Sezione III civile; sentenza 16 aprile 1981, n. 2295; Pres. Pedace, Est. Fiduccia, P. M. Cantagalli(concl. conf.); Flora (Avv. Lama, Massari) c. Flora; Flora (Avv. Ricci, Leurini) c. Flora. ConfermaApp. Trento 18 dicembre 1978Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 10 (OTTOBRE 1981), pp. 2453/2454-2457/2458Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23172932 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
il resto una rendita. Segnala poi come erronea l'opinione della
corte di limitare al solo dividendo annuo distribuito il reddito
delle partecipazioni azionarie.
La prima di queste due censure è manifestamente infondata,
perché la corte torinese, anche se ha accennato ad una alterna
tiva legale fra le due forme di commutazione, che non consenti
rebbe una forma mista, tuttavia ha anche aggiunto le ragioni per le quali è nella specie preferibile la costituzione di una rendita;
si tratta di un apprezzamento di fatto non censurabile, e del resto
non censurato, che elimina ogni rilevanza dell'eventuale errore
segnalato. Ma la seconda è altrettanto manifestamente fondata, rimanendo
fuori da ogni possibile dubbio che l'usufrutto su partecipazioni azionarie non si esaurisce affatto, come erroneamente ha ritenuto
la corte del merito, nel dividendo distribuito annualmente agli azionisti.
Che l'usufruttuario dell'azione, così come del resto il socio, non
possa pretendere annualmente dalla società se non il dividendo
e gli altri utili di cui sia stata deliberata nelle forme di legge la
distribuzione è un ovvia verità, che però non risolve il problema. Dice la corte torinese che se si estendesse il diritto dell'usu
fruttuario all'intero utile sociale, anche a quella parte, cioè, che
non è stata distribuita, ma che è passata a riserva o che co
munque è stata accantonata, si darebbe come oggetto a quel l'usufrutto non l'azione, bensì l'azienda sociale, con la inevita
bile conseguenza, inaccettabile, che l'usufruttuario, per far pro
pri tutti gli utili, dovrebbe anche far fronte ai debiti derivanti
dalla gestione sociale.
L'incongruenza di queste ragioni è evidente. A parte l'osser
vazione che agli utili non si contrappongono i debiti, bensì le
perdite, e a parte l'incomprensibile contrapposizione dell'azienda
sociale alla società, è chiaro che le perdite gravano in ogni caso
non sul socio, ma sulla società, che, appunto perché società per
azioni, ha una propria personalità giuridica (art. 2331 cod. civile). La responsabilità per i debiti sociali non ha dunque a che vedere
con la questione in esame, per la soluzione della quale è suffi
ciente osservare che le ragioni esposte dalla corte di Torino ur
tano frontalmente contro il disposto dell'art. 2350 cod. civ. e
contro elementari concetti economici. Secondo questa norma, in
fatti, ogni azione attribuisce il diritto non soltanto a una parte
proporzionale degli utili netti, ma anche a una parte proporzio nale del patrimonio netto risultante dalla liquidazione; e davvero
non si riesce a comprendere perché mai di questo secondo diritto,
incorporato nell'azione, non si debba tener conto in sede di com
mutazione dell'usufruito, ove si tenga presente l'ovvio principio,
peraltro già affermato da questa corte, che nella commutazione
del diritto di usufrutto del coniuge superstite in rendita vitalizia
e nei frutti la determinazione fatta dal giudice in caso di disac
cordo delle parti è prevista dalla legge solo per attribuire al co
niuge quello che gli spetta, né può risolversi in un arricchimento
o in depauperamento del coniuge o degli eredi (sent. 19 maggio
1956, n. 1720, id., Rep. 1956, voce cit., n. 75). Del resto è principio del tutto pacifico che il diritto al divi
dendo annuo non esaurisce il contenuto dell'usufrutto sull'azio
ne; prescindendo infatti dal diritto di voto nelle assemblee (art.
2352 cod. civ.), la dottrina più autorevole è nel senso che, in
caso di distribuzione di azioni gratuite, l'usufrutto si estenda alle
azioni assegnate in proporzione di quelle precedenti e che spetti no comunque all'usufruttuario gli utili delle distribuzioni ordinarie.
Dal punto di vista economico è sufficiente osservare che, come
è di comune accezione, il valore dell'azione di società non è
proporzionale al dividendo annuo, oscillando in dipendenza di
numerosi fattori, fra i quali assume preminente rilevanza nor
malmente la situazione patrimoniale della società.
Non v'è dubbio che, se si trattasse di azioni quotate in borsa,
del loro valore di listino dovrebbe tenersi conto in sede di liqui dazione dell'usufrutto. Trattandosi di azioni non quotate in bor
sa è perciò legittima allo stesso fine l'indagine su tutti gli ele
menti della società che contribuiscono a stabilire il valore del
l'azione, elementi che nel caso di azioni quotate in borsa si ri
flettono normalmente nel valore di listino.
Deve essere dunque cassata, per questa parte, la sentenza im
pugnata che, attenendosi a criteri ingiustamente restrittivi, ha
violato nella commutazione dell'usufrutto della Magistretti le
norme di legge e i principi giuridici sopra richiamati. Ad essi
dovrà adeguarsi il giudice di rinvio.
Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione III civile; sentenza 16 aprile
1981, n. 2295; Pres. Pedace, Est. Fiduccia, P. M. Cantagalli
(conci, conf.); Flora (Avv. Lama, Massari) c. Flora; Flora
(Aw. Ricci, Leurini) c. Flora. Conferma App. Trento 18
dicembre 1978.
Procedimento civile — Sospensione concordata — Termine di
riassunzione — Inosservanza — Conseguenze (Cod. proc. civ.,
art. 296, 297).
L'inosservanza del termine di dieci giorni, previsto nel 2° com
ma dell'art. 297 cod. proc. civ., per richiedere, in caso di
sospensione concordata, la fissazione della nuova udienza di
trattazione, non comporta l'estinzione del processo ma una
mera irregolarità (nella specie, il ricorso era stato depositato
dopo la scadenza del termine di dieci giorni ma prima della
scadenza dei quattro mesi). (1)
(1) È la prima volta che la Cassazione prende posizione sul pro blema relativo alla natura, perentoria od ordinatoria, del termine di dieci giorni previsto dal 2° comma dell'art. 297 cod. proc. civile.
In senso conforme v. App. Cagliari 6 dicembre 1963, Foro it.,
Rep. 1966, voce Procedimento civile, n. 388, e, in dottrina, S. Satta,
Commentario, 1966, II, 1, 396; Id., Diritto processuale civile9, ed.
aggiornata ed ampliata da Punzi, 1981, 391; Andrioli, Commento
al codice di procedura civile, 1960, II, 312; Calvosa, Sospensione del processo civile (di cognizione), voce del Novissimo digesto,
1970, XVII, 963; Costa, Manuale di diritto processuale civile5, 1980, 361. Ritengono, invece, che il termine di dieci giorni abbia natura
perentoria e che, quindi, la sua inosservanza comporti l'estinzione
del processo, App. Venezia 21 luglio 1948, Foro it., Rep. 1949, voce
cit., n. 280 bis-, Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano5,
1956, II, 107, 121; Zanzucchi, Diritto processuale civile5, ed. aggior nata a cura di Vocino, 1962, II, 144.
È considerato perentorio il termine di sospensione concesso dal
giudice istruttore su richiesta delle parti (comunemente quattro me
si); l'istanza di riassunzione va pertanto proposta prima della sua sca
denza, pena l'estinzione ai sensi dell'art. 307, 3° comma. Di diverso av
viso su quest'ultimo aspetto sembra Satta, Commentario, cit., II, 1, 396,
il quale afferma che « se la riassunzione non avviene, si avrà una
situazione anomala, alla quale si potrà applicare la disciplina stabi
lita per la cancellazione della causa dal ruolo ».
È opinione pressoché pacifica che la decadenza sia impedita dal
deposito del ricorso per la fissazione della nuova udienza di discus
sione nel termine previsto dalla legge, a nulla rilevando che lo
stesso ricorso venga poi notificato alle altre parti, unitamente al de
creto di fissazione, dopo la scadenza del termine anzidetto: Cass. 26
gennaio 1977, n. 391, Foro it., Rep. 1977, voce cit., n. 225 (per la
quale non può imputarsi ad inattività della parte, che ha dato
tempestivo impulso per la ripresa del processo, l'ulteriore decorso
del tempo che dipende unicamente dall'attività del magistrato che
deve fissare la nuova udienza e il termine di notificazione degli atti);
App. Roma 25 maggio 1956, id., Rep. 1957, voce cit., n. 381; con
riferimento ad ipotesi di interruzione del processo, v. Cass. 17
aprile 1980, n. 2506, id., Rep. 1980, voce cit., n. 207; 25 gennaio
1980, n. 611, ibid., n. 209; 26 novembre 1979, n. 6184, id., Rep.
1979, voce cit., n. 254. In dottrina, v. Calvosa, Sospensione, cit.,
962; Bonsignori, Problemi dibattuti in tema di riassunzione del pro
cesso di cognizione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, 1080; A. Fi
nocchiaro, Lo scopo dell'atto di riassunzione del processo sospeso,
in Giust. civ., 1973, I, 657. Da ultimo v. Saletti, La riassunzione
del processo civile, 1981, 320 ss. ed ivi ulteriori ed ampie indicazioni
di dottrina e di giurisprudenza. Contra, anche se con riferimento ad
ipotesi di interruzione del processo, Cass. 29 gennaio 1960, n. 122,
Foro it., 1960, I, 884, con nota di richiami; Andrioli, Diritto proces
suale civile, 1979, I, 984.
Cass. 10 gennaio 1977, n. 66, Foro it., Rep. 1977, voce cit., n. 222,
ha ritenuto valida la riassunzione del processo effettuata con atto
di citazione. Come è noto, l'istanza concorde di tutte le parti costituite non è
sufficiente di per sé a provocare la sospensione o ad obbligare il
giudice a disporla. Questi può (e non deve quindi) dichiararla dopo
aver valutato l'opportunità e la convenienza della stessa e dopo aver
accertato che essa non sia un espediente (per i procuratori) di tirare
i processi per le lunghe, anche se difficilmente potrà respingere
l'istanza; v. Carnelutti, Istituzioni, cit., II, 106; Redenti, Diritto
processuale civile?, 1957, II, 278 (che parla di facoltà discrezionale);
Satta, Commentario, cit., II, 394 s.; Id., Diritto, cit., 390; Liebman,
Manuale di diritto processuale civile, 1981, II, 194; Andrioli, Com
mento, cit., II, 310; Micheli, Sospensione, interruzione ed estinzione
del processo, in Riv. dir. proc. civ., 1942, I, 19; Id., Corso di diritto
processuale civile, 1960, II, 193; Costa, Manuale, cit., 1980, 360;
Mandrioli, Corso di diritto processuale civile2, 1978, II, 223 nota 2;
Calvosa, Sospensione, cit., 961; D'Onofrio, Commento al codice di
procedura civile, 1957, I, 609; Cass. 22 gennaio 1972, n. 161, Fo
ro it., Rep. 1972, voce cit., n. 257; 6 marzo 1970, n. 554, id., Rep.
1970, voce cit., n. 210; 31 luglio 1947, n. 1315, id., Rep. 1947, voce
cit., n. 184. Zanzucchi, Diritto, cit., II, 143; Rocco, Trattato di di
ritto processuale civile, 1966, III, 252, riconoscono al giudice soltanto
Il Foro Italiano — 19S1 — Parte I-157.
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2455 PARTE PRIMA 2456
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Con citazione notificata in data 19 gennaio 1963 Flora Guglielmo (Wilhelm) conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Bolzano Flora Mar
garethe (ved. Weirather) sostenendo che una cantina-magazzino sita in Malles, di cui era divenuto proprietario in forza di sentenza costitutiva emessa a norma dell'art. 2932 cod. civ. dal Tribunale di Bolzano il 23 dicembre 1960, successivamente con fermata dalla Corte d'appello di Bolzano (ed in via definitiva dalla Corte di cassazione con sentenza in data 13 marzo 1964, n. 555, Foro it., Rep. 1964, voci Obbligazioni e contratti, n. 407 e Trascrizione, n. 46), aveva subito dei gravi danneggia menti per le opere che !a convenuta aveva eseguito nel sovra stante locale di sua proprietà; e di conseguenza chiedendo la condanna della Margarethe Flora alla sospensione di ogni ulte riore lavoro, alla demolizione delle opere eseguite ed al risar cimento del danno subito, anche in relazione agli impianti ed alla merce depositata, per complessive lire 3.995.000.
La Margharethe Flora contestava tale pretesa risarcitoria as sumendo la liceità dei lavori eseguiti nel suo locale nonché l'ine sistenza di pregiudizi nel sottostante immobile dell'attore.
Espletata consulenza tecnica d'ufficio per accertare la perico losità della nuova costruzione della convenuta ed i danni da
questa cagionati, il tribunale con sentenza non definitiva del 19 novembre 1966 condannava la convenuta alla sospensione dei lavori ed alla demolizione delle opere eseguite, riconoscendone la dannosità, e con separata coeva ordinanza disponeva, con il
proseguimento del processo, ulteriore consulenza tecnica per l'ac certamento della esistenza e dell'entità dei danni subiti dal l'attore.
Durante le successive fasi di impugnazione di tale sentenza non definitiva — che si concludevano con la sua totale conferma a
seguito della sentenza del 7 giugno 1975 della Corte d'appello di Brescia, in sede di rinvio dal giudizio di cassazione definito con sentenza del 30 ottobre 1973, n. 2851 (id.. Rep. 1973, voce Sentenza civile, n. 179) — le parti chiedevano concordemente !a sospensione del giudizio pendente davanti al Tribunale di Bol zano e questa veniva disposta dal giudice istruttore con ordinanza emessa all'udienza del 10 novembre 1970.
Ripreso il processo a seguito di istanza di riassunzione per la fissazione della relativa udienza, depositata dal Flora Guglielmo in data 5 marzo 1971, la convenuta, dopo diverse istanze di rin vio anche a fini istruttori, eccepiva l'estinzione del processo per essere stata la predetta istanza presentata oltre i dieci giorni pri ma della scadenza del termine quadrimestrale di sospensione ex art. 296 cod. proc. civile.
Successivamente, dopo che il consulente tecnico con la rela zione peritale depositata in data 7 marzo 1977 indicava che il danno per mancato uso del locale dell'attore, in base ai rilievi ed accertamenti in loco ed ai canoni di locazione della zona, andava determinato in lire 150.000 al mese, l'attore precisava le sue pretese risarcitone ed in particolare per la mancata uti lizzazione del locale con la richiesta di lire 150.000 mensili sino al ripristino; mentre la convenuta, oltre a ribadire la specificata eccezione di estinzione del processo, contestava la mancanza di
prova del danno ed in ispecie di quello attinente al mancato uso del locale, eccepiva la novità della relativa domanda nonché l'invalidità dell'accertamento peritale per esorbitanza dai quesiti proposti.
Il tribunale con sentenza del 12 settembre 1977 condannava la Flora Margarethe al pagamento in favore del Flora Guglielmo della somma di lire 150.000 mensili dal 19 giugno 1962 fino alla data del ripristino dell'immobile dell'attore, cosi liquidando in via equitativa il danno per il mancato utilizzo del locale con riferimento agli accertamenti effettuati in sede di consulenza
un controllo sull'attività delle parti ma non anche il potere di sin dacare le ragioni che hanno indotto le stesse a chiedere la sospensione.
La fattispecie sospensiva in parola è, forse, l'unica fra le ipotesi di sospensione che ricorre raramente nel processo civile. L'istituto della sospensione concordata, previsto al fine di mitigare alcune con seguenze determinate dall'impulso ufficioso cui è informato il no stro processo e al fine di favorire una composizione amichevole della controversia (Satta, Commentario, cit., II, 394; Micheli, Corso, cit., II, 194; Zanzucchi, Diritto, cit., II, 142 s.; Costa, Manuale, cit., 361; Calvosa, Sospensione, cit., 961), è infatti ben presto caduto in disuso sia perché la cancellazione della causa dal ruolo, introdotta con la novella del 1950, ha finito per assolvere alla sua stessa fun zione, con in più il vantaggio per le parti di non dover sottostare al controllo del giudice e di poter usufruire di un maggiore tempo (Andrioli, Diritto, cit., I, 960), sia perché, grazie ai lunghi tempi che oggi caratterizzano il processo civile, le stesse parti, senza do ver ricorrere alla cancellazione della causa, possono ottenere una sospensione di fatto, anche di lunga durata, tramite meri rinvii di udienza.
tecnica, e respingeva le ulteriori pretese risarcitone dell'attore
per carenza di prova ed inammissibilità di quelle testimoniali
articolate, mentre disattendeva in via preliminare l'eccezione di
estinzione del processo formulata dalla convenuta, ritenendo, in
mancanza in una espressa indicazione come per la sospensione necessaria del processo, la natura non perentoria del termine per la presentazione dell'istanza di riassunzione del processo nel
l'ipotesi di sospensione facoltativa o su istanza di parte.
Avverso questa sentenza proponeva appello la Flora Marga rethe lamentando l'erroneo disconoscimento della natura peren toria del termine di riassunzione anche nell'ipotesi di sospensio ne facoltativa, nonché l'errata esclusione della novità della do
manda per il risarcimento del danno per il mancato uso del
locale dell'attore ed infine l'insussistenza di tale danno e co
munque la non proporzionata liquidazione di esso.
La Corte d'appello di Trento con la sentenza del 18 dicembre
1978 accoglieva parzialmente il gravame della Flora Margarethe riducendo a lire 100.000 mensili la sua condanna al risarcimento
in favore del Flora Guglielmo per il mancato utilizzo del locale.
(Omissis) Preliminarmente la corte, ancora una volta, disattendeva l'ec
cezione di estinzione del processo, ribadendo la natura solo ordi
natoria del termine di presentazione dell'istanza di riassunzione
(per la fissazione dell'udienza) nell'ipotesi di sospensione facol
tativa o su istanza di parte. Contro questa sentenza la Flora Margarethe ha proposto ri
corso per la sua cassazione con quattro motivi di censura. Il
Flora Guglielmo resiste con controricorso, proponendo a sua
volta ricorso incidentale.
Motivi della decisione. — Preliminarmente deve provvedersi a
norma dell'art. 335 cod. proc. civ. alla riunione del ricorso pro
posto in via principale dalla Flora Margarethe e del ricorso in
cidentale del Flora Guglielmo, proposti avverso la stessa sen
tenza.
Con il primo motivo del ricorso la ricorrente Flora Margare the denuncia la violazione degli art. 296, 297 e 307 e in subor dine 154 cod. proc. civile.
La ricorrente si duole per la denegata estinzione del processo in conseguenza dell'inosservanza da parte dell'attore del termine
previsto dal 2° comma dell'art. 297 cod. proc. civ. per la rias sunzione del processo dopo la concordata sua sospensione, so stenendo che tale termine, nonostante la mancata espressa indi cazione della sua natura perentoria, tale doveva ritenersi in relazione alla sua funzione di riattivare il processo sospeso, non ché alla sua logica conseguenza sanzionatoria in caso di inos
servanza.
Inoltre la ricorrente assume che anche la natura solo ordina
toria del predetto termine comportava per la sua inosservanza la preclusione di ogni ulteriore attività della parte nel caso di
mancata tempestiva proroga prima della sua scadenza, come si era verificato nella presente fattispecie, e cosi con la tardività di ogni suo ulteriore adempimento la conseguente eccepita estin zione del processo.
Il motivo non è fondato e di conseguenza non merita acco
glimento.
Invero, avendo riguardo alla disciplina della sospensione del
processo nella sua duplice previsione della sospensione neces saria (art. 295 cod. proc. civ.) e di quella su istanza delle parti (art. 296 cod. proc. civ.), mentre sembra agevole intendere il meccanismo della ripresa del processo dopo la sua sospensione necessaria nonché del correlativo regime sanzionatorio (in senso
lato), in quanto è chiaramente imposta dal 1° comma dell'art. 297 cod. proc. civ. l'osservanza di un termine perentorio per il compimento del necessario atto di impulso processuale, dalla
cui violazione conseguono effetti negativi (rectius: estintivi) sull'ulteriore corso del processo (art. 307, 3° comma, cod. proc. civ.); qualche perplessità può insorgere di fronte alle norme
che, disciplinando la sospensione su istanza delle parti, tacciono
al riguardo della natura dei termini per essa previsti: sia di
quello per la cui durata il processo è sospeso (art. 296), sia di
quello entro il quale la parte più diligente deve attivarsi perché il processo sospeso possa riprendere il suo corso, nel caso di mancata fissazione della relativa udienza nel provvedimento con
cessivo della sospensione (art. 297, 2° comma, cod. proc. civile). Il silenzio del legislatore, infatti, non può essere considerato
automaticamente dirimente del problema in consonanza al prin
cipio ex art. 152 cod. proc. civ. secondo cui i termini stabiliti
dalla legge sono ordinatori tranne che non siano espressamente dichiarati perentori, poiché è del pari acquisito in dottrina ed
in giurisprudenza il principio che il carattere della perentorietà di un termine può discendere anche dalla funzione propria di
esso e dalla sua sussunzione sotto una determinata normativa,
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
nonché dagli effetti collegati alla sua osservanza od inosservanza. Nella prospettiva di tale indagine è bene considerare, sia pur
brevemente, il fenomeno processuale della sospensione, ponendo
per primo in rilievo che questa si appalesa come una vicenda anormale del processo, la cui funzione di tendere, attraverso le
varie fasi opportunamente coordinate, alla decisione della con
troversia, non tollera — in via di principio — l'interferenza di
eventi che si pongano come ostacolo al sollecito raggiungimento di quel risultato.
Tale rilevazione trova corollario, peraltro, nella osservazione che quando per imprescindibili esigenze, che possono trovare
genesi sia dall'incidenza, sulla decisione, di altri procedimenti che si configurano come condizionanti di quella, sia da avveni menti che colpiscono i soggetti (parti e loro difensori) protago nisti del processo, sia infine dalla comune volontà delle parti di procrastinare la definizione della lite in vista di una diversa — migliore o più sollecita — definizione dei loro contrapposti interessi, il processo subisce un arresto allo svolgimento del suo
corso, e la sua ripresa non solo è necessariamente legata e di
pendente da un atto di impulso della parte interessata al suo
proseguimento, ma è anche condizionata all'osservanza di un
termine entro cui tale impulso va tipicamente manifestato, per ché l'esigenza immanente della funzionalità del processo e della
sollecita risoluzione della controversia non risulti vanificata per l'inerzia delle parti durante (e dopo) la fase di sospensione del
processo, in cui il giudice — a norma dell'art. 298 cod. proc. civ. — non ha alcun potere di governo su di esso; solo che
l'attribuzione all'osservanza o meno di tale termine di una
efficace sanzione, quale quella dell'estinzione del processo, resta
legata inequivocabilmente non alla sola funzione acceleratoria
del termine bensì' anche alla sua espressa qualificazione di peren
torietà (art. 291, 1° comma, e 305 cod. proc. civile).
Orbene, nel caso della riassunzione del processo nella sospen
sione c. d. facoltativa prevista dall'art. 296 cod. proc. civ., che
costituisce il tema centrale del gravame della Flora Margarethe,
l'ostacolo (che si è indicato nel silenzio al suo riguardo del le
gislatore) all'affermazione della natura perentoria del termine
per la riassunzione del processo non può, quindi, essere supe
rato in base alla mera considerazione della sua funzione accele
ratoria — identica a quella del termine perentorio per la so
spensione necessaria — non trovandosi questa in correlazione
necessaria con quell'esigenza di sanzionare con l'estinzione del
processo la condotta omissiva delle parti, che ha essenziale
espressione nella qualificazione di perentorietà del termine, bensì'
di questa costituendo un non equivoco e quindi insuperabile con
trasto testuale nell'ambito della stessa previsione normativa (art.
297 cod. proc. civile).
Tale diversità della disciplina dei termini per la riattivazione
del processo trova razionale spiegazione nella diversa genesi — ne
cessaria o concordata — del fenomeno della sospensione del
processo, operando questa non soltanto sul piano dei fattori co
stitutivi, ma incidendo, alla stregua della espressa normativa
ex art. 298 cod. proc. civ., anche su quello dei suoi effetti, come
in merito alla ripresa dei termini sospesi nel periodo della so
spensione (2° comma dell'art. 298 cod. proc. civ.: per l'ipotesi
in cui con il provvedimento di sospensione c. d. facoltativa sia
stata anche fissata l'udienza per il proseguimento del processo),
nonché, come per il particolare computo del termine all'uopo
espressamente previsto dal 2° comma dell'art. 297 cod. proc.
civ., su quello, a questi ultimi collegato necessariamente, delle
sue fasi successive.
Ordunque, se con la cennata conclusione si viene a disatten
dere l'assunto principale della ricorrente circa la natura peren
toria del termine per la riassunzione dopo la sospensione c. d.
facoltativa, con l'ulteriore considerazione della già indicata di
versità di computo per il termine nella sospensione c. d. con
cordata o facoltativa trova debita smentita l'ulteriore profilo del
gravame circa l'avvenuta inosservanza di tale termine, che anche
se solo ordinatorio importerebbe, ove non ritualmente prorogato,
quella sua ulteriore identica conseguenza di preclusione ed estin
zione del processo (v. Cass. 23 giugno 1980, n. 3933, id., Rep. 1980,
voce Procedimento civile, n. 213).
A tal proposito giova brevemente ricordare che, come nella
ipotesi della sospensione necessaria, anche in quella della so
spensione concordata del processo, il termine per la riassunzione,
che ha quella natura acceleratoria per la sua specificata funzione
cui adempie, è determinato con decorrenza dal giorno in cui è
cognito alle parti il venir meno della causa che ha determinato
la sospensione stessa: ma, mentre nella sospensione necessaria
detto termine non può che essere indicato attraverso il numero
dei giorni entro il quale l'atto deve essere compiuto, con decor
renza da un evento che se è certus an è tuttavia incertus quando,
nel secondo caso esso trova riferimento ad una decorrenza certa
nell'an e nel quando. Peraltro, se è vero, che questa diversa rilevabilità, al mo
mento in cui il processo viene sospeso, del momento in cui, ve
nuta meno la causa di sospensione, il processo stesso può ripren dere il suo corso, non sarebbe ostativa di una disciplina ana
loga, nel senso della fissazione di un termine perentorio decor
rente dalla (cognizione della) cessazione della causa di sospen sione — che nella sospensione concordata coincide con la sca
denza della sospensione stessa — entro il quale l'atto di impul so per la ripresa del processo deve essere compiuto, va per contro osservato come questa disciplina, logicamente e giuridi camente necessitata nella prima ipotesi, non è stata, nella se
conda, ritenuta dal legislatore congruente, anche in presenza del principio, dominante nella disciplina processuale, della ce
lerità del corso degli atti verso la definizione del giudizio, in
considerazione che le parti non solo conoscono dal momento della sospensione il giorno in cui essa cesserà, ma hanno esse
stesse concorso a determinarne la durata in dipendenza di una
concorde valutazione della causa che hanno reputato (con il
controllo del giudice) rilevante a quel fine. È stata, pertanto, adottata dal 2° comma dell'art. 297 cod. proc. civ. quella diversa
regola, per l'istanza di fissazione dell'udienza successiva alla scadenza del periodo di sospensione, di un termine (di dieci
giorni) calcolato a ritroso, cioè avente decorrenza all'interno di
quel periodo, nella quale regola, non soltanto per formale sim metria di regolamentazione di un identico fenomeno proces suale, ma benanco per il determinante riferimento finalistico
alla sua scadenza, lo specifico termine di riassunzione non può che rinvenirsi e non equivocamente identificarsi con lo stesso
periodo di sospensione concordata, con la conseguenza che solo
al periodo di sospensione ed alla sua scadenza occorrerà far
capo per giudicare della tempestività o meno dell'atto di impulso
processuale nonché, in correlazione alla già rilevata natura non
perentoria, per determinare le conseguenze sul processo in caso
di sua inosservanza, rimanendo l'inosservanza dell'ulteriore ter
mine da calcolarsi a ritroso soltanto sul piano di una mera ir
regolarità in univoca correlazione alla sua funzione di mezzo
per la regolare ripresa del processo sia in relazione alle neces
sarie attività dispositive del giudice, che al riguardo delle atti
vità difensive della controparte. Non senza aggiungere che, se
da un canto l'attribuzione a tale ultimo termine della natura
anche solo ordinatoria finirebbe con il determinare — con
l'estinzione del processo nel caso di inosservanza — una ridu
zione del periodo di sospensione già accordata nel processo,
peraltro lo stesso carattere essenziale del termine, cioè la sua
prorogabilità, può avere efficacia e pratica attuazione soltanto
in relazione al periodo di sospensione, in cui si è identificato lo
stesso termine ordinatorio di riassunzione del processo, solo cosi
venendosi ad ampliare il periodo finale in cui alla parte è con
sentito, con il preventivo ordine del giudice, di compiere effica
cemente e ritualmente l'atto processuale, cui è preordinato il
termine, e non per quell'ulteriore subtermine da calcolare a
ritroso, essendo di ovvia constatazione che qualsiasi istanza a
tal fine, ove debitamente anteriore al suo decorso, non potrebbe non risolversi nei suoi effetti pratici in una vuota tautologia e
cioè nell'anticipazione proprio di quell'atto di impulso proces suale che al contrario si vorrebbe validamente procrastinare.
1 rilievi che precedono consentono, quindi, di concludere che, con il deposito dell'istanza di riassunzione effettuata il 5 marzo
1971 e cosi anteriormente alla scadenza del periodo quadrime strale di sospensione concordata (11 marzo 1971), si è avuta
esatta osservanza del corrispondente termine non perentorio di
riassunzione, talché se ne deve escludere la pretesa decadenza
della parte dal potere di impulso processuale del processo e
quindi affermare la tempestività del relativo atto riassuntivo, re
stando l'irregolarità, per l'inosservanza del subtermine di dieci
giorni prima della scadenza di quel termine, sanzionabile, in cor
relazione alla già osservata sua funzione, soltanto sull'eventuale — nella specie non invocato, né dimostrato — piano del pre
giudizio delle attività defensionali della controparte, con le op
portune disposizioni ordinatorie del processo ex giudice. (Omissis)
Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 14 aprile
1981, n. 2225; Pres. Sandulli, Est. Gualtieri, P. M. Va
lente (conci, diff.); Raddi (Avv. Marucchi) c. Comune di
Ferrara (Avv. G. Natoli, Berti) e Regione Emilia-Romagna.
Conferma App. Bologna 30 marzo 1978.
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