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sezione III civile; sentenza 11 ottobre 1996, n. 8932; Pres. Giuliano, Est. Sabatini, P.M. Leo(concl. conf.); Bianchi (Avv. Cipollone) c. Grillo e altro (Avv. Contardi). Conferma App. Roma30 settembre 1993Source: Il Foro Italiano, Vol. 120, No. 6 (GIUGNO 1997), pp. 1903/1904-1907/1908Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23192038 .
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1903 PARTE PRIMA 1904
È stato al riguardo osservato che nessun rilievo può essere
attribuito alla circostanza che il difensore colpito dall'evento
impeditivo sia stato procuratore della parte costituita in primo
grado, posto che tutti gli effetti connessi a tale costituzione so
no venuti a cessare nel momento della notifica dell'atto di im
pugnazione effettuata presso di lui, secondo la previsione del
richiamato art. 330, 1° comma, ultima parte, c.p.c. Ritiene tuttavia questo collegio che tale ultima decisione non
possa essere condivisa e che l'interruzione del processo si verifi
chi anche nel caso in cui il decesso del procuratore, costituito
nel giudizio di primo grado, avvenga dopo la notificazione del
la sentenza d'appello e prima del decorso del termine per la
costituzione nel giudizio di secondo grado. In realtà sarebbe strano, e forse anche incostituzionale, che
la garanzia della difesa attuata durante tutto il processo me
diante l'istituto dell'interruzione, venisse meno proprio nella de
licata fase del decorso dei termini per la costituzione (che ai
sensi dell'art. 436 c.p.c. deve avvenire almeno dieci giorni pri ma dell'udienza di discussione dinanzi al collegio) e per l'even
tuale proposizione dell'appello incidentale (che ai sensi dello stes
so articolo deve essere proposto nella memoria di costituzione
da notificarsi, a cura dell'appellato, alla controparte almeno dieci
giorni prima dell'udienza di discussione dinanzi al collegio).
Si deve pertanto ritenere che la necessità della costituzione
sia stata prevista dall'art. 301 c.p.c. solo in relazione al proces
so di primo grado, al quale la norma del resto si riferisce.
In particolare non sembra da condividersi l'affermazione che
tutti gli effetti connessi alla costituzione nel giudizio di primo
grado vengano a cessare nel momento della notifica dell'atto
di impugnazione al procuratore della parte.
Sembra invece da ritenersi che con l'atto di costituzione il
procuratore, a mezzo del quale la parte sta in giudizio, diventa,
per effetto della sostituzione procuratoria, il naturale destinata
rio degli atti processuali; tutte le comunicazioni e le notificazio
ni si devono fare al procuratore costituito salvo che la legge
disponga altrimenti (art. 170 c.p.c.) e si presumono conosciute
dalla parte verso la quale il procuratore ha un dovere deontolo
gico di informazione; che tale dovere viene meno nei casi indi
cati dall'art. 301 c.p.c. con la conseguente interruzione del pro
cesso; e che la stessa situazione si verifica anche nel caso in
cui il procuratore deceda dopo la notifica dell'atto di impugna
zione e prima del decorso dei termini dell'appello.
Nel caso in esame risulta dagli atti di causa, e comunque non
è controverso tra le parti, che il ricorrente si è costituito nel
giudizio di primo grado attraverso l'avv. Gabriele Moricca, pro
curatore domiciliatario; che con sentenza depositata il 24 no
vembre 1988 il pretore accoglieva la domanda del Gigli nella
contumacia dell'altra parte, l'Inadel (ora Inpdap); che quest'ul
timo istituto ha impugnato la sentenza con atto di appello noti
ficato al Gigli nel domicilio eletto presso l'avv. Moricca il 16
ottobre 1989; che il 3 dicembre 1990 l'avv. Moricca decedeva
prima della udienza di discussione fissata per il 20 ottobre 1992;
che nell'udienza di discussione l'avv. Cristina Della Valle, pro
curatrice dello studio legale dell'avv. Moricca, dichiarava il de
cesso dell'avvocato e chiedeva l'interruzione del processo; che
il tribunale, ritenuto che non ricorresse una ipotesi di interru
zione, pronunziava sentenza con la quale riformava la decisione
del pretore e rigettava la domanda del Gigli ritenuto contumace.
Ritiene, invece, questo collegio che il tribunale avrebbe dovu
to dichiarare l'interruzione del processo ai sensi dell'art. 301
c.p.c.; che l'omessa dichiarazione dell'interruzione automatica
comporta la nullità di tutti gli atti successivi e della sentenza
che ha definito il giudizio; che la sentenza impugnata deve quindi
essere cassata e che la causa debba essere rinviata dinanzi a
un altro giudice davanti al quale la causa dovrà essere ripresa
dal punto in cui si trovava al momento dell'evento che avrebbe
dovuto dar luogo all'interruzione (Cass. 3 ottobre 1960, n. 2619,
id., Rep. 1960, voce cit., nn. 309, 310). Deve pertanto essere accolto il primo motivo del ricorso e
devono essere dichiarati assorbiti gli altri. La sentenza impu
gnata deve essere cassata e la causa deve essere rinviata al Tri
bunale di Civitavecchia dinanzi al quale la causa dovrà essere
ripresa dal punto in cui si trovava al momento dell'evento che
avrebbe dovuto dar luogo all'interruzione.
Il Foro Italiano — 1997.
II
Motivi della decisione. — Il ricorso è infondato.
L'art. 301 c.p.c. contempla la morte, la radiazione o la so
spensione del procuratore dall'albo come possibili cause d'in
terruzione del processo. Non è invece previsto che il medesimo
effetto possa dipendere anche solo da malattia, per quanto gra
ve, del medesimo procuratore, o comunque dalla perdita di ca
pacità intellettiva dello stesso, ove non ne sia eventualmente
conseguita la sospensione o la radiazione dall'albo. E ben lo
si comprende: perché l'interruzione del processo può essere con
seguenza solo di fatti obiettivi ed indiscutibili, mentre l'accerta
mento delle menomate condizioni fisiche o psichiche del procu ratore che rappresenta ed assiste in giudizio la parte inevitabil
mente richiederebbe una serie di valutazioni — per natura loro
suscettibili di essere variamente apprezzate e discusse — la cui
definitiva verifica rischierebbe perciò d'introdurre nella causa
in corso tra le parti un diverso procedimento incidentale, avente
ad oggetto il suaccennato accertamento delle condizioni di salu
te (o di capacità) del procuratore. Il che sarebbe manifestamen
te inammissibile. Né in ciò può ravvisarsi una qualche menomazione del diritto
di difesa, garantito dall'art. 24 Cost. La parte, invero, è sempre libera di scegliere il proprio procuratore in giudizio e di revoca
re la sua precedente scelta designando in seguito un diverso pro
fessionista; ma, per ciò stesso, essa assume la responsabilità della
propria scelta e, correlativamente, l'onere di verificarne la ri
spondenza ai propri interessi anche durante lo svolgimento del
mandato conferito al legale. Ragion per cui, ove questi cessi,
medio tempore, di offrire quelle garanzie di capacità e di equili
brio per le quali il cliente gli aveva da principio dato fiducia
(e salvo il caso, naturalmente, in cui l'eventuale sopravvenuta
incapacità si traduca in un impedimento giuridico all'esercizio
della professione, con conseguente venir meno dell'iscrizione nel
l'albo procuratorio, a tal fine necessaria), è solo la stessa parte a poter valutare l'opportunità di tenere in vita il rapporto pro
fessionale o di troncarlo. Non può invece concepirsi — giacché
questo sarebbe davvero in contrasto con il suaccennato diritto
costituzionale di difesa — che sia il giudice ad interferire d'au
torità su quel rapporto, statuendo che il professionista non è
più idoneo ad adempiere l'incarico confidatogli dal cliente e
sospendendo così d'ufficio il giudizio per estromettere da esso
il legale (ipoteticamente) incapace. Il ricorso va perciò rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 11 otto
bre 1996, n. 8932; Pres. Giuliano, Est. Sabatini, P.M. Leo
(conci, conf.); Bianchi (Avv. Cipollone) c. Grillo e altro (Aw.
Contardi). Conferma App. Roma 30 settembre 1993.
Confessione in materia civile — Dichiarazione «de relato» —
Percezione diretta del fatto — Necessità — Esclusione (Cod.
civ., art. 2730, 2732, 2733). Confessione in materia civile — «Animus confitendi» — Con
sapevolezza delle conseguenze giuridiche — Irrilevanza (Cod.
civ., art. 2730).
Non è necessario per la validità della confessione che il fatto dichiarato dalla parte sia stato dalla stessa direttamente per
cepito. (1)
(1) Non constano precedenti in termini. Nel caso esaminato il ricorrente, attenendosi alla ricostruzione data
dalla controparte, si limita ad ammettere che la caduta da cavallo si
è verificata per l'improvvisa rottura della cinghia della staffa e da tale
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
L'elemento soggettivo richiesto per la validità della confessione non consiste nell'intenzione di fornire una prova alla contro
parte, ma nella consapevolezza e volontà di ammettere e rico
noscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, indipendentemente dalle conseguenze giuridi che che ne possono derivare. (2)
Svolgimento del processo. — Con atto di citazione del 30
gennaio 1985 Sergio Laurenti — premesso che il 31 dicembre
1982 era caduto da cavallo, a causa della improvvisa rottura
della cinghia della staffa sinistra, riportando lesioni alla perso
na, mentre si trovava nel maneggio di proprietà di Luigi Bian
chi — conveniva costui dinanzi al Tribunale di Roma per sen
tirlo condannare al risarcimento, del danno conseguente. La domanda, cui il convenuto resisteva, veniva accolta dal
l'adito tribunale che, con sentenza del 19 ottobre 1990, condan
nava il predetto a pagare la somma di lire 15.220.000, oltre
interessi legali e spese, in favore di Paola Grillo nonché Priscil
la e Silvana Laurenti, tutte eredi dell'attore, deceduto nelle more.
Riteneva provata la responsabilità del Bianchi dalla confes
sione giudiziale dello stesso, il quale, in sede di interrogatorio
formale, aveva ammesso che l'incidente si era verificato secon
do le modalità, indicate dall'attore. Rilevato, poi, che nessuna
contestazione era stata mossa dallo stesso Bianchi, il quale ave
va noleggiato il cavallo al Laurenti, riguardo alla proprietà del
la sella e dei finimenti, il tribunale addebitava al convenuto la
culpa in omittendo di non avere verificato le condizioni di sicu
rezza della menzionata attrezzatura.
Tale decisione veniva confermata dalla corte di appello, la
asseverazione non trae alcuna conseguenza giuridica per Io svolgimento della propria difesa. La conoscenza solo «indiretta» della dinamica del l'infortunio non può costituire un elemento rilevante per stabilire il va lore confessorio di una dichiarazione. Secondo la Cassazione subordi
nare l'efficacia della confessione a determinate modalità di conoscenza del fatto, dato il silenzio della legge in proposito, risulta arbitrario e
contrasta con le norme che disciplinano tale mezzo di prova, dalle qua li, come viene evidenziato in sentenza, può ricavarsi semmai un'indica zione di carattere opposto. È inoltre necessario distinguere tra il valore
probatorio di una deposizione testimoniale de relato e lo stesso tipo di deposizione resa però da una delle parti in interrogatorio formale. La deposizione testimoniale ha valore di prova solo in ordine a quanto è stato sottoposto alla diretta percezione fisica del teste. Qualora si tratti invece di fatti conosciuti solo indirettamente dal soggetto che ren de testimonianza, questi potranno assumere valore probatorio purché sorretti da altri elementi precisi e concordanti che consentano di ritene
re accertati i fatti riferiti (in tal senso, si esprime in maniera costante la giurisprudenza; v. Cass. 12 dicembre 1994, n. 10603, Foro it., Rep. 1994, voce Prova testimoniale, n. 30; 14 febbraio 1990, n. 1095, id.,
Rep. 1991, voce cit., n. 18; 4 novembre 1988, n. 5974, id., Rep. 1988, voce cit., n. 18; 5 marzo 1987, n. 2336, id., Rep. 1987, voce cit., n.
26; in dottrina, cfr. V. Andrioli, Prova testimoniale, voce del Novissi mo digesto, XIV, 329).
Il principio suesposto non può tuttavia trovare applicazione quando si tratti, come nel caso di specie, di una dichiarazione confessoria aven
te ad oggetto diritti disponibili. Il carattere di piena prova riconosciuto alla confessione vale a superare quelle normali incertezze che invece si possono presentare circa la attendibilità di una testimonianza de rela
to e che si risolvono solo facendo ricorso ad elementi di carattere pre suntivo.
(2) Oggetto della seconda massima è la nozione di animus confiten di. Nella giurisprudenza, sia antica che recente, si trovano numerose
pronunce che in maniera costante affermano che per assurgere a con
fessione la dichiarazione del confitente debba essere ispirata ad un par ticolare animus anche se poi tale concetto è stato definito variamente.
Talvolta si è definito l'animus come «volontà diretta allo scopo di for
nire una prova all'avversario» (Cass. 5 novembre 1947, n. 1655, Foro
it., Rep. 1947, voce Confessione in materia civile, n. 8), in altri casi
come «consapevolezza da parte del confitente di riconoscere un fatto
vantaggioso per l'altra parte con la previsione di non poterlo in seguito contestare» (Cass. 12 giugno 1947, n. 921, ibid., n. 4, e Giur. it., 1949,
I, 565; 7 giugno 1947, n. 869, Foro it., Rep. 1947, voce cit., n. 3). La decisione in rassegna si ispira all'orientamento, ampiamente rappre
sentato, secondo cui l'elemento soggettivo in questione postula la vo
lontà e la consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, il quale sia obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole alla
controparte, ma risulta indipendente dal fine per il quale la dichiarazio
ne viene resa e dalle conseguenze giuridiche che possono derivarne (cfr. Cass. 19 ottobre 1985, n. 5141, id., Rep. 1985, voce cit., n. 1; 10 mag
gio 1983, n. 3222, id., Rep. 1983, voce cit., n. 4; 24 aprile 1981, n.
2458, id., Rep. 1981, voce cit., n. 5; cfr. anche nota a App. Milano
Il Foro Italiano — 1997.
quale, con la sentenza, ora impugnata, rivalutava l'ammontare
del danno in lire 17.625.000. Il Bianchi ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due
motivi. Resistono con controricorso le intimate.
Motivi della decisione. — 1. - Con il primo motivo, il ricor
rente deduce la violazione dell'art. 2730 c.c., in relazione agli art. 2697 c.c. e 228 c.p.c., e sostiene che il tribunale, prima, la corte territoriale, dopo, hanno illegittimamente attribuito va
lore confessorio alla dichiarazione, da lui resa in sede di inter
rogatorio formale, trascurando di rilevare che tale essa non po teva essere considerata, in quanto de relato, e perché priva, inol
tre, dell'animus confitenti, che non appariva sussistere dal tenore
e dal contenuto di detto interrogatorio. (Omissis) 2. - Il 1° comma dell'art. 2730 c.c. dispone che la confessione
è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti, ad essa
sfavorevoli e favorevoli all'altra parte. Ad avviso del ricorrente, la dichiarazione confessoria richie
de, altresì, che i fatti, dichiarati dalla parte, siano stati dalla
stessa direttamente percepiti, e non già soltanto appresi da altri:
con la conseguenza — afferma — che non è confessoria la di
chiarazione soltanto de relato, quale nella specie egli ebbe a
rendere.
Rileva la corte che la verità, dichiarata dalla parte per gli
effetti, di cui al menzionato art. 2730, è una verità necessaria
mente soggettiva — quale, cioè, percepita dalla stessa parte —
tanto che, ai sensi del successivo art. 2732, la confessione può essere revocata in caso, oltre che di violenza, anche di errore
di fatto.
Nulla, invece, dispone la legge riguardo alle modalità, attra
18 settembre 1964, id., 1964, I, 2195). L'animus confitendi entra quindi a pieno titolo come elemento intenzionale nello schema strutturale della confessione. Questa linea di tendenza probabilmente corrisponde all'e
sigenza molto sentita di limitare l'efficacia di piena prova della confes sione «non tanto, in relazione alla confessione giudiziale, la cui serietà e ponderatezza è garantita dall'ambiente in cui è resa e dalle modalità con cui è provocata, quanto per quella stragiudiziale spesso resa in cir costanze che non ne assicurano l'attendibilità» (v. G. Dinacci, «Ani mus confitendi» e conflitto d'interessi: profili soggettivi e profili fun zionali della confessione, in Rass. dir. civ., 1983, 682 ss.).
Significativi al riguardo sono i risultati di una ricerca sul processo civile diretta da V. Denti, Le prove nel processo civile, Milano, 1973, 740, che hanno evidenziato un diffuso atteggiamento di sfavore dei giu dici nei confronti della prova legale. La dottrina sul tema non è unifor me e oscilla tra la concezione di chi considera come determinante, o almeno non del tutto privo di importanza, il momento soggettivo della dichiarazione confessoria (v., ad es., G. Messina, Contributo alla teo ria della confessione, Sassari, 1902; C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, I, Firenze, 1914; G. Mirabelli, L'atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955; S. Satta, Commentario, II, 214; L. Montesano, Sull'«animus confitendi» e sulla teoria oggettiva della confessione, in Riv. dir. proc., 1950, II, 12 ss.) e di chi nega ogni valore all'intenzione della parte in merito sia all'esistenza sia al
l'efficacia della confessione (v. C. Furno, «Animus confitendi», in Giur.
it., 1949, I, 1, 1567; Id., Confessione (dir. proc. civ.), voce dell 'Enci
clopedia del diritto, Milano, 1961, Vili, 890; cfr. anche V. Andrioli,
Confessione (dir. proc. civ.), voce del Novissimo digesto, Milano, 1959, IV, 10 ss.; P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975). In maniera particolarmente vigorosa Furno critica il riferimento all'animus ritenendolo «un prodotto di scuola elaborato per spiegare sul piano sostanziale l'efficacia vincolante dell'atto, ricollegandola alla volontà del confitente» privo di qualunque fondamento di diritto posi tivo. La critica di tale autore si appunta essenzialmente sul fatto che i momenti essenziali e caratteristici della confessione sono da un lato la contrarietà all'interesse del confitente del fatto confessato e dall'altro la sua automatica eliminazione dal thema probandum. Entrambi questi momenti hanno un rilievo esclusivamente oggettivo e ad essi non ag
giunge niente il fatto che il dichiarante abbia avuto anche il proposito di eliminare il contrasto delle parti sul fatto confessato. La stessa disci
plina dell'efficacia e irrevocabilità della confessione sembra andare nel
la direzione di negare qualsiasi rilevanza ali 'animus confitendi. Se in
fatti l'efficacia vincolante della confessione dovesse dipendere dall'esi
stenza di tale elemento, il giudice sarebbe tenuto a considerare il fatto
come vero solo dopo avere positivamente accertato l'esistenza dell'am
mus venendo però a soffocare in tal modo il principio della prova lega le (Furno, «Animus confitendi», cit.). Forse un'impostazione più rigo rosa del problema imporrebbe di rinunciare a definire l'animus confi tendi come intenzione, consapevolezza, coscienza per capire in primo
luogo la rilevanza del valore nella confessione e arrivare successivamen
te a stabilire la configurabilità o meno dell'animus confitendi come re
quisito soggettivo della medesima.
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1907 PARTE PRIMA 1908
verso le quali tale percezione si realizza: modalità che, in astrat
to, possono essere le più diverse, potendo il confitente essere
stato presente allo stesso svolgimento del fatto, poi oggetto di
confessione, ovvero esserne venuto a conoscenza attraverso al
tre persone e documenti (che, eventualmente smarriti od andati
distrutti, non si sia potuto produrre in giudizio) o mezzi mecca
nici (nastri cinematografici o simili). Il silenzio della legge al riguardo non consente all'interprete
di richiedere, per la validità della confessione, requisiti ulterio
ri, rispetto a quelli tassativamente richiesti (verità dei fatti e
capacità di disporre del diritto: art. 2730 e 2731 c.c.). Al contrario, la rilevata possibilità della revoca della confes
sione anche per errore di fatto, la previsione che essa possa essere resa anche a mezzo di rappresentante e la qualificazione di atto giuridico non negoziale, e, precisamente, di dichiarazio
ne di scienza, attribuito da questa Corte suprema (sent. 1960/95,
Foro it., Rep. 1995, voce Confessione in materia civile, n. 5,
e 136/85, id., Rep. 1985, voce cit., n. 2) alla confessione, auto
rizzano a ritenere che le modalità di percezione della verità dei
fatti, oggetto di essa, possano essere le più disparate.
La giurisprudenza distingue bensì, quanto alla testimonianza,
secondo che le relative dichiarazioni abbiano ad oggetto fatti
percepiti dal teste direttamente ovvero de relato, e richiede, nel
secondo caso, che esse siano sorrette da altri elementi precisi e concordanti, che consentano di poter ritenere accertati i fatti
riferiti (sent. 10603/94, id., Rep. 1994, voce Prova testimonia
le, n. 30). La distinzione, peraltro, non è estensibile alla confessione,
posto che, mentre la testimonianza deve essere valutata dal giu
dice nella sua attendibilità (valutazione che deve investire, per le dichiarazioni de relato, sia la fonte immediata che quella me
diata), perché produca effetti probatori corrispondenti alla di
chiarazione stessa, la confessione, se relativa, come nella specie, a diritti disponibili, fa invece piena prova contro il confitente
(art. 2733 c.c.), senza che al giudice sia consentito alcun vaglio critico.
È pertanto confessione, e produce gli effetti giuridici propri di questa, anche la dichiarazione soltanto de relato.
Quanto all'animus confitendi — che il ricorrente deduce in
sussistente con lo stesso primo motivo del ricorso —, questa Corte suprema ha avuto modo di precisare che esso non consi
ste nell'intenzione di fornire una prova alla controparte, ma
nella consapevolezza e volontà di ammettere e/o riconoscere la
verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte,
indipendentemente dalle conseguenze giuridiche che ne possono
derivare, e che il relativo accertamento è demandato al giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di mo
tivazione (sent. 1723/90, id., Rep. 1990, voce Confessione in
materia civile, n. 4; 5141/85 e 3524/85, id., Rep. 1985, voce
cit., nn. 1, 5). Fermo quanto testé rilevato, devesi osservare che il motivo,
in parte qua, è inammissibile, dal momento che il ricorrente, il quale non adduce alcun vizio motivazionale, demanda allo
stesso giudice della legittimità l'accertamento — negativo — di
tale requisito soggettivo: il che non è consentito. (Omissis)
Il Foro Italiano — 1997.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 8 ottobre
1996, n. 8789; Pres. Martinelli, Est. Evangelista, P.M. De
Gregorio (conci, conf.); Inps (Avv. Fonzo, Pulli) c. Vivian.
Cassa Trib. Trieste 11 gennaio 1995.
Esecuzione forzata per obbligazioni pecuniarie — Espropriazio ne presso terzi — Crediti — Assegno vitalizio spettante ai
consiglieri regionali cessati dalla carica — Pignorabilità (Cod.
civ., art. 2740; cod. proc. civ., art. 545; d.p.r. 5 gennaio 1950
n. 180, t.u. delle leggi concernenti il sequestro, il pignora mento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipen denti della pubblica amministrazione, art. 1, 2; 1. 30 aprile 1969 n. 153, revisione degli ordinamenti pensionistici e norme
in materia di sicurezza sociale, art. 69).
È suscettibile di pignoramento l'assegno vitalizio che la cassa
mutua di previdenza per i consiglieri della regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia corrisponde ai consiglieri regionali ces
sati dalla carica. (1)
(1) Non constano precedenti specifici in termini. Sulla pignorabilità degli stipendi dei pubblici dipendenti, vedi (oltre
alla nota di richiami a Cass. 29 novembre 1996, n. 10649, in questo fascicolo, I, 1091) Corte cost. 26 luglio 1988, n. 878 (Foro it., 1988,
I, 2787) la quale ha ritenuto l'illegittimità dell'art. 2, 1° comma, n.
3, d.p.r. 5 giugno 1950 n. 180, nella parte in cui non prevede la pigno rabilità e la sequestrabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrispo sti dallo Stato, fino alla concorrenza di un quinto per ogni credito van
tato nei confronti del personale. Tale pronuncia è altresì riportata in
Giur. it., 1988, I, 1, 1617, con nota di Conte, La pignorabilità degli stipendi dei pubblici dipendenti nei più recenti orientamenti della Corte
costituzionale, e in Riv. dir. proc., 1989, 1178, con nota di Riva, La
pignorabilità degli emolumenti dei dipendenti dello Stato: una sentenza «attesa». Con tale pronuncia la corte ha completato l'eliminazione dal
nostro ordinamento del privilegio costituito dalla impignorabilità degli emolumenti dei pubblici dipendenti richiamandosi ai principi già posti a base della decisione 31 marzo 1987, n. 89, Foro it., 1987, I, 1001, con nota di C. M. Barone; nonché in Giur. it., 1988, I, 1, 539, con
nota di Galligani, Pignorabilità e sequestrabilità degli stipendi e salari
corrisposti dallo Stato e dagli altri enti pubblici e datori di lavoro assi
milati; Riv. dir. proc., 1987, 987, con nota di Saletti, La «nuova»
impignorabilità degli emolumenti di pubblici dipendenti, e Foro pad., 1987, I, 341, con nota di Conte, Nuova breccia nel principio dell'impi gnorabilità degli stipendi dei pubblici dipendenti. Per la giurisprudenza precedente sul punto si vedano le note di richiami di cui sopra.
Nel senso che «il regime dell'impignorabilità degli emolumenti spet tanti al lavoratore è analogo nel settore privato ed in quello pubblico, come risulta, per il settore privato, dagli art. 128 r.d.l. 4 ottobre 1935 n. 1827 e 69 1. 30 aprile 1969 n. 153 e, per il settore pubblico, dagli art. 1 e 2 d.p.r. 5 gennaio 1950 n. 180» e che «pertanto, gli art. 1 e 2, 1° comma, n. 3, d.p.r. 5 gennaio 1950 n. 180 non sono in contra sto con l'art. 3 Cost., in quanto non stabiliscono una diversità di tratta
mento, in ordine all'impignorabilità degli emolumenti nel settore pub blico e in quello privato», cfr. Corte cost. 21 aprile 1989, n. 231, Foro
it., Rep. 1989, voce Impiegato dello Stato, n. 916. Per l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.
545 c.p.c., in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede alcun limite alla pignorabilità degli emolumenti corrisposti ai medici convenzionati con il servizio sanitario nazionale, stante la loro non assi milabilità ai lavoratori subordinati, cfr. Corte cost. 22 dicembre 1989, n. 580, id., Rep. 1990, voce Esecuzione forzata per obbligazioni pecu niarie, n. 18.
Per l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.
545, 4° comma, c.p.c. — in riferimento all'art. 3 Cost. — nella parte in cui prevede la pignorabilità delle retribuzioni limitatamente ad un
quinto del loro ammontare sia per i crediti ordinari che per le obbliga zioni risarcitorie nascenti da delitto, cfr. Corte cost. 13 luglio 1987, n. 260, id., 1988, I, 40.
Sulla legittimità costituzionale delle norme limitative della pignorabi lità delle pensioni (rispetto all'art. 24 Cost.) e della diversità di regime rispetto alla pignorabilità delle retribuzioni dei lavoratori (rispetto al l'art. 3 Cost.), vedi Corte cost. 6 febbraio 1991, n. 55 {id., Rep. 1991, voce cit., nn. 23, 24) la quale, più precisamente, ha ritenuto che «la diversità del regime della pignorabilità delle retribuzioni dei lavoratori e delle pensioni trova giustificazione nella intrinseca differenza delle situazioni giuridiche dei lavoratori e dei pensionati; pertanto, gli art. 69 1. 30 aprile 1969 n. 153 e 1 e 2 d.p.r. 5 gennaio 1950 n. 180 non sono in contrasto con l'art. 3 Cost, nella parte in cui dette norme non
prevedono, rispettivamente, la pignorabilità delle pensioni erogate dal
l'Inps e di quelle corrisposte dallo Stato, in tutti i casi nei quali l'art. 545 c.p.c. prevede la pignorabilità delle retribuzioni, percepite in virtù di un rappporto di lavoro» e che «le norme limitative della pignorabili tà delle pensioni (nella specie, art. 69 1. 30 aprile 1969 n. 153 e 1 e 2 d.p.r. 5 gennaio 1950 n. 180) non violano l'art. 24 Cost, rientrando
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