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Sezione II civile; sentenza 20 gennaio 1964, n. 129; Pres. La Via P., Est. Cortesani E., P. M....

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Sezione II civile; sentenza 20 gennaio 1964, n. 129; Pres. La Via P., Est. Cortesani E., P. M. Pedace (concl. conf.); Sirao (Avv. Nicolò, Tomassini) c. Lauretti (Avv. Jemolo, Donati) Source: Il Foro Italiano, Vol. 87, No. 5 (1964), pp. 1019/1020-1023/1024 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23155087 . Accessed: 24/06/2014 22:26 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.77.40 on Tue, 24 Jun 2014 22:26:01 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione II civile; sentenza 20 gennaio 1964, n. 129; Pres. La Via P., Est. Cortesani E., P. M.Pedace (concl. conf.); Sirao (Avv. Nicolò, Tomassini) c. Lauretti (Avv. Jemolo, Donati)Source: Il Foro Italiano, Vol. 87, No. 5 (1964), pp. 1019/1020-1023/1024Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23155087 .

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1019 PARTE PRIMA 1020

In conclusione si possono, pertanto, fissare questi

punti :

а) la lettera dell'art. 56, 5° comma, non impone nè

l'una nè l'altra soluzione, ed anzi mostra di non essere

per sè in grado di fornire una qualsiasi soluzione ;

б) non vi sono argomenti decisivi per ritenere che l'im

porto contrattuale (il diminuendo) debba essere espresso in valori non revisionati, sicché anche l'altro termine ne

debba seguire le sorti in forza del principio della loro

necessaria omogeneità ;

c) per contro, quanto ad ostacoli materiali (di rico

struzione contabile), occorre dare atto che non ve ne sono

nemmeno per esprimere l'importo delle opere eseguite in valori contrattuali anziché riferirsi alla liquid azione del

conto finale, che per sè è condotta sulla base dei prezzi revisionati ;

d) nell'esame critico delle argomentazioni, tanto im

pegnate quanto serie, dedotte dall'amministrazione, è bal

zato evidente il rilievo circa la grave disparità di conseguenze

pratiche che derivano dall'adottare l'una via o l'altra

(valori contrattuali o revisionati) quando il raffronto tra

i due termini interessi come sottrazione la cui differenza

costituisca la somma di denaro da corrispondere all'ap

paltatore. Ebbene, proprio quest'ultima notazione, in rapporto

alla ratio delle norme in esame (art. 345 all. F e 56, 5° comma, del capitolato), sembra suggerire la soluzione esatta. Tali

norme sono invero dettate al fine di indennizzare l'appal tatore per la perdita che subisce a causa dello scioglimento

anticipato del contratto, prima che le opere eseguite rag

giungano i quattro quinti : ratio di indennizzo, dunque. Ora, se ci si attiene ai valori contrattuali, non si risarcisce

il danno attuale (che l'appaltatore subisce all'atto dello

scioglimento), ma quello del tempo della conclusione del

contratto.

Al limite, l'indennizzo potrebbe ridursi ad una cifra

simbolica (rapporto di lunga durata, svalutazione mas

siccia). Vuol dire che si rispetta la ratio solo facendo rife

rimento ai valori revisionati. Ciò che, del resto s'inquadra nel principio generale, per cui il credito di risarcimento

è un credito di valore e deve essere espresso in termini

monetari attuali.

Anche il ricorso incidentale delle ferrovie deve essere

perciò disatteso.

Tenuto conto dell'esito del giudizio in questa sede, si

reputa opportuno compensare tra le parti le spese di questo

grado. Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione II civile ; sentenza 20 gennaio 1964, n. 129 ; Pres.

La Via P., Est. Cortesani E., P. M. Pedace (conci,

conf.) ; Sirao (Avv. Nicolò, Tomassini) c. Lauretta

(Avv. -Temolo, Donati).

(Conferma App. Roma 17 marzo 1961)

Testamento — Interpretazione — Criteri — Regole dei contratti — Applicabilità — Fattispecie (Cod. civ., art. 588, 1362).

Sostituzione e iedecommesso — Fedecommesso « de

residuo» — Nullità— Rinunzia all'azione — Ino

peratività (Cod. civ., art. 590). Sostituzione e fedecommesso — Fedecommesso « de

residuo » — Nullità — Sanatoria per convalida —

Inammissibilità (Cod. civ., art. 590).

I criteri elettati per i contratti valgono anche per l'interpreta zione del testamento la quale peraltro è caratterizzata da una più intensa ricerca dell'effettiva volontà del testatore

anche se espressa in termini impropri ed inadeguati

(nella specie è stata interpretata come valida istituzione

di erede l'attr ibuzione del patrimonio con facoltà di alienare

liberamente i beni trasmessi sebbene qualificata dal te

statore come usufrutto). (1) La illiceità di una disposizione fedecommissaria de residuo

può essere fatta valere anche in caso di rinunzia da parte dell'istituito all'azione di nullità. (2)

È inammissibile la sanatoria per convalida della disposizione testamentaria contenente una sostituzione fedecommis• saria de residuo. (3)

(1) Il principio enunciato dalla massima è espressione della

giurisprudenza costante della Suprema corte : Cass. 18 luglio 1963, n. 1970, Foro it., Rep. 1963, voce Testamento, nn. 42-44 ; 28 marzo 1962, n. 628, id., Rep. 1962, voce cit., n. 40 ; 16

maggio 1962, n. 1063, ibid., n. 45 ; 4 luglio 1961, n. 1600, id.,

Rep. 1961, voce cit., n. 49 ; 6 marzo 1961, n. 479, ibid., n. 53 ; 5 marzo 1959, n. 629, id., 1960, I, 824, con nota di richiami, cui adde, Grassetti, Interpretazione dei negozi giuridici « mortis causa », voce del Novissimo digesto it., 1962, Vili, pag. 907.

Al risultato interpretativo della sentenza che, nell'economia delle varie clausole testamentarie, dà la prevalenza all'espressa attribuzione della facoltà di disporre dei beni trasmessi di fronte

all'inadeguatezza del termine usufrutto introdotto dal testatore, era pervenuta anche Cass. 18 maggio 1957, n. 1793, Foro it.,

Rep. 1957, voce Successione, n. 196 (richiamata nel testo), nonché, con riguardo a fattispecie che, come quella decisa, davano luogo ad un fedecommesso de residuo, App. Roma 26 febbraio 1957, id., 1958, 1, 212, secondo cui la disposizione con cui il testatore lascia a taluno l'usufrutto del suo patrimonio con la facoltà di

vendere, onde realizzare quanto occorre per la passività, che

gli fa obbligo di estinguere, dà luogo ad una istituzione di erede

perchè costituisce fedecommesso de residuo, valido secondo il cod. civ. 1865 ; e Cass. 20 novembre 1950, n. 2624, id., 1951, I, 308, con nota di richiami (pure citata), che ravvisa un'istitu zione di crede, valida secondo il codice civile abrogato, nella

disposizione con cui il testatore lasci a taluno l'usufrutto del suo

patiimonio con facoltà di vendere in caso di bisogno. (2-3) La sentenza pone in rilievo, sul piano pratico, l'ina

deguatezza della semplice rinuncia all'azione di nullità a pro durre l'eccezionale sanatoria ex art. 590 cod. civ. di una dispo sizione radicalmente nulla, sottolineando che la semplice dene

gazione dello ius agendi non vale ad incidere su una situazione che, a differenza del negozio annullabile, non ha rilievo sul piano effettuale. Secondo App. Trieste 22 novembre 1961, Foro it., Rep. 1962, voce Testamento, n. 9, la norma di cui all'art. 590 cod. civ. è fondata sulla rinunzia al diritto di impugnazione del testamento da parte dell'interessato, mentre per App. Roma 2 settembre 1956, id., 1957, I, 650, è la conferma espressa o tacita di una disposizione testamentaria nulla, che, in quanto incompatibile con la volontà di far valere la nullità, importa implicita rinunzia alla relativa azione.

Sull'ii va'idità, in base al vigente codice civile, della dispo sinone fedecommissaria de residuo, vedi Cass. 3 febbraio 1959, n. 317, id., 1959, I, 782, nonché Cass. 5 agosto 1957, n. 3304, id., 1958, I, 212, con nota di richiami.

In tema di applicabilità della sanatoria ex art. 590, Cass. 10 luglio 1957, n. 2743, id., 1958, I, 62 (citata in motivazione), esclude che la disposizione fedecommissaria possa validamente ricevere volontaria esecuzione in quanto sorretta da un motivo illecito e come tale affetta da nullità assoluta e rilevabile di ufficio, mentre l'art. 590 si applica alla sola ipotesi in cui, con un atto di volontà valido, il testatore potrebbe realizzare 11 risultato pratico che intende raggiungere e non anche quando il fine da lui perseguito non potrebbe direttamente essere rag giunto perchè vietato dalla legge come illecito. Il rigore del l'indirizzo è attenuato da Cass. 19 ottobre 1957, n. 3985, id., Rep. 1957, voce Testamento, n. 15 (citata nel testo), che, pur collegando la nullità dell'usufrutto successivo ad un divieto di ordine pubblico, ritiene che l'invalidità non debba necessaria mente inficiare il negozio con cui, a norma dell'art. 590 cod. civ., la disposizione testamentaria venga confermata. L'orien tamento è condiviso dalla sentenza in esame, che esclude la necessaiia comunicazione dell'illiceità della disposizione all'atto di conferma e rinvia all'esame della singola fattispecie concre tamente realizzatasi lo stabilire se attraverso la conferma si intenda o meno conseguire ed in realtà si consegua una finalità illecita.

Sull'àmbito di applicazione dell'art. 590 cod. civ., consulta anche App. Milano 28 aprile 1961, id., 1961, I, 1543 e Cass. 13 ottobre 1961, n. 2137, id., 1962, I, 515, con richiami di giuri sprudenza e di dottrina, cui adde, per un inquadramento dogma tico dell'art. 590 nella sistematica dell'istituto della convalida, Giacobbe, Convalida (diritto privato), voce dell'Enciclopedia del diritto, 1962, X, pag, 479, e soprattutto pag. 483 e segg.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 1022

La Corte, ecc. — Con il secondo mezzo del ricorso prin

cipale, che per ragioni di ordine logico va esaminato con

precedenza sugli altri, si denuncia la violazione e falsa ap

plicazione delle norme in tema di interpretazione della vo

lontà testamentaria, nonché il vizio di omessa motivazione

circa un punto decisivo della controversia in riferimento

all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civile.

Con esso la Sirao si duole che la corte del merito, con

affermazione del tutto apodittica e ingiustificata, abbia

ravvisato nelle disposizioni di ultima volontà di Giuseppe De Simone gli estremi di una sostituzione fedecommis

saria vietata ai sensi dell'art. 692, 3° comma, cod. civ.,

senza considerare che il de cuius, ben consapevole, per la

sua qualità di avvocato, della portata giuridica delle espres sioni adoperate, aveva esplicitamente indicato nella seconda

parte della scheda, redatta in epoca successiva, con il ter

mine « usufrutto » l'oggetto dell'attribuzione patrimoniale in favore della moglie e che, attesa la natura limitata del

diritto trasmesso, l'ulteriore conferimento alla stessa della

facoltà di vendere doveva ritenersi inefficace e comunque ininfluente ai fini della interpretazione del testamento.

La censura è destituita di fondamento.

Com'è noto, i criteri legali di ermeneutica dettati per i

contratti trovano applicazione, almeno in parte e con gli

opportuni adattamenti, anche nella interpretazione dei

negozi giuridici mortis causa tenute presenti le speciali caratteristiche del testamento, quali la preminente rile

vanza della volontà del disponente e la natura unilaterale e

non recettizia dell'atto. In particolare la interpretazione del

testamento è caratterizzata nei confronti di quella tipica del

contratto da una più intensa ricerca ed efficacia della vo

lontà dell'autore, nel senso che deve riconoscersi giuridica rilevanza all'effettiva mens testanti#, anche se espressa in

termini impropri o comunque non rispondenti al signifi cato oggettivo e socialmente riconoscibile della dichiara

zione, purché chiaramente individuabile attraverso la valu

tazione complessiva delle varie clausole e, se necessario,

con il sussidio di ogni altro utile elemento indicativo.

Esattamente ispirata a tale indirizzo psicologico, la

impugnata sentenza, dopo avere riportato l'intero testo

dell'atto, comprensivo delle successive postille e aggiunte

esplicative, ha posto in evidenza la equivocità del termine

« usufrutto », adoperato una sola volta dal testatore, in

quanto la effettiva volontà del de cuius non poteva desu

mersi dal tenore letterale di una singola espressione, avulsa

dal complesso della dichiarazione, considerata nella sua or

ganica totalità. Infatti il De Simone aveva esplicitamente istituito la moglie erede universale del suo patrimonio e

conferito alla stessa la piena facoltà di alienare liberamente

i beni trasmessi, costituendo in favore della onorata una si

tuazione subiettiva del tutto conseguente al trasferimento

della piena proprietà e non certo compatibile con la attri

buzione del solo diritto reale di usufrutto.

Ed è proprio alla stregua di tale più approfondita in

terpretazione cosiddetta individuale che la corte del merito

ha ritenuto accertata la univoca e precisa volontà del de

cuius di istituire erede in primo grado la moglie e in secondo

grado la Sirao, in guisa da assicurare a costei la possibilità di ricevere, alla morte della prima chiamata, tutto il suo

patrimonio residuo. Di qui la riconosciuta nullità della di

sposizione in esame, presentando gli estremi caratteristici

della sostituzione fedecommissaria vietata, e cioè la doppia

vocazione, Vordo successivus e l'obbligo di restituire i beni

residui. Ora è innanzi tutto evidente, nella compiuta trama

logica delle argomentazioni svolte in sentenza, la implicita

ammissione della sostanziale unicità delle dichiarazioni te

stamentarie e del carattere meramente esplicativo delle

successive postille, redatte all'esplicito fine di « spiegare »

la già espressa determinazione volitiva del disponente,

mentre la univoca chiarezza del testo dell'olografo e la

mancanza, nelle pregresse fasi del giudizio, di una qualsiasi

contestazione al riguardo rendevano ovviamente superflua

una particolare motivazione in proposito. Nè ha rilievo il richiamo alla giurisprudenza di questa

Corte circa la inefficacia della facoltà di vendere conferita

all'onorato del solo usufrutto, giacché l'affermazione di tale

principio postula il già avvenuto accertamento della mens

testantis, attesa la indubbia limitatezza del diritto reale di

godimento. Piuttosto, ai fini della ricerca del reale intendi

mento del de cuius, lia qui importanza ricordare che, in_di fetto di altri elementi indicativi di una diversa volontà, l'attribuzione dell'usufrutto, in imo alla facoltà di alienare

i beni trasmessi, viene di regola interpretata, non ostante

la imprecisione tecnica della formula, come una sostanziale

istituzione di erede, con il conseguente trasferimento della

piena proprietà del patrimonio ereditario (sent. 20 novembre

1950, n. 2624, Foro it., 1951, I, 308; 18 maggio 1957, n. 1793, id., Rep. 1957, voce Successione, n. 196).

Da ultimo neppure sussiste la denunciata insufficienza

di motivazione sotto il riflesso di un omesso esame degli altri elementi sussidiari di valutazione, come, ad es., la

qualità di avvocato del De Simone, giacché è ben noto che la

scelta preliminare del materiale anzidetto, il giudizio circa

la sua rilevanza ermeneutica e il concreto apprezzamento di esso involgono un mero problema di tecnica interpreta tiva, rimesso alla discrezionalità del giudice di merito, onde

la relativa indagine non è sindacabile in sede di annulla

mento, se risulti, come nella specie, immune da errori di

diritto o da vizi logici. E ciò a prescindere dalla non deci

sività della circostanza predetta, in quanto oltre tutto il

testatore, avendo esercitato la professione legale vigendo il codice civile del 1865, ha potuto avere l'intenzione di porre in essere una istituzione successiva relativamente ai cespiti non disposti in vita dal primo chiamato, nella convinzione

che tale fedecommesso de residuo fosse valido secondo la

prevalente interpretazione della dottrina e della giuri

sprudenza del tempo. Con il primo e il terzo motivo, che vanno esaminati

congiuntamente in quanto investono, sotto diversi profili, e con vari argomenti, la medesima questione circa la pre tesa sanatoria della disposizione fedecommissaria, la ri

corrente denuncia la violazione delle norme in tema di ri

nuncia all'azione e dell'art. 590 cod. civ., nonché il vizio

di omessa e insufficiente motivazione, in riferimento al

l'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civile, e in particolare si duole

per avere la corte del merito : 1) trascurato di considerare, sul terreno meramente processuale, che il coniuge superstite aveva in effetti rinunciato alla azione di nullità del testa

mento, donde la impossibilità da parte dei suoi eredi di

riproporre la medesima impugnativa, non ricompresa nel

Vuniversum ius trasmesso dalla dante causa a seguito della

intervenuta volontaria dismissione del potere di agire ;

2) erroneamente ritenuto dal punto di vista sostanziale che

la sostituzione fedecommissaria, vietata nell'ordinamento

positivo vigente per motivi di ordine pubblico, non fosse

per le stesse ragioni suscettibile di convalida da parte del

l'erede, là dove la validità o meno della sanatoria andava

invece determinata con esclusivo riferimento all'atto di

conferma, prescindendo quindi dalla particolare natura della

nullità della disposizione testamentaria.

La complessa censura neppure si ravvisa fondata.

Per vero sul primo punto non si contesta che l'azione,

quale ius persequendi, costituisca una situazione soggettiva distinta dal diritto primario, tanto vero che non di rado

la legge limita la sfera dei soggetti passivi dell'azione ri

spetto alle persone obbligate sul terreno sostanziale che pos sono esservi pretese senza azione, come nel caso delle obbli

gazioni naturali. Da questo punto di vista il diritto alla tu

tela è di regola suscettibile di disposizione inter partes e, nella ipotesi di rinuncia abdicativa, ben potrà verificarsi

la estinzione della azione e la sopravvivenza invece del di

ritto sostanziale, sia pure privato del necessario strumento

di protezione. Senonchè la riconosciuta autonomia non

può prescindere dal dato obiettivo che l'azione compete a

chi sia stato leso nel proprio diritto sostanziale, talché in

definitiva lo ius agendi si presenta pur sempre come un diritto

derivato e secondario da un diritto soggettivo primario sottostante. E, come è stato autorevolmente rilevato, il

nesso tra diritto primario e azione è non soltanto genetico in relazione all'avvenuta lesione, ma anche teleologico, avuto

riguardo allo scopo finale di tutela, e quindi permane e ma

nifesta i suoi effetti nelle varie possibili vicende dell'azione

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1023 PARTE PRIMA 1024

influenzandone ovviamente la libera negoziabilità. Ora è

noto che proprio sul terreno della sanatoria per conferma

si è prospettata nella sua pratica rilevanza la possibilità di una valida rinuncia, circoscritta al mezzo processuale di

retto a far valere le invalidità della disposizione testamen

taria, in riferimento a quell'antica e ormai superata teorica, secondo cui la convalida avrebbe il limitato effetto di pro durre una situazione di fatto a favore del beneficiario, come

conseguenza della denegazione dell'azione di nullità al con

fermante. Tale opinione, che eliminava in radice le gravi dif

ficoltà di inquadramento dommatico dei tanto discussi

art. 590 e 799 cod. civ., è stata peraltro ripudiata dalla con

corde dottrina proprio sul rilievo della decisiva influenza

del diritto primario rispetto a quello strumentale di tutela.

Al riguardo si è infatti osservato che la mera rinuncia allo

ius agendi è in realtà destinata a rimanere praticamente ino

perativa, posto che la nullità, pur dopo la preclusione del

l'azione diretta ad accertarla, permane con tutte le sue ca

ratteristiche, compresa la rilevabilità di ufficio. E ciò a

prescindere dall'ulteriore ovvia considerazione che l'azione

di nullità è una azione di accertamento, sicché la sua dene

gazione non può oltre tutto modificare la situazione pree sistente di assoluta carenza di effetti, a differenza dalla

azione di annullamento, la cui perdita vale invece a rendere

definitiva l'efficacia provvisoria del negozio annullabile.

Orbene alla stregua delle considerazioni anzidette riesce

agevole intendere che la questione relativa alla pretesa ri

nuncia volontaria alla azione, peraltro neppure specifica mente prospettata nelle pregresse fasi del giudizio, non è

suscettibile di influenzare la sostanza della decisione, donde

l'irrilevanza del denunciato vizio di omessa motivazione.

Infine, per quanto riguarda l'ulteriore doglianza di cui

sopra si è fatto cenno al n. 2, esattamente la corte del me

rito ha escluso che l'avvenuta rinuncia al diritto di impu

gnativa integri sul piano sostanziale gli estremi di una va

lida sanatoria della disposizione fedecommissaria, ai sensi

dell'art. 590.

La soluzione del delicato problema dei limiti di applica bilità dell'art. 590 non sembra possa prescindere dalla pre ventiva considerazione delle concrete modalità di attuazione

dell'istituto della convalida, i cui effetti è controverso se

debbano ricollegarsi all'atto originario ovvero al negozio di conferma, sia pure quale fattispecie complessa compren siva dell'elemento qualificante, costituito dalla disposizione invalida. Con riferimento all'atto confermato si è sostenuto

infatti, in via generale, la inammissibilità della ratifica

nell'ipotesi di nullità derivanti da violazioni di norme impe rative di ordine pubblico, giacché in tal caso il fine pratico

perseguito dal testatore non potrebbe trovare concreta at

tuazione, in quanto vietato dalla legge come illecito. Tale

rigorosa interpretazione, già accolta da questa Suprema corte con la sentenza 10 luglio 1957, n. 2743 (Foro it., 1958, I, 62) è stata temperata dalla successiva pronuncia 19 ot

tobre 1957, n. 3985 (id., Eep. 1957, voce Testamento, n. 15), nel senso che, non sempre e in ogni caso, la illiceità della

disposizione testamentaria investe anche il negozio di con

valida, occorrendo invece che i motivi di ordine publico rendano invalida tanto la volontà del de cuius, quanto quella dell'erede, in guisa da inficiare in concreto la efficacia del

negozio confermativo.

Orbene, in adeienza a tale ultimo indirizzo, al quale esplicitamente si richiama la ricorrente, è fuori dubbio la

inammissibilità della sanatoria di una disposizione fedecom

missaria, sia pure de residuo, giacché la imposta sostitu

zione si risolve oltre tutto in un vincolo alla libertà di testare del primo istituito. Ed è ben noto che il diritto di disporre dei propri beni per testamento è inalienabile e irrinuncia

bile, ai sensi del tassativo disposto dell'art. 458 cod. civ., sicché la conferma del fedecommesso de residuo sia da parte del primo chiamato siti dei suoi successori non può ritenersi

giuridicamente vincolativa, ostandovi il generale divieto dei patti successori istitutivi e dispositivi.

Rettificate nei sensi sopra esposti le argomentazioni svolte in sentenza, a norma dell'art. 384, 2° comma, cod. proc. civ., la pronuncia anche su tale punto della controversia non

merita censura.

Il rigetto del ricorso principale importa l'assorbimento

di quello incidentale condizionato e la condanna della Sirao

alla perdita del deposito e alla rivalsa delle spese del presente

giudizio. Per questi motivi, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione I civile; sentenza 20 gennaio 1964, n. 114; Pres. Stella Richter P., Est. Di Majo, P. M. Pisano (conci, conf.) ; Fratini (Avv. Romagnoli, Borella) c. Comune di Montevarchi.

(Conferma App. Firenze 10 luglio 1961)

Cimitero — Codice civile abrogalo — Istallazione

lampade votive — Concessione amministrativa del comune (Cod. civ. del 1865, art. 432 ; cod. civ., art. 824 ; r. d. 3 marzo 1934 n. 383, t. u. legge com.

prov., art. 91).

Poiché i cimiteri anche sotto il governo ìlei codice civile abro

gato facevano parte del demanio comunale, potevano i comuni affidare in concessione ai privati l'istallazione di lampade votive e l'impianto di linea elettrica per l'ali mentazione delle medesime nei privati sepolcri. (1)

La Corte, ecc. — Con l'unico mezzo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 1 e 4 della legge 7 giugno 1894 n. 232, degli art. 5, 6, 7, 8 del relativo regola mento 25 ottobre 1895 (art. 120 e 125 r. decreto 11 dicembre 1933 n. 1775), dell'art. 432 cod. civ. 1865 e degli art. 824, 1325, 1418, 1419, 1427, 1428, 1442 cod. civ. nonché del re

golamento di polizia mortuaria approvato con r. decreto 25 luglio 1892 n. 448 (r. decreto 21 dicembre 1942 n. 1880) in relazione all'art. 360, nn. 3, e 5, cod. proc. civile. Assume sostanzialmente il ricorrente che anche a voler ammettere la natura demaniale dei cimiteri comunali alla stregua del vecchio codice civile, sotto il cui impero sorse il rapporto controverso (1930), l'installazione di lampade votive nei

sepolcri e l'adduzione di energia elettrica non potevano es

(1) Sul carattere demaniale dei cimiteri, v., da ultimo, per una riaffermazione incidentale del principio, Cass. 28 dicembre 1961, n. 2835, Foro it., Rep. 1962, voce Cimitero, n. 2 ; per ampi richiami, cons, la nota alla sentenza Cass. 4 marzo 1957, n. 762, id., 1958, X, 942.

Per quanto concerne il merito della questione oggetto della sentenza in rassegna, un accenno parimenti incidentale può reperirsi nella sentenza della Corte di cassazione 7 gennaio 1942, Pomari e Nalin, id., 1942, II, 154, ove — riconosciutosi che il diritto di sepoltura oggetto della concessione non si può separare dalla facoltà di testimoniare, con i segni tangibili d'uso, i senti menti di culto e di pietà religiosa verso i defunti — si è affermato che costituisce menomazione di tale diritto il divieto di accen dere lumi o lampade votive se non con l'impiego dell'illumina zione elettrica a prezzo di abbonamento presso una determinata società, a meno che tale obbligo avesse formato oggetto di appo sita clausola nell'atto di concessione. Un esplicito accenno ad un rapporto di concessione avente ad oggetto il servizio di illu minazione delle tombe di un cimitero, si trova in Cass. 24 set tembre 1951, n. 2568, id., Rep. 1951, voce Municipalizzazione dei pubblici servizi, n. 7, che ha fermato la massima secondo cui, qualora il comune abbia municipalizzato il servizio di illu minazione delle tombe di un cimitero mediante concessione ad un privato, nessun estraneo alla concessione può, da qualunque titolo intenda derivare la sua pretesa, gestire il servizio in luogo e in vece del concessionario, nè gestirlo autonomamente in re gime di libera concorrenza servendosi di quegli stessi beni che il comune secondo le clausole della concessione ha il diritto di acquistare al momento della scadenza della concessione o della revoca di essa per inadempimento.

In dottrina, sui cimiteri in generale, vedasi Rosa, Cimitero, voce dell' Enciclopedia del diritto, VI, pag. 990, nonché Caccia paolia, Le concessioni amministrative comunali, 1952, pagg. 78 93 (ove, peraltro, mancano accenni alla questione di specie di cui alla massima sopra riportata).

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