sezione II civile; sentenza 9 novembre 1999, n. 12443; Pres. Volpe, Est. Elefante, P.M. Nardi(concl. conf.); Quicquaro e altro (Avv. Berardi) c. Cofelice e altro (Avv. Rizzi). Cassa App.Campobasso 19 ottobre 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 123, No. 10 (OTTOBRE 2000), pp. 2915/2916-2919/2920Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23195546 .
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2915 PARTE PRIMA 2916
obbligazioni che dal contratto stesso scaturiscono, e si è notato
in dottrina che ciò rende il detto scioglimento più affine al re
cesso che alla risoluzione. In questo quadro si è sostenuto che
gli effetti si producono ex nunc (sulla decorrenza dell'efficacia,
v. Cass. 17 marzo 1999, n. 2382, ibid., voce Contratto in gene
re, n. 487). Peraltro questa corte, a sezioni unite, con sentenza 14 aprile
1999, n. 239/SU (ibid., voce Fallimento, n. 640), ha affermato
che, in relazione alla previsione dell'art. 2932 c.c., secondo cui
l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un con
tratto è ammessa soltanto «qualora sia possibile», si deve rite
nere che il fallimento del promissario venditore, facendo venir
meno nel fallito il potere di disposizione e di amministrazione
del patrimonio e bloccando la situazione patrimoniale qual era
alla data in cui fu pronunciato il fallimento, impedisca che pos
sa avere corso l'esecuzione specifica della detta promessa, poi
ché essa determinerebbe un mutamento della situazione patri
moniale ed in particolare un effetto traslativo, nonostante lo
spossessamento prodotto dalla sentenza dichiarativa di fallimento,
restando ininfluente la circostanza che, prima del fallimento,
sia stata trascritta la domanda ex art. 2932 c.c., in quanto essa
non può impedire l'apprensione del bene promesso in vendita
da parte della curatela fallimentare, giacché gli effetti di tale
trascrizione possono spiegarsi soltanto condizionatamente alla
trascrizione della sentenza di accoglimento della domanda, che
in questo caso non può essere pronunciata. L'impedimento alla
pronuncia della sentenza ex art. 2932 c.c. non esclude che il
contratto resti inalterato, con la conseguenza che, se il fallito
promittente venditore ritorna in bonis, e il bene si trovi nella
sua disponibilità, esso contratto può essere fatto valere. Vice
versa qualora, dichiarato il fallimento, si verifichi la scelta del
curatore fallimentare ex art. 72, 4° comma, 1. fall, a favore
dello scioglimento del contratto, si deve reputare che la relativa
dichiarazione abbia valore sostanziale, assoluto e definitivo, ope
rando con effetto retroattivo (con efficacia non solamente en
dofallimentare, ma con effetti anche qualora il fallito sia ritor
nato in bonis) e facendo venir meno fin dall'origine la promes
sa di vendita, in quanto non è dato ravvisare alcun argomento
logico o testuale che consenta di ammettere che lo scioglimento
non incida sulla volontà inizialmente manifestata.
La citata sentenza sottolinea in motivazione che il fallimento
impedisce l'emanazione della pronunzia ex art. 2932 c.c., ma
lascia inalterato il contratto, con la conseguenza che lo stesso
può essere fatto valere una volta che il promittente venditore
sia ternato in bonis e sempre che il bene sia nella sua disponibi
lità. La dichiarazione di scioglimento del curatore, che consente
allo stesso di disporre del bene acquisito alla massa, agisce sulla
manifestazione di volontà che ha dato origine al contratto, ca
ducandola fin dall'origine. I suddetti principi, come notato, sono stati affermati con ri
guardo ad una fattispecie in cui il fallimento aveva colpito il
promittente venditore. Ma, in ordine al contenuto ed all'effica
cia della dichiarazione di scioglimento da parte del curatore,
non si ravvisano elementi differenziali idonei ad impedire l'ap
plicazione dei medesimi principi anche in caso di fallimento del
promissario compratore. Certamente tali elementi non possono essere rinvenuti nelle (parzialmente) diverse modalità operative dello scioglimento nelle due fattispecie, appunto perché si tratta
di profili non attinenti al contenuto sostanziale di esso, in en
trambi i casi destinato a caducare la manifestazione di volontà
che ha dato origine al preliminare. Ciò posto, e condividendo l'orientamento così espresso, il col
legio osserva che lo scioglimento posto in essere dal curatore
non costituisce la fonte (o la causa) delle obbligazioni restituto
rie per la caparra o per altre attribuzioni patrimoniali eseguite dal fallito prima del fallimento.
II fatto genetico, o fonte, di quelle obbligazioni resta sempre il contratto, anteriore al fallimento, in esecuzione del quale le
attribuzioni patrimoniali erano state effettuate. Lo scioglimento ex art. 72 1. fall, rimuove il contratto medesimo, non soltanto
ai fini fallimentari, ma anche con effetto sostanziale definitivo.
In tal modo rende le prestazioni patrimoniali già eseguite prive di titolo, onde esse vanno restituite, ma non può incidere sul
fatto che quelle prestazioni avevano avuto luogo prima del fal
limento nel quadro di un rapporto negoziale all'epoca valido
ed efficace, nel quale resta fissata la loro radice causale.
In altri termini lo scioglimento, determinando la caducazione
Il Foro Italiano — 2000.
delle obbligazioni nascenti dal contratto e, quindi, facendo ve
nir meno la causa di esse, qualifica come indebite quelle attri
buzioni ma non ne modifica il fatto genetico, che resta il con
tratto nell'ambito del quale esse, prima del fallimento, furono
eseguite. Deve quindi concludersi che il credito restitutorio per le attri
buzioni patrimoniali effettuate dal fallito prima della dichiara
zione di fallimento, in forza di un contratto preliminare prece
dentemente stipulato, non nasce dal fallimento e, più precisa
mente, dalla dichiarazione del curatore di sciogliersi dal
preliminare, ma continua a trovare il suo fatto genetico in detto
preliminare (caducato a seguito di quella dichiarazione), con la
conseguenza che la sua anteriorità al fallimento lo rende com
pensabile con il controcredito dell'altro contraente in bonis, a
sua volta sorto prima della dichiarazione di fallimento.
Pertanto il secondo motivo del ricorso deve essere respinto,
provvedendosi a correggere la motivazione della sentenza impu
gnata nei sensi indicati, a norma dell'art. 384, 2° comma, c.p.c.
(e restando superato, nei termini suddetti, il prospettato contra
sto). (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 9 no
vembre 1999, n. 12443; Pres. Volpe, Est. Elefante, P.M.
Nardi (conci, conf.); Quicquaro e altro (Avv. Berardi) c.
Cofelice e altro (Avv. Rizzi). Cassa App. Campobasso 19
ottobre 1996.
Edilizia e urbanistica — Distanze tra le costruzioni — Strumen
ti urbanistici — Costruzione in aderenza — Ammissibilità —
Limiti (Cod. civ., art. 873; 1. 17 agosto 1942 n. 1150, legge
urbanistica, art. 41 quinquies; d.m. 2 aprile 1968, limiti inde
rogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbri
cati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attivi
tà collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare
ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o del
la revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 1. 6 agosto 1967 n. 765, art. 9).
In materia di distanze nelle costruzioni, le disposizioni degli stru
menti urbanistici locali, che impongono una distanza minima
tra pareti finestrate e pareti degli edifici antistanti, ovvero
un determinato distacco dal confine, non possono essere in
terpretate, qualora consentano in via eccezionale l'edificabili tà a confine, nel senso che la deroga del vincolo di inedifica
bilità possa estendersi oltre il limite quantitativo della dimen
sione orizzontale dei fabbricati in aderenza, consentendo la
costruzione anche per quella parte di confine priva di opere
edificatorie. (1)
(1) La decisione affronta il tema della inderogabilità, in materia di
distanze tra costruzioni, delle prescrizioni contenute nel d.m. 2 aprile 1968 — emanato in forza dell'art. 41 quinquies della legge urbanistica — che, imponendo limiti edilizi cui i comuni devono attenersi nell'ado
zione degli strumenti urbanistici locali, comporta l'impossibilità per gli stessi di fissare limiti inferiori a quelli previsti e l'obbligo per il giudice di merito di disapplicare le disposizioni illegittime e applicare la prescri zione di cui all'art. 9 citato d.m.: v. Cass. 14 gennaio 1999, n. 314, Foro it., Mass., 32.
L'inderogabilità della distanza minima di dieci metri, di cui all'art.
9 d.m. cit., comporta, nel caso di esistenza sul confine tra due fondi
di un fabbricato avente il muro perimetrale finestrato, l'impossibilità
per l'altro proprietario confinante di costruire in aderenza: v. Cass.
7 giugno 1993, n. 6360, id., 1993, I, 2826.
Sulla inoperatività nei rapporti tra i privati dei limiti imposti dall'art.
9 d.m. 2 aprile 1968, a meno che la disciplina sulle distanze in esso
prevista non venga inserita negli strumenti urbanistici locali, v. Cass.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Motivi della decisione. — A sostegno dell'impugnazione i ri
correnti deducono:
1) violazione e falsa applicazione dell'art. 9 d.m. 2 aprile 1968
n. 1444 in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.;
2) violazione e falsa applicazione dello strumento urbanistico
del comune di Toro ed in particolare del punto n. 5 della tabel la tipologica edilizia della zona B, in relazione all'art. 360, nn.
3 e 5, c.p.c.;
3) violazione e falsa applicazione dell'art. 4 disp. sulla legge in generale.
Affermano i ricorrenti che la corte d'appello ha violato le
norme di legge sopra richiamate, sia quando «ha ritenuto inap
plicabile al caso di specie la normativa nazionale in presenza di strumenti urbanistici più permissivi» sia quando ha ritenuto
che «tale strumento urbanistico possa essere interpretato in ter
mini tanto estensivi da poter realizzare un edificio a confine
di suolo inedificato, se tale suolo è di non ampia dimensione, solo perché le disposizioni locali prevedono la possibilità di co struire a confine quando la nuova costruzione viene a sorgere in aderenza a fabbricati esistenti già edificati a confine».
A) Sostengono i ricorrenti che le disposizioni regolamentari
(programma di fabbricazione), essendo norme giuridiche di ca
rattere secondario, non possono derogare o abrogare leggi for
mali o atti a queste equiparati. Pertanto nell'ipotesi in cui una
disposizione contenuta in un testo legislativo ed una disposizio ne contenuta in un regolamento disciplinano in modo differente
la stessa materia, la prima prevale e si sostituisce alla seconda.
Poiché l'art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 prescrive la distanza
di metri dieci tra pareti finestrate, tale distanza va rispettata in tutti i casi, anche quando una sola delle pareti fronteggianti sia finestrata, e deve essere calcolata con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati, per cui sono illegittime e devono essere
disapplicate le disposizioni di un regolamento locale che preve
5 maggio 1998, n. 4517, id., Rep. 1998, voce Distanze legali, n. 24; 4 dicembre 1998, n. 12292, ibid., voce Edilizia e urbanistica, n. 383; 11 febbraio 1997, n. 1256, ibid., n. 370; 21 febbraio 1994, n. 1645, id., Rep. 1994, voce cit., n. 285.
Contra, sull'immediata applicabilità dei limiti in materia di distanze del decreto ministeriale de quo nei confronti dei privati, che debbono
perciò adeguarsi alle sue prescrizioni nell'eseguire le costruzioni sui loro
fondi, v. Cass. 11 giugno 1994, n. 5702, ibid., n. 283; 29 ottobre 1994, n. 8944, ibid., n. 270; 11 gennaio 1992, n. 249, id., 1992, I, 3029, con nota di richiami; 24 febbraio 1988, n. 1973, id., Rep. 1989, voce
cit., n. 305, e Giust. civ., 1989, I, 1193 con nota di Annunziata. Per la composizione del conflitto è intervenuta Cass. 1° luglio 1997,
n. 5889, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 369, commentata da Carbo
ne, in Gius, 1997, 1802, e da Gioia, in Corriere giur., 1997, 1310, con l'enunciazione del principio secondo il quale il decreto ministeriale
impone limiti edilizi soltanto ai comuni nella formazione di nuovi stru menti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti e non è immediata mente applicabile ai rapporti tra i privati.
Con riferimento al carattere integrativo della disciplina codicistica, in materia di distanze legali, delle prescrizioni dettate dal d.m. 2 aprile 1968, v. Cass. 23 giugno 1995, n. 7154, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 336, e 12 dicembre 1986, n. 7391, id., Rep. 1986, voce cit., n. 363.
Sulla compatibilità fra la disciplina codicistica dettata in materia di distanze e la normativa speciale e regolamentare, con particolare ri
guardo all'attuazione del criterio delia prevenzione, criterio non appli cabile quando l'imposizione di una determinata distanza dal confine, prevista nei regolamenti edilizi, mira a soddisfare esigenze pubblicisti che che sovrastino gli interessi dei singoli e tutelino gli interessi genera li, cfr. Cass. 24 giugno 1996, n. 5831, id., Rep. 1996, voce cit., n.
352; 1° luglio 1996, n. 5953, e 22 marzo 1996, n. 2473, id., 1997, 1, 209, con nota di richiami.
Per l'affermazione del principio secondo cui i limiti in materia di distanze tra fabbricati, di cui all'art. 9 d.m. cit., obbligano i comuni solo ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici e pertanto non si applicano qualora contrastino con le previsioni contenute in un
piano urbanistico preesistente, anche se quest'ultimo sia stato solo adot
tato, ma non ancora approvato alla data di emanazione del suddetto
decreto, v., da ultimo, Cass. 11 maggio 2000, n. 6029, id., Mass., 558; Cons. Stato, sez. V, 18 agosto 1997, n. 918, id., 1998, 111, 38, con nota di richiami.
In dottrina, v. Rago, Il principio della «prevenzione nell'edificazione e il d.m. n. 1444 del 1968», in Riv. giur. edilizia, 1998, I, 328; Villani, Successioni di norme edilizie in tema di distanze legali, in Giur. it., 1998, 1560; Annunziata, Brevi note in tema di distanze tra edifici, in Riv. giur. edilizia, 1993, I, 861; Galletto, Distanze fra costruzioni, voce del Digesto civ., Torino, 1990, VI, 452 ss.; Triola, Vicinato (rap porti di), voce dell' Enciclopedia de! diritto, Milano, 1993, XLVI, 686 ss.
Il Foro Italiano — 2000.
dono limiti di distanza inferiori a quelli indicati dal suddetto
art. 9. Pertanto la corte d'appello non poteva affermare che
«gli standard urbanistici — introdotti dall'art. 17 1. 765/67 e
ampliati con d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 — sono applicabili sol
tanto quando l'edificazione a scopo residenziale non sia disci
plinata da un piano regolatore generale o da un programma di fabbricazione».
B) Inoltre la corte d'appello ha erroneamente interpretato il
programma di fabbricazione del comune di Toro.
Tale strumento urbanistico sancisce un distacco minimo dagli edifici di metri dieci e un distacco minimo assoluto dai confini
di metri cinque; e alla nota n. 5 contempera tali prescrizioni
permettendo la edificabilità a confine quando la nuova costru
zione viene a sorgere in aderenza a fabbricati già edificati a
confine o nell'ipotesi di lotto intercluso.
L'interpretazione di tali disposizioni in armonia, e non in con
trasto, con la normativa statale, comporta che è possibile co
struire a confine in aderenza a fabbricati già esistenti, sempre che non esista a distanza inferiore di metri dieci dalla nuova
fabbrica una parete finestrata di altro edificio. Pertanto affer
mano i ricorrenti che non intendono sostenere la impossibilità di edificare a confine e in aderenza a costruzione già esistente, ma intendono tutelare il loro diritto soggettivo che permette loro di non avere a distanza inferiore a metri dieci dalla parete finestrata di loro proprietà altro nuovo edificio.
Q Erroneamente la corte d'appello ha ritenuto che si poteva non solo costruire in aderenza ai fabbricati preesistenti «ma an
che impegnare a confine la piccolissima distanza priva di ope re». Invero, in presenza di una disposizione regolamentare che
impedisce la edificabilità a confine ed in aderenza se sullo stes
so non esiste già altro fabbricato, è quantomeno illegittimo as
sumere che tale disposizione non è violata se è interessata «una
piccolissima distanza priva di opere».
4) Ciò posto, osserva la corte che il ricorso, i cui motivi van
no trattati congiuntamente perché strettamente connessi, merita
accoglimento per quanto di ragione in base alle seguenti consi
derazioni.
4.1) Va innanzitutto osservato che le sezioni unite, risolvendo
il contrasto esistente nella giurisprudenza di questa corte, han
no affermato che il d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 (emanato in
esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41 quinquies 1. 17
agosto 1942 n. 1150, introdotto dalla 1. 6 agosto 1967 n. 785), che all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta
di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,
impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o
revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente
operante anche nei rapporti fra i privati (sez. un. 1° luglio 1997, n. 5889, Foro it., Rep. 1997, voce Edilizia e urbanistica, n. 369).
Le prescrizioni del predetto decreto, che nell'imporre l'osser
vanza di determinati parametri edilizio-urbanistici ha come uni
ci destinatari le amministrazioni comunali ai fini della forma
zione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, non sono di diretta ed immediata applicazione nei rap
porti tra privati, ma devono da questi essere osservate in quan to inserite nei regolamenti edilizi locali (piano regolatore gene rale o programma di fabbricazione), nel momento in cui gli stessi vengono creati o revisionati.
Correlativamente, l'inderogabilità prevista dall'art. 41 quin
quies dei limiti di distanza fra fabbricati stabiliti dal decreto
(art. 9) opera nel senso che non è consentito ai comuni fissare limiti inferiori, onde sono illegittime e debbono essere disappli cate le contrarie disposizioni degli strumenti urbanistici locali
(v., explurimis, Cass. 29 ottobre 1994, n. 8944, id., Rep. 1994, voce cit., n. 270; 21 febbraio 1994, n. 1645, ibid., n. 285; 5
novembre 1992, n. 12001, id., Rep. 1993, voce cit., n. 313; 6
luglio 1990, n. 7142, id., Rep. 1990, voce cit., n. 307; 29 marzo
1989, n. 1518, id., Rep. 1989, voce cit., n. 321). A tale principio non si è attenuta l'impugnata sentenza allor
ché ha affermato che «gli standard urbanistici — introdotti dal
l'art. 17 1. 765/67 (con cui è stato aggiunto l'art. 41 quinquies della
1. 1150/42) e ampliati con d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 — sono ap
plicabili soltanto quando l'edificazione a scopo residenziale non
sia disciplinata da un piano regolatore generale o da un program ma di fabbricazione, e cioè da strumenti urbanistici locali che pos sono prevedere non soltanto regole più rigorose ma anche, come
nel caso di cui si discute, prescrizioni particolari in deroga, che
rispondono a criteri di congruità tecnica e normativa».
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2919 PARTE PRIMA 2920
La corte d'appello non ha considerato che le norme sulle di
stanze fra fabbricati contenute nel d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 — avente natura regolamentare ex art. 17 1. n. 765 del 1967 — hanno efficacia generale e inderogabile; né ha considerato
che le prescrizioni di cui all'art. 9 citato d.m. ripetono dal ran
go della stessa legge delegante la forza di integrare l'art. 873
c.c., e che la distanza di metri dieci tra le pareti finestrate e
le pareti di edifici antistanti, prevista dal suddetto art. 9, stante
il carattere di assolutezza e inderogabilità della norma, in rela
zione alla natura degli interessi generali perseguiti, si riferisce
a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale,
prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno parallele all'edificio antistante (Cass. 12 dicembre 1986, n. 7391, id., Rep.
1986, voce cit., n. 362).
4.2) Va poi osservato che, in tema di distanze nelle costruzio
ni, qualora le disposizioni regolamentari (programma di fabbri
cazione) impongano una distanza minima (non inferiore a metri
dieci, in applicazione del cit. art. 9 d.m. n. 1444 del 1968) tra
pareti finestrate e pareti degli edifici antistanti ovvero una de
terminata distanza (metri cinque) dal confine, prevista per sod
disfare esigenze pubblicistiche che sovrastino gli interessi dei sin
goli e soddisfino gli interessi generali (quali ad es. l'assetto ur
banistico di una certa zona), rendono inapplicabile il criterio
della prevenzione, con conseguente esclusione — salve le ecce
zioni previste nello stesso strumento urbanistico — della possi bilità di costruire sul confine (Cass. 1° luglio 1996, n. 5953,
id., 1997, I, 209; 24 giugno 1996, n. 5831, id., Rep. 1996, voce cit., n. 352).
Pertanto la nota n. 5 del programma di fabbricazione del
comune di Toro che, dopo aver sancito per la zona B di com
pletamento un distacco minimo di metri dieci tra edifici e un
distacco minimo assoluto di metri cinque dal confine, escluden
do così la possibilità di costruire sul confine, consente in via
eccezionale la edificabilità a confine «quando la costruzione viene
a sorgere in aderenza a fabbricati esistenti già edificati a confi
ne», non può essere interpretata, come erroneamente ritenuto
dai giudici di merito, nel senso che la deroga del vincolo di
inedificabilità sul confine è tanto ampia da estendersi oltre il
limite quantitativo della dimensione orizzontale dei fabbricati
in aderenza, consentendo la costruzione anche per quella parte di confine (ancorché di non rilevante estensione) priva di opere edificatorie.
Sul punto l'impugnata sentenza non ha considerato né la por tata eccezionale della suddetta nota n. 5, né che il programma di fabbricazione del comune di Toro non consente la costruzio
ne in aderenza ove sul confine non esista già altro fabbricato,
anche se è interessata «una piccolissima distanza priva di opere».
5) Consegue che, in accoglimento del ricorso per quanto di
ragione, si deve cassare la sentenza impugnata e rinviare la cau
sa, per un nuovo esame, alla Corte d'appello di Napoli, la qua
le, ai fini della decisione, applicherà i principi sopra esposti.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 1° otto
bre 1999, n. 10850; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Sal
mè, P.M. Buonajuto (conci, conf.); Stenico (Avv. Antoni
ni) c. Marinelli (Avv. Conti, Fronza), Cassa rurale di Villaz
zano e Trento (Avv. Villa, Menooni). Cassa App. Trento
22 ottobre 1997.
Contratti bancari — Deposito titoli — Cointestazione a coniugi in regime di separazione dei beni — Presunzione di compro
prietà — Motivazione (Cod. civ., art. 1298).
La sola cointestazione deI contratto di custodia e amministra
zione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non
è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il dena
II Foro Italiano — 2000.
ro deI quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della
metà dei beni a titolo di liberalità. (1)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 29 aprile
1999, n. 4327; Pres. Cantillo, Est. Papa, P.M. Palmieri
(conci, conf.); Zanuso (Avv. Lorenzoni, Bettella) c. Bot
tazzi (Avv. Deroma, Gobbato). Conferma App. Venezia 9
ottobre 1996.
Contratti bancari — Deposito titoli — Cointestazione a coniugi in regime di separazione dei beni — Presunzione di eguaglianza delle quote — Fattispecie (Cod. civ., art. 1298, 1838).
Nel caso di deposito bancario di titoli al portatore cointestato
a coniugi in regime di separazione dei beni, i rapporti interni
tra i depositanti sono regolati dall'art. 1298, 2° comma, c.c.,
in forza del quale le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente (nella specie, la corte ha ritenuto
correttamente superata tale presunzione, da parte del giudice di appello, una volta verificato che le somme utilizzate per
l'acquisto dei titoli depositati erano state tratte dal conto cor
rente di corrispondenza intestato ad uno solo dei coniugi). (2)
(1-2) Con la sentenza 4327/99, la corte fa applicazione, in tema di
deposito bancario di titoli in amministrazione, di un principio frequen temente ribadito dalla giurisprudenza nel caso, analogo, di conto cor rente bancario cointestato a firme disgiunte (la circostanza che i cointe statari siano coniugi in regime di separazione dei beni non modifica, in realtà, i termini del problema), mentre con la sentenza 10850/99 il
principio viene ridimensionato in relazione alle esigenze probatorie, ma,
soprattutto, alla peculiarità delle argomentazioni utilizzate dal giudice del merito.
Sull'affermazione di ordine generale, cfr., in particolare, Cass. 22
ottobre 1994, n. 8718, Foro it., Rep. 1995, voce Contratti bancari, n.
46, la quale tuttavia sostiene che la presunzione di uguaglianza stabilita dall'art. 1298, 2° comma, c.c. non può essere vinta con la semplice dimostrazione di avere avuto la proprietà e disponibilità del denaro im
messo nel conto — e ciò perché la cointestazione vale a rendere solidale il debito o il credito anche se il denaro è immesso nel conto da uno solo dei cointestatari, o da un terzo in favore di uno soltanto dei coin testatari — ma con la diversa dimostrazione che il titolo di acquisto di quel denaro rendeva lo stesso di pertinenza esclusiva del solo cointe statario che lo ha poi versato sul conto. Analogo riferimento al titolo di acquisizione del denaro versato, ai fini del superamento della presun zione, si rinviene anche in Trib. Verona 8 aprile 1994, ibid., voce Fami
glia (regime patrimoniale), n. 66, ed in Cass. 9 luglio 1989, n. 3241, id., Rep. 1991, voce Contratti bancari, n. 59, e Banca, borsa, ecc., 1991, II, 1, entrambe in materia di conto corrente bancario cointestato a coniugi in regime di separazione dei beni.
V., inoltre, Cass. 18 agosto 1993, n. 8758, Foro it., Rep. 1993, voce
cit., n. 43, la quale, dalla operatività dell'art. 1298, 2° comma, c.c. nel conto corrente bancario cointestato a più persone, fa derivare la
conseguenza che, nel giudizio instaurato nei confronti di uno solo dei contitolari del conto, non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri; Trib. Perugia 14 dicembre 1992, id., Rep. 1994, voce cit., n. 41; Cass. 24 maggio 1991, n. 5876, id., 1992, I, 2201; 26 ottobre 1981, n. 5584, id., Rep. 1982, voce cit., n. 23, e, infine, sulla rilevanza della presunzione di uguaglianza agli effetti dell'imposta di successione, nell'ipotesi di cointestazione del conto al de cuius ed
agli eredi, Cass. 30 gennaio 1979, n. 650, id., Rep. 1979, voce Succes sioni (imposta), n. 37.
Per una datata applicazione del medesimo principio, ma in tema di
deposito a risparmio con libretto intestato a più persone, con facoltà di operare anche disgiuntamente, cfr. App. Palermo 17 febbraio 1956, id., Rep. 1956, voce Banca e contratti bancari, n. 25.
Ancor più risalente, cfr. Trib. Genova 10 luglio 1951, id., Rep. 1951, voce Esecuzione e pignorabilità in genere, nn. 33, 34, nonché Banca, borsa, ecc., 1953, II, 65, con nota critica di Natoli, secondo la quale nel deposito bancario in conto corrente cointestato, con facoltà di com
piere operazioni separatamente, nei rapporti con i terzi le quote di par tecipazione dei cointestatari debbono presumersi uguali in forza del l'art. 1101 c.c. (ferma restando, invece, l'operatività dell'art. 1298 c.c. nei rapporti interni).
Sulla sussistenza fino a prova contraria della presunzione di cui al l'art. 1298, 2° comma, c.c., già Cass. 10 gennaio 1966, n. 188, Foro
it., 1966, I, 1792; ed in ordine alla possibilità di fornire con ogni mezzo la prova contraria a detta presunzione (semplice), con apprezzamento riservato al giudice del merito, cfr. Cass. 28 gennaio 1972, n. 202, id., Rep. 1972, voce Obbligazioni in genere, n. 75, e 14 luglio 1965, n.
1509, id., Rep. 1965, voce Obbligazioni e contratti, n. 204.
Peraltro, Cass. 4327/99 esclude espressamente che alla fattispecie in
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