Sezione I civile; sentenza 4 novembre 1980, n. 5911; Pres. Sandulli, Est. Virgilio, P. M. Grimaldi(concl. conf.); Calò (Avv. Bellisario) c. Min. finanze (Avv. dello Stato Bruni). Conferma App.Bari 23 gennaio 1978Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 4 (APRILE 1981), pp. 1119/1120-1123/1124Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23172858 .
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1119 PARTE PRIMA 1120
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Per ottenere la
condanna di Rina Valicella al pagamento di residui debiti in
relazione alla cessione di un'azienda, Giuseppe e Ferdinando
Venturoli la convenivano dinanzi al Tribunale di Ferrara con atto
di citazione notificato il 23 maggio 1972.
La Valicella si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda
sulla base di varie considerazioni difensive. Dopo alcuni rinvii
disposti su istanza di entrambe le parti, all'udienza del 7 giugno 1973 il giudice istruttore, dopo aver cancellato la causa dal ruolo
alle ore 10,30, ai sensi dell'art. 309 cod. proc. civ., riapriva il
verbale pochi minuti dopo avendo constatato la presenza dei
procuratori delle parti.
Proseguito il suo corso, la causa passava in decisione, ed il
tribunale con sentenza 1° aprile 1974 condannava la Valicella al
pagamento di lire 3.135.455, oltre agli interessi ed al rimborso
delle spese processuali. Sul gravame della soccombente, la Corte d'appello di Bologna
confermava la pronuncia dei primi giudici osservando che, per
quanto l'ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo sia
irrevocabile e non impugnabile, « è pur vero che, nonostante tale
provvedimento, il processo ebbe la sua prosecuzione ed il suo
svolgimento con il consenso di entrambe le parti, le quali —
come si rileva dal verbale di udienza del 26 settembre 1973 —
chiesero addirittura concordemente che venissero escussi i testi
moni presenti; sicché, avendo l'appellante accettato allora il
contraddittorio per tutto il corso del giudizio, non può ora dolersi
allegando la revoca di un provvedimento irrevocabile, non viola
tore della legge del contraddittorio, né pregiudizievole del diritto
di difesa ».
Quanto alla testimonianza la cui assunzione sarebbe vietata per il rapporto di parentela ed affinità fra i testi e gli attori, la corte
d'appello ha osservato che l'appellante non aveva nulla obiettato
nell'anteriore fase del processo; senza contare che la norma
dell'art. 247 cod. proc. civ. è stata dichiarata illegittima da Cor
te cost. 248/1974 (Foro it., 1974, I, 2220). Contro questa sentenza, Rina Valicella propone ricorso per
cassazione deducendo due censure. Resistono i Venturoli con
controricorso.
Motivi della decisione. — Insiste la ricorrente con il primo motivo nel dedurre che il processo non poteva essere proseguito dopo che era stata emessa l'ordinanza, irrevocabile e non impu gnabile, di cancellazione della causa dal ruolo ai sensi dell'art. 309 cod. proc. civ. Tale prosecuzione illegittima avrebbe pregiudi cato il suo diritto di difesa, essendo la convenuta decaduta dal
cit., n. 19 (che risolve la questione in base alle norme di rito in vigore anteriormente alla legge 14 luglio 1950 n. 581).
Contra, nel senso della irrevocabilità dell'ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo, anche se emessa in difetto dei presupposti di legge, v. Trib. S. Maria Capua Vetere 24 gennaio 1958, id., Rep. 1958, voce cit., n. 16; App. L'Aquila 27 aprile 1952, id., Rep. 1952, voce cit., n. 31.
Afferma invece che l'ordinanza de qua è reclamabile al collegio ex art. 178 cod. proc. civ. Cass. 12 maggio 1956, n. 1548, id., Rep. 1956, voce cit., n. 33. Nello stesso senso Cass. 16 ottobre 1951, n. 2639, id., Rep. 1951, voce cit., nn. 9, 19, e in Giur. it., 1952, I, 1, 677.
In ogni caso, secondo Cass. 26 luglio 1974, n. 2266, Foro it., Rep. 1974, voce Procedimento civile, n. 274, anche la cancellazione della cau sa dal ruolo, al pari dell'istanza di estinzione, deve essere eccepita dalla parte interessata nella prima difesa del giudizio in cui si è verificato il motivo determinante della cancellazione e non può essere proposta per la prima volta in appello.
In dottrina afferma la revocabilità dell'ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo da parte dello stesso giudice che l'ha emanata in mancanza dei presupposti di legge Ventrella, Annullamento d'ufficio di ordinanza illegittima di cancellazione della causa dal ruolo, in Giust. civ., 1974, I, 1263. Contra v. A. Finocchiaro, L'ordinanza non impugnabi le di cancellazione della causa dal ruolo e i poteri del giudice dell'estinzione, id., 1967, I, 804 ss.
La dottrina, in genere, si è però limitata ad affermare che le ordinanze non impugnabili costituiscono una eccezione al principio della loro generale revocabilità e modificabilità da parte del giudice che le ha emesse e che le questioni da esse affrontate non possono essere riproposte al collegio, il quale non può neppure d'ufficio riesaminarle: cosi Redenti, Diritto processuale civile, Milano, 1953, II, 181; S. Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1981, 296; 1d„ Com mentario, Milano, 1960, II, 66; Andrioli, Commento, Napoli, 1960, IIs, 53 ss.; Costa, Manuale di diritto processuale civile, Torino, 1980, 238; Zanzucchi, Diritto processuale civile, Milano, 1964, II, 465; Lancellot ti, Ordinanza (dir. proc. civ.), voce del Novissimo digesto, Torino, 1965, XII, 83; Pajardi, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, Torino, 1980, II, 546. In generale, sulla cancellazione della causa dal ruolo v. Fanelli, La cancellazione della causa dal ruolo nel processo civile, Milano, 1953; Massari, Cancellazione della causa dal ruolo, voce del Novissimo digesto, Torino, 1958, II, 821; Colesanti, La cancellazione della causa dal ruolo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 196.
potere di dedurre prova testimoniale, cosi come avevano fatto gli attori.
La censura è infondata. Come risulta dalla esposizione in fatto,
il verbale fu riaperto dalle ore 10,45, essendosi il giudice istrutto
re accorto che erano presenti in udienza i procuratori delle parti; il processo ebbe quindi il suo corso per altre quattro udienze,
prima che la causa fosse introitata a sentenza.
In questa situazione processuale, mentre va rilevato che, avendo
la causa avuto un normale svolgimento istruttorio, non sono stati
pregiudicati i diritti di difesa, deve riconfermarsi il principio
(Cass. 14 marzo 1974, n. 717, id., Rep. 1974, voce Procedimento
davanti al pretore e al conciliatore, n. 5) secondo cui l'irrevoca
bilità e la non impugnabilità delle ordinanze di cancellazione
della causa dal ruolo non escludono che le stesse, ove siano
state emesse nel difetto dei presupposti richiesti dalla legge — come avviene per l'erroneo presupposto che l'udienza sia
stata disertata da entrambe le parti —, possano essere eliminate
dal mondo giuridico, stante la carenza dei requisiti essenziali che
ne giustificano l'emissione. (Omissis) Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 4 no
vembre 1980, n. 5911; Pres. Sandulli, Est. Virgilio, P. M.
Grimaldi (conci, conf.); Calò (Avv. Bellisario) c. Min. finanze
(Avv. dello Stato Bruni). Conferma App. Bari 23 gennaio 1978.
Appello civile — Rinuncia agli atti del giudizio di secondo grado — Nuovo atto di appello — Inammissibilità — Fattispecie
(Cod. proc. civ., art. 165, 306, 338, 347).
È inammissibile, per passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado, l'appello notificato, pur nei termini di impugna
zione, dopo che l'impugnante abbia rinunciato agli atti del
giudizio di appello precedentemente proposto avverso la mede
sima sentenza; né il nuovo gravame può in tal caso valere
come atto di riassunzione del precedente procedimento, in cui
nessuna delle parti si sia costituita, giacché questo deve consi
derarsi ormai estinto in conseguenza dell'intervenuta rinuncia
(nella specie, l'appellante, non essendosi costituito nel termine
di cui all'art. 165 cod. proc. civ., e mentre era in corso il
termine per la costituzione dell'appellato parzialmente soccom
bente, aveva, con due atti notificati in pari data, rinunciato agli atti del proposto giudizio di appello e notificato nuovo gra
vame). (1)
La Corte, ecc. — Il ricorrente deduce: 1) erroneamente la corte
d'appello ha esaminato l'eccezione di inammissibilità del gravame
per consumazione del diritto di impugnazione, pur essendo stata
l'eccezione stessa proposta dall'amministrazione finanziaria, soltan
to con la comparsa conclusionale; 2) comunque, la consumazione
del potere di impugnazione non si era verificata perché il primo atto di appello, anche se notificato alla controparte, era rimasto
caducato per non essere stato iscritto a ruolo nei termini, e — in
ogni caso — la detta consumazione presupponeva che fosse
intervenuta la dichiarazione giudiziale di inammissibilità o impro cedibilità della precedente impugnazione.
Le censure prospettate con i due motivi sono correlate alle
argomentazioni poste dalla corte d'appello a fondamento della
decisione, ma la prospettiva nella quale il problema processuale doveva essere considerato comportava un'indagine molto più am
pia e notevolmente diversa. Il dispositivo della sentenza è, tuttavia, conforme a diritto, per
cui, mentre perdono consistenza le censure rivolte alle argomenta zioni dei giudici di appello, ricorre tipicamente il caso della
(1) Limitatamente alla prima parte della massima, cfr. in senso analogo, con riferimento alla rinuncia al ricorso per cassazione, Cass. 28 luglio 1967, n. 2007, Foro it., Rep. 1967, voce Cassazione civile, n. 206, per esteso in Riv. dir. proc., 1970, 519, con nota critica di Amato
(Rinuncia al ricorso per cassazione inammissibile o improcedibile e riproponibilità del ricorso), ove si richiama però il diverso principio della consumazione del potere d'impugnazione. Di diverso avviso sembra invece App. Napoli 11 luglio 1963, Foro it., Rep. 1963, voce Estinzione del processo, n. 9, che, ammessa la possibilità di indagare circa l'effettiva volontà del dichiarante, esclude che possa valere come rinuncia agli atti del giudizio la rinuncia che sia accompagnata dalla contestuale riproposizione dell'atto di appello.
Sulla diversa questione delle conseguenze della doppia iscrizione a ruolo — su iniziativa dell'appellante e dell'appellato — della stessa causa in appello, v. Cass. 6 marzo 1980, n. 1508, id., 1980, I, 3040, con nota di Balena, Duplice iscrizione e ruolo della stessa causa e mancata riunione dei procedimenti.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
correzione della motivazione ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civile. Ciò premesso, questa Corte suprema, nell'esercizio dei poteri
che le sono conferiti qualora il giudice del merito sia incorso in errores in procedendo, ancorché influenti soltanto sulla correttez za della motivazione, deve preliminarmente procedere alla precisa ricostruzione della fattispecie concreta.
Contro la sentenza del tribunale dell'8 luglio 1975 il Calò
(attuale ricorrente) propose appello con atto notificato all'ammi nistrazione delle finanze il 10 luglio dell'anno successivo, ossia nel termine prescritto, tenuto conto del periodo di sospensione del detto termine nel periodo feriale.
L'impugnazione, ritualmente notificata, non fu seguita dalla costituzione dell'appellante ai sensi del combinato disposto degli art. 347 e 165 cod. proc. civile.
In questa situazione, quando era decorso il termine di dieci
giorni dalla notificazione, per la costituzione dell'appellante, questi notificò all'amministrazione due separati atti, entrambi in data 24
luglio 1976; con il primo dichiarò di rinunziare, ai sensi dell'art. 306 cod. proc. civ., agli atti del giudizio promosso davanti alla
Corte di appello di Bari con l'atto notificato il 10 luglio 1976, mentre con il secondo provvide alla rinnovazione di tale prece dente gravame.
Questo nuovo atto di appello fu ritualmente iscritto a ruolo, e l'amministrazione finanziaria — nel costituirsi con comparsa di
risposta del 15 novembre 1976 — resistette alla impugnazione, deducendo, tra l'altro, che il Calò aveva rinunziato all'appello, come risultava dai documenti esibiti.
La situazione processuale che si era determinata per effetto del
susseguirsi degli atti suindicati comporta alcuni rilievi preliminari. Nel momento in cui furono notificati i due ultimi atti (rinunzia
agli atti del giudizio e contemporanea riproposizione della identi
ca precedente impugnazione), ossia alla data del 24 luglio 1976, era già decorso il termine assegnato all'appellante per la costitu
zione relativa al primo atto di gravame, mentre era ancora
pendente il termine entro il quale l'amministrazione appellata avrebbe potuto provvedere essa alla costituzione, conferendo cosi' il necessario impulso processuale al giudizio d'impugnazione che
era stato instaurato con l'appello proposto in data 10 luglio 1976.
L'appellata amministrazione infatti avrebbe potuto costituirsi fino a cinque giorni prima della udienza di comparizione indicati
dall'appellante, che era quella del 20 settembre 1976.
Nel termine stesso l'appellata avrebbe potuto proporre impu
gnazione incidentale e ogni altra eccezione processuale o di
merito che avesse ritenuto necessaria od opportuna a sua difesa, anche con riferimento alle ipotesi di improcedibilità (art. 348 cod.
proc. civ.), che si sarebbero potute eventualmente verificare, in caso di persistente non costituzione dell'appellante.
In tale contesto processuale va considerata l'incidenza che sul
procedimento d'impugnazione esplicarono, da un verso, l'esplicita rinunzia agli atti del giudizio promosso con il primo atto di
appello (compiuta con espresso riferimento all'art. 306 cod. proc. civ.) e, dall'altro, la « rinotificazione » nella stessa data della
rinunzia, del medesimo atto di appello, seguita questa volta da
regolare costituzione delle parti. È noto che la rinunzia agli atti del giudizio è un istituto di
diritto processuale previsto e disciplinato, nella forma e negli effetti, dall'art. 306 del codice di rito, e consiste in una manifesta
zione di volontà dell'attore (o dell'appellante) di porre fine al
processo senza ottenere la sentenza di merito (Cass. 23 giugno 1964, n. 1633, Foro it., Rep. 1964, voce Procedimento civile, n.
339; e 7 ottobre 1964, n. 2547, ibid., voce Estinzione del proces so, n. 7).
Dal punto di vista della struttura giuridica la rinunzia si
configura come negozio (processuale) dispositivo che riguarda, come è stato ritenuto nelle menzionate sentenze, non i singoli atti
processuali, isolatamente considerati, ma il rapporto processuale nel suo complesso, e colpisce anche la procura al difensore (Cass. 22 ottobre 1968, n. 3396, id., Rep. 1968, voce cit., n. 10).
L'istituto, pur essendo unitariamente disciplinato sia per il
giudizio di primo grado che di appello, esplica tuttavia una
diversa efficacia, nei due casi, perché diversa è — nei casi stessi — la situazione processuale nell'ambito della quale si inserisce, con la sua portata elidente, l'esercizio del potere dispositivo che
compete all'attore e all'appellante. In primo grado l'operatività della rinunzia è in genere più
semplice e lineare, per quanto riguarda gli effetti che ne deriva
no, perché essa travolge completamente e tutti gli atti processuali intervenuti, ripristinando lo status quo ante rispetto alla instaura zione del giudizio.
Diversa è, peraltro, l'ipotesi, che nella presente controversia non
interessa, di rinunzia agli atti del giudizio intervenuta in primo
grado ma dopo l'emissione di una sentenza non definitiva.
L'esercizio del potere di rinunzia in fase di appello non incide sull'attività giurisdizionale che siasi già esplicata in una pronuncia di merito, come chiaramente dispone l'art. 310 cod. proc. civ. (che disciplina gli efletti della estinzione del processo, e quindi anche
quelli dipendenti da estinzione per rinunzia); e in relazione a tale
principio questa corte ha avuto occasione di precisare (Cass. 21
gennaio 1971, n. 130, id., Rep. 1971, voce Procedimento civile, n.
421) che la rinunzia agli atti del giudizio compiuta in appello importa il passaggio in giudicato della sentenza di merito che ha
concluso il giudizio di primo grado. La eventuale dichiarazione con la quale una delle parti rinunzi alla sentenza impugnata può essere intesa esclusivamente come rinunzia agli effetti del giudica to, cioè come produttiva di efficacia abdicativa in ordine all'og getto sostanziale del giudicato, ma non può giammai comportare alcuna conseguenza di natura processuale incidente in qualche modo sulla res iudicata, derivante dalla sentenza di primo grado, ovvero sul divieto del bis in idem.
In correlazione con queste affermazioni è stato quindi ritenuto che le parti non hanno il potere di chiedere al giudice una nuova
decisione sulla controversia decisa con la sentenza di primo grado passata in giudicato e che la rinunzia agli atti del giudizio compiuta in fase di appello può riguardare soltanto il processo di
gravame e non anche quello di primo grado. Alla stregua di tali principi deve ritenersi che la rinunzia agli
atti del giudizio effettuata dal Calò con l'atto notificato il 24
luglio 1976, con espresso riferimento al processo instaurato con il
gravame notificato il tO dello stesso mese, determinò la estinzione del giudizio di appello e, di conseguenza, il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.
Non può infatti, dubitarsi che nel momento dell'esercizio del
potere di rinunzia il procedimento di appello era già pendente, in
quanto tale pendenza era automaticamente derivata dalla notifica zione dell'atto di impugnazione, anche se non seguita da iscrizio ne a ruolo e da costituzione dell'appellante (Cass. 14 ottobre
1969, n. 3335, id., Rep. 1969, voce cit., n. 389).
Si era, dunque, in presenza di rinunzia agli atti del giudizio, cosi peraltro letteralmente qualificata dallo stesso rinunziante, attuata con lo strumento tecnico espressamente previsto dall'art. 306 cod. proc. civ. ossia con atto sottoscritto e notificato all'altra
parte. Né sarebbe possibile alcuna discussione o interpretazione sul
contenuto e sugli effetti della rinunzia.
Anche gli atti processuali sono soggetti al procedimento di
ermeneutica da parte del giudice, dopo la individuazione del
contenuto dell'atto non è consentito attribuirgli un effetto diverso
da quello previsto dalla legge. È stato precisato da questa corte (Cass. 23 maggio 1972, n.
1606, id., Rep. 1972, voce cit., n. 166) che negli atti processuali la
volontà non ha lo stesso rilievo che negli atti di diritto sostanzia
le, perché la struttura del processo, nel quale domina l'attività
dell'organo giurisdizionale, condiziona l'autonomia delle parti, vincolando gli effetti della loro attività entro schemi tipici presta biliti, di guisa che gli atti processuali, pur essendo volontari nel loro compimento, spiegano i loro effetti secondo le modalità che a
ciascun tipo la legge riconnette, senza che sia normalmente
ammissibile una divergenza della manifestazione rispetto all'inten zione dell'agente.
Alla stregua di questo principio, l'eventuale diversa finalità che
si fosse proposta il Calò nel compiere la rinunzia agli atti del
giudizio di appello (la quale fu, peraltro, rigorosamente stilata
come mera rinunzia agli atti del giudizio ai sensi dell'art. 306 cod.
proc. civ.) sarebbe stata dunque irrilevante sul piano degli effetti,
giacché questi non sarebbero potuti essere che quelli previsti dalla
legge, in ottemperanza della richiamata regola della tipicità del
contenuto e della funzione degli atti processuali. Ciò posto, resta da stabilire se la rinunzia del Calò fu accettata
dall'amministrazione finanziaria, essendo tale elemento necessario
per il completamento della fattispecie estintiva (art. 306 cit.), con
conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. L'accettazione è richiesta per le parti costituite « che potrebbe
ro avere interesse alla prosecuzione » del giudizio, ma nel caso in
esame una tale indagine è superflua perché con la comparsa di
risposta del 15 novembre 1976 l'amministrazione finanziaria si
oppose alla impugnazione, deducendo, tra l'altro, che il Calò
aveva rinunziato all'appello. Con ciò evidentemente fu manifestata la volontà di accettazione
della rinunzia; la quale accettazione, d'altronde, non era neppure necessaria perché l'appellata, sia pure formalmente soccombente
sul capo di pronuncia di primo grado circa la illegittimità degli accertamenti di maggior reddito, aveva però (come ammette
espressamente anche nel ricorso in questa sede il Calò) restituito
tutti i tributi derivanti dagli accertamenti stessi, sicché nessun
risultato utile e giuridicamente apprezzabile (Cass. 24 settembre
Il Foro Italiano — 1981 — Parte I-72.
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PARTE PRIMA 1124
1979, n. 4917, id., Rep. 1979, voce cit., n. 273) avrebbe potuto
conseguire con la prosecuzione del processo, mentre tale prosecu zione avrebbe potuto giovare esclusivamente all'appellante, in
quanto insisteva nella istanza, rigettata in primo grado, di liqui dazione degli interessi e di altri accessori sulle somme rimborsate
dall'amministrazione.
Nella situazione processuale che si era determinata in conse
guenza della rinunzia agli atti del giudizio è evidente che la
rinotificazione dell'atto di appello, in data 24 luglio 1976, non era
idonea per riattivare il precedente giudizio di appello, non iscritto
a ruolo, né per instaurarne ritualmente un secondo (in argomento, con riferimento al ricorso per cassazione, v. Cass. 28 luglio 1967, n. 2007, id., Rcp. 1967, voce Cassazione civile, n. 206).
Si è già rilevato che la rinunzia agli atti del giudizio avvenne
in pendenza del processo e mentre era ancora in corso il termine
entro il quale avrebbe potuto costituirsi l'amministrazione (appel
lata), sicché la rinunzia stessa, integrata dall'accettazione espressa dall'amministrazione nel costituirsi a seguito della notificazione
del secondo atto di appello, determinò il fenomeno della estinzio
ne del giudizio di appello riferentesi alla controversia decisa in
primo grado tra le stesse parti, ossia del giudizio che era stato
ritualmente instaurato mediante notificazione ed era perciò pen dente, ma aveva costituito oggetto di rituale rinunzia.
Questa situazione precludeva evidentemente ogni possibilità di
conferire nuovamente impulso processuale a quel giudizio con la
rinotificazione dell'atto di gravame. Al secondo atto di appello (più esattamente alla rinnovazione
dell'identico atto di appello) si sarebbe potuta attribuire efficacia
di riassunzione de! precedente processo quiescente soltanto se non
fosse intervenuta la rinuncia agli atti del giudizio. È stato infatti ritenuto (Cass. 25 luglio 1977, n. 3304, id., Rep.
1977, voce Procedimento civile, n. 28) che, di fronte alla diserzio
ne bilaterale del giudizio, ossia quando nessuna delle parti siasi
costituita, la riassunzione effettuata mentre è ancora in corso il
più ampio termine concesso al convenuto (art. 166 cod. proc. civ.) diventa concretamente idonea a dare ulteriore impulso al proces so, perché in tal caso si realizza appunto quella ipotesi di diserzione bilaterale cui l'atto di riassunzione intende ovviare.
Ma questo principio non è, comunque, applicabile alla fattispe cie concreta, nella quale è intervenuto, con tutte le conseguenze avanti indicate, l'atto di rinunzia agli atti del giudizio.
In conclusione, la corte d'appello avrebbe dovuto, previa decla ratoria di estinzione del giudizio di appello, ritenere inammissibi le il secondo atto di gravame, sia sotto il profilo di riassunzione
del giudizio precedentemente instaurato, sia come impugnazione proposta ex novo, ostandovi il divieto del bis in idem. Sotto
questo profilo avrebbe dovuto essere considerata e dichiarata la
detta inammissibilità, e non con riferimento al fenomeno della consumazione del diritto di impugnazione, il quale è fondato di
regola sul presupposto della esistenza di un atto viziato che può essere utilmente rinnovato, nel termine di legge, soltanto se
rispetto ad esso non sia intervenuta una declaratoria di inammis sibilità o irnprocedibilità.
Con queste correzioni di motivazione la pronuncia della corte
d'appello va confermato con conseguente rigetto del ricorso. Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 30 otto bre 1980, n. 5830; Pres. Vigorita, Est. Granata, P. M. Fer raiuolo (conci, conf.); Soc. Biancardi (Avv. Scarnati, Aldi
nio, Szegò) c. Soc. I.n.c.a.m. (Avv. D'Alessio), Fall. Borroni.
Conferma App. Milano 10 maggio 1977.
Fallimento — Accertamento del passivo — Appello proposto anche nei confronti del curatore del fallimento del coobligato fallito in primo grado — Improcedibilità dell'intero giudizio (Cod. proc. civ., art. 103, 299, 300, 330, 331, 332, 338, 350; r. d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 24, 43, 52, 95).
È improcedibile la domanda di risarcimento dei danni, allorché uno dei convenuti proponga appello anche nei confronti del curatore del fallimento di altro convenuto, fallito in penden za del procedimento di primo grado, senza che l'evento sia stato comunicato dal difensore, in considerazione della vis at tractiva del foro fallimentare e del rapporto di dipendenza fra la causa di regresso, introdotta dall'appellante, e quella princi pale (nella specie, la corte ha confermato la sentenza dichia rativa dell'improcedibilità, negando che fosse una pronuncia
sulla competenza, impugnabile soltanto con il regolamento di
competenza e respingendo, quindi, l'eccezione d'inammissibi
lità del ricorso ordinario). (1)
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Nell'esecu
zione di lavori per la costruzione di un fabbricato per conto della sua committente, soc. coop, a r. 1. Istituto
nazionale case ai maestri - I.n.c.a.m., l'impresa Borroni di
Gianfranco Borroni, appaltatrice, nel giugno 1970 addossa
ci) I. - In riferimento al fallimento di una parte di un processo con
pluralità di parti vedi: — Cass. 16 febbraio 1979, n. 1030 (est. Scanzano), Foro it., 1980,
I, 413, secondo cui: « L'improcedibilità del giudizio tra il creditore
ed alcuni dei condebitori, determinata dal fallimento di questi ultimi non impedisce che il giudizio possa proseguire nei confronti di altro condebitore in bonis-, è orientamento pacifico, d'altronde, che la
solidarietà non determina la necessità del litisconsorzio fra i con debitori »;
— Trib. Milano 13 ottobre 1975, id., Rep. 1976, voce Fallimento, n. 175, ha affermato che, dichiarato interrotto il giudizio a seguito di
fallimento di un condebitore solidale, l'eventuale proposizione dell'in sinuazione al passivo del fallimento di quest'ultimo nelle forme del l'art. 101 1. fall., non è sottoposta al termine ex art. 307 cod. proc. civ.;
— App. Bologna 16 luglio 1973, id., Rep. 1974, voce cit., n. 457, come la sentenza che si riporta, ha dichiarato improcedibile tutto il
giudizio nella diversa ipotesi di fallimento della parte originaria, dopo che il giudice aveva disposto ex art. 107 cod. proc. civ. la chiamata di un terzo indicato come responsabile ed obbligato in
luogo del fallito; — Cass. 28 dicembre 1972, n. 3669 (est. Bacconi), id., 1973, 1,
1458, in sede di regolamento di competenza avverso la sentenza con la quale il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo si era spo gliato della causa nei confronti del coobbligato-opponente-fallito e nei confronti degli altri coobbligati, rimettendola al tribunale falli
mentare, presso il quale era già pendente il giudizio di opposizione alla esclusione del credito, instaurato dallo stesso creditore opposto in sede ordinaria, ha affermato, fra l'altro: « Se il credito verso il fallito viene insinuato nel fallimento e contestato, se il procedimento di verificazione non si esaurisce nella cognizione sommaria che con duce all'ammissione del credito stesso e si apre il giudizio di oppo sizione a cognizione piena di cui agli art. 98, 99 e 101 1. fall., allora la vis attractiva del foro fallimentare influenza (o può influenzare) anche la posizione processuale dei condebitori del fallito. Infatti, nel caso che sia dedotto in giudizio un rapporto inscindibile, questo dovrà essere conosciuto nella sua interezza dal tribunale fallimentare, e, se il rapporto è scindibile, ma nel processo già pendente (e diventato
improcedibile quanto al fallito) si era creato un cumulo soggettivo, la
persistente connessione opererà come criterio idoneo ad attrarre l'in tero giudizio nella sfera del foro fallimentare, destinato a prevalere per le ragioni già spiegate. È vero che, in quest'ultimo caso, l'effetto attrattivo può essere scongiurato con lo strumento della separazione delle cause, a norma dell'art. 103, 2° comma, cod. proc. civ., ma disporre o non disporre la separazione resta pur sempre una facoltà discrezionale del giudice, da esercitarsi secondo i criteri indicati dalla
legge e non diventa un obbligo come il ricorrente sembra postulare »; — ancora nel senso dell'ammissibilità di una trasmigrazione del
l'intero processo litisconsortile al tribunale fallimentare, a condizione (a) che il comune creditore abbia provveduto a proporre domanda di insinuazione, (6) che il credito sia stato escluso e (c) sia stato instaurato il giudizio di opposizione avverso il decreto del giudice delegato, Cass. 7 maggio 1969, n. 1559, id., Rep. 1969, voce cit., n. 233; 14 giugno 1966, n. 1543, id., Rep. 1966, voce cit., n. 203; 25 febbraio 1963, n. 453, id., Rep. 1963, voce cit., n. 207;
— per la concorrente possibilità di disporre la separazione delle cause relative a più coobbligati, allorché uno di essi fallisca, in modo da consentire la prosecuzione del processo, in sede ordinaria, nei con fronti dei coobbligati non falliti, Cass. 26 aprile 1971, n. 1213, id., Rep. 1971, voce cit., n. 258, relativa a un caso di opposizione a decreto ingiuntivo; Cass. 28 ottobre 1969, n. 3538, id., 1970, I, 88, che tuttavia si riferisce ad un caso in cui un creditore aveva con venuto, nello stesso processo, più condebitori, uno dei quali era già fallito ancor prima di ricevere la notificazione della citazione [sebbene il fallito, rimasto contumace, avesse addirittura risposto all'interro gatorio formale, la notizia ufficiale del fallimento non venne acqui sita al processo e, in primo grado, la domanda venne accolta (Trib. Roma 12 maggio 1967, id., Rep. 1967, voce Procedimento civile, n. 71, e in Dir. fall., 1967, II, 668, con nota critica di Provinciali, Ancora sulla legittimazione del fallito); in riforma di tale decisione, la corte
d'appello ordinò la rimessione della causa al primo giudice, per consen tire ai coobbligati in bonis di esercitare l'azione di regresso (App. Roma 10 ottobre 1968, Foro it., Rep. 1969, voce Fallimento, n. 269); la Cassazione annullò tale decisione, rilevando, in primo luogo, che il difetto di capacità processuale del fallito avrebbe potuto essere fatto valere soltanto dal curatore e, in secondo luogo, che il fallimento di un condebitore non escludeva affatto la possibilità di procedere nei confronti degli altri]; Cass. 10 aprile 1965, n. 629, id., 1965, I, 1478, che, in sede di regolamento di giurisdizione, riconobbe il difetto di giurisdizione del giudice Italiano nel caso di fallimento, dichiarato in Francia, di un condebitore, negando che, in base alla convenzione italo-francese ratificata con legge 45/1932, fosse suffi
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