Sezione II civile; sentenza 21 marzo 1963, n. 685; Pres. Marletta P., Est. Modigliani, P. M.Cutrupia (concl. conf.); Sardellini (Avv. Ciotti) c. Mandolesi e Verdicchio (Avv. Simoncelli)Source: Il Foro Italiano, Vol. 86, No. 9 (1963), pp. 1985/1986-1989/1990Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23152876 .
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1985 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 1986
mensilità di stipendio per ogni anno di servizio prestato dopo aver maturato il massimo del preavviso, con il limite 11011 superabile in ogni caso di una annualità di stipendio (art. 4), e dall'altro l'accordo 4 maggio 1919 intervenuto tra
gli industriali metalmeccanici della Provincia di Milano e il personale dipendente.
Secondo l'art. 9 del citato accordo, a partire dalla data
anzidetta, l'indennità di licenziamento di cui all'art. 4 del decreto n. 112 del 1919 andava liquidata, anziché nella misura e con le decorrenze ivi determinate, « in ragione di
una mensilità di stipendio per ogni anno a decorrei ì dal
sesto anno di servizio continuativo prestato presso la ditta, ferma restando ogni altra disposizione dell'articolo citato ». Il decreto n. 112 del 1919 veniva infine abrogato dallo art. 20 r. decreto legge 13 novembre 1924 n. 1825, il quale all'art. 10 riconosceva a tutti gli impiegati un'indennità di
licenziamento non inferiore alla metà dell'importo di tante
mensilità di stipendio per ogni anno di servizio prestato, malgrado ogni patto in contrario, salvo il caso di particolari convenzioni o usi più favorevoli per il prestatore d'opera (art. 17). Di qui la necessità di accertare, ai fini della deter
minazione del sistema di calcolo della indennità di anzianità, se la disciplina predisposta dall'accordo 4 maggio 1919 fosse
più vantaggiosa per il dipendente, e quindi dovesse rite
nersi applicabile al rapporto de quo in luogo di quella pre vista dal decreto n. 1825 del 1924.
La Corte del merito ha dato soluzione positiva al que sito, fondando il proprio convincimento sul semplice ri
lievo che nell'accordo del 1919 era previsto un maggior numero di mensilità di preavviso, nonché un più elevato
coefficiente della retribuzione ultima, da computare ai fini
della determinazione dell'indennità di anzianità. Ora è
evidente la insufficienza e incompletezza dell'accolta inter
pretazione, ove si consideri che i Giudici di appello non hanno
tenuto conto dell'intera portata precettiva dell'art. 9 del
citato accordo del 1919, e quindi hanno omesso di esaminare
il trattamento complessivo desumibile da ciascuna nelle
due discipline anzidette, siccome invece necessario per una
razionale applicazione del principio della clausola più van
taggiosa, il quale impone appunto che sia riservato al lavo ratore il trattamento più favorevole nel suo complesso. Questa Suprema corte, in analoghe fattispecie, ha già avuto
occasione di rilevare che la indagine ermeneutica non po teva arrestarsi al semplice dato circa il numero della mensi
lità di preavviso e il coefficiente della retribuzione da cal
colare per la determinazione dell'indennità di anzianità, ma doveva altresì considerare che l'art. 9 dell'accordo 1919
faceva generico richiamo all'art. 4 del decreto n. 112 del
1919 e quindi anche al limite massimo di una annualità
di stipendio, e che l'art. 20 del decreto n. 1825 del 1924
aveva abrogato il decreto n. 112 del 1919, donde la neces
sità di risolvere l'ulteriore problema circa l'efficacia del
richiamo a disposizioni legislative vigenti al momento della
stipulazione dell'accordo 1919 e successivamente abrogate (sent. 28 giugno 1954, n. 2227, ined. ; 20 luglio 1960, n. 2021, Foro it., Rep. 1960, voce Lavoro (rapporto), nn. 631, 632). In definitiva, il quesito rivolto ad accertare se il trattamento assicurato all'impiegato con l'accordo del 1919 fosse più favorevole rispetto alla successiva normativa, che aveva
eliminato la restrizione del massimale di un anno, implicava necessariamente la soluzione del problema circa il carat
tere formale o recettizio del rinvio contenuto nell'art. 9
dell'accordo 1919 all'art. 4 del decreto n. 112 del 1919, nel
senso che, una volta abrogato tale complesso normativo
dalla legge sull'impiego privato del 1924, restava caducato
anche il rinvio fattone nel citato art. 9, o non piuttosto la
norma richiamata continuava a spiegare i suoi effetti per essere entrata a far parte dell'economia complessiva del
trattamento concesso con l'accordo del 1919. Ai fini di una
tale indagine occorreva quindi accertare la comune inten
zione delle parti contraenti, allorché da un lato avevano
modificato la « misura » dell'indennità e dall'altro ave
vano lasciato «ferma ogni disposizione dell'art. 4», ed in
particolare se con la espressione « misura » si era inteso aver
riguardo alla sola unità di misura (mensilità intera in luogo di mezza mensilità) o anche al limite massimo di ammontare
Il Foro Italiano — Volume LXXXV1 — Parti. I-127.
dell'indennit à di licenziamento. Ma, come già rilevato nelle
sentenze sopra citate, tale interpretazione esorbita dai
compiti istituzionali di questa Corte, giacché l'accordo 4
maggio 1919 è un contratto precorporativo, avente natura
privatistica. E neppure può disconoscersi che l'apprezza mento valutativo fatto al riguardo dal giudice del merito, ove sia, come nella specie, lacunoso, incompleto e insuffi
ciente, e quindi viziato da errori logici, ben può essere sin
dacato in sede di annullamento.
Con il terzo mezzo del ricorso si denuncia la violazione dell'art. 1 r. decreto legge 15 marzo 1923 n. 692, anche sotto
il riflesso della insufficiente e contraddittoria motivazione,
per avere i Giudici di appello ammesso la computabilità tra gli elementi costitutivi della retribuzione, ai fini della
determinazione dell'indennità di anzianità, del compenso
aggiuntivo per le ore prestate tra le 44 e le 48 settimanali. Al riguardo si deduce che l'affermazione contenuta in sen tenza circa il riconoscimento da parte della Società impren ditrice dell'effettiva prestazione di lavoro oltre le 44 ore
settimanali è In patente contrasto con quanto in prece denza affermato e con la documentazione acquisita al pro cesso, e in definitiva si fonda sull'erroneo presupposto che
il Ghioni avesse senz'altro diritto a pretendere la retribu
zione in ragione di 48 ore.
Ante tale censura si ravvisa fondata. Per vero la Corte del merito, dopo avere contradditto
riamente accennato ad un preteso riconoscimento da parte della Società imprenditrice, trascurando del tutto la esibita
documentazione, ha infine giustificato il suo convincimento
con il richiamo alla differenza di orario, stabilito in 42 ore
nell'accordo del 1919 e in 48 ore nel contratto individuale,
quasi a desumere l'obbligo convenzionale della Società im
prenditrice di retribuire senz'altro il personale dipendente in ragione di 48 ore settimanali.
Al contrario è ben noto che tale ultimo orario costituisce
il limite massimo cui può estendersi la prestazione normale
del prestatore d'opera, in guisa che ogni ulteriore attività
rientra nella nozione di lavoro straordinario, da compen sarsi con le prescritte maggiorazioni. E nella specie l'art. 8
del contratto collettivo 21 giugno 1956 testualmente di
spone che il compenso in aggiunta alla retribuzione normale
va corrisposto per ogni ora oltre le 44 e fino alle 48 setti
manali di lavoro effettivo, donde, in via normale, il carat
tere eccezionale e non continuativo dell'anzidetta eroga zione patrimoniale, e quindi la sua non computabilità ai
fini e per gli effetti dell'art. 2121 cod. civile. Sulla base di tali
principi di diritto, completamente disattesi in sentenza, i Giudici di appello avrebbero dovuto accertare se il lavoro
prestato oltre le 44 ore fosse stato in concreto espletato in
via continuativa e solamente in questo caso sarebbe stata
legittima la computabilità del relativo compenso aggiuntivo nella retribuzione globale. La contraddittorietà del generico accenno al preteso riconoscimento da parte della Società
Breda e la mancanza di una qualsiasi valutazione della
prova documentale rendono del tutto illogica la denunciata
motivazione e pongono in evidenza la mancanza di un ef
fettivo accertamento di fatto, di fronte al quale soltanto
resta precluso il sindacato della Corte regolatrice. (Omissis) Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione II civile ; sentenza 21 marzo 1963, n. 685 ; Pres.
Marletta P., Est. Modigliani, P. M. Cutrupia (conci,
conf.) ; Sardellini (Avv. Ciotti) c. Mandolesi e Verdicchio
(Avv. Simon celli) .
(Oassa senza rinvio App. Ancona 21 febbraio 1959)
Cassazione in materia civile — Vizio di ultrapetizione ascritto al giudice di primo grado e non dedotto
coi motivi di appello —■ Deduzione col ricorso per cassazione — Inammissibilità.
Proprietà — Occupazione di porzione del tondo at
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1987 PARTE PRIMA 1988
tiguo — Attribuzione della proprietà al costrut
tore — Necessità di apposita istanza — Conse
guenze — Fattispecie (Cod. civ., art. 938). Esecuzione (orzata di obblighi di lare o di non fare —
Sentenza di condanna alla demolizione di opere —
Autorizzazione all'attore di compiere i lavori a
spese del convenuto, ove questi non esegua l'or dine di demolizione — Illegittimità — Cassazione
senza rinvio (Cod. civ., art. 2931, 2933 ; cod. proc. civ., art. 612).
Se il giudice di primo grado è incorso nel vizio di ultrapeti zione, e nel giudizio di appello tale vizio non ha formato
oggetto di gravame, essendosi impugnata la sentenza sol
tanto per il merito, è inammissibile la deduzione del detto
vizio col ricorso per cassazione, ancorché riferita alla sen
tenza di appello confermativa della sentenza di primo
grado. (1) In mancanza di un'apposita istanza di chi ha in parte edi
ficato sul fondo del vicino, il giudice, al quale il proprie tario del fondo ha chiesto di ordinare la demolizione del
l'opera, non può fare uso del potere discrezionale, a lui
conferito dall'art. 938 cod. civ., di attribuire al costruttore
la proprietà dell'edificio e del suolo occupato ; pertanto, se il costruttore convenuto non proponga quell'istanza, ma
svolga altra difesa contro la domanda del proprietario (nella specie, deducendo che la costruzione era stata fatta a sua scienza e senza opposizione, e che quindi non poteva esserne chiesta la rimozione a norma dell'art. 936 cod.
civ.), la sentenza di merito, che, ritenendo infondate tali
difese, condanni il convenuto alla demolizione, non può essere censurata per non avere fatto applicazione dell'art.
938. (2)
(1) In senso conforme, per il caso tanto di ultra quanto di
extrapetizione, ascritta al giudice di primo grado e non dedotta come motivo di appello, Cass. 7 giugno e 28 ottobre I960, nn. 1 790 e 2934, Foro it., Rep. 1960, voce Cassazione civ., nn. 23, 42 ; 16 aprile e 14 luglio 1958, nn. 1255 e 2555, id., Rep. 1958, voce
cit., nn. 100, 101 ; 27 maggio 1955, n. 1620, id., Rep. 1955, voce
cit., n. 85 ; 10 luglio 1954, n. 2442, id., Rep. 1954, voce cit., n. 108
(tutte richiamate dalla sentenza in epigrafe, ad eccezione della n. 2934 del I960). La stessa massima è stata affermata da Cass. 22 marzo 1961, n. 647, id., Rep. 1961, voce cit., n. 51, per la nullità della sentenza di primo grado, non dedotta con l'atto di
appello ; e da Cass. 30 gennaio 1958, n. 259, id., Rep. 1958, voce cit., n. 50, per Verror in procedendo commesso dal giudice di primo grado nel fare inesattamente ricorso al procedimento speciale di rendimento dei conti (art. 263 segg. cod. proc. civ.).
Per gli errores in indicando, vale la massima (talvolta erro neamente motivata col dire che si tratterebbe di questione nuova) della non deducibilità in Cassazione delle questioni riflettenti un punto controverso, che, deciso in primo grado, non abbia formato oggetto di impugnazione in appello : Cass. 7 maggio e 6 febbraio 1963, nn. 1110 e 192, id., Mass., 324 e 56 ; 28 marzo 1962, n. 630, id., Rep. 1962, voce cit., n. 218 ; 3 novembre e 18 febbraio 1960, nn. 2966 e 270, id., Rep. 1960, voce cit., nn. 41, 43 ; 7 marzo 1959, n. 671, id., Rep. 1959, voce cit., n. 33 ; 25 ottobre 1957, n. 4133, id., Rep. 1957, voce cit., n. 38 ; 7 e 21 luglio 1956, nn. 2507 e 2835, id., Rep. 1956, voce cit., nn. 38, 39 (l'ultima sentenza argomenta esplicitamente dall'art. 346).
(2) Conf. alla massima ufficiale, e richiamata nella motiva zione, Cass. 17 novembre 1960, n. 3081, Foro it., Rep. 1960, voce
Proprietà, n. 54, ove è detto che l'art. 938 cod. civ. non riconosce senz'altro al costruttore il diritto di acquisire la porzione di suolo contiguo occupata in buona fede, ma dà solo al giudice, su domanda della parte, il potere di attribuirla secondo le cir costanze ; analogamente Cass. 7 aprile 1950, n. 948, id., Rep. 1950, voce cit., nn. 22, 23.' Sul punto che l'accessione invertita ex art. 948 non avviene de iure, ma su pronuncia del giudice, v. pure Trib. Genova 28 aprile 1954, id., Rep. 1954, voce cit., n. 49. App. Firenze 14 gennaio 1954, ibid., n. 48, parla di un po tere discrezionale del giudice, al cui prudente arbitrio è affidato un regolamento degli opposti interessi ; a questo prudente arbi trio fa riferimento anche Cass. 5 gennaio 1950, n. 53, id., Rep. 1950, voce cit., n. 30.
Sul significato specifico della buona fede nell'art. 938, sulla sua non assimilabilità alla buona fede del possessore e sulla necessità della dimostrazione positiva, v. da ultimo Cass. 12
gennaio e 9 luglio 1962, nn. 33 e 1793, id., Rep. 1962, voce cit.,
È illegittima, e va per tale parte cassata senza rinvio, la sen
tenza di condanna, che, nélVordina/re la demolizione di
opere abusivamente costruite, autorizzi l'attore a com
piere direttamente i lavori all'uopo necessari a spese del
convenuto, per il caso che questi non adempia l'ordine di
demolizione. (3)
La Corte, ecc. — Col primo mezzo di annullamento il
ricorrente, nel denunziare la violazione degli art. 99 e 112
cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, nn. 3, 4 e 5, dello
stesso codice, lamenta che la sentenza denunziata sia in
corsa in un vizio di ultrapetizione, per aver ordinato la demo
lizione, non richiesta dagli attori, della strada costruita in
rilevato sull'area di proprietà dei medesimi.
Tale doglianza è inammissibile.
Infatti, in proposito, questo Supremo collegio, richia
mandosi alla sua costante giurisprudenza (cfr. sentenze n. 1790 del 1960, Foro it., Rep. 1960, voce Cassazione civ., n. 23 ; nn. 2555 e 1255 del 1958, id., Rep. 1958, voce cit., nn. 100, 101 ; n. 1620 del 1955, id., Rep. 1955, voce cit., n.
85 e n. 2442 del 1954, id., Rep. 1954, voce cit., n. 108), torna
ad affermare che il vizio di ultrapetizione non è deducibile in Cassazione quando sia stato attribuito al giudice di
primo grado e non sia stato ritualmente dedotto in appello come motivo di impugnazione.
Orbene, nel caso, la statuizione che il ricorrente assume
essere viziata da ultrapetizione è, per l'appunto, contenuta
nella sentenza di primo grado. Tale sentenza era stata bensì
impugnata dal Sardellini, ma negli specifici motivi di gra vame da lui formulati nessun riferimento, neppure indiretto, era stato fatto alla violazione da parte del Tribunale del
principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronun ciato ; in conseguenza la doglianza di ultrapetizione non
è deducibile in questa sede.
Col secondo mezzo di annullamento il ricorrente, nel denunziare la violazione degli art. 938 e 1147 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., lamenta che la Corte di appello non abbia
applicato il principio della accessione invertita, di cui al
citato art. 938, nei riguardi della striscia di terreno dei Ver dicchio da, lui occupata, con la costruzione in controversia. Al riguardo deduce in particolare che, contrariamente a
quanto è stato ritenuto dalla Corte di merito, la occupa zione del detto suolo era stata da lui effettuata in buona
fede.
Anche questa doglianza deve essere disattesa. È noto che, ai sensi dell'art. 938 cod. civ., la buona fede
consiste nell'ignoranza di edificare in parte sul suolo del
vicino e nella erronea convinzione di edificare sul suolo
proprio. Nel caso concreto, la Corte di appello escluse la ricorrenza
nn. 38-41 ; 24 maggio e 9 dicembre 1901, nn. 1236 e 2790, id., Rep. 1901, voce cit., nn. 47-49 ; 29 marzo e 24 maggio 1960, nn. 079 e 1340, id., Rep. 1900, voce cit., nn. 51, 53 ; 7 marzo 1959, n. 659, id., Rep. 1959, voce cit., nn. 23-20 ; 27 gennaio 1958, n. 190, id., Rep. 1958, voce cit., n. 38.
Nel senso che l'art. 648 non consente al proprietario di chiedere al giudice che dichiari tenuto il costruttore all'acquisto del suolo occupato, Cass. 5 agosto 1960, n. 2318, id., 1901, I, 75, con nota di richiami.
Sul punto (toccato dalla sentenza in epigrafe nella motiva zione) dell'inapplicabilità dell'art. 930 cod. civ. al caso in cui un terzo abbia compiuto sul fondo un'opera che non sorga intera mente su di esso, Cass. 7 luglio 1902, n. 1764, id., 1962, I, 1000, con nota di richiami.
(3) Conf. Cass. 7 aprile 1961, n. 736, Foro it., Rep. 1901, voce Esecuzione forzata di obblighi di fare o di non fare, n. 7, richiamata dalla sentenza in epigrafe ; 27 luglio 1955, n. 2404, id., 1956, I, 558, con nota di richiami.
In argomento vedi altresì, anche per la differenza al riguardo tra il sistema dell'abrogato codice civile (art. 1220) e quello dei nuovi codici, civile e di procedura, Cass. 24 maggio 1962, n. 1204, id., Rep. 1902, voce cit., n. 2 ; App. Palermo 4 luglio 1900, id., Rep. 1900, voce cit., nn. 1,2; Trib. Orvieto 22 marzo 1950, id., Rep. 1956, voce cit., n. 7.
Per la dottrina v., da ultimo, Denti, Sentenza di condanna ed esecuzione forzata di obblighi di non fare, in Temi, 1950, 544.
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1989 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
dell'estremo della buona fede, considerando che il Sardellini, stante l'assoluta inidoneità della scrittura privata del 22
aprile 1955 a trasferire il dominio, non poteva ritenere di
essere proprietario del suolo. Orbene, tenuto conto dei rilievi
su esposti, appare evidente che la nozione della buona fede
del costruttore, di cui ha fatto applicazione la Corte d'ap
pello nel pervenire alla decisione adottata, è immune
da errori giuridici. Quanto, poi, all'affermazione della stessa
Corte che il Sardellini, avuto riguardo alle circostanze del
caso concreto, non poteva ritenere di esser divenuto pro
prietario del suolo, è chiaro che essa consiste in un apprez zamento di fatto, incensurabile in questa sede.
Per completezza di motivazione non è fuor di luogo
aggiungere che, comunque, l'applicabilità, al caso, del prin
cipio della cosiddetta accessione invertita era da escludere
anche sotto altro aspetto.
Infatti, come questa Suprema corte ha già avuto occa
sione di precisare (cfr. sentenza n. 3081 del 1960, Foro it.,
Rep. 1960, voce Proprietà, n. 54), l'art. 938 cod. civ., il quale
prevede, in caso di costruzione di edificio, l'occupazione di porzione di fondo attiguo, non riconosce senz'altro a]
costruttore il diritto di acquisire detta porzione, ma dà solo
potere al giudice, su domanda della parte, di attribuirla
secondo le circostanze, sul presupposto dell'esistenza della
buona fede e della non opposizione in termine del proprie tario del fondo attiguo. Ora, nel caso, nel giudizio di merito, dal Sardellini non era stata formulata alcuna domanda
intesa a ottenere che, in applicazione del principio della
cosiddetta accessione invertita, gli fosse attribuito il suolo
occupato, essendosi egli limitato, in proposito, a sostenere
che, in base alla disposizione dell'art. 936 cod. civ., non
poteva essere obbligato a togliere le costruzioni. Per altro
l'applicabilità della disposizione, di cui al 4° comma del
citato art. 936, è stata esclusa dalla Corte di appello, oltre
che per la mancanza dell'estremo della buona fede, perchè la costruzione poggiava, non già tutta sul suolo dei Man
dolesi Verdicchio, ma in parte sul suolo del Sardellini. Con
tale decisione, l'oggetto del dibattito su questo punto della
controversia è stato esaurito. Nè la Corte di merito avrebbe
potuto applicare, anziché la norma dell'art. 936, il princi
pio dell'accessione invertita, giacché tale applicazione pre
supponeva, come si è visto, la formulazione di una appo sita istanza, intesa a ottenere l'attribuzione del suolo.
Consegue da quanto si è esposto che anche il secondo
mezzo di annullamento deve essere rigettato. Col terzo mezzo il ricorrente, nel denunziare la viola
zione degli art. 2931 e 2933 cod. civ., nonché dell'art. 612
cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., lamenta che la Corte di appello, confermando la sentenza
di primo grado, abbia autorizzato gli attori a provvedere direttamente alla demolizione delle opere in contestazione,
per l'ipotesi di mancato adempimento da parte di esso Sar
dellini dell'obbligo di provvedere all'esecuzione dell'ordine
di demolizione.
La doglianza è fondata.
Infatti l'esecuzione degli obblighi di fare, in difetto di
spontaneo ed esatto adempimento da parte dell'obbligato, deve essere attuata, a norma dell'art. 2931 cod. civ., nelle
forme prescritte dal codice di procedura, e cioè secondo
gli art. 612 e 613 del detto codice, che demandano esclu
sivamente al pretore, quale giudice dell'esecuzione, sia la
concreta determinazione delle dette modalità, sia la pro nuncia sulle contestazioni che eventualmente sorgano al
riguardo. Pertanto è illegittima, e va quindi annullata senza
rinvio, la statuizione della sentenza che, nell'ordinare la
demolizione di alcune opere abusivamente costruite, auto
rizzi l'attore a compiere direttamente i lavori all'uopo ne
cessari, nel caso in cui il convenuto non abbia provveduto a eseguire l'ordine di demolizione (cfr. in tal senso, la sen
tenza di questa Suprema corte n. 736 del 1961, Foro it.,
Rep. 1961, voce Esecuzione forzata di obblighi di fare o di
non fare, n. 7). Obiettano i resistenti che, nel caso in esame, la questione
è preclusa, trattandosi di statuizione emessa con la sentenza
di primo grado e non impugnata con l'atto di appello. Per
altro a tale tesi non può farsi adesione. Infatti, a parte che
trattasi di questione rilevabile di ufficio, giacche, in tema
di esecuzione forzata di obblighi di fare, nella ipotesi di ina
dempimento dell'obbligo dovuto, non può ritenersi, in ogni caso, consentito che l'azione esecutiva sia attuata in forme
diverse da quelle stabilite dal codice di procedura civile
(art. 612 e 613), nessun giudicato ha potuto formarsi sul
capo della sentenza, con cui sono stati autorizzati i Mando
lesi Verdicchio a procedere direttamente alla demolizione
delle opere in contestazione, essendo tale parte della sen
tenza necessariamente collegata e subordinata al capo, che
era stato oggetto di impugnazione, col quale ' era stata or
dinata la demolizione delle predette opere. Da quanto si è esposto discende che il primo e il secondo
mezzo di annullamento devono essere rigettati e che il terzo
mezzo va, invece, accolto.
In relazione al mezzo accolto, la denunziata sentenza
deve essere cassata senza rinvio, per quanto attiene alla
conferma della sentenza di primo grado, nella parte in cui
questa ha autorizzato gli attori a provvedere dirette mente, a spese del Sardellini, alle demolizioni ordinategli, in caso
di mancato adempimento di tale obbligo da parte di que st'ultimo.
Sembra giusto di mantenere fermo il regolamento delle
spese dei precedenti gradi, effettuati dai Giudici del merito.
Per quanto riguarda le spese di questo grado del giu dizio, si ravvisa la concorrenza di giusti motivi per com
pensarle interamente tra le parti. Il deposito deve essere restituito.
Per questi motivi, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 16 febbraio 1963, n. 342 ; Pres.
Varallo P., Est. Di Majo, P. M. Maccaeone (conci,
conf.) ; Finanze (Avv. dello Stato Corkeale) e. Soc.
Ferrobeton (Avv. Cogliati Dezza, Nicolò).
(0onferma App. Roma 5 aprile 1960)
Registro — Conferimenti in società — Appalto con
giuntamente commesso a più soeietà di capitali —
Intassabilità — Limiti (R. d. 30 dicembre 1923 n.
3269, legge del registro, ali. A, art. 81).
L'imposta di registro prevista dall'art. 81 della tariffa alle
gato A della legge per i conferimenti di beni o valori in
società non si applica all'ipotesi in cui un appalto sia
stato congiuntamente commesso a due o più società di ca
pitali. (1)
(1) La giurisprudenza è pressocchè concorde nel ritenere che oggetto della tassazione, di cui all'art. 81 ali. A legge isti tutiva del registro, sia il valore venale dell'apporto conferito alla società o associazione da parte di uno dei contraenti.
Si veda C. centrale 11 maggio 1960, n. 28317, Foro it., Rep. 1961, voce Registro, nn. 177, 178 ; 2 luglio 1958, n. 7144, id., Rep. 1959, voce cit., n. 305, e in Dir. e pratica trib., 1959, II, 33 (con nota di G. Guidi), in cui la fattispecie è costituita dall'associazione di alcune persone ad una ditta per l'esecuzione di appalti assunti dalla ditta medesima, con partecipazione agli utili e alle perdite di tutti i lavori appaltati. La Commissione, ravvisato nella fat
tispecie un contratto di associazione in partecipazione, ha af fermato che l'ammontare complessivo dei lavori appaltati, co stituenti l'oggetto del negozio, va assoggettata all'imposta di cui all'art. 81 della tariffa all. A ; C. centrale 14 febbraio 1961, n. 37675, Foro it., Rep. 1961, voce cit., nn. 121, 122.
Per Trib. Genova 28 giugno 1954, id., Rep. 1955, voce cit., n. 311, in un caso di più appaltatori che costituiscono una società a r. 1. per l'esecuzione dei lavori precedentemente e singolarmente presi in appalto da ciascuno di essi, l'imposta va liquidata sul
l'ammontare del capitale sociale sottoscritto e non sul valore
complessivo dei contratti di appalto. La C. centrale 19 luglio 1957, n. 96435, id., Rep. 1958, voce
cit., nn. 253, 254, ritiene soggetta a tassazione, oltre gli eventuali conferimenti di beni, anche l'entità economica che costituisce il vero oggetto del negozio, rappresentata dalla particolare attività
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