Sezione I civile; sentenza 9 luglio 1962, n. 1804; Pres. Lonardo P., Est. D'Armiento, P. M.Colonnese (concl. conf.); Iengo (Avv. Trapani) c. Fall. Amendola (Avv. Sambiase)Source: Il Foro Italiano, Vol. 86, No. 1 (1963), pp. 97/98-99/100Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23153240 .
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97 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 98
tive ehe ne derivavano, e che, dal teäto legislativo, era
leeito desumere ehe si fosse inteso rimediare, nei confronti
di chiunque, alia profonda disfunzione dell'ordinamento
giuridico, abbandonando ogni riferimento soggettivo ed ogni riehiamo alle cause giä note di sospensione.
Proprio per questa ragione, la sospensione, non essendo
collegata ad alcuna circostanza suscettibile di apprezza mento da parte del giudice, operava di pieno diritto ed
era rilevabile d'ufficio (art. 1, 1° comma, e ultimo), mo
strando nel modo piu evidente il carattere meramente
oggettivo del suo presupposto mentre le esigenze della
certezza dei diritti, oltre che superate di fronte ad una
siffatta normativa, apparivano comunque non giustifica bili di fronte alle improvvise ed urgenti necessity che
l'avevano proyocata, necessitä le quali non erano ignote a nessuno e, quindi, nemmeno al terzo possessore.
I ricorrenti non adducono valide ragioni per dissentire
da quest'ultimo indirizzo che appare conforme al testo dei
due provvedimenti e alia loro ratio onde deve riaffermarsi
il principio che la sospensione dei termini ivi disposta non
rientra tra le cause indicate dall'art. 2942 e richiamate
dall'art. 1166 cod. civ. ed b, pertanto, opponibile anche al
terzo possessore di diritti reali immobiliari.
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTEJUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile; sentenza 9 luglio 1962, n. 1804 ; Pres.
Lonardo P., Est. D'Abmiento, P. M. Colonnese
(concl. oonf.) ; Iengo (Aw. Trapani) c. Pall. Amendola
(Aw. Sambiase).
(Gassa App. Napoli 14 maggio 1960)
Obbligazioni e eontratti — Determinazione <lel prczzo di un appalto aiiidata ad un terzo — « Arbitrium
boni viri » — Manifesta iniquita delta deter mina
zione —- Limiti — Fattispeoie (Cod. civ., art. 1349).
La, determinazione del prezzo di un appalto, rimessa all'&T
bitrium boni viri di un terzo a norma delVart. 1349 cod.
civ., non e manifestamente iniqua sol perche il terzo si
sia diseostato, a vantaggio delVappaltatore, dai prezzi
espressi nelle tariffe correnti (nella specie, le tariffe del
Oenio civile) : la manifesta iniquita suppone, in tal caso, un prezzo non remunerativo, che ciob non corrisponda ai costo di produzione e ad un pur lieve marqine di pro
fitto. (1)
La Corte, eco. — Col primo motivo il rioorrente deduce il vizio di extrapetizione della sentenza impugnata, soste
nendo che, non avendo la controparte mai ammesso l'esi
stenza del patto di arbitraggio, e tanto meno cbiesto che si dichiarasse manifestamente iniqua o erronea la valuta
zione fatta dall'arbitratore, la Corte di merito non avrebbe
potuto, per la corrispondenza tra chiesto e pronunziato, ritenere e dichiarare iniqua ed erronea tale valutazione.
Con gli altri tre motivi, strettamente connessi, lo Iengo deduce la violazione degli art. 1349 e 1657 cod. civ., nonche il difetto di motivazione, sostenendo che la sentenza impu gnata, dopo aver inquadrato il caso di specie nell'art. 1349 cod. civ., e cioe nella ipotesi in cui le parti abbiano deferito
ad un terzo il prezzo della prestazione dedotta in contratto, abbia poi erroneamente interpretato ed applicato il detto
disposto di legge, attraverso una movitazione peraltro ina
(1) Non risultano precedenti in termini. Nel senso che la manifesta iniquity «deve risultare dall'esame del risultato fi nale della determinazione e non soltanto dalla valutazione del
procedimento seguito », Cass. 12 ottobre 1960, n. 2606, Foro
il., 1961, I, 72, con nota di riehiami (conf. la sent. n. 2665 di
pari data, riprodotta in Foro pad., 1961, I, 830). In dottrina, da ultimo, Biamonti, Arbitrato, nn. 19, 20,
voce dell'Enciclopedia del diritto, II, pagg. 952, 953.
Il Foko Italiano — Volume LXXXVI — Parte 1-1.
deguata e manchevole. E ciõ in quanto, in relazione al
precetto legislative), il quale impone al terzo arbitratore di
prooedere alia determinazione affidatagli dalle parti «con
equo apprezzamento » (a mono clie le parti non abbiano
voluto rimettersi al suo mero arbitrio, ipotesi esclusa nella
specie), e dispone altresi che, se la determinazione del
terzo e manifestamente iniqua o erronea, la determinazione
e fatta dal giudice, ha ritenuto di invalidare la determina
zione dell'arbitratore per manifesta erroneita, solo percM non aderiva alle tariffe del Genio civile, ma se ne discostava
sensibilmente. Argomentando in maniera cosi semplicistica, la Corte di merito, prosegue il ricorrente, ha confuso i
concetti di manifesto errore o iniquitä con i prezzi di tariffa, come se solo questi ultimi dovessero applicarsi in materia
di arbitraggio, e senza considerare che se cosi fosse sarebbe
inutile fare ricorso alia stima dell'arbitratore, la quale deve
invece tenere conto di tanti elementi anche particolari e
contingenti (quali possono essere, nella specie, le diminu
zioni di costo del materiale, della mano d'opera, ecc. deter
minate dai prezzi correnti sul posto). Codesta confusione
di concetti ha portato alia affermazione, erronea in diritto, che 1'arbitratore, ove non faccia aderire la sua stima ad
una determinata tariffa, anziche al suo libero convinci
mento, sconfina nella manifesta iniquity ; mentre in tema
di equita vi possono essere, continua e conclude il ricor
rente, prezzi piü remunerativi e meno remunerativi, ma
sempre equi, intendendosi per iniquo solo quel prezzo che
esponga l'appaltatore o il committente a grave perdita. II motivo che concerne la extrapetizione (il primo) non
trova riscontro nel processo ; gli altri, invece, sono fondati.
(Omissis) Come giä accennato in precedenza, la Corte di merito
ha ritenuto manifestamente erronea la determinazione del
i'importo dell'opera fatta dall'arbitratore, in quanto questo ultimo non si era attenuto alle tariffe del Genio civile di
Napoli, ma ad una valutazione sua personale, inferiore
leggermente ai prezzi di mercato, pervenendo cosi ad una
valutazione inferiore di ben lire 1.838.632 a quella della
consulenza tecnica di ufficio (che al detto tariffario si era
conformata). Codesto ragionamento non puõ approvarsi, perche, oltre
ad essere troppo semplicistico, c basato su di una erronea
interpretazione ed applicazione dell'art. 1349, 1° comma.
Ed invero, alia stregua di tale norma, le parti sono te
nute alia determinazione dell'arbitratore, a meno che la
stessa non sia «manifestamente iniqua o erronea», nel
quale caso la determinazione 6 fatta dal giudice. Ora, anzitutto, l'espressione «determinazione manife
stamente iniqua o erronea » non significa ne letteralmente, ne logicamente determinazione che non applichi o si di
stacchi da una determinata tariffa di prezzi, ma allude, da una parte («manifestamente iniqua»), ad una stima
apertamente e sommamente ingiusta dell'arbitratore, disco
stantesi perfino dai criteri equitativi, stima che se appli cata cagionerebbe sicuro danno ad una delle parti; allude, dall'altra («manifestamente erronea»), ad una stima che
appaia, ictu oculi e con evidenza spiccata, inficiata da cal
ooii sbagliati. In secondo luogo va osservato che, in tema di equita,
vi possono essere prezzi piü remunerativi e meno remune
rativi, ma sempre equi; invece nella iniquitä sussiste un
prezzo non remunerativo, che, non aderendo al costo di
produzione e ad un lieve margine di profitto, esponga una
delle parti a sicura perdita. In terzo luogo appare decisivo considerare che le parti
fanno ricorso all'arbitraggio quando intendono rimettersi
per la determinazione di un elemento del contratto al
criterum boni viri dell'arbitratore, e non alle semplici tariffe
o mercuriali, nella quale ultima ipotesi avrebbero fatto
riferimento alle stesse, anziche all'opera dell'arbitratore.
Perciõ e assurdo ai fini del giudizio parlare, come ha
fatto la Corte di merito, di prezzi piü. equi e meno equi nel senso di piu remunerativi e meno remunerativi. e doveva
invece esaminarsi, ciõ che non e stato fatto, se i prezzi dell'arbitratore, anche se scarsamente remunerativi per
l'appaltatore, non rappresentavano una perdita, ed appa
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09 PARTE PRIMA 100
rivano anzi consoni alle peouliari condizioni di mercato in cui 1'opera fu compiuta (minor costo di mano d'opera per il piccolo comune, materiali del posto, eventuale minore incidenza dei trasporti, minor costo della direzione ed assi stenza dei lavori affidati ad un geometra e non ad un
ingegnere, ecc.). E non vale opporre, come pure si tenta dal contro
ricorrente, ehe il giuiizio sulla iniquita della determina zione costituisce un apprezzamento di fatto incensurabile in quelia sede. Puo facilmente replicarsi, invero, che la obiezione sarebbe esatta se il giuiizio della Corte di merito non foäse travagliato nel suo iter formativo da vizio logico e giuridico, ma, essendolo, come giä visto, non puõ sfug gire al sindacato di questo Supremo collegio.
Oäserva da ultimo che non a proposito la sentenza
impugnata ha pure richiamato, a soätegno della decisione
preäa, il disposto dell'art. 1657 cod. civ. Detta norma
contempla la determinazione del corrispettivo nell'appalto, ove le parti non i'abbiano determiuato ne abbiano stabilito il modo di determinarlo (neile quili ipoteäi il corrispettivo va calcolato con riferimento alle tariffe eaistenti o agli usi, e in mancanza õ determinato dal giudice), mentre nella.
specie eäisteva un patto di arbitraggio non contestato, con le conseguenze giä viste.
Pertanto la denunziata sentenza va cassata e la causa
rimessa, per nuovo esame, ad altra Sezione della Corte
d'appello di Napoli, la quale si uniformerä, aiprincipidi diritto te3te posti e pronunzierä anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.
Accogliendosi per quanto di ragione il ricorso, deve
disporsi la restituzione del deposito. Per questi tnotivi, cassa, ecc.
COSTE SUPREMA DI CASSAZIÖNE.
Sezione II civile; sentenza 9 luglio 1962, n. 1792 ; Pre3. La Via P., Est. Modigliani, P. M. Tkotta (conol. oonf.); Sisinna (Aw. Savarese) c. Sisinna (Avr. SI
sinna).
(Oonferma Trib. Galtagirone 22 aprile 1959)
Distanze legali — Piantagioni — Alberi di alio fusto — Norme (Cod. civ., art. 892).
Ai fini delVosservanza delle distanze legali e albero di alto
fusto quello ehe, somnindo alValtezza, del trorieo Valtezzi delle branehe principili dalle quali si dipzrtono i rami,
supera i tre metri. (1) Va eonsiderato di alto f usto 1'albero ehe, pur nori raggiungendo
attualmente eol trorieo e le branehe principali 1'altezza di tre metri, apparisca per le sue caratteristiche vegetative destinato a superare taie altezza. (2)
La Corte, eco. — Col primo mezzo di annullamento la ricorrente, nel denunziare la violazione e falsa appli
(1-2) Noa risultano precedents in termini. Per riferimenti coüsulta Oass. 2 agosto 1961, n. 1847, Foro it., Rep. 1961, voce Distanze legali, n. 48, secondo cui agli effetti dell'arfc. 892 « gli alberi vanno classificati anche con riguardo alle caratteristiche proprie del modo di coltivazione » (applicazione ai cipressi pian tati in funzione di siepe frangivento, ehe non vengono conside rati alberi di alto fusto, ancorche, per ragioni di tecnica agraria, non possono essere assoggettati alla potatura dei rami e alla re cisione apicale se non dopo ehe abbiano raggiunto un determi nate sviluppo ) ; e Oass. 26 gennaio 1957, n. 271, id., Rep. 1957, voce eit., n. 89, secondo cui «la classificazione degli alberi. . . risulta informata dalle caratteristiche vegetative delle piante, siano esse quelle naturali o quelle proprie del modo di coltiva zione ». Ambedue le sentenze sono richiamate nella motivazione della presente.
Sulla seconda massima, v. in dottrina De Martino, Com mentario, a cura di Scialoja e Branca, sub art. 892, 2a ed., pag. 289, ove si ha riguardo « non gia all'altezza coneretamente raggiunta dalla pianta, ma alla natura di essa».
cazione dell'art. 892 cod. civ., in relazione all'art. 360
cod. proc. civ., sostiene ehe, ai fini delle distanze legaii, l'altezza di un albero va misurata, contrariamente a quanto 6 stato ritenuto dal Tribunale, senza tener conto delle brancho e dei rami, e ehe quindi, ailorche il fusto (non
comprensivo delle branche e dei rami) non raggiunge tre
metri, come era per l'appunto avvenuto nel caso in esame, l'albero e da considerare di non alto fusto. Deduce poi ehe, ai fini della classificazione degli alberi da frutto in
generate e degli ulivi in particolare, che possono crescere
a diverse altezze, elementi imprescindibili ed essenziali
sono queili della destinazione o funzione delle piante, della
volontä deil'uomo e delle modalita di coltivazione. Infine
sostiene clie, ove avesse tenuto conto di" tali elementi,
e, in particolare, della funzione di frangivento, a prote zione di un agrumeto, cui erano destinati gli alberi da
ulivo in controversia, nonclie della loro quality (nocel
laria), la sentenza denunziata sarebbe pervenuta a esclu
dere che si trattasse di alberi di alto fusto.
La doglianza õ priva di fondamento.
Come 6 noto, l'art. 892 cod. civ., nello stabilire che si deve osservare la distanza di tre metri o quella di un metro e mezzo, rispettivamente, per gli alberi di alto fusto e
per queili di medio fusto, precisa al n. 1 che, rispetto alle
distanze, si considerano alberi di alto fusto queili il cui
fusto, semplice o diviso in rami, sorge ad altezza notevole, come sono i noci, i castagni, le querce, i pini, i cipressi gli olmi, i pioppi, i platani e simili; al n. 2 dispone poi che sono reputati alberi di non alto fusto queili il cui fusto sorto a altezza non superiore a tre metri, si diffonde in rami.
La ratio della norma consiste nella esigenza di evitarf jhe la crescita degli alberi porti a invasione del fondo vicino.
II n. 1 del citato articolo non precisa quale sia l'altezza ooncreta cui si deve avere riguardo affinche gli alberi iebbano considerarsi di alto fusto; tuttavia la dispo sizione del n. 2, che ha, rispetto alia disposizione del detto a. 1, funzione interpretativa e complementare, fa riferi mento all'altezza di tre metri; ond'e che si devono consi derare di altezza notevole, e quindi di alto fusto, tutti
quegli alberi, non espressamente ma esemplificatamente elencati nel n. 1, che hanno altezza superiore a tre metri.
A differenza dell'art. 579 del codice civile del 1865, jhe indicava nel n. 2 taluni alberi da frutto tra queili di non alto fusto, dando peraltro luogo alia disputa se gli ilberi da frutto diversi da queili indicati dovessero con nderarsi o non di alto fusto, l'art. 892 del vigente codice ion menziona al n. 2 gli alberi da frutto ; per stabilire la categoria nella quale debbano essere inclusi i detti alberi, e tra essi gli ulivi, occorre dunque avere riguardo esclu sivamente alle caratteristiche vegetative, che essi presen tano in concreto.
Ciõ posto, va rilevato che non puõ farsi adesione alla tesi della ricorrente, secondo la quale, per distinguere, ai fini della osservanza delle distanze legaii, gli alberi di alto fusto da queili di medio fusto, il concetto di fusto si deve ritenere comprensivo del solo tronco, e non anche delle branche principali.
Infatti in proposito va rilevato in primo luogo, che, al fine di stabilire se un albero sia da considerare o non di alto fusto, non e lecito, contrariamente a quanto la ricorrente mostra di ritenere, prendere per base le classi ficazioni adottate dai botanici e dagli agronomi, giacche la nozione di albero di alto fusto, ai fini delle distanze, õ precisata dalio stesso codice civile. Orbene la dizione del n. 1 del menzionato art. 892, secondo la quale « si jonsiderano alberi di alto fusto queili il cui fusto, semplice o diviso in rami», dimostra chiaramente che il legislatore ha inteso riferire l'altezza, non giä al solo fusto semplice, costituito da un unico asse, ma al fusto diviso in rami, cioe in branche, spesso piü alte del tronco. Ne giova alia ricorrente che il disposto del n. 2 dello stesso articolo, jol considerare alberi di non alto fusto « queili il cui fusto, sorto a altezza non superiore a tre metri, si diffonde in rami », porta a ritenere che il fusto sia costituito dal solo tronco,
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