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Sezione II civile; sentenza 13 novembre 1961, n. 2650; Pres. Lorizio P., Est. Danzi, P. M. Trotta...

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Sezione II civile; sentenza 13 novembre 1961, n. 2650; Pres. Lorizio P., Est. Danzi, P. M. Trotta (concl. conf.); Compagnia per lo sbarco e l'imbarco dei carboni minerali Pietro Chiesa (Avv. Aghina, D'Audino, Satta) c. Turi (Avv. Grasso, Magrone, Vaccarezza) Source: Il Foro Italiano, Vol. 84, No. 11 (1961), pp. 1815/1816-1819/1820 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23151522 . Accessed: 28/06/2014 16:18 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.213.220.135 on Sat, 28 Jun 2014 16:18:37 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione II civile; sentenza 13 novembre 1961, n. 2650; Pres. Lorizio P., Est. Danzi, P. M. Trotta(concl. conf.); Compagnia per lo sbarco e l'imbarco dei carboni minerali Pietro Chiesa (Avv.Aghina, D'Audino, Satta) c. Turi (Avv. Grasso, Magrone, Vaccarezza)Source: Il Foro Italiano, Vol. 84, No. 11 (1961), pp. 1815/1816-1819/1820Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151522 .

Accessed: 28/06/2014 16:18

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1815 PARTE PRIMA 1816

E solo se avesse potuto escludere clie esse avessero

avuto una siffatta efficacia, avrebbe potuto ritenere che, non essendosi verificata la decadenza dal potere di richiesta, l'azione civile era rimasta sottoposta al termine prescri zionale stabilito per il reato e non già al minor termine

prescrizionale (di cinque anni) stabilito dal 1° comma del

l'art. 2947 cod. civile. In caso contrario, invece, qualora, cioè, si fosse dovuto

ritenere verificata la decadenza dal potere di richiesta, per l'avvenuto vano decorso del termine di cui all'art. 128

cod. pen., il termine prescrizionale dell'azione civile sarebbe

stato quello stabilito dal 1° comma dell'art. 2947 con

decorrenza, peraltro, dal giorno del compimento del ter

mine di decadenza. In proposito, infatti, sarebbe stata

certamente applicabile al caso la giurisprudenza di questa Corte, invocata dagli attuali ricorrenti incidentali, secondo

la quale l'azione di risarcimento del danno prodotto da un

reato punibile a querela di parte si prescrive nei termini

ordinari e non nel maggior termine eventualmente stabilito

per la prescrizione del reato, qualora si sia verificata la

decadenza dal diritto di querela. Querela e richiesta costituiscono infatti, entrambe,

condizioni di punibilità e di procedibilità di determinati

reati ; e tanto il diritto di querela quanto il potere di richie sta sono entrambi soggetti ad una decadenza, che la legge (rispettivamente : art. 124 e art. 128 cod. pen.) regola in modo sostanzialmente identico. Non vi è quindi motivo

alcuno per non applicare, nel caso di decadenza dal potere di richiesta, alla prescrizione dell'azione di risarcimento

del danno prodotto dal reato punibile a richiesta lo stesso

principio adottato dalla giurisprudenza di questa Corte

per la prescrizione dell'azione di risarcimento del danno

prodotto dal reato punibile a querela, nel caso di decadenza dal diritto di querela.

Le ragioni che sorreggono il cennato orientamento

giurisprudenziale si attagliano perfettamente, infatti, anche

al caso in esame.

Basta, riassumendole, ricordare che l'art. 2947 cod.

civ., dopo aver stabilito, nel 1° comma, che il termine di

prescrizione del diritto di risarcimento del danno da fatto illecito è di cinque anni, e, nel 2° comma, che tale termine è ridotto a due anni se il danno è stato cagionato dalla circolazione di un veicolo, dispone, nel 3° comma, che

tuttavia, se il fatto è considerato dalla legge come reato

e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile ; e considerare che il motivo di codesta deroga alle regole stabilite nei primi due comma

non è costituito già dall'intento di usare una maggiore severità verso i responsabili del fatto dannoso, qualora questo si qualifichi come un reato di una certa gravità, sibbene soltanto dall'esigenza logico-giuridica di evitare che per il medesimo fatto l'azione civile possa estinguersi quando l'azione penale resta ancora in vita. E che così sia è chiaramente dimostrato dal rilievo che lo stesso

legislatore, nella seconda parte del medesimo 3° comma dell'art. 2947, ha avuto cura di stabilire che tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o se è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati nei primi due comma, con decorrenza peraltro, dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile.

Proprio perchè l'estinzione del reato e la sentenza irrevocabile pronunciata nel giudizio penale impediscono che l'azione penale possa essere ulteriormente esercitata

(veggasi, per la sentenza, la disposizione dell'art. 90 cod.

proc. pen.), non vi è più alcuna necessità di ancorare il termine prescrizionale dell'azione civile a quello stabilito

per un'azione penale che non può più esercitarsi, e non resta che applicare alla prescrizione dell'azione civile il ter mine per questa autonomamente stabilito dalla legge civile facendolo peraltro decorrere, per ovvie ragioni, soltanto dal giorno in cui si è verificato l'evento che ha determinato

l'impossibilità giuridica dell'esercizio dell'azione penale. In altre parole, la norma enunciata nella prima parte

del 3° comma dell'art. 2947 presuppone, implicitamente

ma necessariamente, la possibilità che l'azione penale per il fatto dannoso costituente reato sia esercitata in qualsiasi momento di tutto il termine stabilito per la prescrizione di

essa. Onde, nei casi in cui tale possibilità viene definitiva

mente esclusa, per un evento sopravvenuto, la norma sud

detta non può più. trovare applicazione. Ciò è stato esplici tamente stabilito, nella seconda parte dello stesso 3° comma

dell'art. 2947, con riguardo alle ipotesi della estinzione

del reato e della sentenza irrevocabile pronunciata nel

giudizio penale che sono le ipotesi più comuni di impedi mento definitivo all'esercizio dell'azione penale ; ma ciò

deve ugualmente ritenersi, sia pure per implicito, stabi

lito anche per tutte le altre ipotesi in cui, fuori di quelle

esplicitamente considerate dalla legge, un siffatto impedi mento definitivo si verifica. In tutte le dette ipotesi invero, al pari che in quelle dell'estinzione della sentenza, non vi è più alcuna ragione per applicare all'azione civile

la prescrizione stabilita per un reato per il quale non è

più possibile l'esercizio dell'azione penale. Sulla base di tali rilievi la giurisprudenza di questa.

Corte, come si è detto, ha già ritenuto che, nel caso di danno

prodotto daun reato punibile a querela della persona offesa,

per il quale sia stabilita una prescrizione più lunga, il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento è quello previsto dal 1° comma dell'art. 2947, ovvero, se trattasi di danno cagionato dalla circolazione di un veicolo, quello previsto dal 2° comma dello stesso articolo, qualora il titolare del diritto di querela sia incorso nella decadenza dal diritto medesimo, e sia quindi divenuto impossibile l'esercizio dell'azione penale per il reato.

E per le stesse ragioni deve oia ritenersi che, nel caso di danno cagionato da un reato punibile a richiesta del

l'autorità, per il quale sia dalla legge stabilita una prescri zione più lunga, il diritto al risarcimento si prescrive nei termini ordinari stabiliti nei primi due comma dell'art.

2947, qualora l'autorità titolare del potere di richiesta ne sia decaduta. Tale decadenza produce infatti la definitiva

impossibilità dell'esercizio dell'azione penale per il reato.

Peraltro, i predetti termini ordinari non possono che farsi decorrere dalla data in cui si è verificata la deca denza dal potere di richiesta, con la conseguente defini tiva impossibilità dell'esercizio dell'azione penale ; e ciò

per lo stesso motivo per cui, nell'ipotesi parallela di estin zione del reato, i termini prescrizionali ordinari decor rono soltanto dalla data dell'estinzione.

Conseguentemente, non avendo la Corte di Catania

compiuto alcuna indagine onde accertare se, durante il termine di prescrizione dell'azione penale, si fosse o meno verificata la decadenza dal potere di richiesta spettante al Ministro della difesa per il fatto-reato ascrivibile al

Passalacqua, i mezzi di annullamento in esame debbono essere accolti per quanto di ragione, e, cassandosi anche

per questa parte la sentenza denunziata, la causa deve essere rinviata ad altro giudice di merito, perchè accerti se la predetta decadenza si fosse verificata o meno durante il termine suindicato, e, qualora ritenga che essa si fosse

verificata, si uniformi, pei quanto attiene alla determina zione del termine prescrizionale dell'azione civile, al prin cipio di diritto dianzi enunciato.

Stimasi opportuno rimettere al giudice di rinvio anche la pronuncia sulle spese processuali di questo grado.

Per questi motivi, cassa, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione II civile ; sentenza 13 novembre 1961, n. 2650 ; Pres J Lorizio P., Est. Danzi, P. M. Trotta (conci,

conf.) ; Compagnia per lo sbarco e l'imbarco'dei carboni minerali Pietro Chiesa (Avv. Aghina, D'Audino, Satta) c. Turi (Avv. Grasso, Magrone, Vaccarezza).

(Conferma App. Torino 2 marzo 1960)

Rinvio civile — Principio di diritto basato su con

tratto collettivo corporativo — Indagine sull'esi

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

stcnza (li «letto contratto — Inammissibilità (Cod.

proc. civ., art. 384).

Il giudice di rinvio non può indagare intorno alla- esistenza d'un valido contratto collettivo corporativo sulle cui clausole la Cassazione, annullando la sentenza di merito, aveva enunciato il principio di diritto. (1)

La Corte, ecc. — (Omissis). È opportuno premettere alla esposizione dei mezzi di ricorso, che, nel giudizio di

rinvio, la Compagnia ricorrente ha resistito alle domande del Turi, dirette ad ottenere la declaratoria di stabilità

dell'impiego con tutte le pronunzie conseguenti, oppo nendo la inesistenza o nullità del contratto collettivo 30 dicembre 1926 per gli impiegati delle Compagnie del

porto di Genova, derivanti, la prima, dal fatto che talé contratto non risultava essere stato sottoscritto dai legit timi rappresentanti delle associazioni e delle compagnie stipulanti, la seconda, dal difetto dei requisiti tassativa

mente richiesti, quale l'indicazione del termine di efficacia, il deposito presso la Prefettura e la pubblicazione nel Foglio annunzi legali. La Compagnia sosteneva a questo pro posito che tale eccezione non poteva ritenersi preclusa,

giacché la sentenza annullata, di fronte al richiamo fatto

dal Turi al detto contratto collettivo, si era limitata ad

affermare che non poteva accettarsi il criterio della preva lenza del medesimo rispetto ai regolamenti approvati nel

1931 e nel 1945 dal Consorzio del porto, senza peraltro accertare, nè ammettere, in linea di fatto, che, prima del

1931, il rapporto di impiego con le Compagnie portuali fosse disciplinato dal contratto collettivo del 1926, cosicché

il principio di diritto enunciato nella sentenza di annulla

mento ed in base al quale la stabilità dell'impiego era

garantita da quel contratto, non sarebbe più vincolante

per la Corte di rinvio ove ne fosse risultata l'inesistenza

0 la nullità. Osservava ancora che, se anche la Cassazione

avesse incidentalmente dato per ammesso un fatto inesi

stente (in questo caso, esistenza e validità del contratto

collettivo), la pronunzia non poteva, su questo punto, vincolare il giudice di rinvio che restava libero di accertare 1 fatti erroneamente presupposti nella affermazione del

principio di diritto. La sentenza denunziata, ritenendo che

tale eccezione fosse ormai preclusa, ha rilevato che la Com

pagnia non aveva sollevato alcuna contestazione sulla

esistenza o validità del contratto, nè nella fase di appello, nè nella fase di cassazione e che, pertanto, per il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, non poteva più farlo in sede di rinvio ; che non poteva esservi dubbio che la sentenza annullata, nell'escludere la

prevalenza di tale contratto collettivo sui regolamenti, ne

avesse, almeno per implicito, ammesso l'esistenza e la

validità ; che la sentenza della Cassazione vincolava il

giudice di rinvio, non solo in relazione al principio di

diritto affermato, ma anche in relazione ai suoi necessari

presupposti di fatto, implicitamente e definitivamente

(1) Per la terza volta la Cassazione interloquisce nella con troversia : con sentenza 14 luglio 1953, n. 2280, Foro it., Rep. 1953, voce Navigazione marittima, nn. 10-12, affermò che il

giudice ordinario e non quello amministrativo dovesse cono scere della controversia ; con sentenza 26 settembre 1958, n,

3044, id., Rep. 1958, voce cit., n. 8, ha affermato i principi di diritto (basati sulla validità di un contratto collettivo, che la stessa Corte, con sentenza 16 novembre 1960, n. 3062, infra, 1922, ha in altra controversia riconosciuto invalido), cui si è uniformato il giudice di rinvio nella sentenza confermata dalla

presente decisione. Non risultano precedenti in termini : sostanzialmente con

forme Cass. 8 ottobre 1959, n. 2711, Foro it., Eep. 1959, voce cit., n. 22, che ha negato al giudice di rinvio il potere di indagare circa l'esistenza dei presupposti di applicabilità, nella causa rimessa al suo esame, del principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione.

Per l'applicabilità dello ius superveniens nel giudizio di rin

vio, v. Cass. 8 luglio 1960, n. 1812, id., Rep. 1960, voce Rinvio, n. 4 e Trib. Palermo 25 giugno 1958, id., 1959, I, 678, con nota di richiami.

accertati nella pregressa fase di merito ; che, comunque, la questione relativa alla esistenza e validità del contratto collettivo non poteva considerarsi nuova, perchè trattata e risolta, tanto dalla Corte d'appello, quanto dalla Cas sazione.

I due motivi di doglianza della ricorrente, logicamente connessi, possono così riassumersi

a) violazione dell'art. 360, n. 3, >d. proc. civ., in relazione agli art. 113 dello stesso ; codice; 1 disp. sulla

legge in generale ; 45 decreto legisl. 23 novembre 1944 n. 369 ; 10 e 13 legge 3 aprile 1926 n. 563 ; 471 e 394 cod.

proc. civ. Si lamenta che la Corte di rinvio, nel ritenere la preclusione di ogni nuovo accertamento sui presupposti di fatto del principio di diritto affermato dalla Cassazione, non abbia considerato che il contratto collettivo corpo rativo era, secondo il soppresso ordinamento, una autentica norma giuridica, come tale qualificata dall'art. 1 disp. sulla legge in generale, e che il decreto legisl. 23 novembre 1944 n. 369 aveva mantenuto ai contratti collettivi ante riori il loro carattere di fonti di diritto. Ciò premesso, si sostiene che, fino a che pende il processo, non può verifi carsi alcuna preclusione sull'accertamento della esistenza dei presupposti di diritto ; che il principio posto dalla Cassa zione riguardava la prevalenza del contratto collettivo sul successivo regolamento[modificativo e dava, pertanto, come

presupposta l'esistenza di tale contratto, così come è data

sempre per presupposta l'esistenza e la validità di qualsiasi

legge, senza che per questo sia precluso contestarne nel

giudizio di rinvio la validità formale o la costituzionalità ;

b) violazione dell'art. 360, nn. 4 e 5, in relazione

all'art. 115 stesso codice. Si lamenta che la sentenza impu

gnata abbia giudicato senza che fosse stato prodotto il

contratto collettivo, di cui si postulava l'esistenza e senza

ordinarne, quanto meno, la produzione, mentre avrebbe

avuto l'obbligo di verificarne d'ufficio le condizioni di

esistenza e di validità.

II ricorso è infondato.

La preclusione di ogni questione relativa alla esistenza e alla validità del contratto collettivo 30 dicembre 1926 è stata giustamente ritenuta dalla Corte di rinvio per un

duplice ordine di considerazioni che resistono a tutte le

critiche della ricorrente.

Se ne è, anzitutto, affermata la preclusione perchè la

sentenza della Corte d'appello di Genova, nel respingere la tesi dell'odierno resistente secondo cui tale contratto

avrebbe dovuto, ai fini della disciplina del rapporto de quo, prevalere sui successivi regolamenti interni della Com

pagnia, ne aveva riconosciuto necessariamente, anche se

per implicito, l'esistenza e la validità. A questo proposito, la sentenza denunziata ha rilevato, con insindacabile

interpretazione della precedente sentenza d'appello, che

tale decisione sulla disciplina del rapporto aveva come

indeclinabile presupposto logico l'esistenza e la validità del contratto collettivo invocato dal Turi, giacché, se così

non fosse stato, non avrebbe avuto senso negare la sua

prevalenza sui regolamenti successivi e la questione non

avrebbe neppure potuto porsi. E il rilievo è senza dubbio

esatto anche se l'accertamento di quel presupposto è

stato impropriamente qualificato dalla sentenza impugnata come riferentesi a un dato di fatto, mentre esso riguardava, invece, l'accertamento di una fonte di nórme giuridiche, quale era e rimane tuttora il contratto collettivo corpo rativo. Ma tale improprietà^di termini non può intaccare

la correttezza della decisione e va soltanto rettificata nel

senso che la sentenza annullata aveva implicitamente accertato, come presupposto logico del principio di diritto

affermato, che esistesse un valido contratto collettivo corpo rativo, anche se poi ne aveva rifiutato l'applicazione alla

fattispecie. Ciò posto, non è seriamente contestabile che il

riesame di tale questione di diritto fosse precluso dal giudi cato formale, che copre le questioni risolte nel corso del

l' iter processuale, quando la parte interessata non si sia

avvalsa del rimedio dell'impugnazione. E, a questo pro

posito, cade opportuno aggiungere che la Compagnia non

sollevò affatto la questione nella precedente fase di cassa

zione, nonostante il Turi avesse investito la sentenza della

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1819 PARTE PRIMA 1820

Corte d'appello proprio perchè la stessa aveva disatteso

il criterio della prevalenza del contratto collettivo corpo rativo 30 dicembre 1926 sui successivi regolamenti interni

della Compagnia portuale. Non può quindi sfuggirsi alla

conclusione che sul punto relativo alla esistenza e validità

della fonte normativa, la cui applicazione alla fattispecie costituiva, per così dire, il fulcro della contestazione, la

sentenza della Corte d'appello avesse acquistato forza

di giudicato formale.

In secondo luogo, la preclusione è stata ritenuta perchè, essendo il giudice di rinvio vincolato alla stretta osservanza

del principio di diritto enunciato dalla sentenza di annulla

mento, non poteva essergli consentita un'indagine, il cui

fine pratico sarebbe stato appunto quello di scalzarne

l'applicazione. Anche sotto questo profilo, gli sforzi della

ricorrente rimangono vani. Giova infatti ricordare che

questa Suprema corte, aveva affermato, con tale sentenza, i seguenti principi di diritto :

a) per gli impiegati delle Compagnie portuali la

inderogabilità del diritto alla continuazione del rapporto discende dagli art. 3 e 10 del contratto collettivo 30 dicembre

1926, tuttora in vigore ai sensi dell'art. 43 decreto legisl. n. 369 del 1944;

b) i regolamenti interni emanati da un ente privato e che disciplinano i rapporti individuali dei dipendenti non possono contenere clausole, che deroghino a quelle più favorevoli previste nei contratti collettivi ;

c) non vi è dubbio che, nel caso in esame, il contratto

collettivo 30 dicembre 1926 è più favorevole per gli impie

gati portuali, in quanto ammette negli art. 3 e 10 il licen

ziamento ad nutum soltanto per il caso di mancanza di

lavoro ;

d) ne consegue la illegittimità di un licenziamento

disposto dalla Compagnia portuale al di fuori dei casi

previsti nel citato contratto collettivo ed in violazione

della norma dell'art. 2077 cod. civ., che consente la deroga ai contratti collettivi solo quando quelli individuali siano

più favorevoli al prestatore di lavoro.

Ora, di fronte ad una così chiara e categorica formula

zione dei principi di diritto da applicare alla fattispecie, non può certamente accogliersi la tesi della ricorrente che

vorrebbe fosse riservato al giudice di rinvio il compito di

stabilire se la norma, da cui la Cassazione li ha tratti, sia

esistente e valida. Si afferma a questo proposito, nel vano

tentativo di sorreggere una tesi così azzardata, che l'esi

stenza di un valido contratto corporativo rimarrebbe, in

certo senso, un presupposto esterno al principio affermato, sul quale la discussione sarebbe sempre possibile finché

duri il processo, cosicché, anche in sede di rinvio, rimar

rebbe aperta l'indagine sul se esista veramente e sia tut

tora vigente la norma presupposta dalla Cassazione. L'affer mazione è palesemente inaccettabile, tanto nella premessa, quanto nelle conseguenze che dovrebbero trarsene, perchè l'efficacia vincolante per il giudice di rinvio del principio di diritto enunciato dalla Cassazione diverrebbe in questi casi del tutto illusoria. Ne è, infatti, errata la premessa, che vorrebbe scindere il principio dalla norma che lo con tiene senza tener conto che la Cassazione, nell'adempiere al suo Compito istituzionale, ha fatto propria quella deter minata volontà di legge (o di altra norma giuridica) come

regolatrice della fattispecie, quando, con la formulazione del principio di diritto, ha reso attuale e concreta la volontà astratta della norma giuridica, in modo che la stessa venga così a identificarsi, rispetto a quel processo, con la volontà

stessa che il giudice di rinvio è chiamato ad esprimere nella sua decisione. Non vi è quindi alcuna possibilità di riaprire in sede di rinvio il procedimento dialettico conclusosi con l'affermazione di quel principio, per verificare l'esattezza della sua componente principale, così come non è con sentito rimettere in discussione i presupposti di fatto della sua applicazione.

Nè questi decisivi argomenti possono essere superati dal richiamo ad altra recente sentenza di questa Suprema corte (sent. 16 novembre 1960, n. 3062), che ha accolto la tesi della inesistenza del contratto collettivo de quo, giacché il principio di diritto enunciato dalla Cassazione ha effi

cacia limitata al processo in cui è intervenuto, cosicché il contrasto tra due opposti indirizzi giurisprudenziali della

Suprema corte in cause diverse non può avere alcuna riper cussione sulla applicabilità dell'uno o dell'altro al caso concreto per il quale è stato affermato, e ciò quali che siano le ragioni che lo hanno determinato. (Omissis)

Per questi, motivi, rigetta, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione II civile ; sentenza 30 ottobre 1961, n. 2486 ; Pres. Lorizio P., Est. Rapisarda, P. M. Pedace (conci, conf.) ; Finanze (Avv. dello Stato Arias) c. Jolanda di Savoia Calvi di Bergolo e altri (Avv. C. D Amelio,

Nicolò).

(Conferma App. Torino 22 marzo 1960)

Divisione — Comunione ereditaria Integrità del contraddittorio —

Fattispecie (Cod. civ., art. 713, 737 ; cod. proc. civ., art. 784 ; Costituzione della Repub blica, disp. trans. XIII).

Essendo preliminare al giudizio di divisione dell'asse eredi tario l'accertamento dell'appartenenza, alla massa ideale, dei beni donati senza dispensa di collazione ad alcuno dei coeredi, contraddittori necessari sono, oltre ai coeredi

attori, il donatario e l'Amministrazione del demanio, cui, in virtù di procedimento di confisca, erano pervenuti i

beni, appartenenti iure liereditario al donatario e situati in Italia. (1)

La Corte, ecc. — Per la più agevole intelligenza dell'unico motivo del ricorso dell'Amministrazione finanziaria, il cui contenuto sarà indicato in seguito, è opportuno premettere, riassumendole, le considerazioni per le quali la Corte di merito pervenne alla decisione, che il giudizio dovesse necessariamente essere integrato con la chiamata in causa del coerede ex Ee Umberto di Savoia.

La Corte torinese, adunque, premesso che, in un deter minato giudizio, una questione di integrità del contrad dittorio può sorgere e configurarsi solo in relazione all'azione che ivi sia stata effettivamente proposta, rilevò che gli attori, fin dall'origine del giudizio davanti al Tribunale di Koma (di poi caducato per la sopravvenuta sentenza dichiarativa di incompetenza territoriale), avevano indub biamente proposto una domanda di divisione di deter minati beni, e si trattava, quindi, di stabilire se alla base di codesta domanda esisteva una comunione ordinaria

oppure una comunione ereditaria, con le conseguenze che ne derivavano, perchè : a) nel primo caso (comunione ordinaria), è la sola titolarità del diritto dominicale che

(1) Le sentenze 9 giugno 1050 ilei Tribunale di Roma e 6 marzo 1952 della Corte d'appello, a seguito delle quali i Savoia iniziavano il presente giudizio avanti il Tribunale di Roma, poi dichiaratosi incompetente, riassumendolo avanti i Giudici di Torino, sono rispettivamente riprodotte in Foro it., 1950, I, 748, e 1952, I, 825, con ampie note di richiami.

Sui diversi limiti, nei quali l'integrità del contraddittorio deve essere intesa a seconda che la divisione si riferisca a comu nione ereditaria o a comunione ordinaria, cons., in senso conforme alla decisione riportata, Cass. 12 gennaio n. 39, 22 febbraio n. 407, 4 maggio n. 1002, 11 luglio n. 1655 del 1961 (id., Mass., 9, 90, 250, 424), a proposito dell'erede cedente della quota ; Cass. 21 marzo n. 581, 12 ottobre n. 2669 del 1960, id., Rep. 1960, voce Divisione, nn. 40, 42, 43 ; Cass. 23 gennaio 1959, n. 158, id., 1959, I, 578, con nota di richiami. [

E da notare che la Corte d'appello di Torino, nella sentenza (Pres. ed est. Ai.vazzi del Frate, Rei. Galante Garrone) ora confermata, aveva ritenuto necessaria la partecipazione al giudizio di Umberto di Savoia, rinviando, ai sensi dell'art. 354 cod. proc. civ., la causa al primo Giudice, e che l'Amministrazione delle fi nanze, nel ricorso per cassazione, ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva.

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