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Sezione I civile; sentenza 9 marzo 1981, n. 1310; Pres. V. D'Orsi, Est. Lipari, P. M. Grossi (concl....

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Sezione I civile; sentenza 9 marzo 1981, n. 1310; Pres. V. D'Orsi, Est. Lipari, P. M. Grossi (concl. conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Solimeni) c. Ente ospedaliero di Urbino; Ente ospedaliero di Urbino (Avv. Bracci) c. Min. finanze. Conferma Comm. trib. centrale 3 luglio 1978, n. 1107 Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 11 (NOVEMBRE 1981), pp. 2767/2768-2779/2780 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23174113 . Accessed: 28/06/2014 18:15 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.142.30.77 on Sat, 28 Jun 2014 18:15:50 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione I civile; sentenza 9 marzo 1981, n. 1310; Pres. V. D'Orsi, Est. Lipari, P. M. Grossi (concl.conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Solimeni) c. Ente ospedaliero di Urbino; Ente ospedalierodi Urbino (Avv. Bracci) c. Min. finanze. Conferma Comm. trib. centrale 3 luglio 1978, n. 1107Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 11 (NOVEMBRE 1981), pp. 2767/2768-2779/2780Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174113 .

Accessed: 28/06/2014 18:15

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2767 PARTE PRIMA 2768

79 e 83 t. u. 30 giugno 1965 n. 1124 nonché omessa insufficiente

e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata

per avere, in sede di revisione della rendita, tenuto conto di

preesistenti menomazioni extralavorative non considerate all'atto

della costituzione della rendita.

Invero, a suo giudizio, l'art. 83 legge citata ammette la revi

sione della rendita, in caso di diminuzione o aumento delle

attitudini al lavoro o in genere a seguito di modificazioni delle

condizioni fisiche del titolare della rendita stessa, purché, quan do si tratti di peggioramento, questo sia derivato dall'infortunio

che ha dato luogo alla liquidazione della rendita. La legge rap

porta cioè l'aumento o la diminuzione della rendita unicamente

a fatti posti in diretta ed immediata relazione di causa ad ef

fetto esclusivamente con ^infortunio e non con le concause che

possono aver concorso ad aggravarne le conseguenze lesive.

Ne consegue che, non sussistendo tra il danno infortunistico

riportato dal Fresi e l'artrosi dèi ginocchio è l'insufficienza cir

colatoria (malattie preesistenti e di origine extralavorativa) al

cun nesso eziologico, dette cause concorrenti avrebbero dovuto in sede di revisione rimanere estranee al giudizio formulato dal

consulente sullo stato di invalidità attuale dell'infortunato.

Il motivo non può essere accolto. L'art. 79 della legge infor

tuni non offre, invero, alcun contributo alla soluzione del pro blema dibattuto; esso precisa infatti che le càuse di inabilità di

pendenti da fatti estranei al lavoro devono essere preesistenti, ma non consente alcun elemento di giudizio per stabilire se

di dette cause debba tenersi conto in sede di revisione sia nel

òaso che non siano state accertate, sia nel caso in cui, pur es

sendo state accertate, di esse non si sia tenuto conto nella de

terminazione iniziale del grado di invalidità.

Del pari il successivo art. 83 rapporta all'infortunio unicamen

te l'aggravamento delle condizioni fisiche dell'infortunato e tace

in ordine alla ipotesi di miglioramento di esse.

Peraltro anche nel caso di peggioramento l'interpretazione ri

goristica dell'I.n.a.i.l. non sembra accettabile, giacché si attri

buisce rilevanza anche alle cause prossime che mediatamente e

indirettamente siano collegabili all'infortunio (cfr., ad es., in te

ma di concause sopravvenute Cass. n. 3767 del 17 agosto 1977, Foro it., Rep. 1978, voce Infortuni sul lavoro, n. 353).

In linea generale va ricordato che l'istituto della revisione

della rendita di inabilità liquidata per infortunio sul lavoro ten

de a garantire una perfetta corrispondenza fra il danno e l'in

dennizzo non solo all'atto della prima liquidazione, ma anche

in epoca successiva, entro limiti di tempo stabiliti, ed è volta ad

accertare le modifiche intervenute medio tempore tra il mo

mento della costituzione della rendita e il momento in cui viene

effettuato il controllo delle condizioni fisiche del titolare per accertarne il grado effettivo di attitudine al lavoro.

È evidente quindi come le concause extralavorative, preesi stenti o sopravvenute (purché, in quest'ultimo caso, direttamen

te o indirettamente riferibili all'evento infortunistico), non pos sono non assumere rilevanza per stabilire se vi sia stata regres sione o aggravamento delle condizioni del soggetto, le quali pos sono dipendere anche soltanto dal miglioramento o dall'aggra vamento di dette inabilità extralavorative.

Non può quindi condividersi l'assunto che delle cause con

correnti extralavorative non deve tenersi conto nella fase di re

visione della rendita.

Ne consegue che nella ipotesi di diminuzione della rendita

per miglioramento delle attitudini al lavoro occorre stabilire se

tale miglioramento sia imputabile eventualmente anche a un re

gresso delle inabilità extralavorative, ovvero se gli effetti di

queste permangono attualmente o si siano aggravati o siano in

tervenute altre concause collegabili in modo diretto o indiretto

con l'evento lesivo infortunistico.

Nella fattispecie in esame non sembra che si contesti che le

affezioni di cui il consulente ha tenuto conto al fine di deter

minare il grado di invalidità attuale del Fresi fossero preesisten ti all'infortunio; lo stesso Ln.a.i.l. lo sottolinea, rilevando però che di esse non si era tenuto conto nella prima visita di accer

tamento postumi. In ogni modo il consulente ha stabilito che la calcificazione

della arteria tibiale era stata accertata al momento della liqui dazione della rendita e che l'artrosi del ginocchio e della coxo

femorale era malattia a lungo decorso rilevata già nella prima visita di revisione, con ciò facendo intendere che la sua insor

genza era già manifesta all'epoca dell'infortunio.

Di entrambi i fatti morbosi il consulente ha poi rilevato la at

tuale persistenza, indicando il grado di incidenza sulla capacità di lavoro dell'infortunato.

Orbene, se la presenza delle cause extralavorative concorrenti

era stata rilevata o era rilevabile sin dalla prima visita per ac

certamento postumi, la mancata valutazione a quel tempo di tali

fattori concorrenti del danno infortunistico è imputabile indub biamente a colpa dell'ente assicuratore.

Sicché legittima appare la valutazione di esse in un momento

successivo, giacché trattandosi di un procedimento di revisione d'ufficio non può neppure profilarsi il dubbio che l'accertamen

to successivo si traduca in una impugnazione del provvedimen to di liquidazione, che avrebbe dovuto essere proposta tempe stivamente dall'interessato.

L'ente assicuratore che, in sede di revisione, accerti che per omissione o errore, non si sia in precedenza tenuto conto nella

determinazione del grado di invalidità di fattori extralavorativi

preesistenti ha il dovere, esercitando il suo potere di rimuovere in ogni momento gli atti viziati, di riesaminare la valutazione

medico-legale compiuta, non ostando a ciò alcuna norma di leg

ge, e posto che lo scopo della revisione per miglioramento è

quella di adeguare la rendita alle reali condizioni fisiche attuali

dell'infortunato e non di realizzare una locupletazione dell'isti

tuto assicuratore avvalendosi di un errore ad esso imputabile. Accertata in sede di prima revisione la sussistenza delle accen

nate concause extralavorative, non poteva l'I.n.a.i.l. escludere

dalla valutazione del grado di incapacità lavorativa attuale, sul

la base di norme, che, anche per l'ipotesi di peggioramento, vanno interpretate con una certa elasticità, ricomprendendo nel

giudizio di revisione persino le concause sopravvenute collegabili all'infortunio.

L'illegittimità del comportamento dell'ente assicuratore non

poteva essere perciò ulteriormente perpetuata dai giudici di me

rito, la cui decisione appare di conseguenza immune da censura.

Ciò comporta il rigetto del ricorso. (Omissis) Per questi motivi, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 9 marzo

1981, n. 1310; Pres. V. D'Orsi, Est. Lipari, P. M. Grossi

(conci, conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Solimeni) c. Ente

ospedaliero di Urbino; Ente ospedaliero di Urbino (Avv. Brac

ci) c. Min. finanze. Conferma Comm. trib. centrale 3 luglio 1978, n. 1107.

Valore aggiunto (imposta sul) — Soggetti passivi — Enti ospe dalieri — Violazioni e sanzioni — Inapplicabilità — Limiti

(D. pres. 26 ottobre 1972 n. 633, istituzione e disciplina del

l'imposta sul valore aggiunto, art. 4, 10, 21, 22, 36 bis; legge 29 febbraio 1980 n. 31, conversione in legge, con modifica

zioni, del d. 1. 30 dicembre 1979 n. 660, recante misure ur

genti in materia tributaria, art. 10).

In base al combinato disposto dell'art. 4 d. pres. n. 633 del 1972 e della norma di interpretazione autentica di cui all'art. 10 leg ge n. 31 del 1980, gli enti ospedalieri erano e sono soggetti ad

i.v.a., ma ad essi tuttavia non sono applicabili, in virtù di detto

art. 10, le sanzioni per le infrazioni commesse anteriormente al 31 dicembre 1979. (1)

(1) La sentenza desta interesse perché suggella la tesi ormai prevalente (e ratificata dalla legge 29 febbraio 1980 n. 31, il cui art. 10 ha valore interpretativo) che riteneva gli enti ospedalieri sog getti ad imposte agli effetti i.v.a., ma altresì per la soluzione data alla applicabilità in giudizio di quella specifica norma con cui la legge stessa ha dichiarato dovute dagli stessi le sanzioni per le violazioni commesse entro il 31 ottobre 1979.

Su tale punto, in merito al quale non constano precedenti giurisprudenziali editi, la Cassazione rileva come la legge di sanatoria non comporta la dichiarazione di cessazione della materia del conten dere nei procedimenti contenziosi che avessero ad oggetto la legittimità delle sanzioni medesime, dovendosi procedere dal giudice ad accertare in primis se le sanzioni potessero essere irrogate secondo la previgente normativa e solo poi applicare la sanatoria.

Sulla prima questione la giurisprudenza della Commissione centrale si era indirizzata nel senso ora affermato dalla Cassazione dopo la decisione Sez. riun. 9 novembre 1978, n. 2995, Foro it., Rep. 1979, voce Valore aggiunto (imposta), n. 113, cui era stata rimessa dall'ordi nanza 15 marzo 1978, n. 4, ibid., n. 114.

In senso contrario possono ricordarsi (oltre la decisione ora cassata) Comm. trib. centrale 8 maggio 1978, n. 1079, id., Rep. 1978, voce cit., n. 73; Comm. trib. II grado Pesaro 24 aprile 1976, id., Rep. 1976, voce cit., n. 50; Comm. trib. I grado Livorno 13 giugno 1979, id., Rep. 1979, voce cit., n. 115.

In dottrina cfr. Moschetti, La soggezione all'i.v.a. degli enti ospeda lieri innanzi alle sezioni riunite della Commissione tributaria centrale, in Giur. it., 1979, III, 2, 65; Gandolfo, Problematiche relative all'applica zione dell'i.v.a. da parte degli enti ospedalieri, in Bollettino trib., 1977, 1738; Granelli, Sull'assoggettabilità all'i.v.a. degli enti ospedalieri, ibid., 1104.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — L'ente ospeda liero di Urbino proponeva ricorso alla locale commissione di

primo grado avverso l'avviso dell'ufficio i.v.a. il quale, rilevata la violazione consistente nella mancata tenuta dei registri i.v.a., di cui al processo verbale di contestazione in data 2 aprile 1974

comminava una pena pecuniaria. La commissione rigettava il ricorso ma, su gravame del contri

buente, quella di secondo grado di Pesaro riconosceva che l'ente non era tenuto agli adempimenti di cui agli art. 24 e 25 d. pres. 26 ottobre 1972 n. 633, in quanto: a) l'ente non svolgeva in via

principale od esclusiva l'esercizio delle attività commerciali ex art. 2082 cod. civ., essendo preposto all'erogazione di pubblici servizi; b) non sussisteva nella specie il problema della coesistenza della esenzione soggettiva, di cui all'art. 4, con quella oggettiva di cui all'art. 4, n. 11 (testo del 1972), dal momento che la prima riguardava gli enti pubblici ospedalieri e la seconda gli ospedali e cliniche private.

11 ricorso alla Commissione tributaria centrale (nel quale l'uffi cio si limitava a dedurre che gli enti pubblici sono soggetti di

imposta a norma dell'art. 4, 2° punto, legge i.v.a. « come meglio illustrato nelle deduzioni presentate alla commissione di secondo

grado ») veniva respinto. Osservava il collegio che si trattava di stabilire se gli enti

ospedalieri rientrassero fra gli ospedali di cui all'art. 10, punto 11, d. pres. 633, oppure dovessero essere considerati non tassabili in

quanto equiparati ai sensi dell'art. 3, ult. comma, legge 12

febbraio 1968 n. 132 alle amministrazioni dello Stato, ai fini del

trattamento tributario, e ciò in relazione all'art. 4 d. pres. che

assoggettava alPi.v.a gli enti pubblici o privati diversi dalle

società quando hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio

di attività commerciali, od agricole, di cui agli art. 2195, 2135

cod. civ., attività diretta alla produzione di beni e di servizi e

tale attività esercitano mediante distinta organizzazione. E risolve

va la questione argomentando nel senso che l'assenza del fine di

lucro degli enti ospedalieri è sufficiente per escluderli dal novero

dei soggetti di cui agli art. 2195 e 2135 cod. civ. o almeno per escluderne gli atti da quelli che tipicamente tali soggetti esplicano.

Avverso la riassunta decisione ha presentato ricorso per cassa

zione l'amministrazione finanziaria dello Stato. Resiste con contro

ricorso e formula a sua volta ricorso incidentale condizionato

l'ente ospedaliero, il quale ha presentato memoria invocando la

legge sopravvenuta (art. 10 legge 29 febbraio 1980 n. 31) e

chiedendo di conseguenza la cessazione della materia del conten

dere ovvero (come precisato nella discussione orale) il rigetto del

ricorso.

Motivi della decisione. — (Omissis). 2. - L'amministrazione

finanziaria, con l'unico motivo del ricorso principale, contesta la

conclusione cui è giunta la C.t.c. negando l'assoggettabilità all'i.v.a.

degli enti ospedalieri, e cioè la loro qualità di soggetti passivi del

tributo, ed escludendo, quindi, che tali enti siano tenuti al

compimento degli obblighi formali per la cui inosservanza sono

state irrogate le sanzioni di cui alla presente controversia che non

riguarda una omissione di versamento del tributo, ma attiene

appunto alla inosservanza degli obblighi di cui agli art. 24 e 25 d.

pres. n. 633 del 1972 cui sono tenuti i soggetti passivi anche

rispetto alle prestazioni oggettivamente esenti.

Si denuncia al riguardo la violazione e falsa applicazione degli art. 1, 4, 21, 22, 23, 24, 25 d. pres. n. 633 del 1972 (e successive

modificazioni) rilevando che l'i.v.a. si applica sulle cessioni di

beni e sulle prestazioni di servizi effettuate nell'esercizio di

imprese (art. 1 d. pres. n. 633), dovendosi considerare compiute nell'esercizio di un'impresa anche le prestazioni di servizi da

parte di enti pubblici che abbiano per oggetto esclusivo o princi

pale l'esercizio di attività commerciali o agricole (art. 4, n. 2),

indipendentemente dal perseguimento di fini di lucro. E tale

interpretazione appare in linea con le direttive CEE che indivi

duano il soggetto passivo del tributo in chiunque compia, con o

senza scopo di lucro, attività di produttore e di commerciante, e

con la relazione ministeriale al decreto delegato secondo cui il

campo di applicazione dell'i.v.a. è destinato ad avere la massima

estensione a garanzia della parità concorrenziale, costituendo uno

degli obiettivi fondamentali della nuova imposta, sicché gli ospe

dali, cosi come erano soggetti all'i.g.e., devono, a maggior ragione, sottostare all'i.v.a., in quanto esercitano attività organizzata per

l'erogazione di servizi; né elementi in contrario potrebbero trarsi

dalla legge n. 132 del 1968 poiché anche gli enti ospedalieri hanno conservato la natura di « imprenditori » quali soggetti

organizzati per offrire in regime di concorrenza un servizio, dietro

corrispettivo (rette) eventualmente differenziato, e con possibilità di servizi tipicamente commerciali (come farmacie aperte al pub

blico); neppure rileva che ai sensi dell'art. 10, n. 11, d. pres. n.

633 (nella dizione del 1972) per le prestazioni di ricovero e cura

rese da ospedali, cliniche e case di cura autorizzate sia prevista

una esenzione oggettiva del tributo: sia perché i soggetti passivi dell'i.v.a. sono tenuti a rispettare gli obblighi formali strumentali al meccanismo operativo del tributo anche rispetto alle opera zioni esenti, sia perché non tutte le operazioni compiute dagli enti ospedalieri sono esenti, né una esenzione soggettiva globale è ipotizzabile per i suddetti enti.

Conclusivamente, si sostiene, gli enti ospedalieri sono soggetti passivi dell'i.v.a., in quanto esercenti attività commerciale e sono

pertanto obbligati alla tenuta dei registri ed alla numerazione delle fatture sicché legittimamente vengono irrogate nei loro confronti sanzioni per la violazione di obblighi di fatturazione, registrazione, dichiarazione, contabilità.

Vi è quindi correlazione fra soggettività tributaria passiva, obblighi formali ed irrogazione delle sanzioni per la violazione di tali obblighi senza che rilevi l'esenzione oggettiva prevista dalla

legge per le operazioni di ricovero e cura. Il ricorso è giuridicamente fondato in astratto nell'enunciazione

della tesi giuridica che si propone di dimostrare la soggettività passiva all'i.v.a. degli enti ospedalieri, trovando ex post il decisivo avallo deil interpretazione autentica del legislatore, ma deve essere ciononostante rigettato in quanto la tesi stessa si traduce concre tamente nella pretesa ad ottenere il pagamento di sanzioni ammi nistrative che sono divenute inesigibili alla stregua della suddetta

legge di interpretazione autentica che ha voluto circoscrivere l'ambito della propria operatività in ragione del tempo di com missione delle infrazioni proprio nel procedere alla puntualizza zione in linea di principio di tale soggettività.

3. - Il problema della soggezione degli enti ospedalieri all'i.v.a. è già stato ripetutamente sottoposto all'esame della Commissione tributaria centrale la quale in un primo tempo con decisioni

analoghe a quella che forma oggetto della presente impugnazione l'ha negata, ma successivamente ha mutato avviso (cfr. Sez. riun. 9 novembre 1978, n. 2995, Foro it., Rep. 1979, voce Valore

aggiunto (imposta), n. 113) aderendo alla tesi ribadita dall'ammi nistrazione finanziaria.

Trattavasi indubbiamente di problema delicato, ma la soprav venuta legge 29 febbraio 1980 n. 31 (di conversione con modifica zioni del d. 1. 30 dicembre 1979 n. 660 recante misure urgenti in materia tributaria) offre al riguardo la conferma della tesi della

soggettività e comporta comunque con sicurezza che debba per venirsi alla reiezione del ricorso, che riguarda violazioni commesse

prima del 2 aprile 1974, perché il suddetto art. 10 (che non trova riscontro in disposizioni dei d. 1.) se postula, con imperativa vincolatività, la qualità di soggetti passivi degli enti ospedalieri, tuttavia esclude l'applicabilità delie sanzioni per le infrazioni commesse anteriormente al 31 dicembre 1979.

Recita il predetto art. 10: « Agli enti ospedalieri di cui alla legge 12 febbraio 1968 n.

132 non si applicano le sanzioni stabilite dagli art. da 41 a 45 del d. pres. 26 ottobre 1972 n. 633, e successive modificazioni, per le infrazioni commesse fino al 31 dicembre 1979 (comma 1°).

« Le disposizioni del comma precedente non danno luogo a rimborso di imposte pagate né a ripetizione di imposte rimborsate in dipendenza di dichiarazioni presentate o di accertamenti dive nuti comunque definitivi anteriormente alla data di entrata in

vigore della presente legge (comma 2°). « In ogni caso gli effetti di decisioni delle commissioni tributa

rie o di sentenze, divenute definitive o passate in giudicato, restano impregiudicati (comma 3°) ».

L'analisi di tale ius superveniens consente in prima approssima zione di rilevare che il legislatore, muovendo dal presupposto « certo » e « scontato » della sottoposizione degli enti ospedalieri all'i.v.a., importante l'applicazione nei loro confronti delle sanzio ni previste per le infrazioni commesse non rispettando gli obbli

ghi di legge, si propone di circoscrivere il naturale ambito di incidenza di tale soggezione, rinunciando all'applicazione delle sanzioni per le infrazioni commesse fino al 31 dicembre 1979, riconducibili alle fattispecie di cui agli art. da 41 a 45 della legge, ed impone alle autorità amministrative di non più irrogare tali sanzioni ed a quelle giurisdizionali di non più ratificare condanne

siffatte nei rapporti processuali ancora aperti.

Nell'approfondire l'esegesi della norma, muovendo dal rilievo che il legislatore in principio non ripete cose ovvie, e consideran do che nell'esperienza giuridica la soggezione all'i.v.a. degli enti

ospedalieri era tutt'altro che pacifica (vuoi sotto il profilo dell'in clusione nell'astratta fattispecie, vuoi sotto quello di un'eventuale esenzione soggettiva) deve ritenersi che lo scopo delle disposizioni non sia stato solo quello di dar atto, in maniera più chiara ed

inequivoca, di un inquadramento normativo già risultante dal

sistema, ma di imporre ai giudici una ben precisa lettura della

norma in quel senso, circoscrivendo la portata retroattiva dell'o

perata interpretazione autentica, nel senso di esentare dalle san

zioni amministrative gli enti medesimi per le infrazioni ricadenti

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2771 PARTE PRIMA 2772

in un determinato ambito temporale, quando ancora potevano sussistere legittimi dubbi sull'inquadramento degli enti ospedalieri fra quelli esercenti imprese ai sensi e per gli effetti dell'art. 4 d.

pres. n. 633 del 1972.

La tesi che l'art. 10 legge n. 31 mira principaliter a rendere

incontestabile l'inclusione degli enti ospedalieri fra i soggetti

passivi dell'i.v.a., circoscrivendo gli effetti di tale inquadramento con esenzione delle infrazioni commesse entro il 31 dicembre

1979, nonostante una formulazione tecnica non impeccabile della

norma trova fondamento nel rilievo che dettando tale disposizione il legislatore non prende posizione possibilistica sull'inserzione

degli enti ospedalieri fra i soggetti i.v.a., né può ragionevolmente ritenersi che sia partito da una rilevazione distorta ed inesatta

della legislazione vigente in materia, postulando contro il vero

una siffatta inserzione, ma ha inteso dirimere i dubbi, che

potevano sorgere circa il predetto inquadramento con un'imposi zione precettiva incentrata formalmente sull'effetto anziché sul

presupposto, ma che, vincolando il giudice a ritenere un dato

effetto, corrispondentemente lo vincola, con altrettanta ineluttabili

tà, a qualificare il presupposto, creando un necessario nesso di

interdipendenza fra la norma interpretativa e la norma interpreta ta (gli art. 17 e 4 d. pres. n. 633 e successive modificazioni). Ed

invero la sanzione si applica solo ai soggetti obbligati che hanno

violato l'obbligo; ed un'inapplicabilità circoscritta nel tempo

comporta che al di fuori del limitato ambito temporale vanno

applicate le sanzioni di cui agli art. 41 e 45 a carico di soggetti

(gli enti ospedalieri) necessariamente tenuti agli obblighi violati.

Le precedenti notazioni comportano già l'appagante risposta al

primo problema posto all'interprete che è quello di accertare la

portata dell'intervento normativo, trattandosi di stabilire se il

legislatore si sia limitato puramente e semplicemente a ratificare,

a rendere più chiara, l'inclusione degli enti ospedalieri fra i

soggetti i.v.a., ricavabile dai preesistenti dati normativi, mediante

un sensibile sforzo di coordinamento e previo il superamento di

ostacoli derivanti dai dati testuali e sistematici, ovvero abbia

voluto imporre una certa interpretazione del diritto preesistente, eventualmente anche dilatando la portata delle norme che alla

stregua dei normali strumenti ermeneutici non avrebbero potuto essere intese, cosi come il legislatore, nell'esercizio di un potere

all'uopo spettantegli, pretende imperativamente ora che lo siano

(qui riecheggiandosi la distinzione fra leggi interpretative che

interpretano e leggi interpretative che innovano). Va subito preci sato che una distinzione cosi articolata non è accettabile perché

l'interpretazione autentica si caratterizza per l'imposizione di

una data interpretazione di una precedente norma indipendente mente dalla « correttezza » dell'interpretazione imposta da esclu

dere in ipotesi ove dovessero impiegarsi i canoni dell'esegesi dottrinale e giurisprudenziale.

E l'imperatività dell'imposta interpretazione è desumibile —

secondo l'opinione che sembra preferibile accolta da precedenti decisioni del Supremo collegio — dalla fattispecie normativa che

deve necessariamente correlarsi alla norma che si vuole interpre tare facendo corpo con essa.

Ora chiaramente la norma in esame conta fondamentalmente non già per l'esenzione temporanea che consente, ma per la

soggezione che suppone ed impone fuori dall'ambito temporale di

detta esenzione; e tale soggezione si risolve nell'ipotizzare vinco

lativamente per il giudice che gli enti ospedalieri rientrino fra

quelli contemplati nell'art. 4, 2° comma, e siano quindi obbligati

agli adempimenti la cui violazione comporta in principio l'irroga zione di sanzioni (tranne che le infrazioni siano avvenute in un

certo ambito temporale, quando ancora si poteva dubitare di tale

soggezione). Una siffatta lettura, che qualifica l'art. 10 come norma di

interpretazione autentica, porta a superare il problema della

deducibilità (opinabile) di tale soggettività dai dati normativi

preesistenti e ad escludere che il legislatore l'abbia « erroneamen

te » supposta, nel senso che la « temporanea » sanatoria, da cui

l'interprete non potrebbe prescindere, sia stata in realtà super fluamente disposta, poiché già gli enti ospedalieri andavano esclu

si dal campo di applicazione dell'i.v.a., essendo la portata della

norma sicuramente anche quella di imporre la soggezione alle

sanzioni laddove non operi l'esenzione, sicché, a tutto concedere, l'eventuale clamorosa « svista » del legislatore avrebbe avuto il

determinante effetto precettivo di rendere pur sempre applicabili le sanzioni, costringendo a postulare che gli enti ospedalieri siano

necessariamente assoggettati agli obblighi positivamente sanzionati

nei loro confronti.

La sopravvenienza della norma di cui all'art. 10 legge n. 31 del

1980 comporta, dunque, ad avviso del collegio, che i giudici, per ritenere applicabili le sanzioni, debbano riconoscere la sussistenza

dei presupposti soggettivi ed oggettivi per la loro irrogazione e

poiché la norma di esonero temporaneo riguarda come destinatari

del beneficio gli enti ospedalieri la relativa operazione ermeneuti ca risulta assorbita dalla valutazione positiva imperativamente effettuata al riguardo dal legislatore includendo detti enti nella

fattispecie dell'art. 4 attraverso un aggancio imprescindibile, che

l'operatore giuridico non può ignorare, e che scioglie radicalmente il nodo esegetico imponendo una soluzione cui, peraltro, si sareb be potuti giungere, sia pure faticosamente, anche a prescindere dall'imperativo intervento del legislatore.

4. - Della enunciata soluzione occorre ora dare una più analiti ca dimostrazione.

Sulla nozione di interpretazione autentica esiste sostanziale

convergenza fra gli orientamenti della più qualificata dottrina e le

prese di posizioni giurisprudenziali, essendosi messo in luce che caratteristica essenziale della legge interpretativa non è l'effettua zione di una interpretazione qualsiasi proveniente dall'autore del l'atto normativo, né tantomeno l'esattezza intrinseca alla stregua del diritto previgente della soluzione legislativa accolta, ma il fatto che una data interpretazione sia stata ridotta in termini di

imperatività normativa e si imponga perciò agli operatori giuridici (Cass. 168/57, id., Rep. 1957, voce Legge, n. 40; 843/57, id., 1957, I, 988). Al riguardo, riecheggiando una lucida ricostruzione del fenomeno si è messo in chiaro (Cass. 2289/74, id., 1974, I, 3343, e da ultimo 1184, 1185, 1755, 4017/80, id., Rep. 1980, voci Legge, n. 29, e Agricoltura, nn. 224, 254, 99) che l'indice fondamen tale per l'individuazione della legge di interpretazione autentica è la struttura della fattispecie legale. A prescindere dal titolo della

legge e dall'intenzione del legislatore, va riconosciuta forza di

legge di interpretazione autentica alla disposizione che non ha

significato autonomo esecutivo in se e per se considerata, ma

acquista senso e significato solo nel collegamento e nell'integra zione di precedenti disposizioni di cui chiarisce il senso e la

portata (Cass. 1211/55, id., Rep. 1955, voce Legge, n. 12;

1360/36, id., Rep. 1936, voce cit., n. 15; 1849/34, id., Rep. 1934, voce cit., n. 9). La fattispecie normativa considerata deve instau

rare una imprescindibile relatio fra la norma interpretanda e

quella interpretativa in funzione dell'efficacia retroattiva che si

vuol dare all'interpretazione imposta. La legge di interpretazione autentica è quella, e solo quella, che in riferimento ad una

precedente disposizione ne impone una data interpretazione con

efficacia (anche limitamente) retroattiva. Una legge di interpreta zione autentica viene promulgata o perché nella pratica applica zione sono sorti dei dubbi o delle divergenze sulla portata di una

norma, o perché il legislatore intende prevenire l'insorgere di dubbi siffatti. La nuova disposizione tronca in radice il dissenso

esistente, o suscettibile di verificarsi in futuro, imponendo all'ope ratore giuridico di uniformarsi ad una soltanto fra le interpreta zioni possibili ed effettivamente sostenute. E poiché non si può imporre l'interpretazione di una data norma senza riferirsi (sia

pure implicitamente) a questa, la legge di interpretazione autenti ca presenta la fondamentale caratteristica di non essere suscettibi le di applicazione autonoma, ma di doversi necessariamente inte

grare alla disposizione che interpreta, venendone a costituire una

parte. La disposizione interpretativa si presenta, cioè, come una legge

di secondo grado, che si riferisce ad altra disposizione di cui chiarisce un aspetto, senza peraltro sostituirla, sicché la disciplina da applicare concretamente al singolo caso va desunta cumulati

vamente dalla disposizione interpretata e da quella interpretativa. Lo schema tipico dell'interpretazione autentica comporta il

congiunto operare, e quindi la congiunta vigenza, della legge interpretata e di quella interpretante, sicché quando una nuova

disposizione si sostituisce alle precedenti disposizioni, per risolve re un dubbio sorto nell'applicazione delle medesime, l'interpreta zione sottesa dalla nuova norma non può qualificarsi come auten

tica, e non si impone all'interprete con effetto retroattivo, riper cuotendosi sulla norma da interpretare. Essa è significativa invero di una scelta del legislatore, che ha voluto risolvere il dubbio non

già innestando il nuovo imperativo canone ermeneutico sul tronco della vecchia legge, che continua a vigere nel senso fatto palese dalla norma d'interpretazione, ma più semplicemente dettando una nuova norma che regoli per il futuro la materia, ponendo contenuti normativi sostanzialmente identici a quelli risultanti dalle norme previgenti, ma espressi in modo più incisivo.

L'art. 10 legge n. 31 del 1980 non è contenuto in un testo

normativo nella cui intitolazione si faccia riferimento all'interpre tazione autentica; ma questo silenzio è del tutto irrilevante; non soltanto la mancata autoqualificazione non impedisce di annovera re la norma fra quelle di interpretazione autentica, ma, all'oppo sto, nonostante l'espressa qualificazione potrebbe escludersi tale

carattere ove non si ravvisi la struttura tipica della legge di

interpretazione autentica che ha per oggetto specifico la puntua lizzazione del significato imperativamente imposto dalla preceden te disposizione con la quale si va a saldare.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Orbene l'art. 10 in esame non è suscettibile di essere inteso nella sua effettiva portata se non saldandolo alla norma sulla

soggettività (art. 17 d. pres. n. 633) che a sua volta si correla al

compimento di operazioni imponibili (art. 1 d. pres. n. 633) nell'esercizio di impresa (art. 4 d. pres.) cui conseguono gli adempimenti previsti nel titolo II (obblighi dei contribuenti) sanzionati nel titolo III (art. 41 ss. d. pres. n. 633).

Pur dovendosi riconoscere che la dizione legislativa non è delle

più perspicue, perché costruita «a rovescio», il senso della

disposizione è quello di imporre di considerare gli enti ospedalieri come soggetti passivi del tributo i.v.a.; e quindi la disposizione non ha senso se non nel riferimento a tali soggetti fra cui intende

annoverare gli enti medesimi per imporre loro quegli obblighi la

cui inosservanza comporta l'irrogazione delle sanzioni.

Non si tratta, quindi, di ripetere una nuova disposizione in

modo più chiaro (rendendo esplicita quell'inclusione che aveva

dato luogo a dubbi applicativi), ma di puntualizzare il significato della precedente disposizione con riferimento alla nozione di

esercizio di impresa.

Il legislatore, precisando che agli enti ospedalieri non si appli cano le sanzioni per le infrazioni commesse fino al 31 dicembre

1979, impone di applicare le sanzioni medesime commesse dopo

quella data, ancorché anteriormente all'entrata in vigore della

legge. Sotto questo aspetto impone di annoverare gli enti pubblici fra quelli cui si riferisce l'art. 4 d. pres., indipendentemente dalla

puntuale ricorrenza dei requisiti ivi elencati, allargando l'elenca

zione tassativa delle attività da considerare comunque commercia

li, ancorché esercitate da enti pubblici; e lo impone secondo una

misura di retroattività sufficiente per postulare l'interpretazione autentica risultante dall'integrazione della predetta norma dell'art.

4 d. pres. n. 633 con quella puntualizzatrice dell'art. 10 legge n.

31. In questo senso resta escluso che gli enti vengano inclusi ex

novo nel campo di applicazione dell'i.v.a.; ed il proprium dell'in

tervento legislativo è dato dalla limitata retroattività, che si

accompagna all'imposta inclusione di tali enti fra i soggetti i.v.a.

Mentre la rigorosa applicazione dei principi avrebbe dovuto

comportare che tutte le precedenti infrazioni venissero ratificate

dalla riconosciuta soggettività ex tunc, per ragioni di opportunità, in considerazione della controvertibilità di tale conclusione, si

opera una parziale sanatoria, apparendo questa parzialità estre

mamente significativa, nella struttura della disposizione, del suo

carattere interpretativo, del suo riannodarsi imperativamente ad

una originaria inclusione degli enti ospedalieri nel quadro del

tributo i.v.a.

Ne risulta confermato che tale inclusione non è nella norma

dell'art. 10 meramente supposta, ma imposta, giacché l'operatore

giuridico in tanto è tenuto ad applicare le sanzioni fuori dell'am

bito accettuativo in quanto riconosce la soggezione che la norma

appunto gli impedisce di revocare in dubbio statuendo imperati vamente che gli enti ospedalieri vanno annoverati fra gli enti

pubblici esercenti imprese.

Conseguentemente in base alla congiunta operatività dell'art. 4

d. pres. n. 633 e dell'art. 10 legge n. 31 del 1980 resta definitiva

mente acquisito che gli enti ospedalieri rientravano (e rientrano)

nel novero dei soggetti i.v.a., pur stabilendosi contestualmente la

inapplicabilità delle sanzioni irrogate nel presupposto (esatto) di

tale soggettività nel periodo di giustificata incertezza determinato

a priori dal legislatore senza termine iniziale e con un termine

finale non coincidente con l'entrata in vigore della legge che

mantiene pertanto una (sia pur limitata) efficacia retroattiva.

5. - A questo punto un ulteriore problema si impone: poiché la

legge nega l'applicabilità delle sanzioni, si tratta di stabilire

quando l'applicazione delle sanzioni medesime possa dirsi verifica

ta in modo definitivo ed integrale. Trattasi, peraltro, di problema di agevole soluzione.

Dalla correlazione fra il primo ed il terzo comma dell'articolo

in esame emerge con assoluta chiarezza che la legge, escludendo

l'applicabilità delle sanzioni (« non si applicano le sanzioni »)

tenendo ferme solo quelle accertate con decisioni definitive (delle

commissioni tributarie), o con sentenze passate in giudicato (del

l'autorità giudiziaria), ha ritenuto che finché resta aperto il giudi

zio sulla sussistenza dell'infrazione o sulla illegittimità dell'irroga

zione rispetto a determinati fatti o a determinati soggetti vi è

spazio perché il giudice (e non soltanto la pubblica amministra

zione) alla stregua della norma medesima escluda la esigibilità

della sanzione inflitta.

Va, pertanto, respinta una possibile interpretazione restrittiva

riassumibile nella equivalenza « infrazione = applicazione » : sa

rebbe la sola autorità amministrativa ad « applicare » le sanzioni,

dovendosi limitare il giudice, che non ha alcun potere di applica

zione delle sanzioni medesime, a controllare se l'amministrazione

abbia proceduto correttamente nell'irrogarle. Vero è, invece, che

appare ingiustificatamente limitativo il riferimento al fenomeno

dell'applicazione della sanzione con riguardo al solo momento della concreta irrogazione di questa, sottraendo all'area della norma sanzionatrice le fasi ulteriori di verifica del procedimento applicativo. Il procedimento sanzionatorio comporta la scissione fra momento della inflizione da parte dell'autorità amministrativa e quello della verifica delle componenti della fattispecie legale in sede giudiziaria; ma entrambe dette fasi riguardano il fenomeno

dell'applicazione in senso lato; sussiste, cioè, una sostanziale

equivalenza dei termini « irrogare », « infliggere », « commina re », « applicare » con riferimento sia alla fase amministrativa, sia a quella della verifica (confronta per l'uso promiscuo di tale

terminologia in giurisprudenza, Cass. 1223/1976, id., 1976, I, 1066; 2559/1975, id., Rep. 1975, voce Tributi in genere, n. 760; 3621/ 1974, id., Rep. 1974, voce Registro n. 177; 2824/1971, id., Rep. 1971, voce Cambio e valuta, n. 3; 101/1970, id., Rep. 1970, voce

cit., n. 15; 2256/1968, id., Rep. 1968, voce cit., n. 7; 34/1968, ibid., voce Tasse in genere, nn. 521, 523; 1264/1963, id., Rep. 1963, voce cit., n. 334; 1028/1962, id., Rep. 1962, voce Cambio e

valuta, n. 4). Non è quindi utilmente contrapponibile sul piano interpretativo

l'applicabilità delle sanzioni all'applicabilità delle norme, posto che il fenomeno applicativo si risolve nel confronto tra una norma ed una fattispecie concreta e la sanzione in tanto viene

applicata in quanto trova fondamento nella norma che la preve de; nell'applicazione di sanzioni è sempre sottesa la norma

disciplinatrice. Non è esatto, dunque, che l'applicabilità della sanzione sia fenomeno riferibile solo all'autorità amministrativa cui spetta in via esclusiva l'irrogazione. L'applicabilità della san zione deve ritenersi concetto quantomeno neutrale sul piano della riferibilità vuoi all'autorità amministrativa, vuoi a quella giurisdi zionale e poiché nella formulazione legislativa la non applicabilità si correla alla pendenza di controversie dirette al controllo della correttezza dell'inflazione se ne ricava il doppio corollario che si è tenuta presente non soltanto la fase della concreta determina zione della sanzione, ma anche quella della verifica davanti alle commissioni e/o al giudice sicché in sede giurisdizionale anche davanti a questa Suprema corte assume rilevanza lo ius superve niens e contestata la pendenza del giudizio il giudice deve, nonostante la ritualità della irrogazione, escludere la condanna non essendo più legittimamente applicabile la sanzione per deter minate infrazioni il cui accertamento sia ancora contestato.

La norma, poiché prescinde dal comportamento del contribuen te successivo alla commissione dell'infrazione, tenendo conto e sclusivamente del tempo di tale commissione, non si presenta con la struttura di una causa di esclusione dell'illecito, ma più genericamente come norma di « esenzione » qualificando il fatto rientrante nella fattispecie normativa per i suoi connotati tempo rali, ed escludendo che i comportamenti tenuti nello spazio di

tempo considerato implichino per le infrazioni accertate il paga mento delle pene pecuniarie.

Cosi' individuato il campo di incidenza della norma nella correlazione fra precetto violato e sanzione che nonostante tale violazione non si applica, per una temporanea rinunzia dello Stato alla potestà sanzionatoria, pare evidente che il giudice chiamato a verificare la correttezza della sussistenza dei presup posti della responsabilità dell'asserito trasgressore, di fronte alla

sopravvenuta norma non deve limitarsi a dare atto della cessazio ne della materia del contendere (in tal senso significativamente la difesa dell'ente ospedaliero ha modificato l'originaria richiesta) e non può nemmeno circoscrivere l'indagine de plano ed automati camente a constatare che la sanzione non può essere inflitta nonostante la violazione del precetto, ma è tenuto preliminarmen te a stabilire, nei limiti della impugnazione, se quella sanzione

poteva essere irrogata, giacché la inapplicabilità della sanzione

viene in considerazione solo rispetto a situazioni di violazione del

precetto astrattamente suscettibili di determinare la irrogazione esclusa solo perché la violazione è stata commessa in un certo arco di tempo. La struttura della norma di esenzione dalle

conseguenze dell'illecito e non di esclusione dell'illecito, comporta che a monte vi sia una « infrazione » commessa da un soggetto

obbligato. Ne consegue che il collegio deve muovere dall'accertamento che

gli enti ospedalieri abbiano effettivamente commesso le infrazioni, violando gli obblighi di comportamento radicati sulla soggettività

passiva ai fini dell'i.v.a. (postulata imperativamente dalla soprav venuta norma di interpretazione autentica).

Non si può, quindi, ragionare in termini di cessazione della

materia del contendere, ma di ius superveniens, applicabile anche

in Cassazione; e sotto questo aspetto la norma sopravvenuta assume determinante rilievo imponendo di ritenere che gli enti

ospedalieri soggiafcciano alla normativa i.v.a., e sono tenuti pertan to ai relativi adempimenti, ed alle corrispondenti sanzioni, salva

l'esenzione per le infrazioni commesse in un dato periodo.

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2775 PARTE PRIMA 2776

Lo ius superveniens opera, cioè, non nel senso di eliminare la

ragione del contendere, ma di offrire una soluzione assolutamente

piana della controversia.

E, invero, la cessazione della materia del contendere rilevabile

anche in questo grado del giudizio comporta la radicale elimina

zione del dovere del giudice di pronunciare sulla fondatezza o

sulla infondatezza ancora prima che del ricorso della stessa

domanda, stante il venir meno dell'interesse dell'attore ad una

decisione sul contenuto della domanda; e si verifica quando nel

corso del processo si estingue la situazione giuridica posta a base

della domanda stessa. In questo caso la funzione del giudice non

è più necessaria perché oggettivamente è venuta meno la materia

rispetto alla quale si contendeva, si è svuotato di contenuto il

tema della lite, determinando la chiusura del procedimento senza

decisione di merito.

Ma nel caso di specie il merito della causa attiene alla verifica

della legittimità dell'irrogazione della sanzione per infrazioni

i.v.a.; la norma sopravvenuta, rendendo inapplicabile detta san

zione, non svuota di contenuto il relativo giudizio in termini

preliminari ed assorbenti rispetto alla stessa valutazione del moti

vo di ricorso; solo quando risulti accertata definitivamente la

violazione (nei suoi presupposti soggettivi ed oggettivi) viene in

evidenza il profilo della inapplicabilità della sanzione per una

circostanza (il tempo di commissione) cui si attribuisce valore

discriminante.

E non varrebbe obiettare che è irrilevante l'accertamento del

l'infrazione cui non potrebbe conseguire la soggezione alla san

zione del trasgressore dato che dell'applicabilità di una norma si

può discutere esclusivamente con riguardo alle situazioni da essa

astrattamente disciplinate. Se l'infrazione non sussiste (perché il soggetto non era obbliga

to al comportamento preteso) non sorge alcun problema di

applicazione o disapplicazione di sanzioni, ma si verte in una

situazione di fatto non confrontabile con l'ipotesi di legge, perché radicalmente ad essa estranea.

In tanto si potrà passare ad esaminare l'incidenza di detto ius

superveniens nel processo in corso in quanto risulti confermata la

sussistenza del presupposto soggettivo della sanzione (il solo

contestato) che la nuova disciplina non più consente di tener

ferma.

La materia del contendere non viene quindi a cessare, ma si

modifica, trattandosi di stabilire principaliter se sussistono gli estremi dell'infrazione (dal punto di vista soggettivo), per passare

poi all'esame dello ius superveniens che neutralizza detto accer

tamento, introducendo una causa di esenzione temporalmente circoscritta.

E sotto questo aspetto lo ius superveniens ha una duplice valenza: perché interpretando autenticamente l'art. 4 d. pres. consente di accertare con sicurezza e semplicità che gli enti

ospedalieri sono soggetti i.v.a. ed in quanto ritiene inapplicabili le

sanzioni per infrazioni commesse nel periodo cui si riferisce il

verbale qui considerato, risolve negativamente il problema della

sussistenza dell'obbligazione da sanzione amministrativa e quindi

impone di rigettare il ricorso perché la pretesa originariamente fondata è diventata inesigibile in corso di causa per esenzione

soggettiva, mentre è del tutto pacifico ed incontestato in questa sede che i fatti ascritti all'ente sono stati commessi.

6. - Il nodo problematico va sciolto, dunque, alla stregua della

norma di interpretazione autentica che afferma in principio la

soggettività i.v.a. degli enti ospedalieri, negando tuttavia l'applica bilità delle sanzioni amministrative rispetto alle infrazioni com

messe in un dato periodo di tempo. Resta quindi fermo che gli enti ospedalieri rientrano nella sfera

di incidenza dell'i.v.a., e non sono destinatari come tali in via

generale ed esclusiva di una esenzione soggettiva dagli adempi menti relativi, ma vengono esentati dal sopportare le conseguenze delle infrazioni commesse in un dato arco di tempo (introducen dosi in via del tutto eccezionale una esenzione soggettiva in

materia di i.v.a.). Alla stregua di questa impostazione sono necessarie brevi nota

zioni per l'esame del ricorso e la valutazione critica della decisio

ne impugnata, trattandosi di affermare da un lato che l'interpreta zione imposta dal legislatore si colloca sulla linea di sviluppo della legislazione in materia e confermare che si verte in tema di

attribuzione della soggettività e non di esenzione soggettiva, illi

mitata, degli enti come tali, non potendo venire in considerazione

la norma di cui all'art. 3, ult. comma, legge n. 132 del 1968.

La Commissione tributaria centrale nella decisione impugnata ha visto con chiarezza che la soluzione del concreto problema in

esame, circa la sussistenza dell'obbligo di determinati adempimen

ti formali, dipendeva dalla inclusione o meno degli enti ospedalie

ri fra i soggetti passivi del tributo, e, nonostante una non chiara

sovrapposizione concettuale in termini di esenzione, ha « esclu

so » gli enti medesimi dal novero dei soggetti di imposta in

quanto compiono operazioni da cui esula il fine di lucro.

In altre decisioni dello stesso segno pure emesse dalla C.t.c. si

ribadisce che un'attività per essere considerata commerciale, e

rientrare quindi fra quelle indicate nell'art. 4, deve essere definita

preliminarmente come attività economica, mentre gli enti ospeda lieri sono enti di mera erogazione, di pubblici servizi non con

fìgurabili come imprese commerciali.

Il profilo della equiparazione nel trattamento tributario alle

amministrazioni dello Stato non appare dunque determinante

nell'economia della decisione della C.t.c.

Ed in effetti ne prescinde la decisione delle sezioni riunite della

medesima C.t.c. la quale imposta la soluzione positiva nel senso

della soggettività sull'esegesi dell'art. 4 d. pres. n. 633 del 1972 (e successive modificazioni) per stabilire se gli enti ospedalieri nella

previsione della legge possono costituire imprese. In effetti correttamente un problema di esenzione (soggettiva od

oggettiva) degli enti ospedalieri potrebbe porsi soltanto dopo avere stabilito che tali enti sono obbligati agli adempimenti di cui

alla legge sull'i.v.a.

Come è noto la fattispecie di esenzione si presenta sempre come una fattispecie complessa diretta ad integrare gli elementi

costitutivi del presupposto del tributo (nelle sue componenti

oggettive e soggettive) che devono quindi necessariamente ricorre

re determinando la nascita dell'obbligazione tributaria principale

(e di quelle accessorie che vi si riconnettono) resa inesigibile da

altri e diversi elementi che si aggiungono ai precedenti, rifletten

dosi su aspetti o qualità differenziali del soggetto obbligato, o

sulla configurazione del fatto imponibile. Stante tale complessità la fattispecie di esenzione (a differenza di quella di esclusione) deve necessariamente ricomprendere in sé tutti gli essenziali

elementi della fattispecie tipica e minimale del tributo, individua

ta nei fatti e nei soggetti nei cui confronti quei fatti debbono

verificarsi (ed anzi tale criterio appare determinante per stabilire, caso per caso, se effettivamente di esenzione si tratta e non

invece di delimitazione originaria del presupposto).

Se non fosse intervenuta la norma di interpretazione autentica, chiave di volta per stabilire se gli enti ospedalieri rientrassero ab

origine nella sfera dell'i.v.a. quali soggetti passivi, pur operando istituzionalmente nel campo dei servizi sanitari, erogati nei con

fronti di chiunque, senza fini di lucro, e senza rispetto del

principio di economicità (il che ha portato la giurisprudenza di

questa Suprema corte a qualificarli come enti pubblici non eco

nomici: Cass., Sez. un., 2592/1974, id., 1974, I, 2605; 4009/1976,

id., Rep. 1976, voce Lavoro (rapporto), n. 962; 1865/1977, id.,

Rep. 1977, voce Impiegato dello Stato, n. 240; 871/1978, id., Rep.

1978, voce cit., n. 354; 5038/1979, id., Rep. 1979, voce cit., n.

299) sarebbe stato il riscontro del diritto positivo. Orbene la sopravvenienza della norma di interpretazione auten

tica comportando la sutura con la legge preesistente implica che si

individui la modalità del concreto operare dell'innesto attraverso

un sia pure succinto esame della normativa vigente.

7. - A fondamento del sistema dell'i.v.a. sta quella che la legge chiama « operazione imponibile » (senza usare l'espressione tecni

ca « presupposto »), il fatto cioè che determina l'applicabilità del

meccanismo del tributo articolato nelle fasi della fatturazione, della rivalsa, della deduzione e del versamento ed in cui assumo

no peculiare rilievo gli adempimenti formali che nel congegno

impositivo rappresentano essenziali componenti per garantire la

effettiva riscossione frazionata dell'imposta sul valore pieno del

l'ultimo scambio ed evitare l'evasione (che altrimenti risulterebbe

particolarmente agevole). Fra le « operazioni imponibili » (cfr. rubrica dell'art. 1) rientra, ai fini che qui interessano, la presta zione di servizi effettuata dallo Stato nell'esercizio di imprese. L'art. 3 specifica i connotati del presupposto con riguardo alle

prestazioni di servizi.

L'art. 4 fissa il concetto di esercizio di impresa e, l'art. 10 contiene l'elencazione delle cessioni di beni o delle prestazioni di

servizi esenti, mentre l'art. 17 (soggetti passivi) sottolinea il

collegamento fra operazione imponibile ed autore di questa. In particolare l'art. 4 d. pres. n. 633, dopo avere premesso al

1° comma che per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva delle attività com merciali o agricole di cui agli art. 2135 e 2195 cod. civ., anche se

non organizzate in forma di impresa, stabilisce al comma secondo che « si considerano in ogni caso effettuate nell'esercizio di

imprese... le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da

enti pubblici che abbiano per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali od agricole». Si soggiunge che

rispetto ad enti pubblici non aventi per oggetto esclusivo o

principale l'esercizio di siffatte attività, all'esercizio di impresa

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

vanno ricondotte soltanto le operazioni concretamente commercia li o agricole, senza che rilevi la predisposizione al riguardo di una distinta organizzazione (cosi come recitava la norma origina ria, 'il cui inciso è stato soppresso dall'art. 1 d. pres. n. 687/1974).

Infine l'ult. comma dell'art. 4 in esame stabilisce che sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti

pubblici, una serie di tassative attività (e per converso esclude dall'area dell'esercizio delle imprese altre attività pure specifica mente indicate).

Il sistema risultante dall'art. 4 non segna un collegamento imprescindibile fra il concetto civilistico e quello tributaristico di

imprenditore. La cerniera interpretativa è data dalla « equiparazione » impe

rativa dettata dal legislatore che qualifica determinate attività,

prima in astratto e poi mediante tassativa enunciazione, come esercizio di impresa ai fini della soggezione all'i.v.a., a prescindere dalla sussistenza dei requisiti puntuali per aversi l'ente pubblico economico (secondo la configurazione che ne è venuta tornendo la giurisprudenza della sezioni unite di questa Suprema corte), attraverso una formulazione in cui la componente soggettiva si

scolora fino a quasi scomparire, sicché non importa accertare la

qualità dell'imprenditore, ma va posto l'accento sulla struttura

oggettiva preordinata alla erogazione di un servizio (o alla produ zione di beni) sicché la sottolineatura della finalità di lucro non ha ragione di porsi, e del resto non va postulata quale requisito imprescindibile, nemmeno nella configurazione commercialistica del

l'impresa, giacché quel che rileva è la constatazione dell'oggetto che, se esclusivo o principale nella produzione di beni o nell'ero

gazione di servizi, comporta che ogni atto del soggetto (qualunque sia la sua struttura) rientra nel novero delle operazioni imponibili, essendo contenutisticamente qualificabile come operazione com

merciale, mentre rispetto ad una pluralità concorrente di finalità

istituzionali e di comportamenti effettuali, l'area della soggezione coincide con quella della produzione o della erogazione (ed in tal

senso significativamente nemmeno più si richiede l'esistenza di

una distinta organizzazione: art. 1 d. pres. n. 687 del 1974).

Il legislatore con chiarezza ha voluto scindere la imprenditoria lità per cosi dire di diritto civile, designata attraverso il richiamo

agli art. 2135 e 2195 cod. civ. (ma senza imporre una organizza zione in forma di imprese utilizzando una espressione che si

ritrova ai fini delle imposte sul reddito all'art. 51 d. pres. n. 597

del 1973) da una imprenditorialità equiparata di diritto tributario

muovendo da una considerazione puramente oggettiva dell'attività

medesima, la cui commercialità non dipende dall'atteggiarsi di chi

eroga o produce, ma dalla qualità oggettiva del bene prodotto o

dal servizio erogato, che in linea di massima potrebbe essere

erogato e prodotto anche da soggetti privati e con strumenti

esclusivamente privatistici, indipendentemente cioè dalia maggiore o minore incidenza della pubblicizzazione del settore, purché

questo non resti esclusivamente riservato alla mano pubblica, sicché quei beni e quei servizi non hanno ragione di porsi in

concorrenza con analoghi beni prodotti ed analoghi servizi eroga

ti; in questo limitato ambito la commercialità riguarda la possibi lità di alternative soluzioni nel mercato che sono compatibili anche rispetto ad una erogazione di servizi, che può assumere il

carattere di servizio pubblico, aperto a tutti, ma la cui funzione

non è imposta obbligatoriamente a nessuno.

Ne segue che ponendosi l'accento sull'aspetto contenutistico

dell'attività e non già sulla qualificazione del soggetto e del

regime giuridico delle erogazioni lo scopo del guadagno non

assume carattere qualificante e sarebbe assolutamente ultroneo

pretendere di applicare i principi civilistici de plano e rigorosa mente all'impresa pubblica che si vuole assoggettare al tributo.

Ed in termini ai qualificazione « oggettiva » delle operazioni

imponibili appare fondamentale il criterio di esonero « oggetti vo » adottato dallo stesso legislatore.

L'art. 10, n. 19, nella redazione attualmente vigente (di cui

all'art. 1 d. pres. 29 gennaio 1979 n. 24 corrispondente al n. 11

dell'originario art. 10 d. pres. n. 633) prevede l'esonero della

corresponsione dell'imposta per le prestazioni di ricovero e cura

rese (a chiunque) da « enti ospedalieri » o da cliniche e case di

cura convenzionate, nonché da società di mutuo soccorso con

personalità giuridica compresa la somministrazione di medicinali,

presidi sanitari e vitto, nonché le prestazioni di cura rese da

stabilimenti termali.

Tale articolo è passato attraverso tre redazioni. Secondo una

prima dizione (consacrata nell'art. 10, n. 11, d. pres. n. 633 testo

originario) sono « oggettivamente » esenti dall'imposta (e quindi dal solo versamento e non anche dagli adempimenti formali

diversi dal versamento medesimo) le prestazioni di ricovero e

cura (rese a chiunque) effettuate da ospedali, cliniche e case di

cura autorizzate. Con una successiva redazione, di cui all'art. 1 d.

pres. n. 687 del 1974 (e quindi con efficacia normativa decorrente

dal 1° gennaio 1975) l'esenzione venne circoscritta alle sole

prestazioni rese ai ricoverati. Infine con l'ultima redazione l'ambi to delle esenzioni suddette si è puntualizzato (nella dizione del n.

19) con riguardo anche agli enti ospedalieri.

In effetti il convincimento esegetico che l'attività degli enti

ospedalieri era soggetta alla disciplina dell'i.v.a. deriva fondamen

talmente dalla circostanza dell'esonero concesso solo per alcune

categorie di prestazioni erogate dagli enti ospedalieri, il che

presuppone la sottoposizione a tale disciplina dell'intera attività, limitata inizialmente per quanto concerne i ricoverati, all'obbligo

degli adempimenti formali, e senza limitazioni di sorta quando si

tratta di prestazioni che non rientrano nell'ambito del ricovero.

Occorre, invero, tenere ben presente che la norma di esenzione

delle prestazioni ospedaliere in nessuna delle successive dizioni —

nemmeno nella estensione ai non ricoverati — era suscettibile di

abbracciare tutte le possibili prestazioni di servizi assoggettabili

all'imposizione.

Ed invero oltre alle prestazioni di ricovero ed a quelle di cura

rese anche ai non ricoverati gli enti ospedalieri possono non solo

gestire farmacie, come osserva la difesa dell'amministrazione, ma

anche svolgere altre attività cosi come quelle ambulatoriali (cui si

riferiscono le sezioni riunite della Commissione centrale) e quelle di laboratorio di analisi.

Senonché della decisività dell'argomento poteva dubitarsi di

fronte alla originaria dizione « ospedali ».

Infatti sotto un primo aspetto, contrariamente a quanto si

argomenta nelle risoluzioni dell'amministrazione, l'inclusione delle

prestazioni ospedaliere nella previsione di esonero non è argomen to determinante per postulare la imprenditorialità delle prestazioni medesime in quanto rese da enti pubblici, poiché la contrapposi zione di ospedali pubblici ed ospedali privati e la distinzione del

soggetto dallo « stabilimento » in cui si esercita l'attività, erogati va del servizio potrebbe giustificare quella esenzione in quanto limitata alla sola erogazione imputabile a privati, restando esclusi

gli enti ospedalieri come tali (indipendentemente dalla qualità delle erogazioni).

Se da un lato è possibile interpretare la stessa espressione « ospedali » in senso restrittivo con riferimento cioè ai soli

ospedali pubblici, argomentando dalla dizione letterale « ospedali, cliniche e case di cura autorizzate » in cui la triplice elencazione

starebbe ad indicare entità distinte e cioè da un lato gli ospedali

pubblici, dall'altro le cliniche universitarie e dall'altro ancora le

case di cura autorizzate in cui il condizionamento alla autorizza

zione significherebbe il carattere privato, laddove l'uso dell'agget tivo al femminile plurale non consentirebbe di riferire l'autorizza

zione anche agli ospedali che in quanto non autorizzati sarebbero

esclusivamente quelli pubblici, in contrario potrebbe farsi leva sul

valore generico ed onnicomprensivo della stessa locuzione « o

spedale » (che in mancanza di specificazioni limitatrici dovrebbe

essere inteso in tutta la latitudine della sua potenzialità semanti

ca). Ma posto che il legislatore si è riferito per l'esenzione a

prestazioni rese da enti ospedalieri se ne può rigorosamente desumere alla stregua del diritto vigente (rimasto sempre fermo

nella puntualizzazione del concetto di ente pubblico soggetto all'i.v.a. per l'intera gamma delle operazioni, ove si tratti di

soggetti ad imprenditorialità esclusiva o prevalente, e per le

operazioni oggettivamente tali, ove solo settorialmente l'ente si

dedichi alla produzione di beni od alla erogazione di servizi) che

tali enti vanno assoggettati all'i.v.a. In altri termini gli enti

ospedalieri (a prescindere dall'intervento di interpretazione auten

tica) non diventano soggetti i.v.a. perché e dal momento in cui il

legislatore esonera detcrminate prestazioni da essi rese dal versa mento del tributo, ma l'inclusione chiarificatrice degli « enti

ospedalieri » a precisazione del precedente concetto di « ospeda le » conforta nel convincimento che l'erogazione delle prestazioni di ricovero e cura rientra in principio nell'esercizio di impresa

soggettivamente imputato anche e proprio agli enti specificamente contemplati dalla legge 1° febbraio 1968 n. 132 che ha fissato ed

introdotto nel nostro ordinamento la categoria dell'ente pubblico

ospedaliero (peraltro destinata a scomparire dato che la legge 23

dicembre 1978 n. 833 ne ha disposto la soppressione con assorbi

mento nelle unità sanitarie locali).

Anche a prescindere dalla norma di interpretazione autentica si

sarebbe potuti quindi giungere alla conclusione che gli enti

ospedalieri fossero stati esonerati dal versamento i.v.a. relativa mente a talune prestazioni, dovendo necessariamente rientrare

nell'area del tributo, in forza del rapporto da contenente a

contenuto che presenta la fattispecie di esenzione rispetto a quella costitutiva del presupposto — oggettivo e soggettivo — dell'in

posta.

!l Foro Italiano — 1981 — Parte I-178.

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2779 PARTE PRIMA 2780

E che nella figura dell'ente ospedaliero siano confluite tutte le precedenti istituzioni ospedaliere risulta con assoluta chiarezza ed univocità dalla stessa legge del 1968, il cui scopo fondamentale è stato proprio quello di ricondurre ad unità le molteplici preesi stenti organizzazioni.

8. - Gli enti ospedalieri, dunque, ai sensi degli art. 10, n. 19, e 36 bis erano esonerati dal versamento del tributo ma non dagli adempimenti per le operazioni esenti (ed invero le dispense da

adempimenti per le operazioni esenti introdotte con il d. pres. n. 24 del 1979 non opera rispetto a talune delle ipotesi dell'art. 10 d.

pres. n. 633, fra cui appunto quelle contemplate al n. 19).

Prima che intervenisse la norma di interpretazione autentica la

soggezione all'i.v.a. degli enti ospedalieri era desumibile in via deduttiva dalle disposizioni dell'art. 4 sia pure con una qualche difficoltà concettuale dovendosi confrontare con la nozione di ente pubblico economico e con la rispondenza al principio di

economicità (inteso come reintegrazione di costi con i ricavi) che non venivano ad essere superate de plano attraverso la equipara zione astratta imposta dal 2° comma dell'art. 4, n. 2, con

riferimento ad enti pubblici aventi per oggetto esclusivo o princi pale l'esercizio di attività commerciali o agricole, ovvero comun

que esercenti attività commerciali o agricole in concomitanza con

altre attività (prevalenti) diversamente caratterizzate. In questa situazione, ad avviso del collegio, la legge di interpretazione autentica è intervenuta proprio per eliminare in radice ogni

possibile equivocità nell'inquadramento, operando non già sul

piano delle enunciazioni astratte e di principio, ma su quello delle puntuali determinazioni e qualificazioni che si leggono nel terzo comma, con cui la norma interpretativa viene a far corpo, statuendo che tra le attività da considerarsi in ogni caso commer

ciali, ancorché esercitate da enti pubblici, sono da annoverare

quelle rese dagli enti ospedalieri nell'esercizio delle loro attività istituzionali di ricovero e cura (costituenti il nucleo essenziale

delle loro funzioni), sicché giusta il dettato di precedenti comma

la soggettività i.v.a. copra l'intera gamma delle eventuali ulteriori

attività.

Cosi puntualizzato il raccordo fra norma interpretativa e norma

interpretata ne risulta confermata la esattezza della qualificazione come interpretazione autentica, restando acclarata la mancanza di autonomia della norma interpretativa che acquista significato e vede puntualizzata la sua sfera di operatività nel collegamento inscindibile con gli art. 4 e 17 d. pres. n. 633 e viene ad essere

privata di rilevanza la norma di esenzione di cui all'art. 3 legge n. 132 del 1968, poiché risulta con estrema chiarezza che il

legislatore ha voluto che detti enti rispetto all'i.v.a. rivestano

soggettività passiva e siano obbligati ai relativi adempimenti formali, circoscrivendo a determinate infrazioni, in quanto com messe in un determinato arco temporale, l'esenzione dal pagamen to delle sanzioni.

È appena il caso di rilevare al riguardo che anche a prescindere dal risolutivo intervento della norma di interpretazione autentica il richiamo al predetto art. 3 sarebbe stato superabile.

Da un lato la figura dell'esenzione soggettiva nella sistematica dell'i.v.a. deve ritenersi del tutto « eccezionale », atteso il caratte re di neutralità dell'imposta; e l'equiparazione nel trattamento tributario alle amministrazioni dello Stato integra una esenzione

soggettiva, che in tanto ha ragione di essere in quanto la

configurazione del presupposto consenta uno spazio operativo per attuare tale assimilazione. Dall'altro la normativa sull'i.v.a. è stata introdotta in un momento successivo a quello della richiamata norma di esenzione e quindi, in applicazione del principio sulla successione deile leggi nel tempo, la nuova legge ben avrebbe

potuto derogare al suddetto trattamento equiparativo. Vero è, invece, che non essendovi ai fini dell'i.v.a. soggetti

« esenti » ma soltanto soggetti che rientrano o meno nella previ sione normativa non già in funzione delle qualità personali, ma solo della natura delle operazioni considerate, il modello dell'e

quiparazione non ha modo di operare giacché lo stesso Stato, attraverso le sue aziende, può trovarsi assoggettato alla disciplina dell'i.v.a.

Tale assoggettamento si desume del resto a contrario dalla

espressa previsione di esenzioni oggettive che contemplano opera zioni imponibili ascrivibili direttamente od indirettamente alla

pubblica amministrazione, sia che agisca in base a strumenti

privatistici, sia che si avvalga dei poteri istituzionali.

Può cosi rilevarsi che è prevista l'esenzione per le locazioni con

esclusione di determinate operazioni che possono essere effettuate

anche da pubbliche amministrazioni allorché agiscano nel campo dell'amministrazione del patrimonio (art. 10, n. 1, originaria di

zione del 1972); mentre specificamente al n. 2 si contempla l'esenzione per il servizio postale, il n. 9 riguarda le prestazioni di

trasporto (esercitate direttamente dalla pubblica amministrazione

ovvero affidate in concessione), ed il n. 18 contempla le presta zioni previdenziali, e il n. 21 infine quella del gioco del lotto (cfr. i nn. 6, 9, 16, 23 nella formulazione del 1979).

9. - In conclusione sia il ricorso principale che quello incidenta le, devono essere rigettati essendo risultati infondati. (Omissis)

Per questi motivi, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite civili; sentenza 9 mar

zo 1981, n. 1300; Pres. G. Rossi, Est. Lo Coco, P. M. Berri

(conci, conf.); Comune di Milano (Avv. Pirocchi, Masci,

Tucci) c. Ciserani (Avv. Massa, Ubertazzi). Conferma App. Milano 9 marzo 1976.

Giurisdizione civile — Concessione di area cimiteriale — De

cadenza — Richiesta di dichiarazione di illegittimità e di dan

ni — Giurisdizione ordinaria — Fattispecie.

La cognizione della domanda, con la quale il concessionario del

l'uso di area cimiteriale chiede la dichiarazione di illegittimità del provvedimento comunale di decadenza dalla concessione,

per la mancata esecuzione dei lavori di manutenzione ordina

ria della tomba, e la condanna del comune al risarcimento dei

danni, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. (1)

La Corte, ecc. — Fatto e svolgimento del processo. — Con

citazione notificata il 4 aprile 1972, Maria, Anna, Carla e Giu

seppina Ciserani convenivano in giudizio avanti al Tribunale di

Milano il comune della stessa città, per sentir accertare che il

comportamento del convenuto era stato lesivo del diritto delle

attrici all'uso perpetuo della tomba n. 64 dell'emiciclo di po nente del cimitero monumentale di Milano e che pertanto alle

attrici dovevano essere risarciti i danni patiti in conseguenza dell'illecito comportamento del comune.

(1) Dopo aver esattamente, ritenuto inapplicabile nella fattispecie,

perché entrato in vigore successivamente all'instaurazione del giudizio, l'art. 5 legge 6 dicembre 1971 n. 1034 che ha devoluto alla giurisdi zione esclusiva dei tribunali amministrativi regionali la cognizione delle controversie in tema di concessioni (in argomento si possono consultare Cass. 11 ottobre 1979, n. 5265 e 1° ottobre 1979, n. 5023, Foro it., 1979, I, 2507, con nota di richiami), la riportata sentenza ha

risolto, nel senso della massima, la questione sottoposta al suo esame, alla stregua dell'orientamento secondo cui, in materia di concessioni, le questioni originate dal provvedimento che ne disponga l'anticipata cessazione rientrano nella giurisdizione ordinaria o amministrativa a seconda che l'atto di cui si contesta la legittimità sia riconducibile nella

categoria della decadenza ovvero in quella della revoca (in aggiunta ai precedenti richiamati in motivazione, si possono consultare, per le

implicazioni particolari e per i richiami contenuti nelle rispettive note, Cass. 12 maggo 1979, n. 2716, id., 1979, I, 1371 e Cass. 6 febbraio 1978, n. 525, id., 1978, I, 1715).

In tal modo, però, le sezioni unite, pur risolvendo rettamente la questione controversa, hanno invocato a favore della tesi propugnata considerazioni generiche e certamente meno pertinenti dei risolu tivi rilievi desumibili dalla specifica disciplina delle concessioni di uso delle aree cimiteriali, contenuta negli art. 68-71 e 76 r. d. 21 dicem bre 1942 n. 1880 (regolamento di polizia mortuaria) e applicabile nella causa, originata dal provvedimento del comune di Milano 12 marzo 1969 (il nuovo regolamento, com'è noto, è stato introdotto con il d. pres. 21 ottobre 1975 n. 803). Se avesse avuto presente l'art. 70 del ricordato r. d. n. 1880 del 1942, la corte, da un lato, si sarebbe avveduta che i Ciserani, quali titolari di una concessione perpetua, avevano un diritto soggettivo perfetto, addirittura di carattere reale (Sez. un. 12 dicembre 1952, n. 3156, id., 1953, I, 1142, con nota di richiami) e, dall'altro lato, avrebbe avvertito che, indipendentemen te da ogni distinzione tra revoca e decadenza della concessione, la giurisdizione del giudice ordinario discendeva nella specie dalla semplice constatazione della inidoneità del provvedimento del comune di Milano ad affievolire la posizione soggettiva degli stessi Ciserani, perché esorbitante tanto dai casi di revoca espressamente previsti (i soli in grado di determinare nella subiecta materia il cennato affie volimento: Sez. un. 17 ottobre 1953, n. 3415, id., Rep. 1953, voce Cimitero, nn. 7-8; S. Rosa, Cimitero, voce dell'Enciclopedia del di ritto, VI, 990 e ss., specie 996; di recente, Trib. Roma 27 maggio 1980, Foro it., 1980, I, 2022; fa discendere, invece, tale affievolimento da generiche esigenze di tutela dell'ordine e del buon governo del cimi tero, Cass. 25 luglio 1964, n. 2063, id., 1964, I, 2123, citata in moti vazione, prescindendo però anch'essa dal ripetuto art. 70); quanto dalla ipotesi legislativamente prevista di soppressione del cimitero. L'omissione, sebbene non influente, come si è detto, sulla esattezza della decisione, deve tuttavia essere segnalata, attesoché la giustappo sizione di qualche generica e scarsamente pertinente massima giuris prudenziale non può sostituire nelle sentenze, specie della Cassazione, la individuazione e l'interpretazione delle norme giuridiche applicabili.

C. M. Barone

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