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Sezione I civile; sentenza 5 novembre 1959, n. 3284; Pres. Lonardo P., Est. D'Armiento, P. M.Cutrupia (concl. conf.); Soc. cotonificio Conegliano (Avv. Costa) c. Fall. Soc. Samarengo (Avv.Caruba, Jona)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 2 (1960), pp. 227/228-229/230Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23150963 .
Accessed: 28/06/2014 16:29
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227 PARTE PRIMA 228
La Corte, ecc. — Con il primo mezzo la Società ricorrente, deducendo la violazione dell'art. 100 cod. proc. civ., in rela
zione all'art. 360, n. 3, dello stesso codice, sostiene clie la Sen
tenza denunziata avrebbe dovuto dichiarare il difetto di legi timatio ad ca/usam del D'Attoma, perchè costui non aveva
dimostrato la propria appartenenza ad una delle organiz zazioni sindacali intervenute nella stipulazione dei contratti
ed accordi collettivi, invocati a fondamento delle domande
proposte nei confronti di essa Società, e rileva che, in ogni
caso, essendo tale legittimazione una condizione dell'azione
di ordine pubblico, la questione relativa può essere solle
vata, anche di ufficio, in ogni stato e grado del processo con
la possibilità di esperire, anche in questa sede, le necessarie
indagini in fatto sulla base degli elementi già acquisiti al
processo, salvo che essa non sia ormai preclusa dal giudicato. La censura non merita accoglimento. In proposito sarebbe infatti sufficiente considerare che
la legitimatio ad causarti si identifica, salvo le eccezioni
previste dalla legge, come, ad es., quella della sostituzione
processuale, con la titolarità attiva o passiva del rapporto dedotto in lite che, nella specie, consiste nel rapporto di
impiego intercorso fra le parti, e che costituisce il titolo
delle domande spiegate dal D'Attoma. Ma, per rispondere alle inesatte affermazioni della ricorrente, sembra opportuno
aggiungere che il richiamo a determinate clausole dei con
tratti e degli accordi postcorporativi, dei quali è superfluo ricordare la natura privatistica e che sono stati invocati dal
D'Attoma a sostegno della asserita illegittimità del prov vedimento di riduzione dello stipendio e di quello di licen
ziamento, riguarda soltanto il merito della domanda come
argomento o prova dell'esistenza di quei presupposti di
fatto e di diritto, che sono richiesti per l'attuazione della
sentire il riesame di tale interpretazione, ma sostiene soltanto che la Corte di appello avrebbe dovuto adottare in proposito una interpretazione diversa, e favorevole alla sua tesi che la richiesta di nulla osta debba seguire e non precedere il licen ziamento la cui efficacia dovrebbe restare sospesa sino a che il nulla osta non sia concesso o il collegio arbitrale non si pro nunci.
« Non occorre poi sottolineare che, comunque, dalla even tuale inosservanza dell'art. 14 non poteva certo derivare il dedotto difetto di giurisdizione del magistrato ordinario e
neppure la sua incompetenza, giacché, secondo il ripetuto inse
gnamento di questa Suprema corte, essendo la materia dei
presupposti processuali di ordine pubblico, non possono le
parti subordinare inderogabilmente il diritto di azione al previo esperimento di procedure conciliative davanti ad organi pari tetici ».
Sul principio di diritto, ricavabile dall'ultimo periodo della
soprariportata motivazione, dal quale l'Ufficio massimario non ha peraltro estratto massima (le parti non possono inderogabil mente subordinare il diritto di azione al previo esperimento di procedure conciliative avanti ad organi paritetici), cons. Cass. 17 ottobre 1958, n. 3312, Foro it., Rep. 1958, voce Lavoro (com petenza e proc.), n. 48, la quale ammette peraltro che l'omis sione del tentativo di conciliazione può venire in considerazione
sotto l'aspetto della violazione di un obbligo contrattuale. Nel senso che le disposizioni che prescrivono genericamente l'espe rimento di un tentativo di conciliazione non danno luogo, nel caso di inosservanza, all'improcedibilità dell'azione e alla nullità del procedimento, v. App. Roma 27 febbraio 1957, id., Rep. 1958, voce cit., n. 41.
Sulla natura facoltativa del tentativo di conciliazione pre visto dall'Accordo 18 ottobre 1958, v. App. Firenze 8 ottobre 1957, ibid., n. 33
Per il carattere facoltativo del tentativo di conciliazione previsto dall'art. 3 decreto legisl. 15 aprile 1948 n. 381, v. Cass. 17 ottobre 1958, n. 3312, ibid., n. 47.
Invece, nel senso che l'esperimento di conciliazione, pre visto dal contratto individuale o collettivo, costituisce condi zione di procedibilità della domanda giudiziale, v. App. Lecce 31 gennaio 1957, id., Rep. 1957, voce cit., n. 36 ; Trib. Milano 20 febbraio 1957, ibid., n. 37 ; Trib. Bergamo 3 agosto 1956, ibid., n. 38 ; Trib. Catanzaro 20 agosto 1956, id., Rep. 1956, voce cit., n. 43 ; Trib. Roma 10 marzo 1956, ibid., nn. 46-48.
In argomento, v. Traversa, in Mass. giur. lav., 1957, 116 ; Rubino, in Foro nap., 1957, I, 195 ; Vincenzi, in Dir. economia, 1956, 982.
legge, cioè perchè l'attore possa ottenere una sentenza favo revole.
È peraltro evidente clie l'accertamento compiuto dalla Corte di appello, circa l'applicabilità alla fattispecie delle anzidette clausole dei contratti postcorporativi, costituisce un accertamento di fatto non sindacabile in questa sede. Ne vale opporre, per infirmare tale insindacabilità, che la ricorrente eccepì in grado di appello che il D'Attoma non aveva dimostrato la propria appartenenza ad una delle
organizzazioni sindacali stipulanti di quei contratti ed
accordi, perchè la detta eccezione venne formulata dalla Società solo con la replica alla comparsa del D'Attoma, e
quindi tardivamente, mentre, durante tutto il corso del
giudizio di merito, questa aveva imperniato la propria difesa sul presupposto, del resto pacifico, che le dette norme
postcorporative fossero puntualmente applicabili alla fatti
specie, ma andassero tuttavia interpretate in senso favo revole alla convenuta.
Ciò posto, appare manifesto che la questione relativa
all'appartenenza o meno di una delle parti all'associazione sindacale stipulante, e al conseguente disconoscimento della
obbligatorietà di un contratto collettivo corporativo, attiene, come questa Suprema corte ha già avuto occasione di rite
nere, non all'ordine pubblico ma all'interesse privato della
parte, che contesti tale reciproca obbligatorietà, e che è
pertanto tenuta a sollevare tempestivamente la necessaria
eccezione, in mancanza della quale, anche ai fini essenziali del leale svolgimento del contraddittorio, è dato al giudice di ritenere come pacifica la sussistenza o, comunque, l'ac cettazione del vincolo collettivo, così come di ogni circo stanza di fatto o presupposto che non abbia formato oggetto di contestazione.
Ed è infine da rilevare che a torto la ricorrente addebita alla sentenza di avere affermato il principio, senza dubbio
erroneo, che l'appartenenza di una sola delle parti ad una delle organizzazioni stipulanti sarebbe condizione suffi ciente per ritenere, rispetto ad entrambi i soggetti del rap porto di lavoro, la obbligatorietà di un contratto collettivo
postcorporat ivo.
Tale inesatto rilievo muove da una falsa interpretazione di un inciso della sentenza, dove è detto che l'accertamento, richiesto dalla odierna ricorrente, della derogabilità o meno dell'art. 18 del contratto collettivo sarebbe stato per tinente, solo se la Società non fosse risultata iscritta alla associazione industriale stipulante, intendendo dire con ciò
che, data per pacifica l'applicabilità del contratto collettivo al D'Attoma, non poteva la stessa Società sottrarsi alla sua osservanza, sia per effetto della sua iscrizione alla orga nizzazione industriale, sia perchè nemmeno i contratti post corporativi possono essere derogati dal contratto individuale in senso sfavorevole al lavoratore. (Omissis)
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 5 novembre 1959, n. 3284 ; Pres. Lonardo P., Est. D'Armiento, P. M. Cutrupia (conci, conf.) ; Soc. cotonificio Conegliano (Avv. Costa) c. Fall. Soc. Samarengo (Avv. Caruba, Jona).
(Cassa App. Milano 10 dicembre 1957)
Mandato — Mandato « in rem propriam » — Falli mento del mandante — Estinzione del mandato — Esclusione (Cod. civ., art. 1723).
Il sopravvenuto fallimento del mandante non estingue il man dato conferito ili rem propriam o nell'interesse anche del terzo. (1)
(1) La sentenza cassata, App. Milano 10 dicembre 1057, e riassunta in Foro it., Rep. 1058, voce Fallimento, n. 433.
Nella giurisprudenza di merito in senso contrario alla sen tenza annotata, v. App. Trieste 1 aprile 1057, ibid., n. 58 ; Trib.
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229 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 230
I La Corte, ecc. — (Omissis). Col terzo mezzo del ricorso
principale si deduce la violazione e falsa applicazione del l'art. 1723 cod. civ. e delle norme connesse (fra le quali gli art. 2013, 3° comma, cod. civ. ; 22, 3° comma, legge cam
biaria ; 78 legge fallimentare) e l'omessa, insufficiente e con
traddittoria motivazione delle relative questioni. Sostiene il Cotonificio che, pure ammessa l'insussistenza
della cessione di credito, e il conferimento del mandato, da parte della Soc. Samarengo alla Banca popolare di
Milano, siccome ritenuto dalla sentenza impugnata, non
avrebbe potuto dichiararsi estinto il mandato per effetto
dell'intervenuto fallimento della mandante, giacche trat
tavasi di mandato dichiarato espressamente irrevocabile
dalla mandante e conferito nell'interesse del terzo.
Il mezzo di ricorso va accolto.
La sentenza ha esattamente qualificato « mandato in
favore di terzo » l'incarico conferito dalla Soc. Samarengo alla Banca popolare di Milano, relativo alla riscossione del
prezzo e all'attribuzione di esso, per la massima parte, alla Soc. Cotonificio di Conegliano, in pagamento del filato
dalla medesima in precedenza acquistato a credito ; ma ha
ritenuto che siffatta qualificazione non bastasse a salvarlo
dall'estinzione, disposta, per ogni specie di mandato, dal
l'art. 78 legge fallimentare.
A sostegno della decisione ha richiamato : a) la espressione letterale dell'indicata norma sul fallimento, che, nel sancire
lo scioglimento di alcuni contratti, nel caso di dichiara
zione di fallimento di una delle parti, parla genericamente di « mandato », senza alcuna precisazione o specificazione ;
b) la ratio dell'art. 78, la quale, riposando sulla incapacità
sopravvenuta di una delle parti alla conclusione del con
tratto, non consente, anch'essa, alcuna precisazione o spe cificazione fra le varie forme di mandato ; c) il disposto dell'art. 1723, 2° comma, cod. civ., ai termini del quale il
mandato, conferito anche nell'interesse del mandatario o
di terzi, non si estingue per la morte o per la sopravvenuta
incapacità del mandante (e non anche per il fallimento di
questi). Ed ha concluso che, corrispondendo all'indiscri
minata disposizione della legge speciale il silenzio della
legge generale, non poteva non ritenersi estinto il mandato
de quo per il sopravvenuto fallimento della Soc. Samarengo. Così puntualizzata la questione e diffusamente rias
sunta la motivazione, questo Supremo collegio ritiene che
la decisione adottata dalla Corte di merito non risponda nè
ai principi di una retta interpretazione degli art. 1723 cod.
civ. e 78 legge fall., nè, tanto meno, a quelli di un necessario
coordinamento fra le due disposizioni. Com'è noto, e discende del resto dalla diversità funzio
nale cui assolvono, mentre il codice civile contiene una rego lamentazione completa ed organica del mandato (art. 1703
e segg.) e ne dà la nozione (1703) stabilisce il contenuto
(1708), fissa le obbligazioni del mandante e del mandatario
(1710 e segg.), e precisa le cause di estinzione (1722) ; la
legge sul fallimento si limita a disporre che il contratto di
mandato (come del resto quello di conto corrente e di com
missione) si scioglie per il fallimento di una delle parti. Ciò implica che i principi, posti in materia di mandato dal
codice civile, devono applicarsi anche in materia di falli
mento, a meno che la legge regolatrice di quest'ultima non
disponga diversamente, o contenga norme incompatibili. Esaminando la questione al lume di tale premessa,
della cui esattezza non può dubitarsi, anche sotto il profilo dell'unicità del sistema, si perviene a conclusione opposta a
quella adottata dalla sentenza impugnata. Ed invero, di
Milano 5 febbraio 1959, Giur. it., 1959, 1, 2, 862, con nota ade siva di Mangini.
In senso conforme alla sentenza annotata : Cass. 30 ottobre
1956, n. 4057, Foro it., Rep. 1956, voce Mandato, nn. 134, 135. In dottrina hanno ritenuto, che il sopravvenuto fallimento
del mandante non estingue il mandato in rem propriam, il Mi
nervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, Torino, 1952, 222 ; e il Foschini, in Riv. dir. comm., 1958, II, 81. In senso
contrario il Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, I, 650, il quale ritiene inapplicabile l'art. 1723, 2° comma, cod. civ.
per incompatibilità con la natura e le finalità del fallimento.
stinguendo il codice civile tra mandato puro e semplice e mandato nell'interesse del mandatario o di terzi, e sotto
ponendo i due tipi di mandato a diversa regolamentazione, come si dirà or ora, non può prescindersi da tale distinzione e diversa regolamentazione anche nel campo del mandato
fallimentare, una volta che l'art. 78 della ripetuta norma sul fallimento parla solo genericamente di « mandato » senza alcuna distinzione o precisazione.
Conseguentemente, deve ritenersi che l'estinzione del mandato per fallimento dal mandante si verifichi solo nel caso di mandato vero e proprio, e non nel caso del mandato nell'interesse del mandatario o di terzi, nella quale ultima
ipotesi deve valere il principio opposto della non estinzione
del mandato, stabilito dal capov. dell'art. 1723. Nè si obietti che in quest'ultima norma non è espressamente previsto il sopravvenuto fallimento del mandante, giacché nella
espressione di «sopravvenuta incapacità del mandante» in essa contenuta, va chiaramente compresa l'incapacità causata al fallito dalla dichiarazione di fallimento (art. 42 e segg.) ; e ogni riferimento specifico alla materia falli mentare doveva apparire inopportuno in sede di codifica
zione, atteso che s'intendeva regolare a parte la materia fallimentare.
A conferma di quanto ora detto, si ricorda che il Pro
getto preliminare del libro delle obbligazioni del 1940, redatto quando ancora non si pensava di stralciare la di
sciplina del fallimento per farne oggetto di una legge spe ciale, elencava nell'art. 608 anche il fallimento del mandante fra i casi esclusi dalla estinzione del mandato conferito nel l'interesse di altri ; e si osservava altresì, che la interpreta zione adottata, oltre che bene adeguata ai principi di erme
neutica e di coordinamento cui si è accennato, risponde in
pieno alla necessità di mantenere ferme, anche per la materia
fallimentare, le differenze di trattamento fatte dal legisla tore ai diversi tipi di mandato, in considerazione appunto della diversità effettiva di contenuto dei relativi negozi. Al quale proposito si sottolinea, che, mentre il mandato
puro e semplice mira a soddisfare il solo interesse del man
dante, il mandato conferito anche nell'interesse del man
datario o di terzi arreca un utile (o un vantaggio) al man
datario o al terzo in relazione all'obbligazione del mandante verso il mandatario o il terzo. Ed appunto perciò, mentre
il mandato puro e semplice è un contratto unilaterale (che si estingue per revoca, per morte, e per perdita di capacità del mandante), il mandato conferito anche nell'interesse
del mandatario o del terzo assume la figura di contratto
bilaterale o sinallagmatico, che non si estingue per alcuna
delle cause predette. Pertanto, la sentenza va cassata, e la causa rinviata,
per nuovo esame sul punto ora detto, ad altra sezione della
stessa Corte di appello, la quale dovrà attendere al seguente
principio di diritto :
« Per il coordinato disposto degli art. 78 legge fall, e
1723 cod. civ., il sopravvenuto fallimento del mandante
estingue solo il mandato pure e semplice, mentre è inin
fluente per il mandato conferito in rem propria/m o nell'in
teresse anche del terzo ». (Omissis) Per questi motivi, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione II civile ; sentenza 30 ottobre 1959, n. 3212 ; Pres.
Petrella P., Est. Ferrati, P. M. Colonnese (conci,
conf.) ; Finanze (Avv. dello Stato Pentimace) c. Co mune di S. Bonifacio (Avv. Pediconi, Veneri, Fi
lippini).
(Conferma App. Venezia 20 maggio 1958)
Persona giuridica — Donazione a persona giuridica —
Autorizzazione —- Diletto — Rilevanza (Cod. CÌV., art. 17)
La mancanza dell'autorizzazione governativa, prevista dal
l'art. 17 cod. civ. per l'acquisto delle donazioni da parte
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