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sezione I civile; sentenza 8 novembre 1996, n. 9755; Pres. F. E. Rossi, Est. Baldassarre, P.M....

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sezione I civile; sentenza 8 novembre 1996, n. 9755; Pres. F. E. Rossi, Est. Baldassarre, P.M. Gambardella (concl. conf.); Soc. Molino Fiocchi (Avv. Cigna) c. Usl/65 Sesto San Giovanni e Cologno Monzese (Avv. Sinibaldi). Cassa Pret. Monza 1° ottobre 1992 Source: Il Foro Italiano, Vol. 120, No. 6 (GIUGNO 1997), pp. 1897/1898-1901/1902 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23192036 . Accessed: 28/06/2014 10:29 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.31.195.50 on Sat, 28 Jun 2014 10:29:10 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 8 novembre 1996, n. 9755; Pres. F. E. Rossi, Est. Baldassarre, P.M.Gambardella (concl. conf.); Soc. Molino Fiocchi (Avv. Cigna) c. Usl/65 Sesto San Giovanni eCologno Monzese (Avv. Sinibaldi). Cassa Pret. Monza 1° ottobre 1992Source: Il Foro Italiano, Vol. 120, No. 6 (GIUGNO 1997), pp. 1897/1898-1901/1902Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23192036 .

Accessed: 28/06/2014 10:29

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

medesima natura, alla cognizione di un giudice altamente spe

cializzato, appositamente istituito.

Dovendo essere interamente condivise le tre ragioni che ne

costituiscono il fondamento, questo nuovo indirizzo giurispru denziale merita piena adesione.

Deve essere, in primo luogo, sottolineata l'ampia formulazio

ne adottata dall'art. 442 c.p.c., al quale rinvia il successivo art.

444 per indicare la competenza del pretore in funzione di giudi ce del lavoro e che menziona «i procedimenti relativi a contro

versie derivanti dall'applicazione delle norme riguardanti le as

sicurazioni sociali» (. . .) «nonché ogni altra forma di previden za e di assistenza obbligatorie». Come bene sostiene l'attuale

ricorrente, non è dubbio che nella controversia avente per og

getto la domanda di risarcimento dei danni, proposta dall'assi

curato contro l'ente previdenziale in conseguenza di una errata

informazione sulla posizione contributiva dell'interessato, diret

tamente si discute della interpretazione e della applicazione di

disposizioni di legge riguardanti le assicurazioni sociali, «se non

altro per individuare, quali necessari presupposti della dedotta

responsabilità, l'obbligo violato dal comportamento tenuto dal

l'istituto, la difformità tra tale comportamento e quello impo sto dalla norma e la stessa valutazione del preteso danno». E,

parimenti, non è dubbio che l'attribuzione della controversia

in questione alla cognizione del giudice del lavoro corrisponde ad uno dei principi-guida tenuti presenti dal legislatore nella

riforma della disciplina relativa alle controversie individuali di

lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie (1. 11 agosto 1973 n. 533), con la quale, come è noto, si è voluto devolvere

la cognizione di una materia, avente contenuto altamente spe

cialistico, a un organo giurisdizionale particolarmente esperto e qualificato e, quindi, maggiormente idoneo ad interpretare e applicare una normativa in continua evoluzione e non sempre di agevole lettura.

Ma, a parte questi rilievi, che dimostrano come la soluzione

adottata in base al nuovo indirizzo sia aderente al tenore lette

rale e alla ratio della disposizione contenuta nell'art. 442 c.p.c., ciò che vieppiù induce ad aderirvi è la constatazione che nelle

controversie di che trattasi si discute non tanto della responsa bilità aquiliana dell'istituto previdenziale, quanto della respon sabilità contrattuale del medesimo.

Secondo la dottrina specialistica tradizionale (e a parte qual che contraria opinione), il complesso rapporto giuridico previ denziale fra l'ente pubblico e l'assicurato sorge, unitamente a

quello contributivo, nel momento stesso in cui vengono in esse

re quei presupposti di fatto — consistenti in determinati atti

giuridici leciti compiuti da particolari soggetti — presi in consi

derazione dalla legge, come, ad esempio, l'inizio di una attività

lavorativa, subordinata o autonoma, o l'iscrizione in particolari

albi, o la costituzione di un rapporto di parentela o di coniugio con un soggetto già assicurato. In tale situazione, che realizza

una delle fattispecie previste dall'art. 1173 c.c. e che si colloca, in base alla definizione datane da una parte della dottrina, nel

l'ampia categoria delle obbligazioni che trovano la loro fonte

«in una attribuzione normativa pubblica o in un atto ammini

strativo», la responsabilità che deriva a carico di una delle parti dalla violazione di uno specifico dovere o di un determinato

obbligo oggetto del rapporto, non è aquiliana o extracontrat

tuale, ma contrattuale. La responsabilità contrattuale, infatti, come giustamente viene precisato dalla dottrina civilistica, qua le espressione di un'ampia accezione non limitata alle fonti ne

goziali «è generalmente impiegata per indicare non solo la re

sponsabilità da contratto, ma anche ogni altra responsabilità — da altri atti o fatti, ai sensi del suddetto art. 1173 — diversa

dalla responsabilità da fatto illecito». Di guisa che, quando l'as

scicurato lamenta, secondo la locuzione usata nelle massime giu

risprudenziali che si sono succedute nel tempo, «l'errata comu

nicazione da parte dell'ente previdenziale del numero dei contri

buti versati, in modo tale da indurre l'assicurato stesso all'erroneo

convincimento di aver maturato la pensione di anzianità» e,

sulla base di tale doglianza — con la quale, in sostanza, viene

addebitata alla controparte la violazione delle ordinarie regole di correttezza e di diligenza (art. 1175 e 1176 c.c., i quali, nei

rapporti fra i privati e la pubblica amministrazione, trovano

il loro completamento negli art. 22 ss. 1. 7 agosto 1990 n. 241) — chiede che l'ente sia condannato a risarcirgli il danno deriva

togli dall'anticipata cessazione dell'attività lavorativa, la domanda

attiene non già «ad una ordinaria azione di responsabilità per

Il Foro Italiano — 1997.

danni», come si sostiene nelle sentenze che hanno contribuito

a formare il tradizionale filone giurisprudenziale, bensì, come

è stato affermato nella per ora isolata pronuncia n. 8613 del

1993, sopra indicata, a una tipica azione di responsabilità con

trattuale.

Anche per questa via, quindi, trova conferma l'interpretazio ne estensiva che deve essere data al suddetto art. 442 c.p.c., in modo da comprendere nella sua previsione, con tutte le con

seguenze che derivano in tema di ripartizione della competenza

per materia ai sensi del successivo art. 444, anche le controver

sie di cui si discute. Tenuto conto di tutte le argomentazioni svolte, la decisione

impugnata — facente leva, come si è detto, sull'indirizzo giuris

prudenziale che non può essere condiviso — non può essere

tenuta ferma e, in accoglimento del ricorso, deve essere dichia

rata la competenza per materia del Pretore di Pordenone in

funzione di giudice del lavoro.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 8 novem

bre 1996, n. 9755; Pres. F. E. Rossi, Est. Baldassarre, P.M.

Gambardella (conci, conf.); Soc. Molino Fiocchi (Avv. Ci

gna) c. Usl/65 Sesto San Giovanni e Cologno Monzese (Avv.

Sinibaldi). Cassa Pret. Monza 1° ottobre 1992.

Alimenti e bevande (igiene e commercio) — Prodotti non al

dettaglio — Indicazioni obbligatorie — Consumatore finale — Nozione — Fattispecie (D.p.r. 18 maggio 1982 n. 322, at

tuazione della direttiva Cee n. 79/112 relativa alla etichetta

tura dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale

ed alla relativa pubblicità nonché della direttiva Cee n. 77/94

relativa ai prodotti alimentari destinati ad una alimentazione

particolare, art. 12).

Ai fini della disciplina delle indicazioni obbligatorie relative ai prodotti alimentari preconfezionati non commercializzati ai

dettaglio, non vanno compresi nel concetto di consumatore

finale di cui all'ultimo comma dell'art. 12 d.p.r. 18 maggio 1982 n. 322 i soggetti che impiegano i prodotti preconfezio nati quali componenti di altro prodotto alimentare su scala

industriale o artigianale (nella specie trattavasi di farina in

sacchi, privi della indicazione della data di scadenza, forniti a un panificio). (1)

(1) In termini, v. Cass. 17 ottobre 1995, n. 10821, Foro it., Rep. 1995, voce Alimenti e bevande, n. 57.

In argomento, v. Cass. 15 marzo 1993, n. 3049, id., Rep. 1993, voce cit., n. 50, e Dir. e giur. agr. e ambiente, 1993, 542, con nota di Sca

bardi, Sulle indicazioni obbligatorie da apporre sull'etichettatura degli alimenti - La diversa disciplina applicabile ai prodotti preconfezionati, sfusi o venduti previo frazionamento, che ha precisato che tra i prodot ti alimentari non preconfezionati vanno inclusi i prodotti generalmente venduti previo frazionamento, anche se essi sono stati posti dal produt tore in un imballaggio preconfezionato; per desumere se uno specifico prodotto confezionato in imballaggio è generalmente venduto previo frazionamento occorre tenere conto, oltre che delle caratteristiche del

singolo prodotto e delle condizioni in cui esso è stato posto in commer cio (entità della confezione, diciture apposte, ecc.), della destinazione dello stesso (a singoli o a collettività) e dei comportamenti tenuti dalla

generalità dei commercianti e dei consumatori del prodotto medesimo. Sullo stesso tema, Cass. 3 agosto 1992, n. 9212, Foro it., Rep. 1992,

voce cit., n. 69, ha chiarito altresì che perché un prodotto alimentare sia considerato «preconfezionato», e quindi soggetto all'obbligo dell'in dicazione sull'etichetta del quantitativo netto e del termine minimo di

conservazione, occorre, oltre alla esistenza di un imballaggio avente de terminate caratteristiche, che l'unità di vendita sia destinata ad essere

presentata come tale al consumatore finale, e non venduta previo fra zionamento (nella specie, si trattava di prosciutto cotto intero in sta

gnola sigillata sotto vuoto sul quale il produttore aveva apposto la dici tura «da vendersi a peso previo frazionamento»).

Secondo Cass. 10 novembre 1992, n. 12088, id., Rep. 1994, voce

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1899 PARTE PRIMA 1900

Svolgimento del processo. — Il Pretore di Monza, con la sen

tenza 21 febbraio - 1° ottobre 1992, ha respinto l'opposizione

proposta dalla s.p.a. Molino Carlo Fiocchi avverso l'ordinanza

ingiunzione, con la quale l'Usi Sesto San Giovanni e Cologno Monzese le aveva ingiunto il pagamento della somma di lire

2.026.000, a titolo di sanzione amministrativa per violazione del

l'art. 12 d.p.r. 18 maggio 1982 n. 322, consistita nel non avere

riportato, su taluni sacchi di farina da 50 kg da essa opponente confezionati e rinvenuti in un panificio di Cologno Monzese, il termine minimo di conservazione e nel non averlo nemmeno

indicato sui relativi documenti commerciali di vendita.

Il pretore ha ritenuto che i prodotti alimentari preconfeziona

ti, considerati dal 1° comma dell'art. 12 d.p.r. 18 maggio 1982

n. 322, in relazione ai quali «devono» applicarsi le prescrizioni del precedente art. 3 per quanto riguarda l'etichettatura (e, in

particolare, l'indicazione del termine minimo di conservazione, nella specie mancante), sono sia quelli destinati ad arrivare, at

traverso la catena della distribuzione commerciale, al consuma

tore finale in senso stretto (per l'utilizzo da parte sua diretta

mente come alimenti oppure indirettamente come componenti di una pietanza complessa), sia quelli destinati ad arrivare, sem

pre attraverso la catena distributiva commerciale, al consuma

tore finale in senso lato, cioè a colui che, su scala industriale

o artigianale, li impieghi per realizzare prodotti alimentari più

complessi (senza doverli sottoporre a trattamenti che non siano

quelli funzionali al processo di preparazione della pietanza com

plessa). A tale conclusione è pervenuto attraverso un duplice, gradato

e ampio ordine di argomenti, ravvisando in primo luogo l'indi

cata disciplina nelle previsioni della direttiva Cee n. 79/112 del

18 dicembre 1978, in esecuzione della quale è stato emanato

il citato decreto, e, in ogni caso, nella norma dell'ultimo com

ma dell'art. 12 cit., se questa dovesse essere intesa come estra

nea al disposto della predetta direttiva.

Ricorre per cassazione la società soccombente sulla base di

due motivi. Resiste con controricorso l'intimata Usi.

Motivi della decisione. — 1. - Con i due motivi, legati da

connessione, si denuncia:

1) Violazione, falsa e mancata applicazione degli art. 9 1.

689/81, 7, 9, 11 e 13 1. 580/67, per non avere il pretore conside

rato — sebbene l'assunto costituisse specifico motivo dell'oppo sizione — che la 1. 580/67 sulla lavorazione e il commercio dei

cereali, sfarinati e derivati, che rappresenta disciplina speciale

rispetto a quella del d.p.r. 322/82 e che avrebbe dovuto trovare

applicazione a norma dell'art. 9 1. 689/81, non prescrive per

gli sfarinati l'indicazione della data di scadenza, ma solo quella di macinazione, nella specie esistente.

2) Violazione, falsa ed erronea applicazione degli art. 1 e 10

d.p.r. n. 322 del 18 maggio 1982 n. 12 disp. sulla legge in gene

rale, perché — alla stregua della direttiva Cee n. 79/112 e delle

norme del decreto che ad essa ha dato applicazione — per con sumatore finale deve intendersi quello che fa uso del prodotto alimentare per proprio consumo e non lo trasforma ai fini del

l'ulteriore commercializzazione; mentre la norma dell'ultimo com

ma del cit. art. 12 non prescrive indicazioni obbligatorie, ma

si limita a consentire che per i prodotti non commercializzati

al dettaglio e per quelli destinati all'industria o ai laboratori

le indicazioni di cui all'art. 3 siano riportate solo sui documenti

contabili.

Il ricorso è fondato.

2. - La norma dell'ultimo comma dell'art. 12 d.p.r. 18 mag

gio 1982 n. 322, secondo cui i prodotti alimentari non commer

cializzati al dettaglio e quelli destinati all'industria o ai labora

tori artigianali possono riportare le indicazioni di cui all'art.

7 solo sui documenti commerciali di vendita, trova la sua origi ne nell'attuazione, con decreto delegato, alla direttiva comuni

cit., n. 58, anche il grossista è tenuto a rispettare la prescrizione sulla facile visibilità e chiara leggibilità delle indicazioni scritte sulle etichette delle confezioni di cui all'art. 12 d.p.r. n. 322.

Segnaliamo, infine, che sulla G.U.C.E. n. 43/21 del 14 febbraio 1997 è stata pubblicata la direttiva 87/4/Cee del parlamento europeo e del

consiglio del 27 gennaio 1997 che modifica la direttiva 79/112/Cee rela tiva al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari e la relativa

pubblicità.

Il Foro Italiano — 1997.

taria n. 79/112 del 18 dicembre 1978, avente ad oggetto esclusi

vo l'etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, ed è collocata in un

articolo che riguarda specificamente l'etichettatura di tali

prodotti. Insorta così l'esigenza di definire — alla stregua del citato

decreto — la figura del consumatore finale, deve essere disatte

sa la tesi, accolta dal primo giudice, di un consumatore finale

in senso lato, comprendente i soggetti che impiegano i prodotti

preconfezionati quali componenti di altro prodotto alimentare

su scala industriale o artigianale. Si tratta di una definizione che contrasta con l'intera norma

tiva delegata e con la stessa direttiva Cee, posto che questa limi

ta il suo campo di applicazione ai prodotti alimentari destinati

al consumatore finale, precisando che «le norme relative all'eti

chettatura dei prodotti che devono ancora essere sottoposte a

trasformazioni o ulteriori preparazioni saranno stabilite in una

seconda tappa». Si spiega, quindi, che il 2° comma dell'art. 1 d.p.r. 322/82

estenda la disciplina dettata dal decreto alle sole situazioni (de stinazione a ospedali, ristoranti, mense e altre simili collettività) caratterizzate dall'immediato consumo del prodotto confezio

nato ovvero dal suo diretto impiego nella preparazione di vi

vande da consumare senza ulteriori trasferimenti commerciali.

Se così non fosse si finirebbe per estendere a settori e fasi

commerciali del tutto diversi, una disciplina che riguarda solo

il consumatore finale, sebbene solo agli acquisti e alla tutela

di quest'ultimo la normativa Cee e il decreto delegato sono fi

nalizzati.

Il che potrebbe implicare eccesso di delega, in quanto, in vir

tù dell'art. 1 1. 9 febbraio 1982 n. 42 il governo è stato autoriz

zato ad emanare, con decreti aventi forza di legge, le norme

necessarie per dare attuazione alle direttive elencate in allegato

(tra cui quella in esame, riguardante solo il consumatore finale) «secondo i principi direttivi e i criteri contenuti nelle direttive

stesse».

3. - Con la recente sentenza 17 ottobre 1995, n. 10821 (Foro

it., Rep. 1995, voce Alimenti e bevande, n. 57) questa sezione,

proprio in relazione all'obbligo di indicare il termine di conser

vazione (ma per prodotto diverso dalla farina destinata a pani

fici), ha interpretato la norma dell'ultimo comma dell'art. 12

cit. nel senso che detta disposizione fa riferimento unicamente

ai prodotti alimentari preconfezionati destinati al consumatore

finale; e, pertanto, non ha dovuto affrontare il problema della

legittimità costituzionale della norma delegata. Ferme le ragioni che inducono a disattendere la diversa erme

neusi letterale, va precisata la portata precettiva della norma, che risulta in armonia con la complessiva normativa del decreto

delegato e le prescrizioni comunitarie (nonché con la legge dele

ga), distinguendo le due ipotesi, considerate dal comma in esa

me, di annotazione solo sui documenti commerciali di vendita

delle indicazioni prescritte dal precedente art. 3.

Per «i prodotti alimentari non commercializzati al dettaglio» la previsione va agevolmente raccordata con quella, già citata, di cui al 2° comma dell'art. 1, ritenendosi sufficiente la sola

annotazione documentale, in caso di vendita a consumatori fi

nali «equiparati» o «collettivi» di prodotti alimentari in confe

zioni predisposte, ma di dimensioni tali da non prestarsi al com

mercio al dettaglio. Per i prodotti «destinati alla industria e ai laboratori artigia

nali» la deroga alle prescrizioni dei precedenti commi, derivante

dalla norma in esame, trova attuazione nei casi di forniture di

prodotti alimentari in confezioni predisposte per la vendita al

dettaglio, ma a questa non destinati per essere destinati invece

(in quantitativi adeguati) alle successive trasformazioni in stabi

limenti industriali o laboratori artigianali. Il comma ultimo dell'art. 12, così inteso, non presenta alcun

profilo d'incostituzionalità.

4. - Rimane superata la questione sul se, accedendo all'inter

pretazione accolta dal pretore, possa trovare concreta applica zione la norma in esame, per essere la stessa di caratere genera le e, quindi, non idonea a derogare la norma speciale dettata, in materia di immissione in commercio di sfarinati, dall'art.

13 1. 4 luglio 1967 n. 580. 5. - Nel caso in esame risulta accertato pacificamente che i

sacchi confezionati di farina, venduta ad un panificio dalla so

cietà opponente, erano privi dell'indicazione della data di sca

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

denza, di cui alla lett. d) dell'art. 3 d.p.r. 322/82 e che tale

data non risultava nemmeno dai relativi documenti commercia

li. La farina, però, non era destinata a consumatori finali, ben

sì alla panificazione, e non era preconfezionata per la vendita

al dettaglio. Né è stata contestata la (e non si controverte sulla) assenza

di altre indicazioni, comunque prescritte. Ne deriva l'insussistenza dell'infrazione, che, a norma del

l'art. 384 (nuovo testo) c.p.c., deve essere qui rilevata e dichia

rata, con pronuncia di accoglimento dell'opposizione e annulla

mento dell'ordinanza ingiunzione.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 24 otto bre 1996, n. 9299; Pres. Mercurio, Est. GiannAntonio, P.M.

Martone (conci, diff.); Gigli (Aw. Bologna) c. Inadel. Cas

sa Trib. Roma 21 maggio 1993.

Procedimento civile — Morte del difensore dell'appellante —

Interruzione del processo — Fattispecie (Cod. proc. civ., art.

301).

La morte del procuratore legale dopo la notificazione della sen

tenza d'appello e prima del decorso del termine per la costitu

zione nel giudizio di secondo grado determina l'interruzione del processo, ove l'evento venga dichiarato all'udienza. (1)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 24 otto bre 1996, n. 9277; Pres. Lipari, Est. Rordorf, P.M. Nardi

(conci, conf.); D'Ovidio (Avv. Lanci) c. Comune di Fondi

(Aw. Gonzales, Sarcina). Conferma App. Roma 1° agosto 1994.

Procedimento civile — Grave malattia del difensore — Interru

zione del processo — Esclusione (Cod. proc. civ., art. 301).

La malattia, per quanto grave, del difensore non è causa d'in

terruzione del processo ove non ne sia eventualmente conse

guita la sospensione o la radiazione dall'albo. (2)

(1-2) In senso conforme a Cass. 9277/96, cioè nel senso che la malat tia che impedisce al procuratore di partecipare alle udienze non deter mina l'interruzione del processo, si veda Cass. 5 luglio 1984, n. 3921, Foro it., Rep. 1984, voce Procedimento civile, n. 162, e Giust. civ., 1984, I, 3304.

In senso contrario a Cass. 9299/96, cioè nel senso che la morte del

procuratore durante il termine utile per la costituzione in giudizio —

anche in fase di gravame — non determina l'interruzione del processo, poiché in tal caso viene in rilievo la diligenza della parte interessata alla puntuale sostituzione del proprio difensore, si veda Cass. 3 settem bre 1992, n. 10179, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 167.

Le due sentenze riportate risolvono in senso opposto due fattispecie, certamente non identiche, ma riconducibili ad uno stesso genere: nel corso del giudizio d'appello è intervenuto un fatto (nella seconda una

grave malattia del difensore dell'appellante; nella prima la morte del difensore dell'appellato), che ha impedito ad una parte il tempestivo esercizio di una serie di poteri processuali interni al grado di giudizio, mancato esercizio che ha avuto come conseguenza, più o meno diretta, una sentenza sfavorevole.

La seconda sentenza ha considerato l'impedimento irrilevante, senza ravvisare in ciò una «qualche menomazione del diritto di difesa», per ché la parte è sempre libera di scegliere il proprio difensore e di revoca re la sua precedente scelta, ove questi cessi di offrire quelle garanzie di capacità e di equilibrio per le quali il cliente gli aveva da principio

Il Foro Italiano — 1997.

I

Motivi della decisione. — Con il primo motivo il ricorrente

denunzia la violazione dell'art. 301 c.p.c. Lamenta che il tribu

nale non abbia ritenuto il processo interrotto a causa del deces

so dell'avv. Gabriele Moricca, avvenuto il 3 dicembre 1990, do

po la notifica del ricorso in appello. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione

dell'art. 4 1. n. 152 dell'anno 1968. Lamenta che il tribunale

non abbia ritenuto che, in base alla norma citata, il Gigli aveva

diritto alla indennità di premio di servizio per avere svolto atti

vità in posti vacanti della pianta organica. Con terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell'art.

2116 c.c. Lamenta che il tribunale abbia ritenuto inapplicabile nel caso il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali.

Deve essere esaminata innanzitutto l'eccezione di nullità della

sentenza per la mancata dichiarazione di interruzione del pro cesso sollevata con il primo motivo del ricorso.

Il motivo è fondato e l'eccezione va accolta. In base all'art. 301 c.p.c., se la parte è costituita a mezzo di procuratore, il

processo è ininterrotto dal giorno della morte, radiazione o so

spensione del procuratore stesso.

Scopo della norma è quello di garantire, in ogni stato e grado del procedimento, il diritto alla difesa mediante una effettiva

assistenza tecnica e professionale in modo da consentire alle

parti di far valere, attraverso un regolare contraddittorio, le

proprie ragioni. L'interruzione si può verificare in ogni stato e grado del pro

cedimento. Occorre tuttavia che la parte si sia costituita a mez zo di procuratore. Difatti, questa corte ha più volte affermato che la morte del procuratore, durante il termine utile per la costituzione in giudizio, non determina l'interruzione del pro cesso ed è compito della parte interessata provvedere alla pun tuale sostituzione del proprio difensore (Cass. 16 luglio 1983, n. 4924, Foro it., Rep. 1984, voce Procedimento civile, n. 160).

Questa stessa corte ha affermato che tale principio trova ap plicazione anche con riferimento al giudizio di appello e all'ipo tesi del decesso del procuratore della parte in primo grado, do

po che gli sia stato notificato l'atto di appello a norma dell'art.

330, 1° comma, ultima parte, c.p.c., ma prima della sua costi

tuzione nel giudizio di secondo grado (Cass. 3 settembre 1992, n. 10179, id., Rep. 1992, voce cit., n. 167).

dato fiducia. La corte ha dunque ritenuto imputabile all'appellante, nel caso de quo, il mancato esercizio tempestivo dei poteri processuali: la

parte, nello scegliere il proprio procuratore in giudizio, si assume l'one re di verificare la rispondenza ai propri interessi di tale scelta anche durante lo svolgimento del mandato conferito al legale. Questa soluzio ne poteva forse essere giustificata «da situazioni ambientali venute me no, come albi professionali con pochi iscritti e rapporti di frequenza tra cliente e procuratore» (per ripetere le parole di Virgilio Andrioli in relazione alla disciplina dell'estinzione «misteriosa» del processo, an teriore a Corte cost. 15 dicembre 1967, n. 139, id., 1968, I, 10), ma sembra imporre attualmente alla parte un onere di controllo dell'attivi tà del proprio difensore eccedente l'ordinaria diligenza. Negli ordina menti stranieri che hanno maggiore dimestichezza del nostro con l'isti tuto della rimessione in termini, il caso de quo integra tipicamente il

presupposto per l'applicazione di quest'ultimo rimedio (sul punto, si veda R. Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, spec. 199 ss.). Probabilmente, una soluzione analoga poteva esse re raggiunta anche nel nostro ordinamento con l'applicazione dell'art. 184 bis c.p.c., poiché l'ambito di applicazione di questa disposizione, dopo il suo ampliamento, è esteso a tutti i poteri processuali sottoposti a decadenza nel corso del giudizio di primo e, attraverso il rinvio conte nuto nell'art. 359 c.p.c., di secondo grado: l'art. 184 bis c.p.c. è una norma generale di rimessione in termini all'interno di un grado di giudi zio in corso di svolgimento.

La prima sentenza ha considerato l'impedimento rilevante ai fini del l'interruzione del processo con un'indubbia forzatura interpretativa del l'art. 301 c.p.c., che presuppone per la propria applicabilità che la par te si sia costituita a mezzo di procuratore legale in quel grado di giudi zio in cui interviene la morte, la radiazione o la sospensione di

quest'ultimo (ciò che, nel caso de quo, non si era ancora verificato). L'intento della corte è sicuramente da approvare, ma avrebbe potuto essere realizzato in modo migliore evitando i difficili sforzi ermeneutici a cui costringe la lacunosa disciplina dell'interruzione del processo e valorizzando il ruolo complementare della rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c. al fine di realizzare pienezza di tutela di contraddittorio tra le parti. [R. Caponi]

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