sezione I civile; sentenza 31 maggio 1986, n. 3688; Pres. Falcone, Est. Di Salvo, P. M. Valente(concl. conf.); Fall. soc. Smalteria e Metallurgica Veneta (Avv. Scognamiglio, Majolino) c. I.n.p.s.(Avv. Procaccio, Fonzo). Conferma App. Venezia 24 luglio 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 11 (NOVEMBRE 1986), pp. 2765/2766-2769/2770Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180923 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
zione estensiva dell'art. 1933 c.c., data dalla propria precedente giurisprudenza, di cui peraltro conferma anche i limiti (Cass. 4
ottobre 1962, n. 2801, Foro it., 1963, I, 300; 9 luglio 1953, n.
2205, id., Rep. 1953, voce Giuoco e scommessa, n. 5; 9 marzo
1948, n. 366, id., Rep. 1948, voce cit., n. 25). Con riferimento, infatti, alle stesse argomentazioni che sorreggono le censurate
decisioni di questa corte, si deve precisare che l'estensione della
disciplina riguardante i contratti di giuoco ai mutui che risultino a questi collegati si giustifica solo in quanto la dazione di danaro
o di fiches, la promessa di mutuo, il riconoscimento del debito, ecc. costituiscano mezzi funzionalmente connessi all'attuazione del
giuoco o della scommessa e siano, quindi, tali da realizzare fra i
giuocatori le stesse finalità pratiche del rapporto di giuoco; deve,
cioè, concorrere un interesse diretto del mutuante a favorire la
partecipazione del mutuatario al giuoco o per la rivincita che il
primo si augura di realizzare a danno del secondo, partecipando
egli stesso al giuoco, ovvero per il guadagno connesso a quella
partecipazione nell'ipotesi che il mutuo sia accordato dalla casa
organizzatrice di quell'attività, moralmente e socialmente disap
provata.
Allorché, invece, il mutuante non sia a confronto del mutuata
rio in una determinata partita né partecipi insieme a questo ad
un giuoco collettivo di azzardo, la causa del negozio di mutuo non
risulta alterata da un suo collegamento diretto con il contratto di
giuoco che stimola il mutuante a concedere il prestito; in tal
caso, la sola consapevolezza del mutuante che la somma data in
mutuo sarà impiegata dal ricevente nel giuoco non basta ad
attirare nell'area dei debiti di giuoco un negozio tipico diverso
per effetto di un supposto motivo illecito determinante, comune
ad entrambi i contraenti. Si è puntualmente osservato, al riguar
do, con riferimento alla disciplina di cui all'art. 1933 c.c., che se
il legislatore negasse l'azione per il pagamento del debito di
giuoco per l'illiceità della causa inerente al rapporto da cui esso
trae origine, non potrebbe poi escludere la ripetibilità di quanto
venga spontaneamente pagato dal perdente dopo l'esito per lui
sfavorevole del giuoco. Le ragioni della speciale disciplina risie
dono, in realtà, nel riconoscimento di altri valori e, in specie, nella comune concezione che si ha, sotto il profilo morale, dei
doveri di condotta del giuocatore (Cass. 21 aprile 1949, n. 964,
id., 1949, 1177). (Omissis)
I
CORTE DI 'CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 31 maggio
1986, n. 3688; Pres. Falcone, Est. Di Salvo, P.M. Valente
(conci, conf.); Fall. soc. Smalteria e Metallurgica Veneta (Avv.
Scognamiglio, Majolino) c. I.n.p.s. (Aw. Procaccio, Fonzo).
Conferma App. Venezia 24 luglio 1982.
Previdenza sociale — Licenziamento illegittimo — Risarcimento
del danno — Contributi previdenziali — Assoggettabilità (Cod.
civ., art. 1223, 2099; 1. 30 aprile 1969 n. 153, revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza
sociale, art. 12, 40; 1. 20 maggio 1970 n. 300, norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindaca
le e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento, art. 18).
Sono dovuti i contributi previdenziali sulle somme liquidate a
titolo di risarcimento del danno per il licenziamento illegittimo a norma dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori. (1)
(1-2) Sulla necessità che il risarcimento del danno per il licenzia mento illegittimo ex art. 18 statuto dei lavoratori ricomprenda, in via
normale, tutte le retribuzioni perdute dal lavoratore ingiustamente licenziato, attesa la continuità giuridica del rapporto di lavoro, solo di
fatto interrotto, cfr. Cass., sez. un., 29 aprile 1985, n. 2762, Foro it., 1985,
I, 1290, con nota di richiami e col. 2247, con nota di M. D'Antona, Licenziamento illegittimo e prova del danno-, la stabilità « economica »
del rapporto di lavoro secondo le sezioni unite, la Corte costituziona le si è recentemente espressa nel senso dell'obbligatorietà della contri buzione previdenziale in relazione al risarcimento del danno per
l'illegittimo licenziamento: sent. 14 gennaio 1986, n. 7, id., 1986, I, 1785, con nota di richiami e commento di M. D'Antona, Licenziamento
illegittimo, effetti retributivi della « crisi di funzionalità » del rapporto di lavoro e contribuzione previdenziale; e in Dir. lav., 1986, II, 298, con nota di L. Siniscalchi, Reintegrazione nel posto di lavoro, risar cimento del danno, retribuzione e obbligo contributivo.
Nelle ipotesi in cui opera l'ordinaria tutela risarcitoria, restando
definitivamente, ancorché illegittimamente, risolto il rapporto, il lavora
li. Foro Italiano — 1986.
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 3 dicembre
1984, n. 6317; Pres. Bonelli, Est. Baldassarre, P.M. Valente
(conci, diff.); I.n.p.s. (Aw. Romoli, Fonzi) c. Soc. Toscocavi
(Aw. Marchetti, Paoli). Conferma Trib. Siena 11 marzo 1981.
Previdenza sociale — Licenziamento illegittimo — Risarcimento
del danno — Assoggettabilità agli obblighi contributivi — Limiti
(Cod. civ., art. 1418, 2119; 1. 30 aprile 1969 n. 153, art. 12; 1. 20 maggio 1970 n. 300 art. 15, 18).
Il risarcimento del danno in favore del lavoratore licenziato
illegittimamente rientra nella retribuzione soggetta a contribu zione solo nei casi in cui il licenziamento non interrompe la continuità giuridica del rapporto di lavoro (perché nullo o
perché soggetto al regime della stabilità reale). (2)
I
Motivi della decisione. — Con il primo motivo il fallimento
ricorrente, denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 1. n. 300 del 1970, degli art. 2099, 2116 e 1223 ss. c.c., degli art. 12 e 14 1. n. 153 del 1969, dell'art. 23 ter 1. n. 485 del 1972, dell'art. 3 1. n. 164 del 1975 e dell'art. 1 1. n. 62 del 1976, nonché carenza e contraddittorietà di motivazione su un punto essenziale della controversia. Sostiene che l'art. 18 I. n. 300 del 1970 si deve
interpretare nel senso che « nel periodo tra il licenziamento e la sentenza di reintegra, in cui il rapporto di lavoro cessa provviso riamente di esistere, il lavoratore licenziato può vantare solo una
pretesa di carattere risarcitorio, fissata, onde agevolare la posizio ne sostanziale e processuale del lavoratore leso, nella somma forfettaria di cinque mensilità », mentre, nel periodo successivo alla sentenza, al lavoratore deve essere attribuito il trattamento retributivo spettantegli. Sostiene che a seguito del licenziamento il
rapporto di lavoro si interrompe e si determina una situazione di
fatto, non modificabile dal successivo ordine del giudice, e che non si può ritenere che una somma attribuita ex post possa essere considerata come retribuzione e non come risarcimento del danno e che essa possa essere posta alla base dell'obbligo contributivo a favore dell'I.n.p.s.; che la nozione lata di retribu
zione, accolta nell'art. 12 1. n. 153/59, non può prescindere dalla effettiva esistenza del rapporto di lavoro, che nel caso in esame è
mancato; che l'art. 1 d.l. n. 9/76, nel far salva la successiva
regolamentazione dei rapporti, si riferisce alla sistemazione delle
pendenze dei lavoratori con l'impresa all'esito del giudizio e non alla regolamentazione dei rapporti tra l'ex datore di lavoro e la
c.i.g.; che lart. 1, 2° comma, 1. 4 dicembre 1979 n. 640 stabilisce che le indennità pagate ex art. 18 dello statuto dei lavoratori re stano acquisite dai lavoratori come risarcimento.
Le censure non sono fondate. Come la stessa ricorrente ha
evidenziato, le questioni proposte sono state già definite da questa corte con la sentenza n. 1927 del 1976 (Foro it., Rep. 1976, voce Previdenza sociale, n. 195), le cui argomentazioni sono ancora
oggi valide. Il fallimento ricorrente sostiene che il licenziamento
illegittimo ha, comunque, l'effetto di determinare la cessazione irreversibile del rapporto di lavoro e conseguentemente la fine sia
dell'obbligo del lavoratore di prestare le proprie attività sia, correlativamente, dell'obbligo di corrispondere la retribuzione. Tale opinione, secondo cui lo statuto dei lavoratori non avrebbe innovato in nulla la preesistente disciplina dettata dall'art. 12 1. n. 153 del 1969, non può essere accolta. Le modifiche legislative sono infatti sostanziali. Invero, mentre l'art. 12 di tale legge parlava di « riassunzione » ed era, quindi, agevole pensare alla
risoluzione del precedente contratto ed all'obbligo per il datore di
lavoro di una nuova assunzione, per cui il licenziamento, ancor
ché illegittimo, conservava la propria efficacia e poteva determi
nare la risoluzione del rapporto e la necessità della sua ricostitu
zione in prova, l'art. 18 della legge del 1970 ha sostituito il predetto concetto con quello di « reintegrazione » nel posto di lavoro.
Viene cosi posto in evidenza che non vi è un nuovo contratto
che si sostituisce al primo, ma che è il precedente rapporto che
continua senza soluzione di continuità; è stato rilevato in propo sito che si è passati, per effetto di tale norma, da un sistema di
tore potrebbe comunque richiedere il risarcimento del danno arrecato alla sua posizione previdenziale: v. Cass. 30 ottobre 1982, n. 5713, Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro (rapporto), n. 2613, che in relazione alla tutela dei lavoratori licenziati per riduzione di personale, in violazione dei criteri di scelta, afferma la risarcibilità, tra l'altro, del pregiudizio risentito dal lavoratore in ordine alla posizione previdenziale.
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2767 PARTE PRIMA 2768
stabilità obbligatoria ad un sistema di stabilità reale (Cass. n. 2762
del 1985, id., 1985, I, 1290) che non interrompe il rapporto ma
incide sulla sua funzionalità di fatto. Concezione questa che non
è necessariamente collegata con la qualificazione del posto di
lavoro come un bene giuridico oggetto di diritti assoluti in favore
del lavoratore e che non è, quindi, inficiata dall'obiezione che
esso non è un bene giuridico, ma uno status del lavoratore. In
ogni caso, comunque, indipendentemente dalle concezioni dottri
narie sul problema, sussiste un diritto del lavoratore alla conser
vazione della posizione contrattuale anteriore all'evento lesivo o
estintivo del rapporto che si presenta rafforzata rispetto alla
disciplina preesistente.
In base al nuovo precetto legislativo, quindi, il rapporto di
lavoro non viene estinto, ma resta in vita; di conseguenza,
persiste anche l'obbligo di corrispondere la retribuzione, il quale non può ritenersi escluso per effetto dell'osservazione che, essen
do venuto meno l'obbligo del lavoratore di eseguire la propria
prestazione, non può essere venuto meno anche l'obbligo del
datore di lavoro di corrispondere la retribuzione che ne costitui
sce la controprestazione. L'obiezione può essere contestata, come
è stato già fatto, in base a due ordini di considerazione.
Il primo si collega al concetto di mora del datore di lavoro
(mora accipiendi ex art. 1217 c.c.) conseguente al suo rifiuto di
ricevere la prestazione che il lavoratore tiene a sua disposizione; rifiuto illegittimo e quindi nullo che pone a suo carico (art. 1207
c.c.) l'impossibilità della prestazione del lavoratore derivante da
un fatto a lui imputabile e che determina la sopravvivenza del
suo obbligo di corrispondere al lavoratore il salario pattuito, pur se sia mancata la prestazione dell'attività lavorativa; rileva infatti la persistenza del rapporto di lavoro dalla quale deriva nel nostro
ordinamento il diritto del lavoratore di percepire la retribuzione
in varie ipotesi di recesso nullo e, quindi, causa della mora del
creditore (art. 6 r.d.l. 1. 13 novembre 1924 n. 1825; art. 2118 c.c.; art. 5 1. 3 maggio 1955 n. 370; art. 2 1. 30 maggio 1971 n. 1204).
La reintegrazione, invero, ripristina la situazione anteriore e si
attua mediante il comando di ridare al lavoratore il « posto » e
mediante il risarcimento del danno da lui subito in conseguenza della lesione del suo diritto al lavoro. La dichiarazione di
inefficacia del licenziamento, effettuata a norma dell'art. 18 citato,
produce, quindi, un effetto retroattivo in base al principio quod nullum est nullum producit effectum, che è in armonia con il
principio generale secondo cui l'annullamento ha efficacia retroat
tiva in quanto il rapporto giuridico torna ad essere quale era
prima della formazione dell'atto annullato.
La dichiarazione di inefficacia del licenziamento ha, dunque, un
effetto ex tunc e decorre dalla data dell'intimato licenziamento
(Cass. 1985, n. 2762, cit.; 1984, n. 6317, id., Rep. 1984, voce cit.,
n. 232; 1981, n. 5974, id., Rep. 1981, voce Lavoro (rapporto), n.
1864).
Il risarcimento si determina con riferimento a quanto il lavora
tore avrebbe percepito se non vi fosse stata l'illegittima interru
zione del rapporto addebitabile al datore; la retribuzione ha così
la funzione di parametro per la commisurazione del risarcimento,
salva la prova di danno ulteriore a carico del lavoratore o di
danno inferiore ove il datore di lavoro provi 1 'aliunde percep tum (Cass. 1985, n. 2762). In senso proprio dovrebbe parlarsi di
adempimento dell'obbligo contrattuale di corrispondere le retribu
zioni, ma in proposito viene in rilievo il predetto 2° comma
dell'art. 18 secondo cui per il periodo compreso fra licenzia
mento e reintegrazione è dovuto il risarcimento del danno. Al
riguardo il collegio ritiene di doversi adeguare alla tesi ormai
predominante sia in giurisprudenza che in dottrina secondo cui il
non chiaro testo legislativo copre più ipotesi tra loro non
omogenee, ma riconducibili ad una sanzione risarcitoria che in
taluni casi assume una funzione di prestazione accessoria intesa
ad assicurare al lavoratore una riparazione in denaro per il fatto
stesso del licenziamento illegittimo. Le sezioni unite di questa corte con la sentenza n. 2762 del 1985 hanno rilevato che
« risalendo al principio generale proprio dei contratti a prestazio ni corrispettive (art. 1453 c.c.), secondo cui il contraente adem
piente ha in ogni caso diritto al risarcimento del danno per
l'inadempimento, sia che scelga la risoluzione del contratto ..., sia
che ne domandi l'adempimento, con riguardo all'art. 18 dello
statuto, tale regola comporta che la funzione del risarcimento
sarà aggiuntiva, residuale, ove il rapporto prosegua e sarà, invece,
esaustiva, assorbente, ove esso si risolva... ovvero il lavoratore
non chieda la reintegrazione per il venir meno dell'interesse ad
ottenerla o si limiti a chiedere il risarcimento del danno, ovvero,
comunque, non operi la tutela reale » e che anche nel caso in cui il
Il Foro Italiano — 1986.
rapporto non si sia mai validamente estinto, il diritto alla
retribuzione rimane compreso nel più ampio diritto al risarcimen
to del danno, per cui il legislatore ha indicato questo insieme di
rimedi con il termine di « risarcimento » che sta quindi ad
indicare la corresponsione di una somma di denaro, sia essa a
titolo retributivo che risarcitorio.
Il secondo ordine di considerazioni cui si è fatto cenno si
ricollega alla evoluzione legislativa del concetto di retribuzione
che ha visto gradualmente affievolirsi il carattere di corrispettivo della retribuzione la quale in taluni casi (ferie, periodi di
malattia, infortuni e puerperio (art. 2110 c.c.) permessi retributivi
(art. 20 e 22 1. n. 300/70) è dovuta anche quando manca la
prestazione di lavoro. Tale venir meno del carattere di corrispet tivo si manifesta anche nelle leggi concernenti gli assegni familia
ri, come risulta dalla constatazione che mentre il d.l. 1. 1° agosto 1946 n. 692 e l'art, t.u. n. 797/55 consideravano retribuzione
« tutto ciò che il lavoratore riceve direttamente dal datore di
lavoro per compenso dell'opera prestata », le successive 1. n.
1124/65 (art. 29) e n. 153/69 (art. 12) definiscono retribuzione
« tutto ciò che il lavoratore riceve... in dipendenza del rapporto di lavoro, anche in periodo di ferie e in occasione di festivi
tà... ecc. ».
Il rapporto di lavoro ha conservato certamente la sua natura
sinallagmatica, ma al sinallagma tradizionale, di natura concreta, tra la prestazione lavorativa e la retribuzione si è aggiunto tin
sinallagma di natura astratta che deriva dal nesso di interdipen denza esistente tra l'obbligo del datore di lavoro, che trova la sua
fonte costituzionale nell'art. 36 Cost., di assicurare al lavoratore
una esistenza libera e dignitosa ed il correlato obbligo di fedeltà
del lavoratore che si concretizza, oltre che nel dovere di lealtà
(art. 2105 c.c.), anche nel dovere di non prestare la propria opera in favore di terzi. Pertanto, al sinallagma genetico costituito dalla
« prestazione lavorativa-retribuzione », si sostituisce nel corso
dello svolgimento del rapporto un sinallagma funzionale, costitui
to, secondo taluni, dall'« obbligo di fedeltà-retribuzione » e secon
do altri dalla « permanenza del rapporto-retribuzione », cosicché « il concetto di retribuzione è fissato unicamente in riferimento
alla generica sussistenza del rapporto di lavoro, senza alcun
richiamo al principio della corrispettività tra quanto ricevuto e
l'opera effettivamente prestata » (Cass. 1976, n. 1927, id., Rep.
1976, voce Previdenza sociale, n. 195).
Quanto al significato da attribuire alle diverse espressioni usate
dall'art. 18 predetto, il quale prevede l'obbligo di corrispondere la
retribuzione solo per il periodo successivo alla emanazione della
sentenza che ha accertato la illegittimità e la nullità del licenzia
mento ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, mentre il
periodo precedente lo qualifica risarcimento del danno, questa corte di legittimità ha già chiarito che, malgrado la diversità
concettuale delle due espressioni, il legislatore ha voluto assicura re al lavoratore « in ogni caso » almeno la retribuzione; nel
risarcimento che gli si è attribuito ci potrà essere un quid pluris
rispetto al lucro cessante, costituito dalla perdita dell'importo corrispondente ad almeno cinque mensilità, se il danno risulterà
superiore, ma tali mensilità, per tale periodo minimo previsto, devono in ogni caso essergli corrisposte indipendentemente dall'as solvimento dell'onere probatorio; è, quindi, evidente che non si tratta di risarcimento del danno in senso proprio, se non per la
parte eccedente tale misura.
Il legislatore è partito dal presupposto che il licenziamento
illegittimo costituisca un inadempimento contrattuale che legitti ma, ai sensi dell'art. 1460 c.c., l'eccezione inadimplenti non est
adimplendum. Il risarcimento del danno trova quindi la propria ratio nel fatto che il lavoratore licenziato, non essendo più tenuto
all'obbligo di fedeltà, è autorizzato a prestare la propria opera in
favore di terzi nel periodo compreso tra la data del licenziamento
e la data della sentenza che dispone la reintegrazione. Sussistendo
la presunzione di danno nella misura minima di cinque mensilità, il lavoratore è tenuto a provare solo il danno eccedente tale
limite, sia esso a titolo di lucro cessante che di danno emergente (ad es. interessi passivi per mutui).
L'art. 18, 2° comma, 1. n. 300/70 ha inteso comprendere nel
concetto di risarcimento, sia il vero e proprio risarcimento del
danno, sia la liquidazione delle retribuzioni per il periodo prece
dente, la quale è perfettamente coerente con il « ripristino » del
rapporto di lavoro per il futuro al quale è obbligato il datore,
ma vi è tenuto anche il lavoratore (salvo che voglia volontaria mente determinare la cessazione) per il quale rinasce l'obbligo di
fedeltà per effetto del quale non può più lavorare per terzi,
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
nemmeno nell'ipotesi che il datore rifiuti di ricevere la sua
prestazione pur corrispondendogli la retribuzione. La violazione di tale obbligo abiliterebbe il datore a chiedere la risoluzione del
rapporto per inadempimento della prestazione lavorativa nel caso in cui il dipendente rifiutasse di riprendere servizio ovvero fosse
inadempiente all'obbligo di fedeltà.
Nel caso in esame il giudice del merito ha stabilito — con accertamento di fatto incensurabile in questa sede perché ade
guatamente motivato — che la somma corrispondente a cinque mensilità è equivalente all'importo delle retribuzioni non percepi te nei primi cinque mesi successivi al licenziamento; non vi è
stata, quindi, condanna al risarcimento dei danni derivanti da altro
titolo, ma solo condanna a corrispondere le retribuzioni dovute
per il licenziamento illegittimo; l'importo dovuto ai lavoratori è,
quindi, di natura retributiva ed il datore di lavoro è, pertanto, tenuto a corrispondere all'I.n.p.s. i contributi previdenziali relativi a tale importo (Cass. 1984, n. 6317; 1976, n. 1927). (Omissis)
II
Motivi della decisione. — Con il primo mezzo di annullamento la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 12 1. 30 aprile 1969 n. 153 e degli art. 15 e 18 1. 20 maggio 1970 n.
300, nonché degli art. 1418 e 2119 c.c., anche in relazione all'art.
12 disp. sulla legge in generale.
Sostiene che, alla stregua dell'orientamento giurisprudenziale espresso da questa corte con la sentenza n. 1927 del 1976, Foro
it., Rep. 1976, voce Previdenza sociale, n. 195), il tribunale avrebbe dovuto affermare la sussistenza dell'onere contributivo sulle somme liquidate dal Pretore di Poggibonsi con la sentenza
con la quale aveva dichiarato nullo il licenziamento intimato
dalla società Toscacavi alla dipendente Pistoiesi, posto che il
licenziamento illegittimo a norma dell'art. 18 cit. non interrompe il rapporto di lavoro e non fa venir meno il diritto del prestatore alla retribuzione.
Nella specie, inoltre « il licenziamento — sostiene l'istituto
ricorrente — era stato dichiarato nullo ai sensi dell'art. 15, lett.
b, 1. n. 300/70 » con la conseguenza della decorrenza ex tunc
degli effetti della sentenza che accerta la nullità, della insanabilità
dell'atto, della rilevabilità di ufficio della nullità.
Tenuto conto dell'assoluta nullità del licenziamento determinato
dalla partecipazione del dipendente ad uno sciopero o dallo
svolgimento da parte sua di attività sindacale (art. 5 1. n. 604/66
e art. 15 1. n. 300/70) il cosiddetto risarcimento del danno
liquidato in favore della Pistoiesi non è conseguente al fatto
illecito rappresentato dal licenziamento, ma conseguenza del con
fermato rapporto di lavoro.
Osserva il collegio che l'istituto ricorrente, pur in modo espres so ricollegando il diritto della Pistoiesi a percepire le somme che
si assumono soggette a contribuzione previdenziale alla sentenza
del Pretore di Poggibonsi, che, dichiarata l'illegittimità del licen
ziamento, aveva posto il pagamento di tali somme a carico della
società, non si preoccupa di verificare quale sia in concreto la
portata precettiva di detta sentenza, ovvero, più propriamente,
quale portata ad essa abbia assegnato il giudice del merito con la
decisione qui denunziata; illustra infatti, in astratto, la disciplina del licenziamento determinato da motivi sindacali secondo le
norme degli art. 5 e 15 cit.
Il Tribunale di Siena, accogliendo l'appello della Toscacavi —
la quale, come si legge nella narrativa della sentenza in esame, aveva dedotto, tra l'altro, che « il Pretore di Siena avrebbe
dovuto ritenere, secondo la stessa sentenza del Pretore di Poggi
bonsi, esaurito il rapporto di lavoro alla data del licenziamento » — ha affermato che, a seguito di tale sentenza, il rappor
to di lavoro, venuto meno all'atto del licenziamento, non era
stato ricostituito, sicché le somme corrisposte sia pue in mi
sura corrispondente a quella che sarebbe dovuta essere la re
tribuzione, di questa non avevano la natura.
Questa interpretazione della sentenza del Pretore di Poggibonsi non è stata censurata dall'I.n.p.s., che ha fatto oggetto di critica
soltanto le ulteriori considerazioni in diritto della sentenza, e cioè
quella parte della motivazione che assegna portata generale a
considerazioni, come si vedrà, meritevoli di consenso solo con
riguardo al caso concreto. Ma l'erroneità di tali argomentazioni, non incidendo sulla legittimità del dispositivo di rigetto della
domanda dell'istituto, non porta all'accoglimento del ricorso, ma
soltanto alla correzione della motivazione a norma dell'art. 384,
cpv., c.p.c.
Il Foro Italiano — 1986.
In effetti quel pretore, accogliendo parzialmente la domanda della lavoratrice, aveva disatteso la richiesta di reintegrazione nel
posto di lavoro, ritenendo che non fossero applicabili « le dispo sizioni della legge del 1966 né le disposizioni dello statuto
dei lavoratori relative al licenziamento per giustificato motivo e alla reintegrazione nel posto di lavoro, m considerazione del
numero dei dipendenti della società convenuta», e, affermata la nullità del licenziamento, aveva chiarito che « non può tutta
via essere ordinata la riassunzione nel posto di lavoro, in quanto la legge fa discendere dalla nullità del licenziamento il solo di
ritto al risarcimento del danno».
Quest'ultima argomentazione, che riferita al caso concreto, può
rappresentare l'espressione di una sostenibile tesi giuridica e che,
comunque, è coperta dal giudicato, si ritrova, quasi alla lettera, nella motivazione della sentenza impugnata, con una generalizza zione non necessaria ai fini della decisione (essendo per questa sufficiente la già compiuta indagine di fatto sul contenuto della
sentenza portante la condanna al pagamento delle somme, ai fini
contributivi, controverse) e certamente errata.
Invero la reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall'art. 18
1. 20 maggio 1970 n. 300, il quale ha introdotto il sistema della
stabilità reale sostituendolo a quello preesistente della stabilità
obbligatoria, comporta che il rapporto di lavoro deve intendersi
ripristinato con effetto ex tunc dalla data dell'intimato licenzia
mento (conf. sent. nn. 5974/81, id., Rep. 1981, voce Lavoro
(rapporto), n. 1864; 1927/76, cit.); con la necessaria conseguenza che, essendo contenuta nella somma corrisposta a titolo di
risarcimento anche, ed in primo luogo, la retribuzione, grava sul
datore di lavoro anche l'onere contributivo sull'intero ammontare
del danno liquidato, nel caso in cui la liquidazione coincida con
l'importo di quella che sarebbe stata la retribuzione nel normale
svolgimento del rapporto (conf. la cit. sent. n. 1927/76).
A questa stessa conclusione si perviene con riguardo alle
ipotesi di nullità assoluta del licenziamento, ove sia stata fatta
applicazione del principio, enunciato da alcune sentenze di questa corte (nn. 7500/83, id., Rep. 1983, voce cit., n. 2116; 827/80, id.,
Rep. 1980, voce cit., n. 1381), secondo cui l'accertata nullità, a
norma dell'art. 4 1. n. 604 del 1966, dell'atto di licenziamento
comporta la continuazione del rapporto di lavoro, come se quel l'atto non fosse mai intervenuto (art. 1418 c.c.).
Diverso è il caso in cui il licenziamento sia stato dichiarato
nullo o inefficace, ma sia stato dal giudice escluso il diritto alla
prosecuzione del rapporto, e, ritenendosi in concreto applicabile la disciplina della stabilità soltanto obbligatoria, sia stato pronun ziato il mero risarcimento del danno.
A norma dell'art. 12 1. 30 aprile 1969 n. 153, ai fini del calcolo
dei contributi previdenziali ed assistenziali, costituisce retribuzio
ne tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro, rimanendo escluse dalla retribuzione imponibile le somme corri
sposte per i titoli tassativamente elencati nel 2° comma del citato
articolo.
La condizione oggettiva della dipendenza del rapporto di lavo
ro prescinde dall'esistenza di un rigoroso vincolo di corrispettivi tà tra erogazione e prestazione di lavoro, ricorrendo anche nei
casi di corresponsione di somme in adempimento di obbligazioni aventi origine e titolo nel rapporto di lavoro, pur se destinate a
soddisfare esigenze di vita personale e familiare del dipendente; senza che possa scadere, peraltro, a mera occasionalità.
In conseguenza non può' essere inclusa nella retribuzione impo nibile il pagamento imposto al datore di lavoro, in favore del
lavoratore licenziato, da sentenza che, dichiarata l'illegittimità del
licenziamento, abbia ritenuto non operante la c.d. tutela reale e
limitato la condanna al risarcimento del danno anche se questo abbia liquidato in somma corrispondente alla retribuzione che al
lavoratore sarebbe spettata per un certo tempo (nella specie dal
licenziamento alla data della sentenza). Una volta escluso il ripristino del rapporto l'obbligazione
dell'ex datore di lavoro non trova la sua causa nel rapporto di
lavoro, della quale è giudizialmente accertata la cessazione, ma
nell'autonoma (anche se occasionata dal detto rapporto) causa
risarcitoria.
Il motivo va pertanto respinto. (Omissis)
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