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Sezione I civile; sentenza 3 novembre 1981, n. 5790; Pres. Vigorita, Est. Caturani, P. M. Grimaldi...

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Sezione I civile; sentenza 3 novembre 1981, n. 5790; Pres. Vigorita, Est. Caturani, P. M. Grimaldi (concl. conf.); Soc. Faema (Avv. Schlesinger, de Camelis) c. Fall. soc. Faema (Avv. Giorgianni, Casella). Conferma App. Milano 3 ottobre 1978 Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 4 (APRILE 1983), pp. 1091/1092-1095/1096 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23175795 . Accessed: 28/06/2014 07:57 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.223.28.130 on Sat, 28 Jun 2014 07:57:21 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: Sezione I civile; sentenza 3 novembre 1981, n. 5790; Pres. Vigorita, Est. Caturani, P. M. Grimaldi (concl. conf.); Soc. Faema (Avv. Schlesinger, de Camelis) c. Fall. soc. Faema (Avv.

Sezione I civile; sentenza 3 novembre 1981, n. 5790; Pres. Vigorita, Est. Caturani, P. M.Grimaldi (concl. conf.); Soc. Faema (Avv. Schlesinger, de Camelis) c. Fall. soc. Faema (Avv.Giorgianni, Casella). Conferma App. Milano 3 ottobre 1978Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 4 (APRILE 1983), pp. 1091/1092-1095/1096Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175795 .

Accessed: 28/06/2014 07:57

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1091 PARTE-PRIMA 1092

norme alle clausole contrattuali da esse difformi, le quali norme

imperative (che si sostituiscono di diritto alle clausole difformi)

sono sempre dirette ad assolvere, nell'economia del contratto, la

medesima funzione a cui erano destinate le clausole sostituite

(sent. 12 luglio 1965, n. 1464, id., Rep. 1965, voce Obbligazioni e contratti, n. 418). E questa ipotesi palesemente non ricorre nel

caso di specie, dato che, nei contratti di cessione in proprietà

degli alloggi di tipo economico e popolare, alla imperatività della norma che stabilisce il criterio legale di determinazione del

prezzo (valore venale o costo di costruzione) non si accompagna contestualmente la precisazione dell'importo del prezzo stesso, la

quale è invece demandata — previa individuazione del criterio

applicabile — ad organi (le apposite commissioni o gli uffici del

genio civile), estranei, oltretutto, all'una parte contraente, secon

do apprezzamenti o accertamenti tecnico-contabili.

D'altronde, come già è stato osservato con la citata sentenza

25 maggio 1965, n. 1026, il rapporto tra ente e proprietario e

assegnatario-cessionario non è assimilabile indiscriminatamente

agli ordinari rapporti interprivati a prestazioni corrispettive, data la connotazione per certi aspetti pubblicistica del rapporto mede

simo. Mentre, infatti, l'amministrazione o, in genere, l'ente pro prietario o gestore sono (rectius: erano), comunque, obbligati alla cessione, qualunque sia o venga a risultare la misura del

prezzo, determinato a norma di legge, l'assegnatario può, per contro, variamente determinarsi, secondo che il prezzo venga a risultare di una supposta o di altra maggiore misura nell'alterna

tiva tra l'acquisto della proprietà o la conservazione dell'alloggio in locazione semplice (art. 10, 6° comma, d. p. r. 17 gennaio 1959 n. 2, nel testo modificato dall'art. 7 1. 27 aprile 1962 n.

231). Ciò che, evidentemente, conferma come sarebbe stato oltre

tutto impossibile dettare una norma (imperativa) che si sostitui

sce, di diritto, alla clausola da essa difforme.

Col quarto e ultimo motivo, infine, il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione dell'art. 1338 c.c.

nonché, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., «motivazione insuffi ciente e contraddittoria su un punto decisivo ».

Censura la sentenza nel punto in cui ha respinto la domandi: riconvenzionale di risarcimento dei danni per responsabilità pre contrattuale e sostiene che a tale conclusione la corte d'appello sarebbe pervenuta per non avere tenuto conto che il procedi mento di determinazione del prezzo, nel quadro della normativa

considerata, si svolge(va) autoritativamente ad esclusiva cura

dell'amministrazione, la quale, in concreto, ha provveduto (ap

punto unilateralmente) a tale determinazione, « dissentendo, con

sapevolmente e responsabilmente, dall'erroneo parere reso dal

Consiglio di Stato». Sostiene, quindi, che erroneamente la detta

corte avrebbe fatto applicazione al caso concreto del principio

giurisprudenziale secondo cui non sussiste responsabilità precon trattuale quando la causa di invalidità derivi da violazione di

norme imperative, in quanto entrambi i contraenti sono tenuti in

eguale misura a conoscerlo, usando la normale diligenza. Anche quest'ultima censura è priva di fondamento.

La sentenza impugnata, invero, ha in modo del tutto corretto

fatto applicazione della regola, più volte enunciata da questa Corte suprema (v., per tutte, la sentenza 11 luglio 1972, n. 2325,

id., Rep. 1972, voce Contratto in genere, n. 124), secondo cui

non può configurarsi responsabilità per colpa in contrahendo,

quando la causa di invalidità del negozio, ancorché nota a uno

dei contraenti e da questi taciuta, derivi da una norma di legge

che, per presunzione assoluta, deve essere nota alla generalità dei sottoposti all'ordinamento giuridico.

L'applicabilità di tale regola, invero, non resta esclusa dal

fatto che la determinazione del prezzo sia dalla legge affidata

all'amministrazione (o, in genere, agli enti proprietari o gestori), se non altro perché — come ha esattamente osservato la difesa

della resistente — prima della stipulazione del contratto l'ammi

nistrazione stessa deve (rectius-, doveva) comunicare all'interessa

to i valori non ancora definitivi (art. 10 d. p. r. 17 gennaio 1959 n. 2, nel testo sostituito dall'art. 7 1. 27 aprile 1962 n. 231) o il

prezzo definitivamente modificato; e in tale momento l'assegna tario ha la possibilità di valutare la congruità dei valori e la

conformità a legge del criterio di determinazione del prezzo (in base al valore venale ovvero al costo di costruzione) <: di

esperire gli appropriati mezzi di tutela, in sede amministrativa o

giurisdizionale, per far accertare il giusto criterio di determina

zione del prezzo stesso. Sicché, quando, stipulando il contratto, aderisce senza contestazione al prezzo determinato dall'ammini

strazione, egli non soggiace affatto a un atto autoritativo, ma

compie un atto del tutto libero, nell'autonomo convincimento della sua conformità al diritto o, comunque al suo interesse.

11 ricorso deve, pertanto, essere respinto. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione i civile; sentenza 3 no

vembre 1981, n. 5790; Pres. Vigorita, Est. Caturani, P. M.

Grimaldi (conci, conf.); Soc. Faema (Aw. Schlesinger, de

Camelis) c. Fall. soc. Faema (Avv. Giorgianni, Casella).

Conferma App. Milano 3 ottobre 1978.

Concordato preventivo — Risoluzione — Difesa del debitore —

Modalità — Fattispecie (R. d. 16 marzo 1942 n. 267, disci

plina del fallimento, art. 15, 137, 186).

Concordato preventivo — Cessione dei beni ai creditori —

Impossibilità di soddisfare i creditori — Accertamento ef

fettuato ancor prima della liquidazione dei beni — Risolu

bilità (R. d. 16 marzo 1942 n. 267, art. 186).

Il diritto di difesa del debitore, convocato davanti al tribunale

per la risoluzione del concordato preventivo, è assicurato quan

do, pur difettando ogni indicazione nell'avviso di convocazio

ne, costui sia stato informato in sede di comparizione della

possibile dichiarazione di fallimento. (1)

Nel caso di accertata impossibilità di corrispondere ai creditori

chirografari qualsiasi, benché minima, percentuale dei loro

crediti e di soddisfare integralmente le ragioni dei creditori

privilegiati, il concordato preventivo con cessione dei beni

ai creditori va risolto ancor prima della vendita dei beni ce

duti. (2)

Svolgimento del processo. — 11 Tribunale di Milano, ad istan

za della s.p.a. Faema che chiedeva l'ammissione alla procedura di concordato preventivo mediante cessione dei beni, con decreto

10 luglio 1975 dichiarava aperta la procedura di concordato e

con sentenza 12 marzo 1976, disattesa l'opposizione di un credi

tore, omologava il concordato stesso.

Seguivano a ciò trattative, volte alla cessione in blocco dei

beni fra gli organi della produzione e la finanziaria pubblica

G.e.p.i., la quale, pur disponibile all'acquisto di un rilevante com

plesso di cespiti, dichiarava di condizionarlo alla concessione, da

parte degli azionisti della Faema, di una adeguata garanzia

(1) Non risultano precedenti giurisprudenziali specifici, sia la sen tenza impugnata (App. Milano 30 ottobre 1978), sia quella di pri mo grado (Trib. Milano 30 giugno 1977), si leggono in Fallimento, 1979, 202, con nota redazionale critica.

Sotto un profilo più generale, va ricordata Cass., sez. un., 7 lu

glio 1978, n. 3372 (Foro it., 1978, I, 2122, con nota di richiami), la qua le, interpretando la sentenza della Corte costituzionale n. 141/70 (id., 1970, I, 2037), ha ritenuto che questa abbia effetto vincolante solo nel senso che la sentenza dichiarativa di fallimento non possa essere emessa inaudita altera parte, cioè senza che l'imprenditore sia stato invitato a difendersi. 11 diritto di difesa deve essere assicurato sul

piano sostanziale e non attraverso particolari modalità formali, tal ché spetta al giudice competente la determinazione, con prudente ap prezzamento, delle modalità di audizione del debitore, dell'organo de

putato (collegio o giudice relatore) a disporre la comparizione, delle modalità di comunicazione del relativo provvedimento all'interessato. La citata sentenza è commentata da Marziale, Audizione del debi tore e sentenze additive della Corte costituzionale, in Giur. comm., 1979, II, 553.

Nello stesso solco, Cass. 15 dicembre 1981, n. 6620 (Foro it., Rep. 1981, voce Fallimento, n. 153, riguardante il caso di debitore non ascoltato in camera di consiglio, ma dal giudice incaricato dell'istrut

toria, e posto in condizione di illustrare le proprie difese con memo ria scritta); 13 gennaio 1981, n. 272 (ibid., n. 154); 18 giugno 1980, n. 3856 (id., Rep. 1980, voce cit., n. 156); 14 giugno 1979, n. 3345

(ibid., n. 157). Da segnalare anche Cass. 7 maggio 1979, n. 2856 (id., 1979, I,

1373), la quale ha negato che il requisito della audizione del (pre sunto) socio di una società con soci a responsabilità illimitata, per la valida dichiarazione del fallimento suo e della società, sia sod disfatto ove l'avviso di convocazione a mezzo di biglietto di cancelle ria non indichi la pendenza di una procedura fallimentare nei con fronti di altro soggetto.

(2) Conforme, Cass. 25 marzo 1976, n. 1073, Foro it., 1977, 1, 2023, con osservazione di G. Pezzano, cui adde Trib. Foggia 20 gen naio 1979, id., Rep. 1979, voce Concordato preventivo, nn. 65-67; in dottrina, Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario, a cura di Scialoia e Branca, Legge fallimentare, 1979, 529 ss.

Nel senso che la cessione dei beni ai creditori, sia che avvenga pro solvendo (con diritto del debitore a conseguire quanto eventualmente

rimanga del ricavato una volta adempiuto il concordato), sia che

avvenga pro soluto (con diritto dei creditori all'intero ricavato, anche se superi la percentuale garantita), non determina la immediata libe razione del debitore, salvo espresso patto contrario, v. da ultimo (ol treché nella motivazione di Cass. 25 marzo 1976, n. 1073, cit.) Cass. 27 giugno 1981, n. 4177 (Foro it., 1982, I, 603). Il principio che il patto di immediata liberazione del debitore impedisce la risolu zione del concordato (fattispecie in tema di preesistente insolvenza

dell'assuntore) è affermato anche da Cass. 17 gennaio 1978, n. 191

(id., 1979, I, 1253).

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

fideiussoria bancaria, a copertura dei rischi derivanti per l'acqui rente dall'art. 2560 c. e.

Non raggiunta l'intesa, il tribunale con sentenza 7 febbraio

1977, previa declaratoria di risoluzione del concordato preventi vo, pronunciava il fallimento della s.p.a. Faema.

Nei confronti della suddetta sentenza proponeva opposizione il

liquidatore della società, chiedendone la revoca. Il tribunale, in

contumacia del curatore del fallimento, ritenendo fondata nel

merito l'opposizione, con sentenza 30 giugno 1977 revocava la

precedente decisione 8 febbraio 1977.

Su gravame del fallimento della s.p.a. Faema, la Corte d'pppel 10 di Milano con la sentenza in questa sede impugnata, in

riforma della decisione di primo grado, rigettava l'opposizione

proposta dalla Faema s.p.a. in liquidazione avverso la sentenza 8

febbraio 1977 con la quale lo stesso Tribunale di Milano aveva

dichiarato il fallimento della società medesima.

Per la cassazione della sentenza d'appello ricorre la Faema

s.p.a. in liquidazione, formulando quattro motivi; resiste con

controricorso il fallimento della Faema s.p.a. in liquidazione. Entrambe le parti hanno presentato memoria.

Motivi della decisione. — Con il primo motivo del ricorso la

s.p.a. Faema in liquidazione, denunziando violazione degli art.

137 e 186 1. fall, e 24 Cost., assume che l'impugnata sentenza non avrebbe considerato che. in caso di risoluzione del concor dato preventivo con contestuale dichiarazione di fallimento, al

debitore devono essere contestati i fatti che importano la risolu

zione del concordato per consentirgli il diritto di difesa, il che

nella specie non sarebbe avvenuto.

La censura è infondata. In seguito alle decisioni 16 luglio 1970, n. 141 (Foro it., 1970, I, 2037) e 27 giugno 1972, n. 110

(id., 1972, I, 1092) con cui la Corte costituzionale ha statuito il

principio dell'applicabilità dell'art. 24, 2° comma. Cost. — che

sancisce il diritto di difesa del cittadino in ogni stato e grado del procedimento — anche nella procedura fallimentare sia con

riguardo alla dichiarazione di fallimento che alla liquidazione coatta amministrativa ed al concordato preventivo, questa corte,

con un indirizzo aderente alla ratio che è alla base del dettato

costituzionale, ha precisato con riferimento alle diverse procedu re in cui il debitore può trovarsi coinvolto, quali sono le moda

lità sostanziali che attuano una effettiva garanzia del diritto di

difesa nel fallimento. Cosi' in tema di ammissione al concordato

preventivo, si è statuito che il diritto di difesa del debitore che

abbia fatto la relativa richiesta deve essere assicurato in modo

compatibile con la speditezza e l'urgenza del procedimento pur ché egli sia posto in grado di conoscere e « contraddire » gli

argomenti che il tribunale prospetta contro l'accoglimento dell'i

stanza di concordato (Cass. 24 marzo 1976, n. 1043, id., 1976, I,

2678; 10 giugno 1977, n. 2395, id., Rep. 1977, voce Fallimento, n. 105). E con particolare riferimento alla fattispecie in esame,

questa corte ha precisato che, in tema di risoluzione del concor

dato preventivo, la convocazione del debitore in camera di con

siglio, ai sensi dell'art. 137, 1° comma, e 186, 2° comma, 1. fall., « per la contestazione di inadempienza agli obblighi assunti con

11 concordato», consente al tribunale di dichiarare il fallimento, in

quanto quest'ultimo costituisce effetto dell'eventuale fondatezza

di quelle contestazioni e si fonda su presupposti (qualità di

imprenditore del debitore e suo stato di insolvenza) già accertati

in sede di ammissione alla procedura del concordato preventivo

(sent. 11 novembre 1976, n. 4148, id.. 1977, I, 1981).

Il che importa, secondo l'accennato indirizzo nel cui solco il

collegio intende inserirsi, che il diritto di difesa si risolve in

materia nell'esigenza di carattere sostanziale di realizzare un

contraddittorio effettivo e non puramente nominale, attraverso cui

l'imprenditore è posto in grado di conoscere le iniziative giudi ziarie che vogliono adottarsi nei suoi confronti e quindi di

svolgere al riguardo, ove lo ritenga opportuno, le appropriate deduzioni.

Orbene, se può consentirsi con la difesa della ricorrente circa

l'esattezza dei principi innanzi accennati, deve rilevarsi che,

nella fattispecie in esame, il tribunale, nel pronunciare la risolu

zione del concordato, con contestuale dichiarazione di fallimento

della società (ex art. 186 e 137 1. fall.), si è attenuto ad esatti

criteri giuridici, nel rispetto dei diritti della debitrice, come ha

giustamente sottolineato la corte d'appello.

Invero, anche se deve ritenersi auspicabile, dal punto di vista

della correttezza della procedura, che l'avviso di convocazione

del debitore per essere sentito dal tribunale, ai sensi degli art.

186 e 137 prima della risoluzione del concordato preventivo,

menzioni sia pure genericamente l'oggetto della convocazione,

non può ritenersi che questa omissione di carattere puramente

formale incida, in linea di massima, sulle garanzie che l'ordina

mento assicura al debitore, ai fini della tutela delle sue ragioni

in giudizio. Quel che si richiede in maniera assoluta ed inderò

gabile è invece che, in sede di comparizione, il debitore sia reso

partecipe dei fatti cui il tribunale intende attribuire rilevanza

giuridica ai fini della risoluzione del concordato preventivo, spe cie quando la stessa è pronunciata dal giudice non su istanza dei

creditori, ma ex officio (art. 137, 3° comma, 1. fall.). Nel caso concreto — come è pacifico in causa — la società

Faema partecipò alla riunione del 5 febbraio 1977, nella quale fu edotta della possibile evoluzione della (attuale) procedura in una dichiarazione di fallimento in conseguenza delle nuove con dizioni poste dalla G.e.p.i. che subordinò l'acquisto del comples so aziendale ad una serie di garanzie per l'accollo dei debiti, ai sensi dell'art. 2560 c. c. Poiché inoltre la relazione straordinaria del liquidatore giudiziale fu esibita nella stessa udienza dell'8 febbraio 1977, di convocazione della società debitrice, ai sensi dell'art. 137, 1° comma, ne consegue che quest'ultima potè in

concreto esercitare il proprio diritto di difesa nel più assoluto

rispetto del principio del contraddittorio, onde non merita sotto

questo profilo alcuna censura quanto ritenuto al riguardo dalla

impugnata sentenza.

Il primo motivo del ricorso deve essere, pertanto, respinto. Con il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso che,

affrontando questioni tra loro connesse, è opportuno trattare

congiuntamente, la ricorrente, denunziando violazione sotto di versi profili dell'art. 186 1. fall, e dell'art. 116 c.p.c. nonché difetto di motivazione, si duole che l'impugnata sentenza abbia

pronunciato la risoluzione del concordato preventivo senza che nessun fatto nuovo si fosse verificato, ma fondato ì! proprio convincimento su semplici supposizioni. Inoltre, la corte avrebbe errato sia discostandosi dalle conclusioni della relazione straordi

naria del commissario giudiziale senza alcuna motivazione, sia

partendo dal presupposto che la risoluzione del concordato possa essere pronunciata legittimamente allorché comunque i creditori

chirografari ricevano una percentuale inferiore al 40% dei loro crediti.

Le riassunte censure sono destituite di fondamento. Giova

premettere che, come questa corte ha già avuto occasione di statuire (sent. 5 giugno 1967, n. 1223, id., 1967, I, 1410; 25 marzo 1976, n. 1073, id., 1977, 1, 2023), il concordato pre ventivo con cessione dei beni ai creditori, salvo che espres samente contenga un patto di immediata totale liberazione

del debitore, deve essere risolto per inadempimento, con la

conseguente apertura della procedura fallimentare, qualora, an corché prima della conclusione della liquidazione dei beni, e

merga, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, che il concordato medesimo sia venuto meno alla sua funzione

per essere ragionevolmente prevedibile che le somme ricavate dalla vendita dei beni ceduti non possono essere sufficienti a

soddisfare, nemmeno in minima parte, i creditori chirografari, o

a maggior ragione, a soddisfare integralmente i creditori privile

giati; ciò può verificarsi tanto per cause originarie quanto per cause sopravvenute.

Orbene, nel caso in esame il giudice di merito ha ritenuto di

pronunciare la risoluzione del concordato preventivo con cessio ne dei beni, omologato con sentenza 22 marzo 1976 dal Tribu nale di Milano, fondando il proprio convincimento su di una motivazione che si sottrae alle censure proposte in questa sede

dalla società ricorrente perché immune da vizi logici e giuridici. In primo luogo, non sussiste alcuna incongruenza nella previ

sione della corte circa l'impossibilità di soddisfare in una per centuale anche minima i creditori chirografari, ancor prima di

procedere alla vendita dei beni ceduti, poiché come ogni previ sione può trarsi logicamente da una serie di mutevoli che con

ducono a quella conclusione. Quando poi la situazione economi

co-patrimoniale della società sia tale da escludere ogni percentua le per i creditori chirografari in base ad una diversa e più

appropriata valutazione degli elementi tenuti presente in sede di

omologazione del concordato preventivo, non sussistono ostacoli a porre fine ad una procedura che non appare più conveniente

per i creditori, onde l'alternativa obbligata è la dichiarazione di

fallimento, a nulla rilevando che la liquidazione dei beni si

arresti nella sua fase iniziale.

Ciò premesso, deve anzitutto escludersi che il riferimento

compiuto dalla corte del merito alla condizione richiesta dalla

legge per l'ammissione alla procedura del concordato preventivo con cessione dei beni, tra cui la percentuale del 40% per i

creditori chirografari, possa aver fuorviato il giudizio che la

corte ha espresso circa il venir meno del concordato in questio ne alla sua naturale funzione di eliminare l'insolvenza dell'im

prenditore mediante la corresponsione ai creditori delle somme a

ciascuno garantite. La corte, invero, ha operato il suddetto rife

rimento soltanto per tratteggiare con maggiore incisività la situa

zione economica della società Faema la quale acconsentiva, se

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1095 PARTE PRIMA 1096

condo una previsione iniziale, il soddisfacimento dei creditori

chirografari soltanto nella percentuale del 5,2%. La corte d'appello, peraltro, nell'esaminare la sopravvenuta

impossibilità di adempiere alle obbligazioni assunte dalla società

concordataria, non solo ha tenuto presente che per legge la

risoluzione del concordato preventivo è ammessa nell'ipotesi in

cui la liquidazione dei beni ceduti non consenta di soddisfare in

alcuna percentuale i creditori chirografari (art. 186, 2° comma, 1.

fall.), ma da un complesso di elementi probatori ha tratto il

fondato convincimento che nel caso in esame del concordato

preventivo con cessione dei beni i creditori chirografari non

avrebbero potuto ricevere la benché minima percentuale sull'enti

tà dei loro crediti.

La corte è pervenuta a tale conclusione, procedendo ad una

esauriente valutazione dei dati in suo possesso né in questa

indagine è caduta in difetto di motivazione circa una pretesa contraddizione con i risultati della relazione straordinaria del

commissario giudiziale. Quest'ultima, invero, come è pacifico in causa, lungi dall'aver

assicurato ai creditori chirografari una percentuale del 5,2% dei

loro crediti, ha operato una tale previsione partendo dal presup

posto della vendita dei beni aziendali alla G.e.p.i. s.p.a.; per modo che la corte, una volta che tale vendita si è rivelata

impossibile per le condizioni frapposte dalla società offerente,

poteva esprimere il proprio convincimento circa la possibile ese

cuzione del concordato preventivo, prescindendo del tutto da

quella previsione, venuta in effetti meno in seguito al mancato

acquisto della G.e.p.i. Quanto poi la corte ha rilevato circa l'inesistenza di altri

interessati all'acquisto, che rendeva del tutto inutile e dispendio sa la protrazione della procedura si risolve in una indagine di

fatto non sindacabile in questa sede. La corte, invero, ha posto l'accento sulle precarie condizioni economiche della società con

cordataria non solo per il difficile recupero dei crediti in lire

1.240.000.000 verso debitori esteri e agenti di commercio che

vantavano contropretese e compensazioni e per l'esazione dei

fondi vincolati presso banche e dei depositi cauzionali (i quali,

corrispondenti ad oltre un miliardo, erano stati recuperati per soli 75 milioni), ma tenendo conto altresì del passivo, superiore di lire 262.000.000 a quello previsto in sede di omologazione del

concordato, nonché delle insinuazioni tardive e delle opposizioni ed esclusioni di crediti che ammontavano ad oltre due miliardi

di lire.

Trattasi di motivazione assolutamente congrua ispirata ai prin

cipi della più corretta logica giuridica, la quale non è minima

mente scalfita dal rilievo che, a chiusura della propria indagine, la corte ha svolto circa il ritenuto disavanzo di lire 3 miliardi e

mezzo rispetto al fabbisogno del concordato che con una inda

gine di puro fatto è stato tratto da un computo eseguito dal

fallimento, ritenuto nella specie pienamente attendibile.

In definitiva, il ricorso proposto dalla società Faema in liqui

dazione, nei quattro motivi in cui si articola, deve essere respin to. (.Omissis)

CORTE D'APPELLO DI TORINO; sentenza 10 febbraio 1983; Pres. Romagnoli, Est. Vendittelli Casoli; Federazione felina

italiana (Avv. Weigmann) c. Paganini (Avv. Ledda).

CORTE D'APPELLO DI TORINO;

Associazione non riconosciuta — Delibera di esclusione « ad nu

tum » del socio — Conformità allo statuto — Annullabilità

(Cod. civ., art. 24).

Va annullata la delibera del consiglio direttivo di un'associa

zione non riconosciuta con cui, pur in conformità con una

clausola statutaria, si esclude ad nutum un socio. (1)

(1) L'applicazione alle associazioni non riconosciute delle norme det tate per le associazioni fornite di personalità giuridica è operazione consueta per la nostra giurisprudenza. Questa estensione opera in una

duplice prospettiva. Anzitutto come fonte integratrice, in mancanza di clausole in senso diverso, degli accordi tra gli associati; in questo sen so v. Cass. 3 aprile 1978, n. 1948, Foro it., 1978, 1, 1670, che, stante il silenzio in proposito dello statuto, ha ritenuto applicabile il termi ne previsto dall'art. 24 c. c. per impugnare la delibera di esclusione; v. anche Cass. 16 novembre 1976, n. 4252, id., Rep. 1976, voce Associazione non riconosciuta, n. 2, che ha esteso alle delibere del l'assemblea dell'associazione di fatto il principio maggioritario dettato dalla legge per le associazioni riconosciute e per le società, difettan do un'espressa previsione in senso contrario negli accordi associativi; Cass. 10 luglio 1975, n. 2714, id., Rep. 1975, voce cit., n. 4, e la

più recente Cass. 3 novembre 1981, n. 5791, id., Rep. 1981, voce cit., n. 1, secondo cui, nel silenzio dell'atto costitutivo, non può rite

Motivi della decisione. — La Federazione felina italiana con la presente impugnazione contesta integralmente i rilievi e le conclusioni cui sono giunti i primi giudici nella controversia che

l'oppone alla sig.ra Laura Paganini Segré, esclusa dal sodalizio ad opera del consiglio direttivo sulla base dell'art. 10 dello

statuto sociale, il quale appunto stabilisce che tale organo ha

facoltà, a suo insindacabile giudizio, di radiare in qualsiasi mo mento il socio che non sia ritenuto benvisto alla federazione

per qualsiasi motivo. E conseguentemente investe tutta la mate ria sottesa all'esclusione del socio da un'associazione non rico nosciuta qual è appunto la menzionata federazione, in esecuzione di un deliberato che, aderente alle lettera dello statuto, è stato evidentemente preso ad nutum.

La libertà di associazione, che storicamente deriva quale ga ranzia costituzionale dalla più remota libertà di riunione, ha trovato una positiva affermazione nell'art. 18 Cost., cosi' come in sede internazionale è regolamentata dall'art. 20 della dichiarazio ne universale dei diritti umani, approvata dall'O.n.u. il 10 di

cembre 1948, e dall'art. 11 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, approvata dal

Consiglio d'Europa a Roma il 4 novembre 1950. Peraltro l'assai

più perentoria disposizione costituzionale italiana va intesa nel

senso che la libertà di associazione rappresenta una delle espres sioni di quell'autonomia che la Costituzione stessa riconosce sia in favore dei singoli individui, sia in favore delle formazioni sociali in cui i primi si manifestano. Difatti l'art. 2, nell'afferma re che la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili

dell'uomo sia come singolo e sia nei gruppi in cui si svolge la sua personalità, estende espressamente l'ambito di tutela del

soggetto quale persona fisica ricomprendendovi gli agglomerati sociali leciti ai quali egli, per il pieno sviluppo della personalità

nersi inesistente l'organo assembleare, dal momento che a tale si lenzio sopperiscono le norme che disciplinano le associazioni rico nosciute. Si tratta di situazioni rispetto alle quali dispiega piena ef ficacia il disposto dell'art. 36 c. c., per cui da un lato, in assenza di disposizioni statutarie, si fa ricorso al modello prefigurato dagli art. 14 ss. c.c., dall'altro le clausole associative ben possono allontanarsi da quel modello: Cass. 12 ottobre 1973, n. 2572, id., 1973, I, 3290, che ha ritenuto valida la norma statutaria con cui si attribuiva ai probiviri la competenza in merito all'impugnazione della delibera di esclusione; Cass. 24 ottobre 1969, n. 3490, id., 1970, I, 870, che ha riconosciuto valida la clausola che conferiva al consiglio di ammi nistrazione, e non all'assemblea, il potere di esclusione. Vi sono, poi, decisioni che intervengono ad un altro livello: si reputano tout court validi per le associazioni non riconosciute gli stessi principi che vigono per le persone giuridiche « fin dove ciò sia compatibile con la loro particolare struttura e organizzazione e fin dove la necessità di tutela di interessi meritevoli di protezione lo richieda » (cosi si esprime Cass. 30 ottobre 1956, n. 4050, id., 1957, I, 397, con una formula che è divenuta poi tralatizia nella giurisprudenza della Su prema corte). È il caso, soprattutto, della protezione della posizione del singolo all'interno dell'associazione attraverso l'uso dell'art. 24, 3° comma, nel duplice profilo dell'ammissibilità dell'esclusione solo per gravi motivi e della possibilità di ricorso all'autorità giudiziaria avverso tale esclusione: v. Cass. 3 marzo 1973, n. 579, id., 1973, 1, 1407; App. Bologna 22 giugno 1972, id., Rep. 1973, voce cit., n. 15; Trib. Milano 10 aprile 1972, ibid., n. 20; Trib. Roma 9 maggio 1959, id., Rep. 1959, voce cit., n. 8; Cass. 30 ottobre 1956, n. 4050, cit. In questo solco la Corte d'appello di Torino ha annullato la delibera presa in conformità alla clausola statutaria che autorizzava l'esclusione ad nutum. È evidente che una siffatta applicazione dell'art. 24 si colloca su un versante diverso da quello visto all'inizio, esprimendo un vero e proprio limite inderogabile all'autonomia statutaria san cita dall'art. 36. Analogo effetto, sempre nella prospettiva di una tutela della posizione dell'individuo all'interno dei gruppi, esercita il ricorso a « principi di ordine generale » (v. Cass. 24 ottobre 1969, n. 3490, cit., che eleva appunto a principio di ordine generale, e quindi valido anche per gli enti di fatto, la preventiva contesta zione degli addebiti) e alle norme di ordine pubblico (v. App. Bo logna 22 giugno 1972, cit., che ritiene nulla, perché contraria all'or dine pubblico, la clausola che vieta il ricorso all'autorità giudiziaria in caso di esclusione del socio).

In dottrina, si è pronunciato contro un'estensione generalizzata degli art. 23 e 24 alle associazioni non riconosciute M. Basile, L'intervento dei giudici nelle associazioni, Milano, 1975, 162 ss.; in senso favore vole, invece, prevedendo esplicitamente la nullità di una clausola statutaria di esclusione ad nutum del socio, A. Rubino, Le asso ciazioni non riconosciute, Milano, 1952, 166 e F. Galgano, Delle as sociazioni non riconosciute e dei comitati, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, 171 ss. e nota 25; per una critica delle opzioni di fondo su cui si basa la posizione di Basile e in senso favorevole al ricorso all'art. 24, v. A. Pellicanò, Sul problema della tutela giurisdizionale nelle associazioni: il giudice, lo Stato, e la società civile, in Riv. società, 1976, 1270 ss.; la replica in Basile, Sulla impugnabilità delle delibere consiliari delle associa zioni, in Riv. dir. civ., 1980, II, 20 ss. Ulteriori riferimenti nella nota a Cass. 3 aprile 1978, n. 1948, cit.

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