Sezione II penale; sentenza 15 giugno 1962; Pres. Palermo P., Est. De Santis, P. M. Paternostro(concl. conf.); ric. GiambarbaSource: Il Foro Italiano, Vol. 86, No. 7 (1963), pp. 273/274-275/276Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23152372 .
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273 GIURISPRUDENZA PENALE 274
il fatto criminoso è assunto puramente quale elemento sintomatico.
Non basta a giustificare l'equiparazione della misura di sicurezza detentiva alla pena l'effetto comune di coer cizione della libertà personale, poiché questa, per esigenze di difesa della società, può essere imposta anche da mani festazioni di pericolosità non criminose, come nel caso di ricovero di alienati in manicomio civile.
La impossibilità giuridica di confondere le due misure, cioè il contenuto, la funzione e la struttura della pena e della misura di sicurezza, importa di conseguenza la impossi bilità di rinvenire un interesse a provocare la pronuncia giurisdizionale dell'una in luogo dell'altra.
La indicata sentenza conclude, pertanto, che non è consentito ravvisare nella condanna un interesse preva lente su quello al proscioglimento, ancorché seguito da misura di sicurezza detentiva : l'imputato può bensì impu gnare la sentenza, pronunciata in dibattimento, che lo assolve perchè non imputabile, al fine di ottenere un accer tamento negativo della sussistenza del fatto o della propria partecipazione ad esso o delle condizioni di punibilità, o una diversa definizione giuridica del fatto, e quindi una formula più favorevole con la conseguenza della elimina zione o attenuazione della misura di sicurezza ; ma l'impu gnazione è inammissibile, per mancanza di interesse, se
egli chiede invece la pronuncia di condanna. Il caso che oggi si presenta all'esame delle Sezioni
unite si differenzia da quello deciso con la sentenza sopra citata in quanto la impugnazione non concerne una sen tenza pronunciata in dibattimento, ma una sentenza istrut toria.
5 Mentre rimangono validi i principi in detta sentenza
affermati, concernenti la nozione giuridica di interesse ad
impugnare e la impossibilità di equiparazione della pena alla misura di sicurezza ai fini della valutazione della situa zione di pregiudizio che si riconnette all'applicazione del l'una o dell'altra, l'indagine va spostata sulla valutazione del risultato che l'impugnazione può in astratto conse
guire : risultato cui può obiettivamente inerire un interesse
dell'impugnante, ancorché egli non lo abbia esplicitamente invocato o preveduto.
La questione è stata sfiorata nella motivazione della
sentenza di queste Sezioni unite del 26 maggio 1962, laddove
pone a confronto, ai fini della valutazione dell'interesse
dell'imputato, le eventualità del rinvio a giudizio e della
condanna inerenti, rispettivamente, alla impugnazione della
sentenza di proscioglimento emessa in istruttoria e di
quella pronunciata in dibattimento.
In realtà, nel caso di impugnazione di sentenza istrut
toria, non si pone l'alternativa fra proscioglimento e con
.danna, e quindi fra misura di sicurezza e pena, ma fra
proscioglimento e rinvio a giudizio ; e quest'ultimo seppure come alternativa esclusiva, a causa dell'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione.
Le regole codificate nell'art. 515, 1° e 3° comma, non
trovano corrispondenza nell'art. 387 cod. proc. pen. con cernente l'impugnazione delle sentenze istruttorie di pro
scioglimento. È principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che per l'appello della sentenza istruttoria
non vale il principio tantum devolutum quantum appella tum. Non esiste alcun limite né alcuna preclusione nel
giudizio istruttorio di secondo grado, che attinge dalla sua
particolare natura e dagli scopi cui è diretto la propria autonomia, della quale è manifestamente precipua la rico
nosciuta possibilità della reformatio in peius. Ma ciò che deve essere soprattutto rilevato, è che la
sentenza di rinvio a giudizio non fa stato per il futuro :
il giudice del dibattimento ha piena libertà d'indagine, di
valutazione e di decisione ; può assolvere l'imputato per
qualsiasi causa non valutata o non ritenuta adeguata dal
giudice dell'istruzione, può rilevare cause di non puni
bilità, escludere circostanze aggravanti o riconoscere circo
stanze attenuanti, o degradare l'imputazione, ancorché
nell'istruttoria l'imputato non abbia invocato soluzioni
siffatte.
Dalla considerazione del contenuto oggettivo dell'iute
resse, e quindi dell'irrilevanza delle previsioni e delle valu
tazioni personali dell'imputato, deriva che ai motivi di
gravame enunciati deve- attribuirsi incidenza nell'indivi duazione dell'interesse solo allorché ad essi la legge pro cessuale attribuisca la funzione di fissare i limiti della
devoluzione ; non allorché, invece, l'impugnazione costi
tuisca bensì il presupposto inderogabile per la modifica
zione del provvedimento impugnato, ma il giudice superiore non sia soggetto a vincoli o limiti correlativi ai motivi
proposti. In definitiva, deve aversi riguardo non al risultato
che l'impugnante ha di mira, ma a quello che nella spe cifica situazione, secondo il sistema processuale, può conse
guire all'impugnazione. Il prosciolto in dibattimento che impugna la sentenza
chiedendo di essere condannato non ha alcuna prospettiva di vedere migliorata la propria condizione giuridica per i
limiti della devoluzione, circoscritta dai motivi (salva l'ipo tesi eccezionale dell'applicazione dell'art. 152 cod. proc.
pen. che, peraltro, essendo pregiudiziale anche alla dichia
razione di inammissibilità dell'impugoazione, prescinde
dall'indagine sull'interesse ad impugnare).
L'impugnazione della sentenza istruttoria, invece, lascia
àdito a molteplici soluzioni, nella stessa fase istruttoria o
attraverso il rinvio a giudizio. Quest'ultimo comporta,
indipendentemente dalle vicende della fase pregressa, sia
il rischio della condanna, e quindi del peggioramento della
situazione giuridica dell'imputato, sia la possibilità di un
miglioramento rispetto alla formula di proscioglimento
pregiudizievole.
Rispetto al provvedimento impugnato, il rinvio a
g'uiizio non realizza dunque una situazione giuridica del
l'imputato e che possa definirsi aprioristicamente deteriore :
l'interesse ad essere giudicato alla luce delle risultanze
dibattimentali, nella pienezza del contraddittorio, non
può essere confuso con la soggettiva preferenza di una
condanna.
Per questi motivi, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione II penale ; sentenza 15 giugno 1962 ; Pres. Pa
lermo P., Est. De Santis, P. M. Paternostro (conci,
conf.) ; ric. Griambarba.
{Conferma Trib. Lecce 31 ottobre 1961)
Incjiuria e diffamazione — « IVoii mi rompere le sca
tole » — Sussistenza del reato (Cod. pen., art. 594).
L'espressione « non mi rompere le scatole », integra gli estremi
del reato di ingiuria. (1)
(1) Non constano precedenti editi in termini. Da Cass. 8 novembre 1951, Anselmino, Foro it., Rep. 1952,
voce Oltraggio, n. 35, è stato ritenuto che configuri il reato di
oltraggio a pubblico ufficiale l'espressione « non rompetemi le balle ». Secondo Cass. 14 febbraio 1955, Sartori, id., Rep. 1955, voce Ingiuria, n. 14, anche le parole di uso comune in una de terminata località possono costituire ingiuria. Per Trib. Spoleto 23 gennaio 1958, id., Rep. 1959, voce cit., n. 10, anche se
turpi espressioni e gesti scorretti siano stati persino elevati al
rango di manifestazioni pittoresche, descritte in opere letterarie e cinematografiche, ciò non può valere a costringere le persone dabbene a sopportare le offese loro personalmente arrecate con
modi e parole ricavate dal più vieto linguaggio da trivio. Al
contrario da Trib. supr. mil. 7 novembre 1952, Fabbri, id.,
Rep. 1953, voce Abuso di autorità, n. 27, in tema di ingiuria ad inferiore è stato escluso il reato previsto dall'art. 196 cod.
pen. mil. pace, nel caso di espressioni scurrili, che siano abituali
nel gergo militare e perciò prive di attitudine ad offendere chi
sia abituato ad udirle. Nello stesso senso, secondo Trib. mil.
terr. Roma 21 marzo 1951, id., Rep. 1951, voce Ingiuria, nn.
25, 26, l'offensività di una parola va rapportata alla personalità
dell'agente e dell'offeso, all'ambiente e ad ogni circostanza ap
prezzabile. Pertanto, non commette ingiuria ad inferiore, il ser
gente che, avendo un militare risposto ad una sua domanda in
modo che egli ritiene inesatto, gli dica « bel fesso », Circa la « de
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PARTE SECONDA
La Corte, ecc. — A censura della impugnata sentenza, il ricorrente Giambarba, con quattro distinti mezzi di an
nullamento, ha dedotto :
1) Erronea applicazione della legge, in ordine al giudizio di colpevolezza per il reato di ingiurie.
2) Vizio di motivazione relativamente al ritenuto
concorso della aggravante dell'uso di arma, quanto al
delitto di lesioni tentate.
3) Vizio di motivazione in ordine alla tempestività della querela.
4) Vizio di motivazione relativamente al non ricono
sciuto concorso della attenuante della provocazione. Tutte le censure sopra riassunte sono infondate.
In relazione alla prima di esse va precisato che il ricor
rente riconosce di aver rivolto all'offeso la frase « non mi
rompere le scatole », ma nega che essa comporti offesa al
decoro, trattandosi solo di un invito rivolto, sia pure in
forma recisa e poco garbata, all'interlocutore affinchè
si allontanasse e non arrecasse più molestia con la sua pre senza e con il suo comportamento.
Chiarito in tal modo il contenuto e la portata della
doglianza occorre dire, in primo luogo, che essa muove da
presupposti di fatto contrari a quelli che sono stati ritenuti
dai Giudici di merito : che cioè fu il Giambarba, non l'offeso, Francesco Lanza, ad assumere un atteggiamento provo
catorio, prima rivolgendo ad esso Lanza la frase di cui
sopra, poi passando alle minacce, solo perchè l'altro aveva
mosso delle rimostranze per il comportamento di tale Gina
Mele.
Escluso dunque, perchè i Guidici di merito hanno rite
nuto anzi il contrario, che il Lanza avesse tenuto una con
dotta tale da meritare un secco invito a non dare molestia, la frase pronunciata dal Giambarba, per il suo significato manifestamente dispregiativo ha un indubbio contenuto
lesivo del decoro. Il risultato della offesa al decoro della
persona cui viene rivolta è inoltre conseguito anche per la
manifesta allusione agli organi genitali, cui la condotta
dell'interlocutore arrecherebbe disturbo.
No giova osservare in contrario che la frase fa parte di un gergo che, per quanto volgare, è di uso comune in
alcuni ambienti, come quello in cui vivevano ed agivano i soggetti della piccola attuale vicenda, e che nel gergo suddetto il significato assunto dalla frase è notevolmente
diverso da quello letterale.
Il decoro che la legge vuole tutelare, insieme con lo
onore, mediante la incriminazione della ingiuria non può essere inteso in modo tanto arbitrario da escludere che esso
subisca offesa anche quando il soggetto sia fatto segno ad
espressioni del genere di quella pronunciata dal Giambarba,
solo perchè esse sono frequentemente usate da persone di
scarsa educazione.
L'uso frequente non priva la frase del suo contenuto lesivo della personalità morale di ogni individuo, specie
quando essa venga pronunciata nel corso di un litigio per manifestare il proprio disprezzo.
Per questi motivi, ecc.
sensibilizzazione » rispetto al significato offensivo di certe parole o frasi, che si sarebbe verificata nelle persone che partecipano alle competizioni politiche e sindacali, cons. Cass. 24 gennaio 1962, Piomboni, id., 1962, II, 283, con nota di Boschi.
Secondo Antot.tset, Man. dir. pen., 1960, parte speciale, I, pagg. 137, 140, il valore offensivo di una espressione è assai
relativo, variando notevolmente coi tempi, i luoghi e le circo stanze e dipendendo anche dallo stato o grado sociale delle
persone cui viene rivolta. A cagione della relatività e variabilità dei concetti di onore e decoro, la linea di demarcazione tra i]
penalmente illecito (ingiuria) e ciò che non è tale (imperti nenza, inurbanità, scortesia) ò spesso sottile, perciò molto è affi dato al saggio apprezzamento del giudice, il quale dovrà consi derare con la maggiore attenzione tutte le circostanze del caso concreto e tenere conto dei giudizi correnti. Sul carattere rela tivo dei concetti di onore e decoro, nonché del valore offensivo delle espressioni, concordano anche : Manzini, Dir. pen. it., 1951, Vili, pag. 450 segg. ; Florian, Ingiuria e diffamazione, 1939, pag. 31 segg. ; Forchino, Ingiuria e diffamazione (dir. pen. comune), voce del Novissimo digesto it., 1962, Vili, pag. 685.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezioni unite penali ; sentenza 31 marzo 1962 ; Pres. Vista
P., Rei. Peronaci, P. M. Pioletti (conci, conf.) ; ric. P. m. e Monticciolo.
(Conferma Assise a pp. Palermo 27 maggio 1961)
Amnistia, indulto e grazia — Indulto — Cumulo di
pone — Applicabilità dell'indulto a talune —
Scioglimento del cumulo — Ricostituzione tra
le pene residuate (Cod. pen., art. 174 ; d. pres. 19
dicembre 1953 n. 922, concessione di amnistia e indulto).
Amnistia, indulto e grazia — Indulto — Pene da
beneficiarsi — Somma aritmetica superiore al
cumulo giuridico — Applicazione dell'indulto sul
cumulo — Cumulabilità della pena unica residua
con altre pene non beneficiate (Cod. pen., art. 174).
Il cumulo di pene, a sèguito di concorso di reati, si scioglie
qualora un indulto (nella specie, la riduzione di pena
prevista dal decreto pres. 19 dicembre 1953, n. 922) sia
applicabile solo ad alcune pene cumulabili, per rico
stituirsi poi tra le pene cui l'indulto fu applicato e le
altre. (1) Sciolto il cumulo complessivo, se la somma aritmetica delle
pene cui applicare l'ind/ulgenza supera il loro cumulo
giuridico, si applica l'indulto su tale cumulo ; si addi
viene infine al cumulo della pena unica residuata dal
l'indulgenza con le altre non beneficiate, applicando ancora, se del caso, le limitazioni previste dalla legge
per il cumulo di pene. (2)
Il P. m., ecc. —- Con sentenza 12 aprile 1957 della Corte
4i assise di appello di Palermo, Monticciolo Calogero fu con
dannato alle seguenti pene detentive, delle quali le prime
quattro inflitte con l'aggravante prevista dal decreto legisl. 10 maggio 1945 n. 234 : a) anni 6 di reclusione per tentato
(1) Giurisprudenza costante : Cass. 15 gennaio 1962, Peliz
zari, Foro it., Rep. 1962, voce Amnistia, n. 103 ; 18 dicembre
1961, Migliorini, ibid., n. 100 ; 6 ottobre 1961, Tutimano, ibid., n. 96 ; 2 ottobre 1961, Teri, ibid., n. 97 ; 2 maggio 1961, Mazzola, id., Rep. 1961, voce cit., n. 177 (cit. in sentenza); 1° febbraio
1961, Maddedda, ibid., n. 176 ; T. supr. mil. 26 giugno 1960,
ibid., nn. 174, 175 ; Cass. 26 ottobre 1960, Di Bari, ibid., n. 173 ; 31 ottobre 1960, Abbisso, ibid., n. 171, 172 ; 4 marzo 1960, Rossi. id.. Rep. 1960, voce cit., n. 97 ; 4 marzo 1960, Armilei, ibid., n. 98 ; 11 luglio 1959, Perini, ibid., n. 95 ; 8 aprile 1959, Perciò, ibid., n. 92 ed altre ; contra : Cass. 16 maggio 1957, Serra, id..
Rep. 1957, voce Sequestro di persona, n. 14 (che applicò l'indulto al cumulo giuridico limitato risultante sia dalle pene da bene ficiarsi sia dalle altre).
La dottrina è conforme : Jannitti l'i hom allo, Amnistia ed
indulto, voce del Novissimo digesto it., I, pag. 588; Manzini, Trattato dir. pen. it., Ill, pag. 473 ; vedi tuttavia le note critiche a Cass. 2 maggio 1962, cit., di Jovane, Cumulo, separazione delle
pene concorrenti e applicazione dell'indulto, in Rass. studi penit., 1962, 227, e di Sesti, Indulto e cumulo nella recente giurisprudenza della Cassazione, in Giur. sic., 1958, 694.
Sulla natura giuridica del beneficio di cui al decreto pres. n. 922 del 1953, vedi, nello stesso senso della sentenza su ripor tata, oltre la massima in essa citata, T. supr. mil. 9 febbraio 1960, Foro it., Rep. 1961, voce Amnistia, n. 222 ; Cass. 11 ottobre 1958, Piacentini, id., Rep. 1959, voce cit., n. 100.
In dottrina, conforme : Sesti, Della natura giuridica d'in dulto della riduzione di pena concessa ìlei decreti di clemenza n. 922 del 1953 e n. 460 del 1959, in Giur. sic., 1901, 490 ; contra : Sa
batini, Condono e riduzione di pena, in Giust., pen., 1954, TI, 576.
(2) Il problema, suscitato dal P. m. (con riferimento al caso di specie di appartenenti a bande armate in Sicilia) era
già stato risolto, come ricorda la sentenza massimata, da Cass. 2 maggio 1961, Mazzola (cit. in sentenza) e da Cass. 8 aprile 1959, Nardiello (cit. in sentenza) nello stesso senso ; in senso
opposto, da Cass. 19 febbraio 1958, Macaluso (cit. in sentenza). Nei tre provvedimenti, peraltro, non si motivava la soluzione
prescelta. In dottrina vedi: Jovane, nota cit. sub (l) ; Sesti, Indulto
e cumulo, cit, sub (1).
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