e coerente, immune da vizi logici e eirrori di diritto, pervenendo alla conclusione che l'aocondo simulatorio si era, nella

specie, formato proprio in ordine alila causa dell'appalto (cioè alla

ragione socio-economica idi natura essenzialmente privatistica rappresentata dal conseguimento dell'opus definitimi), in quanto entrambi i contraenti .intesero imprimere al contratto un contenu to apparente diverso da quello reale, nel convenire la costruzione di un nuovo mattatoio, mentre la loro effettiva volontà era diretta alla ristrutturazione di quello esistente.

Siffatto risultato non è soggetto a sindacato in questa sede di

legittimità, traducendosi il giudizio sulla sussistenza dell'accordo simulatorio in un accertamento relativo ad una mera quaestio voluntatis (Cass. n. 2192/82, id., Rep. 1982, voce Simulazione

civile, n. 12) ed essendo tale giudizio assistito nella specie, come rilevato, da ampia e probante motivazione.

Alla luce idi quanto precede, entrambe le censure congiunta mente esaminate risultano prive di fondamento. <Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione III civile; sentenza 28 no vembre 1983, n. 7128; Pres. Gabrieli, Est. Schermi, P.M. Valente (conci, conf.); Mecatti (Avv. Manfredini, Senni) c. Turchini e altra; Turchini e altra (Avv. Merlini, Sacchettini) e. Mecatti. Cassa Trib. Firenze 31 gennaio 1981.

Locazione — Legge 392/78 — Immobili adibiti ad uso abitativo — Regime transitorio — Recesso del locatore — Necessità —

Attività di lavoro subordinato — Legittimità — Condizioni (L. 27 luglio 1978 n. 392, disciplina delle locazioni di immobili

urbani, art. 59).

L'esigenza del locatore di svolgere a domicilio un'attività di lavoro subordinato può costituire valido motivo di recesso, ai sensi dell'art. 59, n. 1, l. n. 392/78, soltanto qualora si tratti di attività lavorativa complementare ed accessoria rispetto all'esi

genza ed all'uso abitativi, ed il suo svolgimento a domicilio sia usuale e compatibile con la destinazione ad abitazione dell'im mobile locato.(1)

Motivi della decisione. — Deve essere ordinata la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale condizionato.

Con il primo motivo del ricorso principale il Mecatti, denun ciando violazione degli art. 115 e 116 c.pxi. e dell'art. 2697 c.c. in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cjp.c., lamenta che il Tribunale di Firenze abbia ritenuto provato uno stato di necessità, tutelato dalla legge, sulla base di una semplice lettera inviata dalla s.p.a. Tabru alla Bruni, il cui contenuto era stato contestato da esso

ricorrente, e lamenta che non siano state eseguite né ispezione giudiziale né consulenza tecnica di ufficio, come richiesto dalle

parti.

(1) Non constano precedenti in termini. Preso atto che lo svolgimento di attività di lavoro subordinato non è

previsto (al contrario dell'attività di lavoro autonomo) come fonte di necessità legittimante il recesso del locatore, la Cassazione è ricorsa al principio — già affermato sotto il previgente regime vincolistico, con riferimento all'ipotesi analoga di cessazione della proroga legale per urgente e improrogabile necessità del locatore, di cui all'art. 4, n. 1, 1. n. 253/50, ove si trattasse di immobile locato per uso di abitazione — che il concetto di « abitazione » va inteso in senso ampio, cosi da ricomprendere anche gli spazi destinati ad attività lavorative che, per intrinseche caratteristiche, per consuetudine o per esigenze particolari, siano esercitate nella casa o nelle sue pertinenze: sent. 14 giugno 1982, n. 3623, Foro it., Rep. 1982, voce Locazione, nn. 563, 622; 21 aprile 1979, n. 2241, id., Rep. 1979, voce cit., n. 442; nonché Cass. 6 luglio 1977, n. 2993, id., Rep. 1977, voce cit., n. 140; 21 marzo 1970, n. 757, id., Rep. 1979, voce cit., n. 55.

Il motivo è infondato. La lettera 19 ottobre 1979 inviata dalla

s.p.a Tabru alla Bruni, scrittura privata di un terzo contenente una proposta contrattuale, fu contestata dal Mecatti solo generi camente quanto alla sua veridicità. In mancanza, quindi, di deduzione di circostanze specifiche, il Tribunale di Firenze, nel suo libero aipprezzamento, ritenutala veridica non sussistendo

ragioni perché se ne potesse dubitare, ben poteva porla a base del suo convincimento.

Rientrava, poi, nel potere discrezionale del Tribunale di Firen ze, da esercitarsi di ufficio, indipendentemente da richiesta di

parte, disporre o meno 1'eseouzione di ispezione giudiziale dei

luoghi e di consulenza tecnica. Dei quali mezzi istruttori il detto tribunale ha ritenuto di non avvalersi, essendo acquisiti in causa gli elementi necessari per la decisione: la composizione dei due

appartamenti (l'uno sovrastante l'altro), la composizione della

famiglia della Turchini, figlia della Bruni, e le dimensioni delle macchine necessarie per l'attività lavorativa proposta alla Bruni.

Rigettato il primo motivo del ricorso principale, resta assorbito il ricorso incidentale, condizionato all'accoglimento di quel -moti vo.

Con il secondo motivo del ricorso principale il Mecatti, denun ciando violazione dell'art. 59 1. 27 luglio 1978 n. 392 in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cjpx:., sostiene che, esclusa nella fattispecie ogni esigenza abitativa, il citato art. 59 prevede il recesso per necessità esclusivamente per l'esercizio di attività commerciale, artigiana e professionale, e non già di ogni attività di lavoro subordinato come quella a domicilio prospettata dalla Turchini e dalla Bruni.

Il motivo è fondato. La norma di cui all'art. 4, n. 1, 1. 23 maggio 1950 n. 253 prevedeva due ipotesi di urgente ed improro gabile necessità del locatore che legittimavano questi a far cessare la proroga legale del rapporto di locazione. La prima ipotesi concerneva l'urgente ed improrogabile necessità del locatore di destinare l'immobile, a qualunque uso adibito, ad abitazione propria o dei propri figli o dei propri genitori. La seconda ipotesi era limitata alle sole locazioni di immobili adibiti ad uso diverso dall'abitazione e concerneva l'urgente ed improrogabile necessità del locatore di esercitare nell'immobile la propria normale attività di professionista, di artigiano o di commerciante.

Questa essendo la disciplina normativa, ne discendeva che, per le locazioni di immobili ad uso di abitazione, il locatore poteva far cessare la proroga, esistendo lo stato di urgente ed improro gabile necessità, soltanto per adibire l'immobile ad abitazione propria o dei propri figli o dei propri genitori, e non anche per esercitarvi la propria normale attività di professionista, di artigia no o di commerciante.

Esisteva però, nella pratica sociale, una terza ipotesi di attività lavorative svolte nel luogo di abitazione, si trattasse di attività la vorative autonome, artigiane o professionali, oppure subordinate. Se il concetto di « abitazione » fosse stato inteso restrittivamente nel senso di sede della vita domestica, questa terza ipotesi non avrebbe avuto tutela nella citata legge e, pertanto, il locatore, qualora avesse avuto la disponibilità di un immobile idoneo per le esigenze di vita domestica della sua famiglia ma non anche per l'esercizio defila sua attività lavorativa svolta nell'abitazione, non avrebbe potuto far cessare la proroga del rapporto di locazione dell'immobile adibito ad abitazione del conduttore.

Appunto in considerazione di tale terza ipotesi e per munirla della tutela concessa dalla citata normativa, questa Suprema corte ha interpretato in senso lato il concetto di « abitazione », in modo da farvi rientrare anche le dette attività lavorative. Nella nozione di abitazione — si statuì — quale luogo in cui vivono e dimorano la persona e la sua famiglia, sono inclusi gH spazi destinati ad attività collaterali, aventi la loro sede naturale nell'ambito domestico, comprese le attività lavorative che, per intrinseche caratteristiche, per consuetudine o per esigenze parti colari, siano esercitate nella casa o nelle sue pertinenze; ne

consegue che la domanda con cui il locatore chiede la cessazione del rapporto di locazione per urgente ed improrogabile necessità di destinare l'immobile locato ad abitazione propria e della sua famiglia ai sensi dell'art. 4, n. 1,1. 23 maggio 1950 n. 253 compren de anche il caso in cui la necessità sia fatta valere sotto l'ulteriore profilo del bisogno di adibire l'immobile medesimo per l'espleta mento di un'attività lavorativa del locatore, purché quest'ultima si presenti strettamente connessa e complementare con la prevalente necessità di destinare il bene ad abitazione propria (sent. 21 aprile 1979, n. 2241, Foro it., Rep. 1979, voce Locazione, n. 442). Normativa, quella ora esaminata, che è stata modificata dalla 1. 27 luglio 1978 n. 392, contenente la nuova disciplina delle locazioni di immobili urbani.

Ai fini della presente causa, interessa l'art. 59, disciplinante, nel

periodo transitorio, il recesso del locatore, in ogni momento, dal

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