sezione I civile; sentenza 6 aprile 2001, n. 5126; Pres. Baldassarre, Est. Plenteda, P.M. Ceniccola(concl. conf.); Soc. coop. agricola Rinascita Adriatica (Avv. Rocchetti) c. Salvatore (Avv.Colacito). Cassa Trib. Chieti 25 febbraio 1999Source: Il Foro Italiano, Vol. 125, No. 1 (GENNAIO 2002), pp. 179/180-187/188Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23197727 .
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179 PARTE PRIMA 180
1968, per indicare le aree destinate agli usi collettivi: «spazi»,
appunto, non già «zone», come invece per quanto attiene alla
definizione delle varie, differenti aree, distinte per i caratteri
specifici dell'edificabilità per esse prevista. In quest'ottica si spiega, diversamente da Cass. 2272/99, cit.,
il motivo per cui l'art. 7 del più volte citato d.m. non consideri
la c.d. zona F ai fini della determinazione dei limiti inderogabili di densità edilizia: perché essa zona mutua detti limiti da quelli della zona cui pertiene e del cui completamento essa funzional
mente fa parte, salve naturalmente le diverse decisioni dell'ente
preposto allo strumento urbanistico (che, ad esempio, nel caso
oggetto della presente decisione, ha variato, proprio per la rea
lizzazione della piscina, l'indice di edificabilità, portandolo dal
valore inizialmente previsto di 0,05 a 1,3 mc/mq ed il rapporto di copertura dall'uno per cento al quindici per cento) e che sono
prese in considerazione anche dal d.m. all'art. 8, n. 4 [«art. 8. -
Limiti di altezza degli edifici. Le altezze massime degli edifici
per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come se
gue: 1) Zone A)... 2) Zone B)... 3) Zone C) ... 4) Edifici ri cadenti in altre zone: le altezze massime sono stabilite dagli strumenti urbanistici in relazione alle norme sulle distanze tra i
fabbricati di cui al successivo art. 9»]. Il d.m. in questione, dunque, unifica l'indicazione delle aree
destinate a servizi di urbanizzazione come zona F le volte che la
semplificazione verbale si presta a contrapporla complessiva mente coll'insieme delle altre aree del territorio comunale nella
guida alla formulazione dei piani regolatori [«art. 4. - Quantità minime di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a
verde pubblico o a parcheggi da osservare in rapporto agli in
sediamenti residenziali nelle singole zone territoriali omogenee. La quantità minima di spazi
— definita al precedente articolo in
via generale — è soggetta, per le diverse zone territoriali omo
genee, alle articolazioni e variazioni come appresso stabilite in
rapporto alla diversità di situazioni obiettive.
1 - Zone A): l'amministrazione comunale, qualora dimostri
l'impossibilità —
per mancata disponibilità di aree idonee, ov
vero per ragioni di rispetto ambientale e di salvaguardia delle
caratteristiche, della conformazione e delle funzioni della zona
stessa — di raggiungere le quantità minime di cui al precedente art. 3, deve precisare come siano altrimenti soddisfatti i fabbi
sogni dei relativi servizi ed attrezzature.
2 - Zone B): quando sia dimostrata l'impossibilità — detratti
i fabbisogni comunque già soddisfatti — di raggiungere la pre detta quantità minima di spazi su aree idonee, gli spazi stessi
vanno reperiti entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle
adiacenze immediate, ovvero su aree accessibili tenendo conto
dei raggi di influenza delle singole attrezzature e dell'organiz zazione dei trasporti pubblici.
Le aree che verranno destinate agli spazi di cui al precedente art. 3 nell'ambito delle zone A) e B) saranno computate, ai fini
della determinazione delle quantità minime prescritte dallo stes
so articolo, in misura doppia di quella effettiva.
3 - Zone C): deve essere assicurata integralmente la quantità minima di spazi di cui all'art. 3. Nei comuni per i quali la po
polazione prevista dagli strumenti urbanistici non superi i die
cimila abitanti, la predetta quantità minima di spazio è fissata in
mq 12 dei quali mq 4 riservati alle attrezzature scolastiche di cui
alla lett. a) dell'art. 3. La stessa disposizione si applica agli in
sediamenti residenziali in comuni con popolazione prevista su
periore a diecimila abitanti, quando trattasi di nuovi complessi insediativi per i quali la densità fondiaria non superi 1 mc/mq.
Quando le zone C) siano contigue o in diretto rapporto vi
suale con particolari connotati naturali del territorio (quali coste
marine, laghi, lagune, corsi d'acqua importanti; nonché singola rità orografiche di rilievo) ovvero con preesistenze storico
artistiche ed archeologiche, la quantità minima di spazio di cui
al punto c) del precedente art. 3 resta fissata in mq 15: tale di
sposizione non si applica quando le zone siano contigue ad at
trezzature portuali di interesse nazionale.
4 - Zone E): la quantità minima è stabilita in mq 6, da riserva
re complessivamente per le attrezzature ed i servizi di cui alle
lett. a) e b) del precedente art. 3.
5 - Zone F): gli spazi per le attrezzature pubbliche di interesse
generale — quando risulti l'esigenza di prevedere le attrezzatu
re stesse — debbono essere previsti in misura non inferiore a
quella appresso indicata in rapporto alla popolazione del territo
rio servito: 1,5 mq/abitante per le attrezzature per la istruzione
Il Foro Italiano — 2002.
superiore all'obbligo (istituti universitari esclusi); 1 mq/abitante
per le attrezzature sanitarie ed ospedaliere; 15 mq/abitante per i
parchi pubblici urbani e territoriali»]. Unica lettura alternativa possibile (ma non confortata dalla
prassi di redazione dei piani regolatori) sarebbe quella di indivi
duare la zona F come semplicemente eventuale e destinata uni
camente a servizi pubblici ulteriori rispetto a quelli sportivi, re
ligiosi, scolastici, ecc., costituenti opere di urbanizzazione pri maria e secondaria ex art. 4 (e potrebbe trattarsi delle attrezzatu
re scolastiche oltre l'obbligo, anche universitarie; parchi pubbli ci urbani, e non verde pubblico di quartiere; attrezzature sanita
rie ed ospedaliere destinate all'uso dell'intera popolazione inse
diata sul territorio, e non del quartiere). Ma anche in questo ca
so, ed a maggior ragione, le opere destinate a questi stessi servi
zi di urbanizzazione primaria e secondaria, dovrebbero conside
rarsi porzione della zona nella quale sono inserite a soddisfazio
ne degli indici necessari di proporzionalità. Il terreno, che il comune ha occupato, era inserito, nel piano
di fabbricazione all'epoca vigente, in zona F «verde pubblico
sportivo». Si è visto che costituiscono opere di urbanizzazione primaria
gli spazi di verde attrezzato; si è visto che costituiscono opere di
urbanizzazione secondaria gli impianti sportivi di quartiere. Giustamente, dunque, il c.t.u. ing. Forleo ha stimato l'area
espropriata (relazione del 28 aprile 1999) facendo governo della
norma del comma 7 bis dell'art. 5 bis 1. 359/92 (espressamente
applicabile ai giudizi in corso al momento di entrata in vigore della norma). (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 6 aprile 2001, n. 5126; Pres. Baldassarre, Est. Plenteda, P.M. Ce
niccola (conci, conf.); Soc. coop, agricola Rinascita Adriati
ca (Avv. Rocchetti) c. Salvatore (Avv. Colacito). Cassa
Trib. Chieti 25 febbraio 1999.
Cooperativa e cooperazione — Società cooperativa
— Re
cesso per forza maggiore — Previsione statutaria — Ac
certamento assembleare — Mancata convocazione — Ef
fetti.
Qualora l'atto costitutivo di una società cooperativa attribuisca
ai soci un diritto di recesso per motivi di forza maggiore, sotto condizione dell'accertamento da parte dell'assemblea, il comportamento omissivo del consiglio di amministrazione che non convochi l'assemblea per approvare la dichiarazione di recesso di uno dei soci è contrario all'obbligo di buona fe de ed implica che la condizione debba considerarsi avvera
ta. (1)
(1) Nella sentenza in epigrafe, la Suprema corte affronta il tema del recesso del socio da una società cooperativa.
Norma di riferimento in materia è l'art. 2526 c.c. (la cui infelice formulazione sembra voler disciplinare le sole modalità di «dichiara zione di recesso del socio»), che riconosce al socio il diritto di recesso
quando questo sia previsto dalla legge o dall'atto costitutivo. In parti colare, il rinvio alla legge ha alimentato numerose incertezze in dottrina e giurisprudenza, essendo dubbia, al di là dell'espressa previsione di cui all'art. 2523, 2° comma, c.c., la possibilità di estendere alle società
cooperative le ipotesi di recesso previste per le società per azioni dal l'art. 2437 c.c. (ma in senso favorevole si è ormai affermata la giuris prudenza della Cassazione: v. Cass. 28 ottobre 1980, n. 5790, Foro it., 1981, I, 747; 15 luglio 1963, n. 1915, id., 1963, I, 2298; e la dottrina: cfr. Bassi, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Commentario a cura di P. Schlesinger, Milano, 1988, 605 ss.; Verru
coli, Cooperative (imprese), voce dell' Enciclopedia de! diritto, Mila
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Svolgimento del processo. — Con sentenza 13 dicembre 1996
(Foro it.. Rep. 1997, voce Cooperativa, n. 52, e voce Ingiunzio ne (procedimento), n. 125) il Pretore di Chieti dichiarò nullo il
decreto ingiuntivo n. 79/93 — che aveva intimato a Salvatore
Antonio di pagare in favore della società cooperativa agricola Rinascita Adriatica a r.l. la somma di lire 3.046.150 per pregres se rate annuali di mutuo relative agli anni 1991, 1992 e 1993 —
ed efficace la sua dichiarazione di recesso dalla compagine so
ciale, a far tempo dal 31 dicembre 1991, in conseguenza della
quale egli si era liberato da ogni obbligo; mentre respinse la ri
chiesta dell'opponente di rimborso della quota di capitale so
ciale per lire 1.901.332.
no, 1962, X, 580 ss.; Cottino, Cooperative e diritto di recesso, in Riv. dir. comm., 1959, II, 209), e quelle di cui all'art. 2285 c.c., relative alle società di persone (in senso negativo, cfr. Cass. 23 giugno 1988, n.
4274, Foro it., 1989, I, 1566, con nota critica di Marcelli). Il caso affrontato dalla Suprema corte nella pronuncia in rassegna ha
ad oggetto un'ipotesi di recesso convenzionale riconosciuto dall'atto costitutivo a favore dei soci, in caso di forza maggiore, e però condi zionato a un intervento convalidante dell'assemblea, volto a controllare la sussistenza della condizione stabilita dall'atto costitutivo.
Innanzi tutto la Cassazione riconosce la piena liceità di una clausola che subordini l'operatività del recesso convenzionale a particolari pre supposti o condizioni (sulla stessa posizione, v. già Cass. 21 luglio 1992, n. 8802, id.. Rep. 1992, voce Cooperativa, n. 60; 23 giugno 1988, n. 4274, cit.; per la giurisprudenza di merito, v. Trib. Milano 6 febbraio 1995, id., Rep. 1995, voce cit., n. 43, e Società, 1995, 1331, con nota di Bonavera; App. Roma 25 marzo 1981, Foro it.. Rep. 1983, voce cit.. n. 52; Trib. Taranto 11 maggio 1981, ibid., n. 57, e Riv. dir.
comm., 1982, II, 401; nel senso dell'invalidità della clausola statutaria che subordini il recesso del socio ad un'autorizzazione del consiglio di
amministrazione, v. invece Trib. Lecce 7 gennaio 1989, Foro it.. Rep. 1989, voce cit., n. 62), ma puntualizza poi come una siffatta clausola non possa comunque essere adoperata per paralizzare ingiustificata mente la scelta del socio di recedere dalla società, essendo un tale com
portamento contrario al principio di buona fede (l'applicazione in am bito societario degli art. 1175 e 1375 c.c. costituisce ormai ius recep tum: v. Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, id.. Rep. 1996, voce Società, n.
589, e Nuova giur. civ., 1997, I, 449, con nota di Amitrano; 21 luglio 1992, n. 8802, cit.; Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interes si del socio nella società per azioni, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, Milano, 1993, II, 14 ss.; Gambino, Il
principio di correttezza nell'ordinamento delle società per azioni, Mi
lano, 1987, 307 ss.). Pertanto, di fronte a un comportamento inerte del
consiglio di amministrazione della società, il quale si rifiuti di convoca re l'assemblea (unico organo deputato a «convalidare» la dichiarazione di recesso del socio), impedendo quindi che il recesso produca i suoi
effetti, la Cassazione ammette il rimedio dell'art. 1359 c.c., ossia la finzione di avveramento della condizione sospensiva cui è subordinato il recesso, e di conseguenza il venir meno del rapporto sociale con il socio recedente (nello stesso senso, cfr. Pret. Chieti 13 dicembre 1996, Foro it., Rep. 1997, voce Cooperativa, 52; su una fattispecie similare, Cass. 21 luglio 1992, n. 8802, cit., perviene a conclusioni analoghe, ma
seguendo una traiettoria argomentativa diversa, come si vedrà più dif fusamente in seguito).
La soluzione appena prospettata poggia sulla costruzione della fatti
specie in esame come di un recesso convenzionale condizionato, nel
quale oggetto della condizione, secondo la Suprema corte, sarebbe uni camente l'attività di controllo dell'organo societario competente ai sen si dell'atto costitutivo.
In realtà, a prima vista, questa fattispecie sembrerebbe evocare una
ipotesi di recesso sottoposto alla condizione sospensiva della causa di forza maggiore, o tutt'al più a una duplice condizione sospensiva (c.d. condizione cumulativa): il sopravvenire di una causa dì forza maggiore da un lato, e il suo accertamento da parte dell'assemblea dei soci, dal l'altro.
Ma a una tale interpretazione del contratto sociale non pare tuttavia aderire la Cassazione. L'attività di accertamento della sussistenza della causa sostanziale di recesso (la forza maggiore) è infatti qualificata dalla Suprema corte alla stregua di un potere discrezionale attribuito in
via esclusiva all'organo societario competente (nel caso specifico l'as
semblea), per la tutela degli interessi societari: si tratterebbe quindi di
un potere non esercitabile, neanche in via surrogatoria, da parte del
l'autorità giudiziaria. Corollario di tale assunto è la decisione della
Cassazione di non ritenere ammissibile né necessaria la verifica giuris dizionale (oltre che dell'inerzia della società nell'accertare la sussisten
za della causa di forza maggiore) dell'effettiva presenza della causa di
forza maggiore invocata dal socio recedente. In tal modo, dunque, la
presenza della causa di forza maggiore finisce per non costituire, alme
no in sede giurisdizionale, uno dei presupposti del diritto di recesso:
diversamente opinando la Cassazione non avrebbe potuto abdicare al
proprio potere-dovere di accertarlo. L'unica condizione del diritto di
Il Foro Italiano — 2002.
La cooperativa impugnò la decisione, che fu gravata da ap
pello incidentale anche dal Salvatore, per il mancato accogli mento della domanda di rimborso delle quote di capitale sociale
e di quella per la declaratoria di nullità delle scritture 27 agosto e 28 novembre 1988, con cui il Salvatore si era impegnato a
sottoscrìvere le quote di aumento di capitale, poste a fonda
mento del decreto ingiuntivo opposto, che erano state formulate
in alternativa al motivo di opposizione all'ingiunzione, di nulla
dovere per essere receduto.
Il Tribunale di Chieti con sentenza 21 novembre 1998 accolse
l'appello principale solo per la parte relativa alle spese di lite, che compensò per la metà, ponendo la differenza a carico della
recesso verrebbe ad essere allora rappresentata dalla delibera con cui l'assemblea accerta la causa di forza maggiore, e quindi la legittimità della dichiarazione di recesso del socio.
Una simile costruzione desta però qualche perplessità, innanzi tutto laddove assegna all'attività di verifica della società una valenza che non pare la più appropriata: non convince del tutto, infatti, l'afferma zione secondo cui l'accertamento della causa di recesso costituirebbe un potere discrezionale della società, come tale esclusivo e non suscet tibile di controllo giurisdizionale. Non sembra trattarsi invero di potere discrezionale, nel quale cioè la società sia chiamata a valutare se il re cesso del socio sia o meno compatibile con gli interessi societari, ma di un diritto di verifica (per certi versi simile a quello, funzionale al col
laudo, esercitabile dal committente al momento della consegna di un'o
pera appaltata, ex art. 1665 c.c., e tutt'altro che discrezionale) volto ad accertare solo se il fatto storico da cui dipende l'esercizio del recesso si sia o meno verificato. Apparentemente quindi nessuna discrezionalità sembra venire in rilievo.
Peraltro, la strada percorsa dalla Suprema corte per risolvere la fatti
specie in esame non pare possa sottrarsi a ulteriori spunti critici, allor
quando si vada a misurarne la coerenza interna in un'altra situazione di conflitto tra il socio recedente e la società.
In presenza di un siffatto congegno negoziale, il socio può trovarsi infatti di fronte a due possibili comportamenti ostruzionistici della so cietà cooperativa.
Vi è quello, affrontato dalla Suprema corte nella sentenza in epigra fe, nel quale la società rimane inerte, e non dà seguito alla dichiarazio ne di recesso del socio, paralizzandone così gli effetti, attesa la valenza di condizione sospensiva assegnata alla delìbera di accertamento del l'assemblea. In questo caso, il socio ha la possibilità di adire il giudice invocando la finzione di avveramento della condizione, ex art. 1359
c.c., in conformità con quanto sostenuto dalla Cassazione nella pronun cia in epigrafe. Il giudice adito deve limitarsi ad accertare se l'attività di verifica della causa di recesso sia stata o meno compiuta dall'organo societario competente, e, in caso negativo, applicare la regola dell'art. 1359 c.c.
La seconda possibile situazione pregiudizievole nella quale il socio recedente può imbattersi è poi quella in cui l'organo societario deputato ad accertare la causa di recesso emetta una delibera negativa, nono stante la piena sussistenza del requisito richiesto dall'atto costitutivo.
Quid iuris in questo caso? Ora, se si seguisse fino in fondo la tesi pro spettata dalla Cassazione, l'autorità giudiziaria non avrebbe la possibi lità di sindacare la delibera societaria, essendo questa frutto dell'eserci zio di un potere discrezionale riservato in via esclusiva alla società. Il
ricorso all'art. 1359 c.c. sarebbe quindi precluso proprio dall'impossi bilità di accertare in via preventiva la sussistenza della causa sostan ziale di recesso (come ad esempio la forza maggiore), e pertanto la er roneità della delibera negativa.
Ma in tal modo, di fronte a comportamenti scorretti o quanto meno
negligenti della società, si negherebbe tutela giurisdizionale al socio, il che sembra inammissibile, dato l'evidente contrasto con gli art. 3 e 24 Cost, che ne deriverebbe.
Se invece si ritenesse, come pare non possa essere diversamente, che il socio recedente abbia la possibilità di agire dinanzi all'autorità giudi ziaria per far dichiarare la sussistenza del proprio diritto di recesso, si dovrebbe necessariamente affermare che il giudice può e deve accertare la sussistenza della causa sostanziale di recesso (come la forza maggio re, nel caso di specie). Si finirebbe così per smentire l'asserzione della
Suprema corte secondo cui la società è titolare di un potere esclusivo e
insindacabile di verìfica. In tal modo, peraltro, la clausola contrattuale
volta ad impedire al giudice l'accertamento del presupposto del reces
so, riservandolo a un organo societario, verrebbe ad essere svuotata di
contenuto e di utilità. Se infatti questa clausola, come sostenuto da
Cass. 5126/01, ha lo scopo di riservare alla società un potere discrezio
nale esclusivo, la possibilità poi di investire l'autorità giudiziaria al fine
di verificare la correttezza dell'esercizio di tale potere, e in sostanza di
sostituirsi alla società medesima nello svolgimento dell'attività connes
sa, equivale a neutralizzare detta clausola, almeno rispetto all'interpre tazione offerta dalla Suprema corte.
In realtà, ciò che non pare del tutto convincente in Cass. 5126/01 è
proprio il ritenere che possa costituire oggetto di condizione sospensiva
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PARTE PRIMA
cooperativa; rigettò l'appello incidentale e compensò nella stes
sa misura quelle del secondo grado, alla cui differenza condan
nò l'appellante principale. Ha ritenuto il Tribunale di Chieti in
fondata l'eccezione di giudicato — così confermando la deci
sione del primo giudice — sollevata dalla cooperativa in rela
zione ad altra ingiunzione emessa nell'anno 1992 dallo stesso
pretore e non opposta dal Salvatore, avente ad oggetto il mede
simo rapporto obbligatorio, avendo considerato la diversità og
gettiva dei due decreti ingiuntivi, dal momento che il primo af
feriva alle quote sociali ed il secondo a rate di un mutuo con
tratto dalla società; al di là del fatto che il Salvatore aveva chie
sto l'accertamento del suo recesso da socio, del quale ha rile
vato la correttezza. Ha disatteso il motivo d'impugnazione con
il quale la cooperativa aveva lamentato la mancata condanna del
Salvatore a pagare almeno l'annualità del 1991, in ragione di
lire 953.000, assumendo che era mancata una domanda a ri
guardo, avendo la società semplicemente richiesto il rigetto del
l'opposizione, mentre ha giudicato inadeguato il regolamento delle spese giudiziali, in quanto il primo giudice non aveva ac
colto interamente l'opposizione al decreto ingiuntivo, avendo
escluso il rimborso di lire 1.901.332 e disatteso la richiesta di
dichiarazione di nullità delle scritture dell'agosto e del novem
bre 1988. Ha rilevato il giudice d'appello che il Salvatore aveva
proposto appello incidentale con riguardo a tale statuizione, che
non aveva accolto l'opposizione al decreto ingiuntivo per
l'aspetto invocato, non sussistendo la ritenuta indeterminatezza
o indeterminabilità dell'oggetto della prestazione, richiesta al
un comportamento della parte (l'attività di accertamento) che, in
quanto vincolato alla verifica di una realtà oggettiva, non presenta quel carattere di incertezza che è proprio della condizione (anche quando si tratta di una condizione potestativa): incerto è il fatto storico da accer
tare, non l'accertamento in sé (v. in generale sulla condizione, tra gli altri, Rescigno, Condizione (dir. vig.), voce dell' Enciclopedia del di
ritto, Milano, 1961, Vili, 785 ss.; Falzea, La condizione e gli effetti dell'atto giuridico, Milano, 1941; Majorca, Condizione, voce del Di
gesto civ., Torino, 1988, III, 285). Peraltro, atteso che la società (tra mite l'organo deputato all'accertamento) è obbligata, in base all'atto
costitutivo, a procedere all'accertamento della causa di recesso, una simile clausola potrebbe suscitare perplessità anche in quella parte della dottrina secondo cui l'adempimento di un'obbligazione contrattuale non può formare oggetto di una condizione (così Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1962, 199; Fusco, L'adem
pimento come condizione del contratto, in Vita not., 1983, 304). Ad ogni modo, anche prescindendo dall'orientamento dottrinario ap
pena illustrato, tutt'altro che pacifico (v., in senso favorevole alla de duzione dell'adempimento in condizione, Galgano, Il negozio giuridi co, in Trattato diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1988, 144; Perlin
gieri, I negozi sui beni futuri, Napoli, 1962, 110; Marmocchi, Della condizione di adempimento della prestazione, in Riv. not., 1983, 482; Majorca, Condizione, cit., 285; e, in giurisprudenza, Cass. 24 febbraio 1983, n. 1432, Foro it.. Rep. 1983, voce Contratto in genere, n. 187), non pare possa dubitarsi che l'accertamento della causa di recesso ad
opera della società costituisca un obbligo gravante sulla stessa, cui que sta deve adempiere tempestivamente e correttamente. E allora, sembra forse più coerente la strada percorsa in una fattispecie simile da Cass. 8802/92, cit., che, di fronte all'inerzia della società, ha riconosciuto al socio recedente la risoluzione del vincolo contrattuale per inadempi mento, ai sensi dell'art. 1453 c.c. Una siffatta soluzione, nella quale la verifica della causa di recesso da parte della società non costituisce
dunque oggetto di una condizione sospensiva, sarebbe utilizzabile an che nel caso in cui la società pervenga per errore, non importa se in mala fede o meno, ad un accertamento negativo della causa di recesso
prospettata dal socio recedente: si tratterebbe in ogni caso di inadem
pimento contrattuale, sub specie di inesatto adempimento. In alternativa, anche a non voler ritenere che l'attività di verifica co
stituisca un obbligo contrattuale gravante sulla società il cui inadempi mento sia sanzionabile con la risoluzione del contratto, si potrebbe co
munque sostenere che la preventiva verifica della causa di recesso da
parte della società rappresenti un semplice passaggio procedurale inter no alla società, in assenza del quale il socio possa comunque adire l'autorità giudiziaria al fine di far accertare l'unica reale condizione so
spensiva del diritto di recesso: ossia la causa sostanziale di recesso
(come, nel caso di specie, la forza maggiore). Il comportamento della società (di inerzia, oppure di erronea — dolosa o meno — negazione del sopravvenire della causa di recesso) non può quindi impedire in al cun modo al giudice di accertare che il recesso è stato esercitato dopo che la sua condizione sospensiva si era verificata, e pertanto esso è pie namente valido ed efficace. Col corollario che clausole di questo tipo, se interpretate in modo da assicurarne la liceità, presentano un'utilità
alquanto sfumata. [L. D'Ascia]
Il Foro Italiano — 2002.
socio in base alle citate scritture, sicché, essendovi stata la soc
combenza del Salvatore in entrambi i gradi del giudizio, la par ziale compensazione nell'uno e nell'altro grado delle spese pro cessuali era giustificata.
Ha proposto ricorso per cassazione la società cooperativa Ri
nascita Adriatica con sei motivi; ha resistito Salvatore Antonio
che ha depositato controricorso e ricorso incidentale condizio
nato, con unico motivo, cui ha replicato la ricorrente con memo
ria difensiva.
Motivi della decisione. — Dei ricorsi va disposta la riunione
ai sensi dell'art. 335 c.p.c. Con il primo motivo la ricorrente principale denunzia la vio
lazione ed erronea applicazione dell'art. 2909 c.c., per il fatto
che il tribunale abbia disatteso l'eccezione di giudicato sotto il
profilo che diverse fossero le pretese azionate con i due ricorsi
per ingiunzione, mentre entrambe trarrebbero origine e fon
damento dalle scritture 27 agosto e 28 novembre 1988, con cui
il Salvatore si era obbligato a pagare il novanta per cento del
l'aumento di capitale sociale, di cui il venti per cento in tre
quote annuali — oggetto della prima ingiunzione
— e il restante
settanta per cento — oggetto della seconda — mercé pagamento delle rate annuali di mutuo su di lui gravanti. Pertanto, quand'anche le pretese non fossero perfettamente uguali, identico sarebbe stato il
rapporto giuridico dedotto nei due procedimenti monitori, originato dalle due scritture private, per effetto del quale, una volta rimasto
indiscusso, nessuna rilevanza assumerebbe la circostanza che il
Salvatore avesse chiesto con l'opposizione al secondo decreto in
giuntivo il giudiziale accertamento del suo recesso.
La censura non ha fondamento ed è anzi inammissibile.
Al di là delle ragioni considerate dalla corte di merito, con ri
guardo all'analogo motivo di impugnazione proposto avverso la
sentenza di primo grado, in ordine all'eccezione di giudicato — re
spinta a causa della diversità delle pretese, avendo trovato la prima fondamento nell'impegno del socio relativamente all'aumento di
capitale sociale e la seconda, per cui è causa, nel mutuo contratto
dalla cooperativa, non rileva se finalizzato a coprire o meno quel l'aumento, una volta che siano rimaste diverse le fonti negoziali
dell'obbligazione — la doglianza è resistita dalla natura dell'ac
certamento invocato, che, comportando un apprezzamento del fatto, rimesso al giudice di merito, è insindacabile in questa sede, salvo
che non sussistano violazioni dell'aft. 2909 c.c. e di ogni altra
norma e principio di diritto in tema di res iudicata, che però debbono essere specificamente dedotte, non essendo sufficiente
il mero richiamo, come nella specie, alla norma citata o all'art.
324 c.p.c. (Cass. 6751/96, id., Rep. 1996, voce Cosa giudicata civile, n. 6; 5243/95, id., Rep. 1995, voce cit., n. 13; 7488/94, id., Rep. 1994, voce cit., n. 12).
Proponendo l'esame del rapporto tra le due pretese e dunque dei fatti da cui discendono, il ricorrente impegna il giudice di
legittimità ad un'indagine che non gli è consentita, né deduce
vizi di motivazione capaci di inficiare le conclusioni raggiunte; il primo motivo dunque non può trovare ingresso in questo giu dizio.
Infondato è anche il secondo, con cui la cooperativa lamenta
la violazione ed erronea applicazione dell'art. 1359 c.c. e «di
tutte le norme e principi in materia di recesso del socio», dedu
cendo che il tribunale abbia giudicato legittimo il recesso del
Salvatore, senza esaminare la fondatezza delle ragioni addotte a
riguardo, ma semplicemente valorizzando l'omessa pronunzia sulla relativa domanda da parte degli organi societari, mancan
do di rilevare che il recesso era statutariamente consentito solo
per motivi di forza maggiore, sui quali avrebbe dovuto incen
trarsi l'indagine del giudice di merito, a fronte di giustificazioni addotte dal socio —
quali la trasformazione culturale del suo
terreno — che non solo difettavano di prova, ma non realizza
vano la forza maggiore. Ha poi rilevato che il tribunale, al di là
della verifica imposta dalle norme statutarie, avrebbe dovuto
comunque sindacare la sussistenza e legittimità della motiva
zione del recesso, che era illegittimo, per il fatto che si era man
cato da parte del Salvatore di attivare le iniziative necessarie
alla convocazione dell'assemblea, la cui deliberazione sul re cesso era necessaria e non costituiva condizione potestativa, da
considerarsi avverata per il fatto impeditivo di chi aveva avuto
interesse contrario.
Oltre al recesso legale, previsto dall'art. 2523 e dall'art. 2437
c.c., norma quest'ultima dettata per le società per azioni, ma ri
tenuta estensibile alle società cooperative (Cass. 5790/80, id.,
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
1981, I, 747; 1915/63, id., 1963, I, 2298), l'ordinamento preve de il recesso convenzionale (art. 2518, cpv., n. 8; 2526, 1°
comma, c.c.), e se il primo non può essere limitato o soppresso
neppure da clausole statutarie, attraverso la previsione dell'ap
provazione degli organi societari, la quale finirebbe per trasfor
mare l'esercizio di un diritto potestativo in una proposta nego ziale e per rimetterne l'efficacia alla discrezione di un terzo, non altrettanto può dirsi per il recesso statutario, il quale, na
scendo con l'atto costitutivo, come atto di manifestazione della
volontà negoziale, dalla stessa volontà può essere disciplinato attraverso clausole, determinative del contenuto, sia quando at
tribuiscono al socio la facoltà di recedere in situazioni specifi che, sia quando la limitano o la condizionano. Conseguente mente legittima è la disciplina convenzionale che subordina il
recesso a determinati presupposti o condizioni, tra cui l'autoriz
zazione o l'approvazione del consiglio di amministrazione o
dell'assemblea dei soci.
Ciò posto, altrettanto incontrovertibile è il potere discrezio
nale di quegli organi, in relazione all'apprezzamento dell'inte
resse della società a perseguire l'oggetto sociale, raggiungibile o più agevolmente perseguibile se la compagine sociale resta
integra o comunque non si modifichi sensibilmente. Quel potere
permane anche quando l'area del recesso volontario concerna
ipotesi ben circoscritte, solitamente riferite a situazioni di forza
maggiore — come si assume nella specie
— venendo quell'ap
prezzamento ad essere limitato alla verifica della corrisponden za dei fatti specifici dedotti alle ipotesi statutariamente contem
plate; ed è un potere non esercitabile in caso di inerzia, né da
organi societari diversi da quelli a tanto deputati, né dal giudice,
proprio perché riferito alla tutela dell'interesse della società, te
sté considerato, attribuito in via esclusiva all'organo ritenuto dal
contratto sociale idoneo alle valutazioni necessarie.
Siffatta discrezionalità, tuttavia, non può divenire arbitrio e
tradursi nel rifiuto di provvedere o in un diniego assoluto ed
immotivato di approvazione, equivalendo tanto il primo quanto il secondo ad una condotta ostruzionistica, che produce l'effetto
della vanificazione del diritto di recesso.
E principio di diritto che «nell'attuazione del contratto so
ciale, come di ogni altro contratto, debbono essere rispettati i
principi cardine della correttezza e della buona fede (art. 1375
c.c.), quale regola di comportamento, che opera anche al di là di
specifiche previsioni contrattuali, alla quale anche gli organi so
ciali sono tenuti a conformarsi nella loro attività di adempi mento, e come regola di governo della discrezionalità nell'eser
cizio dei poteri previsti dalla legge e dai patti sociali» (Cass. 8802/92, id., Rep. 1992, voce Cooperativa, n. 60). La vio
lazione di quel diritto, per effetto dell'inosservanza delle pre dette regole, ha dunque legittimato l'applicazione da parte della
sentenza impugnata della disposizione dell'art. 1359 c.c., se
condo la quale la condizione si considera avverata qualora sia
mancata, per causa imputabile alla parte che aveva interesse
contrario al suo avveramento, costituendo il comportamento inattivo — che di per sé non integra gli estremi della fattispecie avverativa — la violazione di un obbligo di agire imposto dal
contratto sociale (Cass. 7377/96, id., Rep. 1996, voce Contratto
in genere, n. 293; 2464/85, id., Rep. 1986, voce cit., n. 252; 1680/83, id., Rep. 1983, voce cit., n. 191; 2223/79, id., Rep. 1979, voce cit., n. 184).
Né ha rilievo, come correttamente ha osservato il giudice di
merito, la circostanza che il socio non abbia sollecitato l'assem
blea a deliberare, una volta che la dichiarazione di recesso sia
pervenuta alla società, ai cui organi abilitati alla convocazione
dell'assemblea era attribuito il relativo potere-dovere. Ancor meno condivisibile è l'assunto che la mancata convo
cazione debba essere imputata ai componenti del consiglio di
amministrazione della cooperativa e che l'inadempienza di
quell'organo, che cagioni danni ai soci o ai terzi, può essere
fatta valere in sede di esercizio di pretese risarcitorie nei suoi
confronti, senza che sia la società a dover subire pregiudizi;
omette, infatti, la ricorrente di considerare che la condotta del
l'organo amministrativo è riferibile alla cooperativa in relazione
al rapporto di immedesimazione organica e ne concretizza ed
esterna la volontà, esponendola alle responsabilità per le con
dotte poste in essere, salve le azioni risarcitorie ai sensi degli art. 2392 e 2393 c.c.
Con il terzo motivo la ricorrente principale denunzia la viola
zione dell'art. 112 c.p.c., per l'omesso esame di un punto deci
II Foro Italiano — 2002.
sivo della controversia, e l'omessa motivazione sulla posizione del Salvatore nella cooperativa. Rileva che quest'ultimo, all'e
poca della sottoscrizione degli impegni di cui alle scritture 27
agosto e 28 novembre 1988 e della contrazione da parte della
cooperativa del mutuo, per il quale era stata formulata la richie
sta ingiuntiva di rimborso, era componente del consiglio di am
ministrazione e pertanto informato di quella operazione di fi
nanziamento; tanto priverebbe di fondamento l'assunto che non
si fosse reso conto delle relative obbligazioni e renderebbe ini
doneo il recesso a liberarlo dagli impegni. Conseguentemente erronea sarebbe l'affermazione del tribunale, secondo cui il mo
tivo d'appello a riguardo non era chiaro, manifesto essendo in
vece l'intendimento dell'appellante di privare di efficacia il re
cesso.
Neanche tale motivo può essere accolto. Posto, infatti, che la
obbligazione dedotta dalla cooperativa a carico del Salvatore
deriva dalla sua qualità di socio e come tale è stata prospettata, è
del tutto inconferente che nel periodo in cui egli sottoscrisse le
scritture 27 agosto e 28 novembre 1988, che l'avrebbero impe
gnato personalmente, fosse componente del consiglio di ammi
nistrazione, condizione questa che gli avrebbe consentito di ave
re contezza di detti impegni e delle ragioni del finanziamento
che la cooperativa aveva richiesto; e ciò per il fatto che i due
ruoli operano su distinti livelli, che gli impegni predetti risulta
no anteriori di circa un anno e mezzo al mutuo e non si è in al
cun modo dedotto che il finanziamento fosse stato fatto allo
specifico fine di far acquisire a ciascun socio le risorse necessa
rie a fronteggiare le sottoscrizioni dell'aumento di capitale. Corretta è, pertanto, l'affermazione del tribunale, laddove de
duce l'oscurità del motivo d'appello —
corrispondente a quello in esame — dall'inconferenza delle conseguenze che dal suo
accoglimento deriverebbero, non giovando la partecipazione al
l'attività gestoria della società a provare la consapevolezza degli
impegni predetti e della funzione del mutuo; inconferenza anco
ra maggiore ove si intenda desumere — come fa la ricorrente —
dalla qualità di amministratore, con cui aveva concorso a deter
minare la decisione dell'ente di contrarre il mutuo, che il reces
so non sia idoneo a far venire meno gli impegni personali e così
si intenda «privare di efficacia per molteplici ragioni il recesso
del Salvatore, sul presupposto che questi, quale componente dal
consiglio di amministrazione della cooperativa, aveva deliberato la
contrazione del mutuo del cui rimborso si discute».
Fondati sono invece il quarto e il quinto motivo, con cui la co
operativa deduce l'omesso esame di un punto decisivo della con
troversia, con riguardo alla circostanza accertata che il mutuo era
stato contratto in nome e per conto del Salvatore — oltreché degli altri soci —
giusta suo mandato; sicché il rimborso sarebbe da lui
dovuto, sia per tale rapporto di mandato, sia perché del mutuo egli aveva beneficiato, avendo l'operazione aumentato il capitale so
ciale e così giovato ad aumentare la sua quota, al pari delle altre; e
denunzia la violazione dell'art. 112 c.p.c., per l'omesso esame di
un punto decisivo della controversia, circa la decorrenza del recesso
e la violazione ed erronea applicazione delle norme che ne preve dono l'efficacia ex nunc. Rileva che il pretore aveva omesso di af
frontare la prospettata questione, poi riproposta nel grado di appello e volta a limitare la decorrenza degli effetti del recesso, tanto da
non inficiare gli impegni assunti in precedenza; ma il tribunale era
incorso in analoga omissione, benché sollecitato a pronunziarsi con
apposito motivo d'impugnazione. La sentenza impugnata, accorpando in unica valutazione l'esame
del quarto, del quinto e del sesto motivo di appello (negli stessi
termini riproposti con il quarto, quinto e sesto motivo di ricorso) ha
finito per esaminare solo il sesto, disattendendolo, il quale, come
appresso si vedrà, afferiva a ben altro aspetto della controversia.
Sull'esistenza del mandato alla stipula del mutuo, sull'interesse del
socio a beneficiarne sia pure indirettamente, sul vantaggio ricevuto
in termini di incremento di valore delle quote sociali, sulla decor
renza del recesso, la decisione è del tutto carente, sicché fondata è
la doglianza di omessa pronunzia, con la conseguenza che la sen
tenza va per tali aspetti annullata con rinvio.
L'accoglimento del quarto e quinto motivo determina l'as
sorbimento del sesto, con cui la cooperativa lamenta la violazione
ed erronea applicazione degli art. 99, 112, 633 c.p.c., osservando
che oggetto della domanda d'ingiunzione era stata anche l'annua
lità per il 1991 di lire 953.000, sicché erronea sarebbe la pronunzia di rigetto, con l'assunto che la cooperativa non l'aveva riproposta allorché era stata convenuta nel giudizio di opposizione, essendo
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PARTE PRIMA
sufficiente che essa avesse chiesto la conferma del decreto opposto. Essendo la pretesa relativa al 1991 compresa nella maggiore do
manda, estesa anche ai due anni successivi, il giudice di rinvio resta
investito del relativo esame, in quanto chiamato a vagliare l'intero
petitum, sotto i profili prima considerati.
Fondato è, infine, il ricorso incidentale condizionato, con cui
Salvatore Antonio denunzia la violazione degli art. 1324, 1346 e
1418 c.c. e l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento agli impegni da lui assunti con le scritture 27 ago sto e 28 novembre 1988. Rileva che esse recavano l'impegno del
socio a sottoscrivere un certo numero di quote sociali, in relazione
all'aumento di capitale deliberato dalla cooperativa, per un deter
minato importo, bene evidenziato con scritturazione a mano, ri
spetto al testo del documento; mentre la cooperativa, procedendo in
via monitoria, non aveva fatto valere quell'impegno —
peraltro og
getto della precedente ingiunzione non opposta — ma l'altro, de
sumibile dalla parte successiva, non chiaramente intelligibile, rife
rito ad un mutuo non quantificato né quantificabile, che appariva
piuttosto una modalità di pagamento del primo impegno, in ragione del settanta per cento. Assume il ricorrente incidentale che, ove il
mutuo fosse servito a coprire il settanta per cento dell'aumento di
capitale, i documenti prodotti evidenzierebbero un importo di lire
210.000.000, non corrispondente a tale percentuale; per tale verso
la richiesta d'ingiunzione risulterebbe equivoca e non come si era
tentato di dimostrare in corso di causa, che cioè si fosse fatto sotto
scrivere al Salvatore l'impegno ad un aumento di capitale per lire
12.250.000, poiché in tal caso, considerato il valore di ogni quota di
lire 210.000, l'impegno avrebbe dovuto essere quantificato in ra
gione di 1.225 quote e non di 245, come risultante dalle due scrittu
re citate. Peraltro, dovendo ammontare a circa 500.000.000 la com
plessiva ricapitalizzazione, alla stregua di quanto indicato in quelle scritture, tenuto conto del numero di oltre 200 soci, ciascuno avreb
be dovuto sottoscrivere un aumento di circa 2.500.000, notevol
mente inferiore alla somma di lire 12.000.000 richiesta a lui, la cui
partecipazione alla cooperativa era persino inferiore alla media
delle altre. Conseguentemente, avendo le scritture un oggetto inde
terminato o indeterminabile, le ragioni della decisione, che aveva
recepito acriticamente la motivazione della sentenza del primo giu dice ed aveva rigettato la censura di nullità, risulterebbero mancanti
o insufficienti e comunque inidonee ad esprimere l'iter logico se
guito. Il giudice di merito ha laconicamente affermato, a fronte di tale
articolata deduzione, che la statuizione del primo giudice, censura
ta, di rigetto della domanda di declaratoria di nullità delle scritture
è «pienamente condivisibile per quanto in proposito rilevato dal
pretore in ordine all'insussistenza della indeterminatezza o inde
terminabilità dell'oggetto della prestazione richiesta al socio sulla
base delle note scritture», così omettendo dei tutto di rivelare le ra
gioni del proprio convincimento.
È, infatti, legittima la motivazione per relationem solo quando il
giudice d'appello, «pur richiamando nella sua pronunzia gli ele
menti essenziali della motivazione della sentenza di primo grado, ha dato una risposta alle censure contro questa formulate con il
gravame, con la conseguenza che risulta corretto ed appagante 17
ter argomentativo che sia desunto attraverso l'integrazione della
parte motiva delle due sentenze (Cass. 7182/97, id., Rep. 1997, vo
ce Sentenza civile, n. 51; 12035/95, id.. Rep. 1995, voce cit., n. 52). Anche per tale verso la sentenza impugnata va cassata, con rin
vio.
Il Foro Italiano — 2002.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 23 mar
zo 2001, n. 4202; Pres. Olla, Est. Felicetti, P.M. Palmieri
(conci, diff.); Mosca (Avv. Di Rezze) c. Sbaraglia (Avv. Fe
sta). Cassa App. Roma, decr. 25 maggio 1999.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Giudicato di
divorzio — Assegno di mantenimento — Sopravvenienza
della delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità — Ir
rilevanza (Cod. civ., art. 2909; 1. 25 marzo 1985 n. 121, rati
fica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale,
firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazio
ni al concordato lateranense dell'11 febbraio 1929 tra la Re
pubblica italiana e la Santa Sede: accordo, art. 8).
Una volta passata in giudicato la pronuncia di cessazione degli
effetti civili del matrimonio concordatario, il capo relativo
all'assegno di mantenimento non resta travolto dalla succes
siva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del
matrimonio medesimo (in motivazione, la corte precisa che il
giudicato di divorzio non contiene alcuna statuizione, seppure meramente incidentale, sull'esistenza e sulla validità del vin
colo, sicché non preclude il riconoscimento di una sentenza
ecclesiastica di nullità). (1)
(1) Sulla prima parte della massima, conf. Cass. 18 aprile 1997, n.
3345, Foro it., 1997, I, 2962, con nota di richiami, nonché Famiglia e
dir., 1997, 213, con nota di V. Carbone, e Corriere giur., 1997, 1318, con nota di G. Balena.
Nel senso che la sentenza di divorzio non precluda la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, v. Cass. 9 dicembre 1993, n.
12144, Foro it., 1995,1, 279, con nota di G. Balena, e Nuova giur. civ., 1994, I, 796, con nota di E. Martinelli; Dir. famiglia, 1995, 928, con nota di M. Canonico, e Famiglia e dir., 1994, 153, con nota di Mater
nini; 21 marzo 1980, n. 1905, Foro it., Rep. 1980, voce Matrimonio, n.
211; 28 ottobre 1978, n. 4927, ibid., n. 209; 29 novembre 1977, n.
5188, id.. 1978,1, 2004.
* * *
1. - Con la pronuncia in epigrafe la Cassazione torna ad affrontare il
problema dei rapporti tra la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità e l'anteriore giudicato di cessazione degli effetti civili del ma trimonio.
Per la prima volta, però, l'oggetto principale dell'intervento della
Suprema corte è costituito dalle conseguenze che tale delibazione pro duce sui capi della sentenza di divorzio contenenti statuizioni di ordine economico. In particolare, nel ribadire che l'esistenza di un giudicato di divorzio non costituisce ostacolo alla delibazione di una sentenza ec clesiastica di nullità, la corte si occupa di verificare se dette statuizioni restino o no travolte da tale riconoscimento.
Dal punto di vista pratico, il problema sorge evidentemente a causa dei diversi effetti patrimoniali derivanti, rispettivamente, dallo sciogli mento del matrimonio, che normalmente prevede un assegno di mante nimento a favore del coniuge economicamente più debole, ovvero dalla dichiarazione di nullità, che tutt'al più può dar luogo al pagamento del l'indennità temporanea di cui agli art. 129 e 129 bis c.c.
Nel caso di specie l'obbligato alla corresponsione dell'assegno di vorzile aveva chiesto che fosse dichiarata l'improcedibilità del ricorso
proposto avverso la sentenza di appello che aveva ridotto l'ammontare di quell'assegno, sostenendo che tale sentenza avrebbe dovuto ritenersi caducata in seguito alla delibazione della sentenza di nullità del matri
monio, dal momento che quest'ultima, accertando l'inesistenza del vin colo matrimoniale, avrebbe fatto venir meno il presupposto stesso delfa sentenza di divorzio e di ogni pronuncia ad essa accessoria.
In effetti, l'assunto del ricorrente trovava conforto nella giurispru denza meno recente, secondo cui, per l'appunto, il riconoscimento di una sentenza di nullità del matrimonio avrebbe travolto la sentenza di divorzio ed ogni conseguente statuizione patrimoniale (cfr. App. Roma, deer. 11 giugno 1986, Foro it., 1987, I, 934, con nota di E. Quadri, cui si rinvia per ulteriori ragguagli).
Su tale premessa, però, il ricorso ai tribunali ecclesiastici si prestava ad un uso del tutto strumentale, volto ad eludere il pagamento dell'as
segno di mantenimento determinato in sede di divorzio. Sebbene quest'orientamento tradizionale fosse stato già disatteso da
Cass. 18 aprile 1997, n. 3345 (Foro it., 1997, I, 2962, e Corriere giur., 1997, 1318, con nota di G. Balena, Delibazione di sentenza ecclesia stica di nullità e processo di divorzio; Famiglia e dir., 1997, 213, con nota di V. Carbone, L'annullamento del matrimonio non travolge più il divorzio; Giust. civ., 1997, I, 1173, con nota di G. Giacalone, Rap porto tra giudizio civile di divorzio e sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio: verso un nuovo assetto?), è solo con la sentenza odier
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