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sezione II civile; sentenza 9 novembre 1999, n. 12443; Pres. Volpe, Est. Elefante, P.M. Nardi...

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sezione II civile; sentenza 9 novembre 1999, n. 12443; Pres. Volpe, Est. Elefante, P.M. Nardi (concl. conf.); Quicquaro e altro (Avv. Berardi) c. Cofelice e altro (Avv. Rizzi). Cassa App. Campobasso 19 ottobre 1996 Source: Il Foro Italiano, Vol. 123, No. 10 (OTTOBRE 2000), pp. 2915/2916-2919/2920 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23195546 . Accessed: 28/06/2014 18:48 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.105.245.130 on Sat, 28 Jun 2014 18:48:08 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione II civile; sentenza 9 novembre 1999, n. 12443; Pres. Volpe, Est. Elefante, P.M. Nardi(concl. conf.); Quicquaro e altro (Avv. Berardi) c. Cofelice e altro (Avv. Rizzi). Cassa App.Campobasso 19 ottobre 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 123, No. 10 (OTTOBRE 2000), pp. 2915/2916-2919/2920Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23195546 .

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2915 PARTE PRIMA 2916

obbligazioni che dal contratto stesso scaturiscono, e si è notato

in dottrina che ciò rende il detto scioglimento più affine al re

cesso che alla risoluzione. In questo quadro si è sostenuto che

gli effetti si producono ex nunc (sulla decorrenza dell'efficacia,

v. Cass. 17 marzo 1999, n. 2382, ibid., voce Contratto in gene

re, n. 487). Peraltro questa corte, a sezioni unite, con sentenza 14 aprile

1999, n. 239/SU (ibid., voce Fallimento, n. 640), ha affermato

che, in relazione alla previsione dell'art. 2932 c.c., secondo cui

l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un con

tratto è ammessa soltanto «qualora sia possibile», si deve rite

nere che il fallimento del promissario venditore, facendo venir

meno nel fallito il potere di disposizione e di amministrazione

del patrimonio e bloccando la situazione patrimoniale qual era

alla data in cui fu pronunciato il fallimento, impedisca che pos

sa avere corso l'esecuzione specifica della detta promessa, poi

ché essa determinerebbe un mutamento della situazione patri

moniale ed in particolare un effetto traslativo, nonostante lo

spossessamento prodotto dalla sentenza dichiarativa di fallimento,

restando ininfluente la circostanza che, prima del fallimento,

sia stata trascritta la domanda ex art. 2932 c.c., in quanto essa

non può impedire l'apprensione del bene promesso in vendita

da parte della curatela fallimentare, giacché gli effetti di tale

trascrizione possono spiegarsi soltanto condizionatamente alla

trascrizione della sentenza di accoglimento della domanda, che

in questo caso non può essere pronunciata. L'impedimento alla

pronuncia della sentenza ex art. 2932 c.c. non esclude che il

contratto resti inalterato, con la conseguenza che, se il fallito

promittente venditore ritorna in bonis, e il bene si trovi nella

sua disponibilità, esso contratto può essere fatto valere. Vice

versa qualora, dichiarato il fallimento, si verifichi la scelta del

curatore fallimentare ex art. 72, 4° comma, 1. fall, a favore

dello scioglimento del contratto, si deve reputare che la relativa

dichiarazione abbia valore sostanziale, assoluto e definitivo, ope

rando con effetto retroattivo (con efficacia non solamente en

dofallimentare, ma con effetti anche qualora il fallito sia ritor

nato in bonis) e facendo venir meno fin dall'origine la promes

sa di vendita, in quanto non è dato ravvisare alcun argomento

logico o testuale che consenta di ammettere che lo scioglimento

non incida sulla volontà inizialmente manifestata.

La citata sentenza sottolinea in motivazione che il fallimento

impedisce l'emanazione della pronunzia ex art. 2932 c.c., ma

lascia inalterato il contratto, con la conseguenza che lo stesso

può essere fatto valere una volta che il promittente venditore

sia ternato in bonis e sempre che il bene sia nella sua disponibi

lità. La dichiarazione di scioglimento del curatore, che consente

allo stesso di disporre del bene acquisito alla massa, agisce sulla

manifestazione di volontà che ha dato origine al contratto, ca

ducandola fin dall'origine. I suddetti principi, come notato, sono stati affermati con ri

guardo ad una fattispecie in cui il fallimento aveva colpito il

promittente venditore. Ma, in ordine al contenuto ed all'effica

cia della dichiarazione di scioglimento da parte del curatore,

non si ravvisano elementi differenziali idonei ad impedire l'ap

plicazione dei medesimi principi anche in caso di fallimento del

promissario compratore. Certamente tali elementi non possono essere rinvenuti nelle (parzialmente) diverse modalità operative dello scioglimento nelle due fattispecie, appunto perché si tratta

di profili non attinenti al contenuto sostanziale di esso, in en

trambi i casi destinato a caducare la manifestazione di volontà

che ha dato origine al preliminare. Ciò posto, e condividendo l'orientamento così espresso, il col

legio osserva che lo scioglimento posto in essere dal curatore

non costituisce la fonte (o la causa) delle obbligazioni restituto

rie per la caparra o per altre attribuzioni patrimoniali eseguite dal fallito prima del fallimento.

II fatto genetico, o fonte, di quelle obbligazioni resta sempre il contratto, anteriore al fallimento, in esecuzione del quale le

attribuzioni patrimoniali erano state effettuate. Lo scioglimento ex art. 72 1. fall, rimuove il contratto medesimo, non soltanto

ai fini fallimentari, ma anche con effetto sostanziale definitivo.

In tal modo rende le prestazioni patrimoniali già eseguite prive di titolo, onde esse vanno restituite, ma non può incidere sul

fatto che quelle prestazioni avevano avuto luogo prima del fal

limento nel quadro di un rapporto negoziale all'epoca valido

ed efficace, nel quale resta fissata la loro radice causale.

In altri termini lo scioglimento, determinando la caducazione

Il Foro Italiano — 2000.

delle obbligazioni nascenti dal contratto e, quindi, facendo ve

nir meno la causa di esse, qualifica come indebite quelle attri

buzioni ma non ne modifica il fatto genetico, che resta il con

tratto nell'ambito del quale esse, prima del fallimento, furono

eseguite. Deve quindi concludersi che il credito restitutorio per le attri

buzioni patrimoniali effettuate dal fallito prima della dichiara

zione di fallimento, in forza di un contratto preliminare prece

dentemente stipulato, non nasce dal fallimento e, più precisa

mente, dalla dichiarazione del curatore di sciogliersi dal

preliminare, ma continua a trovare il suo fatto genetico in detto

preliminare (caducato a seguito di quella dichiarazione), con la

conseguenza che la sua anteriorità al fallimento lo rende com

pensabile con il controcredito dell'altro contraente in bonis, a

sua volta sorto prima della dichiarazione di fallimento.

Pertanto il secondo motivo del ricorso deve essere respinto,

provvedendosi a correggere la motivazione della sentenza impu

gnata nei sensi indicati, a norma dell'art. 384, 2° comma, c.p.c.

(e restando superato, nei termini suddetti, il prospettato contra

sto). (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 9 no

vembre 1999, n. 12443; Pres. Volpe, Est. Elefante, P.M.

Nardi (conci, conf.); Quicquaro e altro (Avv. Berardi) c.

Cofelice e altro (Avv. Rizzi). Cassa App. Campobasso 19

ottobre 1996.

Edilizia e urbanistica — Distanze tra le costruzioni — Strumen

ti urbanistici — Costruzione in aderenza — Ammissibilità —

Limiti (Cod. civ., art. 873; 1. 17 agosto 1942 n. 1150, legge

urbanistica, art. 41 quinquies; d.m. 2 aprile 1968, limiti inde

rogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbri

cati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti

residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attivi

tà collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare

ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o del

la revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 1. 6 agosto 1967 n. 765, art. 9).

In materia di distanze nelle costruzioni, le disposizioni degli stru

menti urbanistici locali, che impongono una distanza minima

tra pareti finestrate e pareti degli edifici antistanti, ovvero

un determinato distacco dal confine, non possono essere in

terpretate, qualora consentano in via eccezionale l'edificabili tà a confine, nel senso che la deroga del vincolo di inedifica

bilità possa estendersi oltre il limite quantitativo della dimen

sione orizzontale dei fabbricati in aderenza, consentendo la

costruzione anche per quella parte di confine priva di opere

edificatorie. (1)

(1) La decisione affronta il tema della inderogabilità, in materia di

distanze tra costruzioni, delle prescrizioni contenute nel d.m. 2 aprile 1968 — emanato in forza dell'art. 41 quinquies della legge urbanistica — che, imponendo limiti edilizi cui i comuni devono attenersi nell'ado

zione degli strumenti urbanistici locali, comporta l'impossibilità per gli stessi di fissare limiti inferiori a quelli previsti e l'obbligo per il giudice di merito di disapplicare le disposizioni illegittime e applicare la prescri zione di cui all'art. 9 citato d.m.: v. Cass. 14 gennaio 1999, n. 314, Foro it., Mass., 32.

L'inderogabilità della distanza minima di dieci metri, di cui all'art.

9 d.m. cit., comporta, nel caso di esistenza sul confine tra due fondi

di un fabbricato avente il muro perimetrale finestrato, l'impossibilità

per l'altro proprietario confinante di costruire in aderenza: v. Cass.

7 giugno 1993, n. 6360, id., 1993, I, 2826.

Sulla inoperatività nei rapporti tra i privati dei limiti imposti dall'art.

9 d.m. 2 aprile 1968, a meno che la disciplina sulle distanze in esso

prevista non venga inserita negli strumenti urbanistici locali, v. Cass.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Motivi della decisione. — A sostegno dell'impugnazione i ri

correnti deducono:

1) violazione e falsa applicazione dell'art. 9 d.m. 2 aprile 1968

n. 1444 in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.;

2) violazione e falsa applicazione dello strumento urbanistico

del comune di Toro ed in particolare del punto n. 5 della tabel la tipologica edilizia della zona B, in relazione all'art. 360, nn.

3 e 5, c.p.c.;

3) violazione e falsa applicazione dell'art. 4 disp. sulla legge in generale.

Affermano i ricorrenti che la corte d'appello ha violato le

norme di legge sopra richiamate, sia quando «ha ritenuto inap

plicabile al caso di specie la normativa nazionale in presenza di strumenti urbanistici più permissivi» sia quando ha ritenuto

che «tale strumento urbanistico possa essere interpretato in ter

mini tanto estensivi da poter realizzare un edificio a confine

di suolo inedificato, se tale suolo è di non ampia dimensione, solo perché le disposizioni locali prevedono la possibilità di co struire a confine quando la nuova costruzione viene a sorgere in aderenza a fabbricati esistenti già edificati a confine».

A) Sostengono i ricorrenti che le disposizioni regolamentari

(programma di fabbricazione), essendo norme giuridiche di ca

rattere secondario, non possono derogare o abrogare leggi for

mali o atti a queste equiparati. Pertanto nell'ipotesi in cui una

disposizione contenuta in un testo legislativo ed una disposizio ne contenuta in un regolamento disciplinano in modo differente

la stessa materia, la prima prevale e si sostituisce alla seconda.

Poiché l'art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 prescrive la distanza

di metri dieci tra pareti finestrate, tale distanza va rispettata in tutti i casi, anche quando una sola delle pareti fronteggianti sia finestrata, e deve essere calcolata con riferimento ad ogni

punto dei fabbricati, per cui sono illegittime e devono essere

disapplicate le disposizioni di un regolamento locale che preve

5 maggio 1998, n. 4517, id., Rep. 1998, voce Distanze legali, n. 24; 4 dicembre 1998, n. 12292, ibid., voce Edilizia e urbanistica, n. 383; 11 febbraio 1997, n. 1256, ibid., n. 370; 21 febbraio 1994, n. 1645, id., Rep. 1994, voce cit., n. 285.

Contra, sull'immediata applicabilità dei limiti in materia di distanze del decreto ministeriale de quo nei confronti dei privati, che debbono

perciò adeguarsi alle sue prescrizioni nell'eseguire le costruzioni sui loro

fondi, v. Cass. 11 giugno 1994, n. 5702, ibid., n. 283; 29 ottobre 1994, n. 8944, ibid., n. 270; 11 gennaio 1992, n. 249, id., 1992, I, 3029, con nota di richiami; 24 febbraio 1988, n. 1973, id., Rep. 1989, voce

cit., n. 305, e Giust. civ., 1989, I, 1193 con nota di Annunziata. Per la composizione del conflitto è intervenuta Cass. 1° luglio 1997,

n. 5889, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 369, commentata da Carbo

ne, in Gius, 1997, 1802, e da Gioia, in Corriere giur., 1997, 1310, con l'enunciazione del principio secondo il quale il decreto ministeriale

impone limiti edilizi soltanto ai comuni nella formazione di nuovi stru menti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti e non è immediata mente applicabile ai rapporti tra i privati.

Con riferimento al carattere integrativo della disciplina codicistica, in materia di distanze legali, delle prescrizioni dettate dal d.m. 2 aprile 1968, v. Cass. 23 giugno 1995, n. 7154, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 336, e 12 dicembre 1986, n. 7391, id., Rep. 1986, voce cit., n. 363.

Sulla compatibilità fra la disciplina codicistica dettata in materia di distanze e la normativa speciale e regolamentare, con particolare ri

guardo all'attuazione del criterio delia prevenzione, criterio non appli cabile quando l'imposizione di una determinata distanza dal confine, prevista nei regolamenti edilizi, mira a soddisfare esigenze pubblicisti che che sovrastino gli interessi dei singoli e tutelino gli interessi genera li, cfr. Cass. 24 giugno 1996, n. 5831, id., Rep. 1996, voce cit., n.

352; 1° luglio 1996, n. 5953, e 22 marzo 1996, n. 2473, id., 1997, 1, 209, con nota di richiami.

Per l'affermazione del principio secondo cui i limiti in materia di distanze tra fabbricati, di cui all'art. 9 d.m. cit., obbligano i comuni solo ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici e pertanto non si applicano qualora contrastino con le previsioni contenute in un

piano urbanistico preesistente, anche se quest'ultimo sia stato solo adot

tato, ma non ancora approvato alla data di emanazione del suddetto

decreto, v., da ultimo, Cass. 11 maggio 2000, n. 6029, id., Mass., 558; Cons. Stato, sez. V, 18 agosto 1997, n. 918, id., 1998, 111, 38, con nota di richiami.

In dottrina, v. Rago, Il principio della «prevenzione nell'edificazione e il d.m. n. 1444 del 1968», in Riv. giur. edilizia, 1998, I, 328; Villani, Successioni di norme edilizie in tema di distanze legali, in Giur. it., 1998, 1560; Annunziata, Brevi note in tema di distanze tra edifici, in Riv. giur. edilizia, 1993, I, 861; Galletto, Distanze fra costruzioni, voce del Digesto civ., Torino, 1990, VI, 452 ss.; Triola, Vicinato (rap porti di), voce dell' Enciclopedia de! diritto, Milano, 1993, XLVI, 686 ss.

Il Foro Italiano — 2000.

dono limiti di distanza inferiori a quelli indicati dal suddetto

art. 9. Pertanto la corte d'appello non poteva affermare che

«gli standard urbanistici — introdotti dall'art. 17 1. 765/67 e

ampliati con d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 — sono applicabili sol

tanto quando l'edificazione a scopo residenziale non sia disci

plinata da un piano regolatore generale o da un programma di fabbricazione».

B) Inoltre la corte d'appello ha erroneamente interpretato il

programma di fabbricazione del comune di Toro.

Tale strumento urbanistico sancisce un distacco minimo dagli edifici di metri dieci e un distacco minimo assoluto dai confini

di metri cinque; e alla nota n. 5 contempera tali prescrizioni

permettendo la edificabilità a confine quando la nuova costru

zione viene a sorgere in aderenza a fabbricati già edificati a

confine o nell'ipotesi di lotto intercluso.

L'interpretazione di tali disposizioni in armonia, e non in con

trasto, con la normativa statale, comporta che è possibile co

struire a confine in aderenza a fabbricati già esistenti, sempre che non esista a distanza inferiore di metri dieci dalla nuova

fabbrica una parete finestrata di altro edificio. Pertanto affer

mano i ricorrenti che non intendono sostenere la impossibilità di edificare a confine e in aderenza a costruzione già esistente, ma intendono tutelare il loro diritto soggettivo che permette loro di non avere a distanza inferiore a metri dieci dalla parete finestrata di loro proprietà altro nuovo edificio.

Q Erroneamente la corte d'appello ha ritenuto che si poteva non solo costruire in aderenza ai fabbricati preesistenti «ma an

che impegnare a confine la piccolissima distanza priva di ope re». Invero, in presenza di una disposizione regolamentare che

impedisce la edificabilità a confine ed in aderenza se sullo stes

so non esiste già altro fabbricato, è quantomeno illegittimo as

sumere che tale disposizione non è violata se è interessata «una

piccolissima distanza priva di opere».

4) Ciò posto, osserva la corte che il ricorso, i cui motivi van

no trattati congiuntamente perché strettamente connessi, merita

accoglimento per quanto di ragione in base alle seguenti consi

derazioni.

4.1) Va innanzitutto osservato che le sezioni unite, risolvendo

il contrasto esistente nella giurisprudenza di questa corte, han

no affermato che il d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 (emanato in

esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41 quinquies 1. 17

agosto 1942 n. 1150, introdotto dalla 1. 6 agosto 1967 n. 785), che all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta

di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,

impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o

revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente

operante anche nei rapporti fra i privati (sez. un. 1° luglio 1997, n. 5889, Foro it., Rep. 1997, voce Edilizia e urbanistica, n. 369).

Le prescrizioni del predetto decreto, che nell'imporre l'osser

vanza di determinati parametri edilizio-urbanistici ha come uni

ci destinatari le amministrazioni comunali ai fini della forma

zione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli

esistenti, non sono di diretta ed immediata applicazione nei rap

porti tra privati, ma devono da questi essere osservate in quan to inserite nei regolamenti edilizi locali (piano regolatore gene rale o programma di fabbricazione), nel momento in cui gli stessi vengono creati o revisionati.

Correlativamente, l'inderogabilità prevista dall'art. 41 quin

quies dei limiti di distanza fra fabbricati stabiliti dal decreto

(art. 9) opera nel senso che non è consentito ai comuni fissare limiti inferiori, onde sono illegittime e debbono essere disappli cate le contrarie disposizioni degli strumenti urbanistici locali

(v., explurimis, Cass. 29 ottobre 1994, n. 8944, id., Rep. 1994, voce cit., n. 270; 21 febbraio 1994, n. 1645, ibid., n. 285; 5

novembre 1992, n. 12001, id., Rep. 1993, voce cit., n. 313; 6

luglio 1990, n. 7142, id., Rep. 1990, voce cit., n. 307; 29 marzo

1989, n. 1518, id., Rep. 1989, voce cit., n. 321). A tale principio non si è attenuta l'impugnata sentenza allor

ché ha affermato che «gli standard urbanistici — introdotti dal

l'art. 17 1. 765/67 (con cui è stato aggiunto l'art. 41 quinquies della

1. 1150/42) e ampliati con d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 — sono ap

plicabili soltanto quando l'edificazione a scopo residenziale non

sia disciplinata da un piano regolatore generale o da un program ma di fabbricazione, e cioè da strumenti urbanistici locali che pos sono prevedere non soltanto regole più rigorose ma anche, come

nel caso di cui si discute, prescrizioni particolari in deroga, che

rispondono a criteri di congruità tecnica e normativa».

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2919 PARTE PRIMA 2920

La corte d'appello non ha considerato che le norme sulle di

stanze fra fabbricati contenute nel d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 — avente natura regolamentare ex art. 17 1. n. 765 del 1967 — hanno efficacia generale e inderogabile; né ha considerato

che le prescrizioni di cui all'art. 9 citato d.m. ripetono dal ran

go della stessa legge delegante la forza di integrare l'art. 873

c.c., e che la distanza di metri dieci tra le pareti finestrate e

le pareti di edifici antistanti, prevista dal suddetto art. 9, stante

il carattere di assolutezza e inderogabilità della norma, in rela

zione alla natura degli interessi generali perseguiti, si riferisce

a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale,

prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno parallele all'edificio antistante (Cass. 12 dicembre 1986, n. 7391, id., Rep.

1986, voce cit., n. 362).

4.2) Va poi osservato che, in tema di distanze nelle costruzio

ni, qualora le disposizioni regolamentari (programma di fabbri

cazione) impongano una distanza minima (non inferiore a metri

dieci, in applicazione del cit. art. 9 d.m. n. 1444 del 1968) tra

pareti finestrate e pareti degli edifici antistanti ovvero una de

terminata distanza (metri cinque) dal confine, prevista per sod

disfare esigenze pubblicistiche che sovrastino gli interessi dei sin

goli e soddisfino gli interessi generali (quali ad es. l'assetto ur

banistico di una certa zona), rendono inapplicabile il criterio

della prevenzione, con conseguente esclusione — salve le ecce

zioni previste nello stesso strumento urbanistico — della possi bilità di costruire sul confine (Cass. 1° luglio 1996, n. 5953,

id., 1997, I, 209; 24 giugno 1996, n. 5831, id., Rep. 1996, voce cit., n. 352).

Pertanto la nota n. 5 del programma di fabbricazione del

comune di Toro che, dopo aver sancito per la zona B di com

pletamento un distacco minimo di metri dieci tra edifici e un

distacco minimo assoluto di metri cinque dal confine, escluden

do così la possibilità di costruire sul confine, consente in via

eccezionale la edificabilità a confine «quando la costruzione viene

a sorgere in aderenza a fabbricati esistenti già edificati a confi

ne», non può essere interpretata, come erroneamente ritenuto

dai giudici di merito, nel senso che la deroga del vincolo di

inedificabilità sul confine è tanto ampia da estendersi oltre il

limite quantitativo della dimensione orizzontale dei fabbricati

in aderenza, consentendo la costruzione anche per quella parte di confine (ancorché di non rilevante estensione) priva di opere edificatorie.

Sul punto l'impugnata sentenza non ha considerato né la por tata eccezionale della suddetta nota n. 5, né che il programma di fabbricazione del comune di Toro non consente la costruzio

ne in aderenza ove sul confine non esista già altro fabbricato,

anche se è interessata «una piccolissima distanza priva di opere».

5) Consegue che, in accoglimento del ricorso per quanto di

ragione, si deve cassare la sentenza impugnata e rinviare la cau

sa, per un nuovo esame, alla Corte d'appello di Napoli, la qua

le, ai fini della decisione, applicherà i principi sopra esposti.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 1° otto

bre 1999, n. 10850; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Sal

mè, P.M. Buonajuto (conci, conf.); Stenico (Avv. Antoni

ni) c. Marinelli (Avv. Conti, Fronza), Cassa rurale di Villaz

zano e Trento (Avv. Villa, Menooni). Cassa App. Trento

22 ottobre 1997.

Contratti bancari — Deposito titoli — Cointestazione a coniugi in regime di separazione dei beni — Presunzione di compro

prietà — Motivazione (Cod. civ., art. 1298).

La sola cointestazione deI contratto di custodia e amministra

zione di titoli a coniugi in regime di separazione dei beni non

è sufficiente a dimostrare la volontà del coniuge, con il dena

II Foro Italiano — 2000.

ro deI quale i titoli sono stati acquistati, di disporre della

metà dei beni a titolo di liberalità. (1)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 29 aprile

1999, n. 4327; Pres. Cantillo, Est. Papa, P.M. Palmieri

(conci, conf.); Zanuso (Avv. Lorenzoni, Bettella) c. Bot

tazzi (Avv. Deroma, Gobbato). Conferma App. Venezia 9

ottobre 1996.

Contratti bancari — Deposito titoli — Cointestazione a coniugi in regime di separazione dei beni — Presunzione di eguaglianza delle quote — Fattispecie (Cod. civ., art. 1298, 1838).

Nel caso di deposito bancario di titoli al portatore cointestato

a coniugi in regime di separazione dei beni, i rapporti interni

tra i depositanti sono regolati dall'art. 1298, 2° comma, c.c.,

in forza del quale le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente (nella specie, la corte ha ritenuto

correttamente superata tale presunzione, da parte del giudice di appello, una volta verificato che le somme utilizzate per

l'acquisto dei titoli depositati erano state tratte dal conto cor

rente di corrispondenza intestato ad uno solo dei coniugi). (2)

(1-2) Con la sentenza 4327/99, la corte fa applicazione, in tema di

deposito bancario di titoli in amministrazione, di un principio frequen temente ribadito dalla giurisprudenza nel caso, analogo, di conto cor rente bancario cointestato a firme disgiunte (la circostanza che i cointe statari siano coniugi in regime di separazione dei beni non modifica, in realtà, i termini del problema), mentre con la sentenza 10850/99 il

principio viene ridimensionato in relazione alle esigenze probatorie, ma,

soprattutto, alla peculiarità delle argomentazioni utilizzate dal giudice del merito.

Sull'affermazione di ordine generale, cfr., in particolare, Cass. 22

ottobre 1994, n. 8718, Foro it., Rep. 1995, voce Contratti bancari, n.

46, la quale tuttavia sostiene che la presunzione di uguaglianza stabilita dall'art. 1298, 2° comma, c.c. non può essere vinta con la semplice dimostrazione di avere avuto la proprietà e disponibilità del denaro im

messo nel conto — e ciò perché la cointestazione vale a rendere solidale il debito o il credito anche se il denaro è immesso nel conto da uno solo dei cointestatari, o da un terzo in favore di uno soltanto dei coin testatari — ma con la diversa dimostrazione che il titolo di acquisto di quel denaro rendeva lo stesso di pertinenza esclusiva del solo cointe statario che lo ha poi versato sul conto. Analogo riferimento al titolo di acquisizione del denaro versato, ai fini del superamento della presun zione, si rinviene anche in Trib. Verona 8 aprile 1994, ibid., voce Fami

glia (regime patrimoniale), n. 66, ed in Cass. 9 luglio 1989, n. 3241, id., Rep. 1991, voce Contratti bancari, n. 59, e Banca, borsa, ecc., 1991, II, 1, entrambe in materia di conto corrente bancario cointestato a coniugi in regime di separazione dei beni.

V., inoltre, Cass. 18 agosto 1993, n. 8758, Foro it., Rep. 1993, voce

cit., n. 43, la quale, dalla operatività dell'art. 1298, 2° comma, c.c. nel conto corrente bancario cointestato a più persone, fa derivare la

conseguenza che, nel giudizio instaurato nei confronti di uno solo dei contitolari del conto, non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri; Trib. Perugia 14 dicembre 1992, id., Rep. 1994, voce cit., n. 41; Cass. 24 maggio 1991, n. 5876, id., 1992, I, 2201; 26 ottobre 1981, n. 5584, id., Rep. 1982, voce cit., n. 23, e, infine, sulla rilevanza della presunzione di uguaglianza agli effetti dell'imposta di successione, nell'ipotesi di cointestazione del conto al de cuius ed

agli eredi, Cass. 30 gennaio 1979, n. 650, id., Rep. 1979, voce Succes sioni (imposta), n. 37.

Per una datata applicazione del medesimo principio, ma in tema di

deposito a risparmio con libretto intestato a più persone, con facoltà di operare anche disgiuntamente, cfr. App. Palermo 17 febbraio 1956, id., Rep. 1956, voce Banca e contratti bancari, n. 25.

Ancor più risalente, cfr. Trib. Genova 10 luglio 1951, id., Rep. 1951, voce Esecuzione e pignorabilità in genere, nn. 33, 34, nonché Banca, borsa, ecc., 1953, II, 65, con nota critica di Natoli, secondo la quale nel deposito bancario in conto corrente cointestato, con facoltà di com

piere operazioni separatamente, nei rapporti con i terzi le quote di par tecipazione dei cointestatari debbono presumersi uguali in forza del l'art. 1101 c.c. (ferma restando, invece, l'operatività dell'art. 1298 c.c. nei rapporti interni).

Sulla sussistenza fino a prova contraria della presunzione di cui al l'art. 1298, 2° comma, c.c., già Cass. 10 gennaio 1966, n. 188, Foro

it., 1966, I, 1792; ed in ordine alla possibilità di fornire con ogni mezzo la prova contraria a detta presunzione (semplice), con apprezzamento riservato al giudice del merito, cfr. Cass. 28 gennaio 1972, n. 202, id., Rep. 1972, voce Obbligazioni in genere, n. 75, e 14 luglio 1965, n.

1509, id., Rep. 1965, voce Obbligazioni e contratti, n. 204.

Peraltro, Cass. 4327/99 esclude espressamente che alla fattispecie in

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