Sezione III penale; sentenza 15 novembre 1961; Pres. Sigurani P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro(concl. conf.); ric. Aiuti ed altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 85, No. 3 (1962), pp. 51/52-63/64Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23150357 .
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51 PARTE SECONDA
un margine di discrezionalità, per cui il suo comportamento
potrà diversamente atteggiarsi a seconda delle variabili
caratteristiche della situazione ; non viola certamente l'ob
bligo di tenersi il più possibile vicino al margine destro della
carreggiata il conducente, che se ne allontani per evitare
un ostacolo, appunto perchè la norma è elastica.
jMa le norme rigide hanno questo di particolare, che
esse tendono, a differenza di quelle elastiche, a imporre cautele che in astratto appaiono necessarie, e che in con
creto potrebbero essere anche superflue. Nel caso concreto, se l'osservanza di una norma rigida renderebbe impossibile il movimento, è perfettamente logico che l'interesse della
circolazione prevalga sull'interesse della sicurezza tutelato
da quella particolare norma, perchè il primo è un interesse
concreto, il secondo è un interesse che rimane nel campo dell'astrazione ; se questa prevalenza non fosse ricono-'
sciuta, si procurerebbe un danno certo e concreto per l'in
tralcio alla circolazione, al fine di evitare un pericolo sol
tanto presunto. Sulla base di questa impostazione è facile fissare il li
mite, entro il quale il diritto può essere esercitato anche
in violazione di una norma, e stabilire le condizioni alle
quali l'esercizio del diritto viene ad essere subordinato. Il
limite è il pericolo concreto, la condizione è rappresentata dall'uso di tutti i possibili accorgimenti idonei ad evitare
ogni pregiudizio alla sicurezza del traffico.
Può pervenirsi allora alle seguenti conclusioni.
In tema di contravvenzioni stradali, l'esimente dell'eser
cizio di un diritto, correlativo al diritto del cittadino di
circolare nelle pubbliche strade, può escludere la punibilità solo se si tratti della violazione di norme rigide, la cui stretta
osservanza impedirebbe il movimento dei veicoli con possi bilità di eventuale intralcio, perchè in tal caso l'interesse
concreto della circolazione prevale sull'interesse della sicu
rezza, astrattamente tutelato dalla norma. L'esimente potrà
applicarsi però solo se il diritto venga esercitato con tutte
le possibili cautele atte ad evitare ogni concreto pericolo. Non è punibile pertanto, per la contravvenzione di cui
all'art. 104, 10° comma, cod. strad., il conducente che
circoli contro mano in curva, costretto dalla necessità di
superare un veicolo in sosta o altro ostacolo non facilmente
rimovibile, a condizione che egli compia la manovra usando
tutti gli accorgimenti di cui può disporre, idonei a garan tire la sicurezza dei veicoli procedenti in direzione contra
ria, riducendo al minimo la velocità, azionando i segnali
acustici, ecc.
Nel caso di specie, giustamente sono state disattese le
giustificazioni addotte dall'imputato. Il Giudice di merito, con motivato e insindacabile apprezzamento di fatto, ha
accertato che effettivamente vi erano veicoli in sosta nella
curva, ma ha anche accertato che da questa situazione non
sorgeva la necessità di spostarsi sulla carreggiata sinistra,
perchè da quei veicoli all'asse mediano della strada esi
steva la distanza di quattro metri.
Non vale addurre la presenza di pedoni sulla carreggiata
destra, perchè l'imputato avrebbe dovuto attendere che essi
si spostassero o si allontanassero ; nè vale addurre la esi
stenza di un crocevia poco lontano, perchè egli avrebbe
dovuto ridurre convenientemente la velocità. Il ricorrente
pone in rilievo che nella zona non esisteva un limite di
velocità, come se tale situazione gli attribuisse il diritto
di procedere a velocità sostenuta ; ma è ovvio osservare
al riguardo che, ove non vige un limite fisso della velocità,
vige sempre il criterio della velocità relativa non pericolosa. Con il secondo motivo di gravame si sostiene che, ai
fini dell'applicazione della norma di cui all'art. 104, 10°
comma, cod. strad., circola contro mano soltanto il veicolo
che proceda completamente sulla mezzeria di sinistra, non
quello che la invada solo parzialmente. Anche questa tesi, apoditticamente affermata e non
dimostrata dal ricorrente, è giuridicamente infondata.
Eelativamente alla circolazione in curva, l'art. 104 cod.
strad. prevede due ipotesi contravvenzionali : il fatto
del conducente del veicolo che percorra una curva senza
tenersi il più vicino possibile al margine destro della car
reggiata (destra, rigorosissima), previsto dal 2° comma e
punito ai sensi dell'ult imo comma, e il fatto di chi circola contro mano in prossimità o in corrispondenza di una
curva, previsto e punito più severamente dal 10° comma. La disciplina della mano da tenere nella circolazione stra dale è basata infatti su due principi fondamentali, che
corrispondono a due diverse esigenze e finalità : quella di non turbare la corrente di transito che si svolge nella dire zione contraria, e quella di turbare il meno possibile la corrente di transito che si svolge nella medesima direzione.
Sulla base di questi principi deve ricercarsi la esatta
interpretazione filologica e tecnica del termine « contro mano ». 11 divieto di circolare contro mano in curva è senza dubbio diretto al fine di evitare ogni turbativa alla
corrente del traffico che si svolge nella direzione contraria ; ed è evidente che una turbativa di tal genere può derivare
anche dal veicolo che occupi solo una parte della semicar
reggiata di sinistra.
Pertanto, ai fini dell'applicazione della norma, di cui
all'art. 104, 10° comma, cod. strad., si verifica il fatto
della circolazione contro mano, nella ipotesi in cui il vei
colo occupi una parte, più o meno grande, della semicar
reggiata di sinistra ; ne consegue che risponde della con
travvenzione anche il conducente del veicolo che proceda a cavallo dell'asse mediano della strada.
Con il terzo e ultimo motivo si sostiene che nella specie il fatto non costituiva reato, perchè la striscia continua di
mezzeria era stata collocata illegittimamente, e non in
seguito ad un regolare provvedimento. La doglianza non può essere presa in considerazione,
perchè il divieto di circolare contro mano in curva non è
subordinato dalla legge alla esistenza della striscia continua
di mezzeria ed è applicabile quindi anche laddove questa
segnaletica manchi ; il fatto che nella specie quei segni sulla carreggiata fossero stati apposti illegittimamente non può avere alcuna rilevanza, e l'imputato quindi non
può avere alcun interesse a questo accertamento della cui
omissione si duole.
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione III penale ; sentenza 15 novembre 1961 ; Pres.
Sigurani P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro (conci,
conf.) ; ric. Aiuti ed altri.
(Conferma App. Roma 23 maggio 1959)
Istruzione penale — Sentenza istruttoria — Deposito
dopo il termine ili eui all'art. 372 cod. proe, pen. ma prima della scadenza di quello di eui all'art. 377 cod. proc. pen. — rVullilà — Insussistenza
• (Cod. proc. pen., art. 372, 377). Parte civile — Ordinanza ammissiva della costitu
zione — Inoppugnabilità — Limiti — Cognizione del giudice della impugnazione — Contestazione della « legitimatio ad causam » — Ammissibilità
(Cod. proc. pen., art. 91, 100, 190). Parte civile — Successione tra enti pubblici per in
corporazione — Diritto dell'ente incorporante di
costituirsi parte civile per delitti a danno dell'ente
incorporato — Sussistenza (Cod. proc. pen., art. 22). Cassa di risparmio — Natura di ente pubblico — Pub
blica funzione e non servizio pubblico (Cod. pen., art. 357, 358 ; r. d. 25 aprile 1929 n. 967, t. u. sulle casse
di risparmio). Peculato — Distrazione — Nozione — Fattispecie
(Cod. pen., art. 314). Peculato — Assegno a vuoto tratto su una cassa di
risparmio e negoziato presso altra banca — Ap
partenenza del bene all'ente pubblico — Insussi
stenza (Cod. pen., art. 314).
La sentenza istruttoria di rinvio a giudizio può esser valida
mente depositata anche se non sia decorso il termine per la
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53 GIURISPRUDENZA PENALE 54
denuncia delle nullità verificatesi nell'istruzione, purché sia trascorso il termine di cui alVart. 372 cod. proc. pe nale. (1)
L'imputato, condannato al risarcimento dei danni, può con
testare, in sede di gravame, che spetta alla parte civile
la resite di erede o rappresentante ex lege, in base alla
quale venne pronunciata la condanna. (2) L'ente pubblico, succeduto per incorporazione nella universa
lità del patrimonio di un altro ente pubblico, ha diritto a
costituirsi parte civile per i delitti commessi a danno del
l'ente incorporato. (3) Le casse di risparmio hanno natura di enti pubblici e le atti
vità che esse esplicano rappresentano una pubblica fun zione e non il semplice esercizio di un pubblico servizio. (4)
Ricorre la deviazione del bene della pubblica Amministrazione
dalla propria destinazione istituzionale, che integra la
« distrazione » di cui all'art. 314 cod. pen., nel caso in cui
il funzionario di una cassa di risparmio ponga in essere
operazioni spericolate, mediante strumenti di credito
inidonei o addirittura criminosi (come la utilizzazione di
cambiali di comodo o il pagamento di assegni a vuoto) e
senza il rispetto delle norme statutarie dell'ente. (5) Non sussiste peculato per distrazione nell'ipotesi che venga
pagato da una banca negoziatrice un assegno a vuoto tratto
su una cassa di risparmio. (6)
La Corte, ecc. — A) Si deduce anzitutto, sul piano pro
cessuale, una pretesa disfunzione verificatasi nella fase istrut
toria e incidente sulla validità della sentenza di rinvio :
in particolare la mancata maturazione del termine ex art.
372 cod. proc. pen. per nullità della ordinanza emessa dal
Giudice istruttore sulla richiesta di proroga, con conseguente
impossibilità di un rituale deposito della sentenza con
clusiva, nonché della eventuale convalescenza dei vizi ve
rificatisi nel corso della istruttoria formale, regolata dal
l'art. 377.
Ritiene la Corte suprema che l'argomentazione difensiva
non abbia, nella specie odierna, fondamento giuridico. L'art. 372, 3° comma, attribuisce al giudice istruttore la
(1) Per i precedenti, tutti conformi, v. la nota alla sentenza
impugnata App. Roma 23 maggio 1959, Aiuti, Foro it., 1960, II, 65.
In dottrina, cons., da ultimo, Zhara Buda, Sul termine di deposito della sentenza istruttoria, in Giusi, pen., 1961, III, 55
(nota adesiva alla sent, citata). (2) Contra i precedenti richiamati in nota ad App. Roma
23 maggio 1959, citata ; cui adde, Cass. 25 maggio 1959, Urbinati, Foro it., Rep. 1960, voce Parte civile, n. 19 ; 29 novembre 1960,
Spada, Giust. pen., 1961, III, 221. Per una ipotesi particolare, cons. Cass. 11 ottobre 1960, Soremin, ibid., 172, m. 318.
(3) Il principio riassunto viene, a quanto consta, per la
prima volta affermato dalla Corte suprema : neppure la dot
trina si è finora occupata del fenomeno della successione inter vivos tra enti pubblici, ai fini dell'ammissibilità della costitu
zione di parte civile. V., peraltro, sugli effetti extrapenali della
successione tra enti pubblici, Cass. 3 ottobre 1959, n. 2642, Foro it., 1960, I, 1557, con nota di richiami.
Il fenomeno della successione a titolo universale viene riscon trato nel caso di fusione mediante incorporazione di società di
capitali: si vedano, da ultimo, Cass. 21 giugno 1961, n. 1482 e 3 febbraio 1961, n. 223, in questo volume, I, 105, con ampia nota di richiami.
(4) Conf. oltre ai precedenti indicati in nota ad App. E.oma 23 maggio 1959, citata : Cass. 10 luglio 1958, Fortini, Foro it.,
Rep. 1959, voce Peculato, n. 11.
Contra, in quanto ha ritenuto che l'attività di raccolta de!
risparmio, esercizio del credito, ecc. dia luogo ad un pubblico servizio e non ad una pubblica funzione, Cass. 12 dicembre
1960, Tringali, id., 1961, II, 164, con nota di richiami.
(5-6) Sulla nozione di appartenenza del denaro alla pubblica Amministrazione, di cui all'art. 314 cod. pen., cons. Cass. 19
ottobre 1959, Mattinò, Foro it., Rep. 1960, voce Peculato, n. 12 ; 10 luglio 1958, Fortini, e 11 ottobre 1958, Cappello, id., Rep. 1959, voce cit., nn. 11, 12 ; 27 giugno 1958, Peroni, e 12 novembre
1958, Broccoli, id., Rep. 1958, voce cit., nn. 2-4 ; App. Milano
8 febbraio 1958, Dato, id., 1958, II, 191, con nota di richiami, cui adde Lozzi, L'appartenenza nel diritto penale, in Riv. dir.
proc. pen., 1958, 697 ; Chcarotti, Appartenenza, voce dell'Enci
clopedia del diritto, Milano, 1958, II, 708,
facoltà di prorogare il termine di cinque giorni, previsto
per il deposito degli atti, per giusta causa e per il tempo ritenuto assolutamente indispensabile. Trattasi di una po testà discrezionale, il cui esercizio è collegato alla presenza di presupposti, che l'organo istruttorio è chiamato ad ap
prezzare sovranamente, con riguardo anche alle esigenze del processo. L'ordinanza, che provvede sulla richiesta di
proroga, deve essere motivata, com'è prescritto dall'art.
148, nel senso che non può limitarsi ad enunciare la nuda
volontà dell'istruttore ; però, affinchè codesto obbligo
possa ritenersi soddisfatto, non si richiede un esame detta
gliato delle singole ragioni addotte, ma è sufficiente una
valutazione globale della concreta situazione denunciata, al lume degli elementi all'uopo forniti.
Orbene, poiché nella ipotesi odierna la richiesta di pro
roga era stata genericamente formulata (complessità delle
indagini, imminenza di festività), il Giudice non aveva
l'obbligo di soffermarsi a confutare partitamente quei motivi, ma bastava che ritenesse l'istanza sfornita di una
giusta causa, la quale soltanto (se in realtà sussistente) avrebbe potuto imprimere una pausa al corso del procedi mento.
Chiarito che la ordinanza di rigetto della richiesta di
proroga venne ritualmente emessa, ne deriva che, sca
duto il termine dei cinque giorni fissato ex lege, legalmente il Giudice istruttore provvide al deposito della sentenza di
rinvio.
Consegue pure, dalla fissazione dell'anzidetto presuppo sto, che esattamente il Tribunale ritenne nella specie ope rante la particolare disciplina della convalescenza delle
nullità istruttorie previste dall'art. 377 cod. proc. pen. Nè a contrastare codesto assunto può valere la circostanza
che il deposito della pronunzia di rinvio avvenne prima che
fosse scaduto il termine di cinque giorni, concesso alla parte
per denunciare i vizi incorsi durante la fase istruttoria.
Dal combinato disposto degli art. 372, ult. comma, e 377
emerge chiaramente che, passati i cinque giorni dall'av
viso di deposito degli atti, cominciano a decorrere paralle
lamente, da un lato, il termine di quindici giorni concesso
al giudice per il compimento conclusivo delle sue funzioni
(rinvio a giudizio ovvero proscioglimento), e, dall'altro, il
termine di cinque giorni riservato alle parti per la denuncia
motivata dalle eventuali nullità. Ciò implica ovviamente
che," potendo l'attività del giudice concludersi anche nel
primo giorno e l'iniziativa della parte attuarsi nell'ultimo
dei giorni concessi, il deposito della sentenza di rinvio può ben avvenire quando ancora l'interessato è in condizioni
di avvalersi della propria facoltà di dedurre i vizi verifi
catisi nel corso della istruzione. Non vi è dubbio che, quando codesta anticipazione si verifichi, la denuncia di nullità fatta
dalla parte provocherà, se fondata, la invalidità della sen
tenza di rinvio, ancorata agli atti istruttori, poi riconosciuti
nulli ; però la eventualità di una dispersione di energia
processuale non toglie che la parte, la quale intenda denun
ciare determinate nullità incorse nella istruzione formale, sia tenuta a rispettare comunque il disposto dell'art. 377,
pena la sanatoria del vizio prevista da quella norma.
B) Sempre sul terreno processuale si assume che la
Cassa di risparmio di Roma non avrebbe potuto esercitare
nel processo l'azione riparatoria concernente il danno ca
gionato dai colpevoli alla Cassa di risparmio di Latina, per difetto delle condizioni richieste dalla legge.
Al riguardo va osservato che, se l'assunto difensivo
non può accogliersi per le ragioni che saranno fra poco enun
ciate, deve tuttavia disattendersi la premessa su cui la
Corte di merito ha creduto di far leva : che, cioè, essendo
inoppugnabile il provvedimento che ammette la parte ci
vile nel processo penale, non sarebbe consentito in sede di
gravame di riesaminare il punto relativo alla sussistenza
del titolo, richiesto ex lege per l'affiancamento della pretesa
riparatoria a quella penale, fatta valere dal P. m.
È esatto che, nel sistema del codice in vigore, l'ordinanza
di ammissione della parte civile non è soggetta ad impu
gnazione ; ciò è stabilito dall'art. 190. Nè codesta norma
può ritenersi in contrasto col 1° comma dell'art. Ili della
Costituzione, in forza del quale « tutti i provvedimenti giù
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55 PARTE SECONDA 56
risdizionali devono essere motivati », essendo evidente
ohe l'esigenza della motivazione (bisogno di ricostruire
il pensiero del decidente) non implica ex necesse l'esigenza del gravame (rinnovabilità o controllo della decisione). Lo stesso art. Ili della Carta, del resto, nell'assoggettare in ogni caso a ricorso per cassazione per violazione di
legge, insieme, con le sentenze, i soli provvedimenti sulla
libertà personale, lascia fuori dalla previsione i provvedi menti diversi dalle sentenze, aventi un altro oggetto.
Però dal fatto cbe la ordinanza de qua sia inoppugnabile, non è lecito pervenire alla conclusione adottata dalla Corte
di appello. Quel principio comporta soltanto che, accolta
la parte privata accessoria nel processo penale, l'imputato non potrebbe insorgere contro la relativa ordinanza, denun
ciando il difetto dei requisiti richiesti a pena di inammissi
bilità (art. 94, capov.). Ciò per evitare che la posizione di
una parte possa restare esposta al rischio di eventuali mu
tamenti, per causa di inosservanza di formalità, successi
vamente rilevata. Grazie a codesta esigenza, intesa alla
conservazione delle attività processuali, anche al giudice è
consentito di dichiarare la inammissibilità della costitu
zione di parte civile solo fino all'inizio della discussione
finale del dibattimento di primo grado (art. 99).
Ma, ammessa la parte civile e pronunciata condanna del
l'imputato al risarcimento del danno, può dedursi, in sede
di gravame, la carenza della legitimatio ad causarti. Codesta
particolare situazione riguarda, non tanto un generico
rapporto col titolo risarcitorio accampato dalla parte,
quanto il titolo specifico che si è fatto valere nel processo
penale. Per conseguenza, il soggetto passivo dell'azione
riparatoria può lecitamente contestare che la parte civile
avesse il titolo vantato, e che è stato posto a base della con
danna cumulativa. La soluzione, d'altronde, è pienamente conforme a ragione. Se l'accoglimento della domanda,
proposta dalla parte civile, è avvenuto in quanto il giudice di primo grado le ha attribuito la qualità, ad es. di erede
o rappresentante ex lege, non si vede perchè dovrebbe ne
garsi all'imputato il diritto di contestare in sede di impu
gnazione che la parte civile avesse quella qualità, grazie alla quale appunto la condanna venne pronunciata.
L'assunto, a parere di questo Supremo collegio, trova
conforto anche in un preciso disposto normativo. L'art. 100
statuisce che l'ammissione della parte civile non pregiudica la decisione sul diritto della medesima ad ottenere il risar
cimento nella sede particolare prescelta ; il che significa che, benché ammessa la parte accessoria, a dispetto di ogni eventuale opposizione, il giudice è sempre libero, al mo
mento della decisione, di negarle il titolo integratore della
legitimatio ad causarti. Ora, se questa valutazione è consen
tita in primo grado, è ovvio che l'interessato possa denun
ciarne la erroneità anche in sede di gravame. La sentenza della Corte di merito, nonostante la inac
cettabilità della premessa, deve essere tenuta ferma perchè in definitiva va convalidata l'esatta soluzione dei Giudici
di primo grado. 1) Per quanto attiene alla legitimatio ad causarti,
l'art. 22 ammette all'esercizio cumulato delle azioni ripara tone ex delieto in sede penale, il danneggiato, il suo rappre sentante legale o volontario, ovvero il suo erede entro i
limiti della quota ereditaria. Per quali ragioni il legislatore abbia consentito anche a quest'ultimo soggetto di avvalersi
del processo penale per la proposizione delle pretese privati stiche, è agevole individuare : essendo l'erede un succes
sore a titolo universale nei beni del defunto, gli si è voluta
attribuire la medesima facoltà che sarebbe spettata al suo
dante causa, danneggiato dal reato. È opportuno sotto
lineare al riguardo che, con la commissione dell'illecito che
abbia cagionato danno, sorge in capo all'interessato la cor
rispondente ragione creditoria (art. 185 cod. pen.) ; sicché, ove quest'ultimo deceda e altri gli succeda in universum
ius, l'anzidetta ragione si trasferisce nella sfera giuridica del successore. Di qui l'esigenza sentita, dall'ordinamento
processuale, di assicurare al secondo un trattamento ana
logo a quello di cui il primo avrebbe potuto fruire.
Ora, se il motivo della estensione fatta dall'art. 22 va
ricercato essenzialmente nella universalità del titolo sue
cessorio, e non anche nella causa della successione, la tesi, che vorrebbe delimitare la nozione di erede, contenuta nella citata norma, al solo ambito della successione mortis
causa, non può cbe risultare ingiustificata. Tenuto conto delle finalità sistematiche della disposizione, alle quali va fatta la massima parte in sede esegetica, il termine « erede » va inteso nel senso di successore a titolo universale della
persona, fisica o giuridica, cui il reato ha prodotto danno.
Qualità codesta che ricorre, fra altro, in capo all'ente pub blico che abbia incorporato in sè altro ente di pari natura, con conseguente devoluzione del patrimonio di quest'ul timo in quello del primo.
Ciò premesso, essendo emerso nella specie odierna che
la Cassa di risparmio di Latina, soggetto passivo dell'ille
cito di peculato, era stata incorporata dalla Cassa di rispar mio di Roma, senza che si fosse previamente proceduto allo stato di liquidazione e quindi con effetti estintivi im
mediati, esattamente i primi Giudici ritennero che l'Ente
incorporante dovesse considerarsi un erede della Cassa di
risparmio di Latina, agli effetti dell'art. 22, e pertanto
legittimato a far valere le proprie pretese risarcitone nel
processo penale. (Omissis)
0) Sul piano sostantivo viene dedotto, in primo luogo, che la Corte di merito erroneamente avrebbe ritenuto la
sussistenza del delitto di peculato ; mentre le risultanze
acquisite erano state di tal genere da escludere la configu rabilità di quel tipo di illecito.
Al fine di valutare l'accettabilità o meno dell'assunto
difensivo si impone un accenno, sia pure schematico, alle
concrete modalità della fattispecie, obietto del procedi mento.
È stato accertato dal Giudice di merito che, nel 1937, venne istituita la Cassa di risparmio di Latina, il cui statuto
prevedeva, fra altro, la concessione di crediti condizionata
a garanzia reale ed equivalente, con eccezione degli sconti
e risconti di cambiali con scadenza di regola non eccedente
i mesi sei, che fossero munite di due firme di riconosciuta
solvenza. All'epoca dei fatti, taluni degli imputati si tro
vavano, nei confronti della Cassa, nella seguente posizione
soggettiva : l'Aiuti era presidente del Consiglio di ammi
nistrazione ; il D'Errico fungeva da direttore generale ; il
Cafagna esplicava mansioni di contabile capo ; il Barto
lomeo era stato già prima e divenne di nuovo componente del Consiglio di amministrazione ; il Tufo semplice impie
gato, mentre lo Zangrilli dirigeva la filiale dell'ente in fun
zione a Formia.
In occasione di un processo per truffa a carico del geo metra Grossi Gennaro, si profilarono le prove di gravissime disfunzioni di carattere patrimoniale in seno alla Cassa
di risparmio di Latina. Indagini amministrative, disposte
dagli organi competenti (Ispettorato della Banca d'Italia e Commissario straordinario della Cassa), in seguito con
fermate dalle perizie giudiziarie, posero in luce i segmenti episodi qui descritti secondo i loro tratti essenziali. Il pre sidente del Consiglio di Amministrazione dell'Ente, Aiuti, al fine di finanziare una società cinematografica alla cui
presidenza era preposto, aveva scontato a mezzo di presta nomi (Ferrari Luisa, Zacchero Antonio, Fanti Giovanni,
Giorgi Gustavo, Leonori Angela) numerosi effetti, il cui
importo al 31 dicembre 1956 superava la cifra di lire 43
milioni. Codeste operazioni erano avvenute con l'autoriz
zazione del direttore D'Errico, nonché con l'ausilio dell'im
piegato Tufo, il quale aveva contraffatto anche talune firme
di girata. Inoltre l'Aiuti, su un proprio conto corrente
aperto con la Cassa, aveva emesso nel biennio 1955-56
assegni a vuoto per la somma complessiva di lire 240 mi
lioni, taluni dei quali erano stati riscossi presso altri isti
tuti bancari. A copertura del rapporto venivano utilizzati
assegni, emessi quasi sempre a vuoto su diverse banche, col
pieno consenso del D'Errico, che permetteva addirittura
che quei titoli venissero accreditati al titolare del conto come contante, con beneficio immediato di valuta.
Si accertò pure, nel corso delle indagini esperite, che il
geometra Grossi, già dipendente della Cassa di Latina e poi messosi nel mondo degli affari, aveva negoziato, nel corso del 1955, titoli di credito per l'importo complessivo di circa
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GIURISPRUDENZA PENALE
lire 4.500.000.000. Aperti numerosi conti presso varie ban
che, egli emetteva una enorme quantità di assegni allo sco
perto, in seguito pareggiati con altri titoli parimenti emessi a vuoto. Giovandosi soprattutto dell'intervallo di tempo intercorrente fra la riscossione delle somme e l'arrivo degli assegni alle banche trattane, il Grossi riusciva a conseguire utili, a titolo di autofinanziamento. Di codesta mano vra anomala era pienamente consapevole il direttore D'Er rico ; egli infatti vistava gli assegni a vuoto presentati per il pagamento ; disponeva che talvolta venissero cambiati in assegni I.c.c.r.i., aventi natura di assegni circolari ; aveva finito col rinunciare ad una qualsiasi firma di garanzia, accontentandosi della sola obbligazione del Grossi ; era
intervenuto in più occasioni affinchè titoli, per l'importo di lire 170.000.000, sostassero presso l'ufficiale giudiziario oltre il termine per il protesto. L'attività c. d. di auto finanziamento del Grossi aveva affondato le proprie in sane radici anche in un complesso rapporto amministra tivo-contabile intervenuto fra l'Ente di Latina e la Cassa rurale di Alatri, Società cooperativa a responsabilità illi
mitata, di cui era direttore Volpari Giuseppe. Trovandosi
quest'ultima in difficili condizioni e desiderando allargare la sfera delle proprie attività, aveva concluso, nel giugno 1955, una convenzioni con la Cassa di Latina, per cui i
saldi liquidi, derivanti dalla progettata collaborazione, si
sarebbero dovuti tenere in linea di costante quasi pareggio, con facoltà per l'istituto creditore di chiedere in qual siasi momento la necessaria copertura. Codesta condizione,
peraltro, non si era potuta realizzare ; dopo pochi giorni il conto, soprattutto in conseguenza delle operazioni com
piute dal Grossi, presentava uno scoperto di oltre lire 150
milioni, che a fine luglio divenne di lire 300.000.000.
Allo scopo di riequilibrare il rapporto di corrispondenza fra i due Enti, si era pensato di sostituire le operazioni
eseguite a mezzo di assegni privi di copertura con altre in
cardinate sul fido cambiario. Si escogitò allora il seguente si
stema, di cui il D'Errico e il Cafagna, per la Cassa di Latina, e il Yolpari, per l'Ente di Alatri erano pienamente consa
pevoli. Il Grossi scontava cambiali di comodo presso la
Cassa di Alatri, che gli accreditava gli importi su un ap
posito conto, rimettendo poi gli effetti all'Ente di Latina
per l'incasso. Il titolare dell'accredito emetteva poi sul
conto anzidetto assegni, che gli venivano pagati dalla
Cassa di Latina con relativa annotazione a debito della
Cassa di Alatri sul conto di corrispondenza. Per effetto di
codeste operazioni, l'Ente di Latina si trovò esposto, alla
fine del 1955, per l'ingente importo di oltre lire 900.000.000.
I funzionari, incaricati delle indagini amministrativo
contabili, poterono ancora assodare che i sistemi attuati
dal Grossi per autofinanziarsi (emissione di assegni a vuoto, riscossione e successiva copertura con altri titoli irrego lari, oppure sconto di cambiali rilasciate da prestanomi
compiacenti) erano stati sostanzialmente adottati in altri
complessi e onerosi rapporti, che ebbero a protagonisti, da un lato il Cusumano, il Grillo e il Pietrangeli, e dall'al
tro lo lori e il Ruo, e di cui il D'Errico, il Cafagna e lo Zan
grillo (quest'ultimo per la parte degli episodi svoltosi attra
verso la filiale di Formia) avevano avuto consapevole cono
scenza e che avevano reso possibili col loro intenzionale com
portamento. Venne anche posto in luce che in taluue opera zioni bancarie era intervenuto in qualità di partecipe il
Bartolomeo.
Dalla sentenza di merito si apprende, da ultimo, che per effetto delle caotiche operazioni compiute o permesse dai
funzionari della Cassa di Latina a vantaggio di privati
speculatori o anche proprio, si era verificato un tale stato
di anemia patrimoniale da rendere necessaria l'incorpora zione del predetto Ente nella Cassa di risparmio di Roma.
Alla luce delle predette complesse circostanze di fatto, si possono ora vagliare le numerose doglianze dedotte dai
ricorrenti, sia con motivi di portata comune, sia con mezzi
di contenuto più circoscritto, riferentisi solo a taluni
fra essi.
1) Si assume in primo luogo, con riferimento alla im
putazione di pesulato, che erroneamente la Corte di merito
avrebbe attribuito alla Cassa di risparmio di Latina la na
tura di ente pubblico, e ai suoi funzionari o rappresentanti la veste di pubblici ufficiali.
Questo Supremo collegio non crede che la censura abbia fondamento giuridico.
Le casse di risparmio, sorte nel clima economico-sociale
del secolo XVIII, si contrapposero sin dall'inizio alle ban
che vere e proprie : mentre queste ultime si davano come
programma essenziale la raccolta e la utilizzazione interes sata di depositi ingenti, le prime miravano soprattutto alla elevazione materiale e morale delle classi umili, attraverso l'avviamento in un comune collettore dei loro modesti
risparmi monetari, il corrispondente impiego in operazioni di assoluta sicurezza e la destinazione finale degli utili, detratti i giusti interessi e le spese, ad iniziative di pubblica assistenza.
Codesta peculiare caratteristica, che aveva trovato un
primo e significativo riflesso nella legge organica del 15
luglio 1888 n. 5546, ebbe un sempre più accentuato ricono scimento nelle disposizioni che si susseguirono nel tempo.
In particolare il t. u. approvato con r. decreto 25 aprile 1929 n. 967 e il parallelo regolamento approvato con r. decreto 5 febbraio 1931 n. 225, in considerazione degli scopi altamente sociali delle casse, operanti quali mezzo di rac colta di risparmio e di distribuzione di utili entro vasti settori delle masse più modeste e bisognose, apprestarono numerosi strumenti normativi intesi ad assicurare il fun zionamento di istituzioni così benefiche per la collettività. Il legislatore ebbe cura di sottoporre ad accurata regola mentazione, non soltanto la nascita delle casse di rispar mio, ancorandola ad apposito riconoscimento ministeriale, ma la loro concreta ed efficiente funzionalità, al lume degli statuti costitutivi, nonché le fasi estintive delle casse mede sime imposte o consigliate dalle circostanze. In corrispon denza a codeste specifiche direttive, furono anche apprestati opportuni strumenti di controllo volti a segnalare eventuali disfunzioni dell'organo e ad eliminarne le riscontrate ano malie.
Poiché, dunque, le casse di risparmio, sebbene in origine sorte alla insegna del diritto privato, ben presto passarono sotto la guida e il controllo, assorbenti e integrali, dello
Stato, sembra lecito concludere che esse abbiano la natura di enti pubblici di carattere economico ; se è vero che codesto attributo compete fra altro, ad ogai istituzione dotata di autonomia giuridica, venuta ad inserirsi, per le moda
lità della sua genesi e le peculiarità del suo sviluppo, in
grembo all'ordinamento statuale. Né contro siffatta solu zione può fondatamente obiettarsi che, come attestato
dalla comune esperienza, anche le casse di risparmio ope rano con finalità di lucro, al pari di ogni altro soggetto avente
scopi mercantili ; sicché, almeno nel circoscritto settore di
attività, mirante alla realizzazione dei predetti fini, l'ente
si presenterebbe con notazioni privatistiche, e come tale
dovrebbe essere considerato ad ogni possibile effetto giu
ridico-penale. A parte l'evidente inaccettabilità di codesto
criterio discriminatorio, per cui si verrebbe ad operare una
scissione nel grembo di una istituzione strutturalmente
compatta, e come tale valutabile unitariamente, secondo le sue caratteristiche essenziali, sta di fatto che in nessun caso
l'apprezzamento degli aspetti speculativi dell'ente potrebbe incidere sulla sua effettiva qualificazione. Invero, anche nei
confronti delle operazioni svolte a scopo di guadagno ri
marrebbe pur sempre fermo il principio che gli utili conse
guiti non possono andare mai a vantaggio del capitale (escluso
perciò da ogni partecipazione a quel beneficio), ma devono
essere esclusivamente utilizzati per la formazione della c.
d. massa di rispetto e per il compimento di opere di bene
ficenza ovvero di pubblica utilità.
Riconosciuta alle casse di risparmio la veste di enti pub
blici, in quanto destinate a svolgere funzioni di preminente interesse statuale, secondo le direttive e con il costante
vigile controllo dello Stato, ne segue che i soggetti, chia
mati a formare comunque la volontà dell'ente o a rappre sentarlo nello svolgimento dei rapporti giuridici essenziali, devono considerarsi pubblici ufficiali, ai sensi dell'art. 357
cod. penale. A questo punto corre obbligo di esaminare, per esigenze
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59 PARTE SECONDA 6G
di completezza, un altro aspetto della questione trattata :
vedere cioè se le casse di risparmio non si debbano consi
derare meri istituti incaricati di un servizio di natura pub blica (e non già di una pubblica funzione) e per conseguenza i loro esponenti suscettibili della diversa qualifica prevista dall'art. 358 cod. penale.
La legge 7 marzo 1938 n. 141, che convertì con modifiche il r. decreto legge 12 marzo 1936 n. 375, contenente disposi zioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della
funzione creditizia, stabilisce in via di massima che « la rac
colta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma el'eser
cizio del eredito sono funzioni di interesse pubblico » e che
le predette attività sono espletate « da istituti di credito
di diritto pubblico, da banche d'interesse nazionale, da casse
di risparmio e da istituti, banche, enti ed imprese private a
tale fine autorizzati » (art. 1). La stessa legge aggiunge che
« tutte le aziende, che raccolgono il risparmio tra il pubblico ed esercitano il credito, sono sottoposte al controllo di un
organo dello Stato, che viene a tal fine costituito e che è
denominato Ispettorato per la difesa del risparmio e per lo
esercizio del eredito » (art. 2). Ora, poiché dalle riportate
disposizioni risulta chiaramente ohe le funzioni della rac
colta del risparmio e dell'esercizio del credito, in ogni caso
da considerarsi di pubblico interesse, possono costituire
appannaggio anche di istituti di diritto privato, se ne vor
rebbe dedurre che le casse di risparmio non sono riconduci
bili nel novero degli enti investiti di funzioni pubblicisti
che, in vista dell'attività che esse svolgono, dato che i me
desimi compiti sono esplicabili egualmente da parte di sog
getti privati. L'attività delle casse di risparmio, invece, in quanto diretta a soddisfare essenzialmente esigenze di
carattere economico, in nessun caso riferibili alla sfera della
potestà di imperio, integrerebbe un mero servizio di carat
tere pubblicistico, e parallelamente i soggetti, investiti di
quelle mansioni, dovrebbero definirsi « incaricati di un
pubblico servizio ».
Questo Supremo collegio non crede di potere condividere l'anzidetta argomentazione. Anzitutto va osservato che,
qualora si ritenga che, ai fini della soluzione del quesito in esame, siano decisivi i testi di legge dianzi citati, il loro
tenore sembrerebbe contrastare così la tesi che le casse di
risparmio siano investite di funzioni pubbliche, come l'al
tra che esse svolgano soltanto un pubblico servizio. Invero, una volta ammesso che soggetti privati possano rimanere
tali anche se provvedono alla raccolta del risparmio e alla
realizzazione del credito, non si vede perchè le sole casse
dovrebbero assumere la veste di incaricate di un pubblico
servizio, quando svolgano le predette attività.
In secondo luogo, si rileva che l'assunto qui discusso,
per negare la qualità di pubbliche funzioni ai compiti svolti
dalle casse di risparmio, postula una visione alquanto an
gusta della complessa e delicata materia in esame. Come già si è visto, gli enti in discussione non hanno
per fine immediato e diretto l'esercizio di una qualsiasi forma di credito proficuo, attraverso la utilizzazione dei
mezzi monetari, in ogni modo e presso chiunque raccolti.
Grli scopi essenziali che esse perseguono, a differenza dei sog getti di diritto privato, sia pure passibili di controllo generico ad opera dell'Ispettorato, sono profondamente diversi spe cie sul piano dei riflessi sociali. In primo luogo le casse
mirano a suscitare e poi ad accrescere nella coscienza delle
classi più modeste l'amore per il risparmio, considerato come
strumento di elevazione materiale e, di conserva, morale
della comunità associata. In tal modo, l'obietto dei depo siti si presenta, più che come un mero bene destinato all'in
vestimento, quale contenuto di un gesto di previdenza con
sapevole e perciò socialmente rilevante. In secondo luogo, la utilizzazione dei mezzi monetari si svolge nell'ambito di negozi giuridici assolutamente privi di alea ; ciò all'ov
vio scopo di non pregiudicare il compimento ordinato e
continuo dei programmi istituzionali.
SDa ultimo, l'importo degli utili residuati, in nessun caso
destinabili a beneficio del capitale, viene avviato al co
stante incremento della massa di rispetto, onde rendere
sempre più ampi i settori della collettività, chiamati a
ruire dei vantaggi perseguiti dall'ente, nonché all'attua.
zione di opere di beneficenza o comunque al soddisfaci mento di pubblici bisogni.
Risulta allora ben chiaro che i compiti, assegnati dall'or dinamento alle casse di risparmio, non possono considerarsi
semplici espressioni di un pubblico servizio, di un mezzo strumentale cioè apprestato dall'Amministrazione pubblica per il soddisfacimento di talune tra le più elementari esi
genze proprie della collettività, da attuarsi fuori da ogni possibile conflitto di rapporti intersubiettivi. Nel caso in esame, gli enti, oltre cbe a incoraggiare il risparmio, a favorirne l'accesso a particolari investimenti, giusta il dettato costituzionale (art. 47) e a regolarne la redistri buzione secondo direttive statuali, devono anche provve dere all'attuazione di scelte discriminatorie (specie con ri
guardo ai finanziamenti preferenziali o alle assegnazioni degli utili, da compiersi costantemente secondo le finalità
istituzionali), che implicano ex necesse l'esercizio di una
potestà di contenuto decisorio, con paralleli riflessi nella sfera giuridica delle parti interessate : nota distintiva co
desta, fra altro, della funzione pubblica amministrativa.
2) Si deduce ancora dalla difesa che, nella ipotesi di cui all'odierno procedimento, erroneamente i Giudici di merito avrebbero riscontrato la fattispecie delittuosa del
peculato per distrazione (art. 314 cod. pen.) ; mentre i
fatti ritenuti in concreto costituivano semplici infrazioni
regolamentari, o, al più, mero abuso innominato di ufficio, ai sensi dell'art. 323 cod. penale.
L'assunto, a parere di questo Supremo collegio, non ha
pregio giuridico. L'art. 314 cod. pen. considera come peculato, fra altro,
la distrazione del denaro o di altra cosa mobile, apparte nenti alla pubblica Amministrazione, compiuta da un sog getto qualificato a profitto proprio od altrui. Per distra zione deve intendersi la destinazione del bene al consegui mento di finalità, che non sono del pubblico ente, ma che
costituiscono un miraggio del funzionario come privato oppure di terzi estranei. In definitiva, la norma incrimina la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un
pubblico servizio, che impiega la cosa mobile o il denaro della Amministrazione pubblica, anziché per la realizza zione degli scopi istituzionali di quest'ultima, per l'attua zione interessata di programmi che non sono dell'ente ma di altri.
Per stabilire se le finalità, al cui servizio vengono messi i beni, appartenenti all'Amministrazione, e dei quali il fun zionario ha il possesso a causa della sua posizione qualifi cata, coincidano ovvero divergano da quelle che l'ente pub blico intende perseguire, bisogna avvalersi di un duplice criterio : a) anzitutto, la valutazione della intrinseca na tura dell'affare, verso cui i beni vengono indirizzati ; b) in secondo luogo, se del caso, il riscontro dell'avvenuta osservanza delle essenziali formalità, richieste dallo statuto dell'ente con riguardo all'operazione in concreto attuata.
Per ciò che riflette il primo punto, si rileva che, perchè possa ritenersi la rispondenza della operazione ai fini isti tuzionali dell'ente pubblico, si esige che quest'ultima sia stata concepita come la risultante di un piano chiaramente
preordinato anche dell'uso dei mezzi sanamente prescelti per la realizzazione del programma. Naturalmente, gli or
gani dell'ente devono avere piena conoscenza delle modalità
più importanti dell'affare, che si intende svolgere in modo da poterne saggiare le attitudini ad uno sviluppo fisiolo
gico e conseguentemente deliberare sul richiesto intervento
patrimoniale. La coincidenza fra le finalità dell'ente pubblico e quelle
del singolo operatore non potrà invece sussistere, quante volte il secondo, privo di idee chiare ed organiche, volte all'attua zione di un piano bene individuato e di verosimile fruttuo
sità, e del tutto sprovvisto di mezzi finanziari, si avventuri in operazioni spericolate, col solo, indistinto miraggio di trarne lauti profitti, e avvalendosi di strumenti di credito assolutamente inidonei e talora addirittura di carattere cri minoso (utilizzazione di cambiali di comodo o di assegni emessi a vuoto). Ne deriva che se, nelle condizioni anzi
descritte, gli organi competenti del pubblico ente destinano
consapevolmente denaro a sostegno di quelle avventurose
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GIURISPRUDENZA PENALE
operazioni, essi immettono i beni dell'Amministrazione
in un vortice oscuro, distraendoli con ciò stesso dal fine
al quale invece andavano indirizzati. Circa il secondo
punto, più addietro precisato, deve rilevarsi che, sebbene
una determinata attività produttivistica sia stata chiara
mente e consapevolmente ideata, tuttavia la sua realizza
zione può non combaciare con le finalità essenziali dell'ente,
quali risultano dalla sua stessa natura ed eventualmente
anche dal suo statuto.
Si è già accennato che le casse di risparmio, data la loro
peculiare funzione, devono evitare in modo assoluto ope razioni che si presentino come rischiose, avere cura di man
tenere una costante liquidità di cassa, rifiutare giri di affari
che implichino la concentrazione di assai cospicui rapporti
patrimoniali in capo ad uno solo o pochi soggetti. Ciò al
l'ovvio scopo di assicurare in ogni evenienza il consegui mento dei fini per cui furono istituite.
È lecito dedurne che, ove gli organi responsabili consa
pevolmente disattendano le anzidette prescrizioni, essi
attuano, in linea obiettiva, una distrazione del pubblico denaro, cioè un allontanamento del bene dalla sua isti
tuzionale destinazione, che, col concorso degli altri neces
sari requisiti, può integrare lo schema tipico dell'art. 324
cod. penale. A tal proposito va chiarito che, perchè si abbia distra
zione, è necessario che la mancata osservanza delle direttive
di massima, fissate dallo statuto oppure connaturali alla
essenza del pubblico ente, implichi un fondamentale disser
vizio del medesimo. Qualora invece una determinata ope
razione, sebbene attuata senza il rispetto delle regole pre
viste, non metta in giuoco la effettiva funzionalità dell'ente,
l'organo, che se ne rese autore, sarà soltanto passibile delle
particolari sanzioni di cui agli art. 50 e 52 t. u. delle leggi sulle casse di risparmio, approvato con r. decreto 25 aprile 1929 n. 967. Fissati in tal modo i confini tra le due specie di illecito, risulta evidente la insostenibilità dell'assunto, secondo cui la violazione delle norme statutarie delle casse
di risparmio darebbe luogo, sempre ed esclusivamente, alla
applicabilità delle più lievi pene, di cui si è fatto parola. Contro codesta tesi sta, oltre che la logica del sistema, la
stessa lettera della legge. L'art. 50 infatti, nell'assoggettare a pena pecuniaria sino a lire 3.000 (ora equivalente alla
multa, in egual misura, grazie al disposto ex art. 7 r. decreto
21 maggio 1931 n. 601) i promotori, gli amministratori, i
direttori, i sindaci e i liquidatori delle casse di risparmio che si siano resi responsabili di determinate inosservanze, fa espressamente salva l'applicabilità delle « maggiori pene comminate dal codice penale ».
Esaminata, alla luce di codeste premesse, la odierna fat
tispecie, bisogna riconoscere che la Corte di merito ha reso
una pronunzia giuridicamente ineccepibile. Accertati insindacabilmente che, in breve volgere di
tempo, gli organi responsabili della Cassa di Latina, in taluni
casi di intesa con quelli della Cassa rurale di Alatri, avevano
devoluto cifre enormi a sostegno di operazioni non chiara
mente e scrupolosamente programmate, come contropar tita di una colossale catena di assegni emessi a vuoto op
pure di cambiali di comodo, calpestando con ciò le più ele
mentari norme di oculatezza e di probità professionale, i Giudici di appello a ragione hanno ritenuto che codesta
plurima condotta si presentasse, sul piano oggettivo, come
una forma evidente di distrazione del denaro, appartenente alla Cassa di risparmio di Latina. Invero, in codesta intri
cata e caleidoscopica vicenda, da un lato si erano imbastite
operazioni, solo apparentemente di normale carattere ban
cario, ma in realtà di esclusivo favoritismo, e dall'altro si
erano pretermesse intenzionalmente tutte le doverose cau
tele, imposte dalla natura dell'ente pubblico o dal suo stesso
statuto : con la conseguenza inevitabile di trascinare nel
baratro finanziario un'istituzione a suo tempo fiorente, e
di renderla inidonea alla ulteriore attuazione degli scopi pub
blicistici, in vista dei quali era stata espressamente creata.
3) Si deduce ancora dalla difesa di taluni impugnanti
che, anche per le altre considerazioni, la Corte di merito
avrebbe dovuto escludere la sussistenza della ipotesi crimi
nosa contestata.
Anzitutto dal punto di vista della effettività del nocu
mento patrimoniale : infatti, posto che molti fra gli obbli
gati erano in grado di soddisfare con i propri beni gli impe gni assunti, non si sarebbe potuto riscontrare l'estremo
costitutivo del nocumento nei confronti della Cassa di ri
sparmio creditrice.
Questo Supremo collegio ritiene che la riferita argo mentazione debba disattendersi per un duplice motivo.
Primo, perchè non appartiene allo schema del peculato per distrazione l'elemento integratore del danno ; sicché
l'illecito si presenta completo nella sua struttura obiettiva
non appena sia stata attuata la consapevole destinazione
dei beni del pubblico ente verso finalità diverse ed essen
zialmente contrastanti con quelle istituzionali. Secondo,
perchè, per stabilire se un illecito, il quale risulti collegato all'adempimento di una obbligazione pecuniaria, sia stato
o meno perpetrato, bisogna unicamente tenere conto della
verificatasi inosservanza dell'obbligo, con i modi e nel
tempo previsti ; a nulla rilevando che il debitore adempia successivamente i propri impegni, il che può implicare sol
tanto, se del caso, l'attenuazione oppure la estinzione del
reato (vedi, rispettivamente, gli art. 62, n. 6, e 641 cod.
pen.), o anche che l'obbligato sia in condizioni da rendere
possibile al creditore la realizzazione delle sue pretese attraverso le normali vie del processo, il che sta solo a si
gnificare che il reo è in grado di assicurare al danneggiato il soddisfacimento delle ragioni ex delieto, spettanti a que st'ultimo.
Nella ipotesi odierna, pertanto, fosse anche vero che ta
luno o più fra gli autori delle operazioni c. d. bancarie
incriminate erano dotati di beni di fortuna, su cui la Cassa di Latina avrebbe potuto totalmente risarcirsi, ciò non
valeva ad escludere la sussistenza dell'illecito ; il quale, dal punto di vista oggettivo, si era perfezionato non ap
pena gli organi del pubblico ente avevano destinato ingenti
quantità di denaro a sostegno di affari che, per la loro stessa
natura e per il modo con cui erano stati perfezionati, si pre sentavano in contrasto con le finalità peculiari della pub blica istituzione. La presenza eventuale di beni, in capo ai
privati beneficiari delle spericolate operazioni, avrebbe
avuto il solo effetto di rendere possibile un tempestivo ri
sarcimento del danno ex delieto da parte dei colpevoli, con
le previste conseguenze attenuanti, ovvero di assicurare
il proficuo esercizio delle pretese creditorie in fase esecu
tiva. Si sostiene; in via ulteriormente subordinata, che,
poiché la condotta ascritta ai prevenuti sarebbe stata con
traddistinta da una nota di imprudenza, e quindi di mera
colpa, non si poteva ritenere a loro carico una figura di
delitto tipicamente dolosa.
Anche codesta argomentazione non sembra dotata di
effettiva consistenza. Pur essendo indiscutibile che il pe culato richieda, a parte subiectì, il requisito del dolo, è al
trettanto indubbio che l'atteggiamento psicologico in que stione possa presentarsi come soltanto eventuale : nel senso
cioè che l'evento, sebbene non direttamente voluto, viene
tuttavia preso in conto e consapevolmente accettato come
conseguenza della condotta che si ha in animo di realiz zare. Non, dunque, colpa accompagnata dalla semplice
previsione del risultato ; bensì consapevole volontà di un
comportamento, tradotta in atto anche a costo di produrre un determinato evento.
Ora, nella specie odierna, venne accertato in sede di me
rito che gli organi della Cassa di Latina, da un lato, e i loro
partecipi, dall'altro, avevano concepito e realizzato il loro
criminoso programma, avendo piena consapevolezza delle
conseguenze che sarebbero potute derivarne al pubblico ente (compromissione della essenziale funzionalità) e tut
tavia accettandone la eventuale produzione. In base a co
desta premessa, esattamente la Corte di merito fu di avviso
che il reato ascritto agli imputati dovesse considerarsi per fetto, anche dal punto di vista dell'elemento intenzionale.
È appena il caso di osservare, da ultimo, che, avendo la
Corte ritenuto la sussistenza nella fattispecie esaminata
della figura criminosa del peculato, non doveva attardarsi
a stabilire se gli episodi accertati potessero o meno inte
grare l'ipotesi delittuosa dell'abuso innominato di ufficio
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63 PARTE SECONDA 64
ex art. 323 cod. pen.. Poiché codesta norma è chiamata ad
agire solo sussidiariamente, come è fatto palese dalla clau sola che vi risulta inserita, è ovvio che, una volta ritenuta
applicabile una particolare disposizione incriminatrice, cioè
quella riguardante il peculato, l'altra norma di contenuto
più ampio non potesse in nessun caso riuscire operante.
4) A questo punto si impone l'esame di una ulteriore
questione, che, sebbene concerna un limitato settore del
l'accusa, si innesta nella più ampia indagine riflettente la
struttura del peculato. Si assume da taluni fra gli impu
gnanti che, negli episodi consistiti nella emissione a vuoto di assegni bancari sulla Cassa di Latina, ma riscossi presso altri istituti di credito, non si sarebbe mai potuta riscon
trare la ipotesi criminosa ex art. 314 cod. pen., per carenza di molteplici elementi costitutivi : invero nella specie sa
rebbero mancati, da un lato, l'appartenenza del denaro
alla predetta Cassa (di proprietà invece delle varie banche
negoziatrici dei titoli) e, dall'altro, un possesso qualsiasi del
numerario de quo da parte dei funzionari responsabili del
l'Ente di Latina.
Osserva in proposito questo Supremo collegio che la im
postazione di fondo, data al quesito dalla Corte di merito, non può accogliersi perchè ancorata a premesse giuridica mente erronee. La pronunzia conclusiva deve tenersi, pe raltro, ferma, in quanto si concilia con i dati posti a base
della condanna, e che sono diversi da quelli cui la difesa si
richiama per fondare le proprie esatte deduzioni.
I Giudici di appello, al fine di riscontrare la figura del
peculato nella previsione in esame, si sono limitati ad affer
mare che, quando le banche negoziatrici dei titoli emessi
a vuoto sulla Cassa di Latina versavano ai porgitori dei do
cumenti le relative somme, esse anticipavano denaro di
pertinenza della Cassa trattaria : donde la configurabilità del delitto ex art. 314 cod. penale.
L'assunto è inaccettabile per varie ragioni. Anzitutto
la Corte nulla dice sull'estremo del possesso per ragioni della funzione o del servizio che il colpevole deve avere
sulla cosa distratta, e che nella specie difficilmente si sarebbe
potuto riconoscere ai funzionari infedeli della Cassa di
Latina nei confronti del numerario erogato dalle banche
negoziatrici degli assegni irregolari. In secondo luogo i
Giudici di merito non riescono a porre nella sua giusta luce il complesso rapporto giuridico in concreto considerato.
Occorre al riguardo precisare che il portatore di un assegno
bancario, che intenda riscuoterlo, può, fra l'altro, farne
obietto di un contratto di sconto, che ha la genuina essenza
di un rapporto giuridico di « prestito », oppure negoziarlo
presso la banca con cui ha in precedenza istituito un rap
porto di conto corrente. Tanto nell'un caso quanto nell'altro, il contraente, che esegue in concreto la solutio, si serve di
denaro che è di sua diretta ed esclusiva proprietà, e che non
può quindi considerarsi di pertinenza dell'ente trattario, cui l'emittente del titolo aveva rivolto l'ordine dì pagare
attingendo alla provvista che si supponeva già esistente.
Però va subito rilevato che la decisione di condanna,
pronunciata dal Tribunale e confermata in sede di appello, ebbe a considerare come episodi di « distrazione », assorbiti
nella figura cumulativa della continuazione, non già gli
importi dei vari assegni a vuoto emessi sul conto di Latina
e riscossi o fatti riscuotere presso banche diverse dell'ente
trattario (nel qual caso dovrebbero riuscire operanti nel
settore sanzionatorio le osservazioni di cui sopra), bensì
l'accreditamento finale compiuto in un certo momento
dalla Cassa di Latina a favore del titolare del conto, in con
trasto con l'effettiva situazione cartolare. Infatti, emerge dal tenore della imputazione, mossa all'Aiuti ed al D'Er
rico con capo B della rubrica, e posta a fondamento della
più lata declaratoria di responsabilità a titolo di concorsi
in peculato continuato, che si faceva carico ai prevenuti di avere compiuto, in conseguenza della emissione di asse
gni a vuoto per complessive circa lire 300.000.000 da parte dell'Aiuti, la distrazione a favore di quest'ultimo della
somma di lire 8.321.277, quale risultante di un accredito
finale indebitamente contabilizzato.
Ora, se le sentenze di merito, sia pure in modo non ec
cessivamente chiaro, intesero definire come distrazione
punibile (assorbita nella figura dell'illecito continuato) solo il predetto accreditamento conclusivo, e non già la emis sione dei singoli assegni non forniti di copertura, riesce del tutto accademica, nella specie concreta, la disputa sul
punto se possa oppur no sussistere il delitto ex art. 314,
quando l'assegno a vuoto venga negoziato presso una banca
diversa dal trattario : quesito che, come già si è visto, esige una risposta negativa. Nessun dubbio invece sulla ricorri
bilità della figura delittuosa del peculato, quando si suppon
gano i dati che le pronunce di merito ritengono insindaca bilmente come certi. Invero, se per distrazione deve inten
dersi la deviazione del bene patrimoniale dal fine ultimo cbe
esso è chiamato istituzionalmente a perseguire nell'interesse
dell'Amministrazione pubblica, è chiaro che codesta dis
funzione ricorra ogni qualvolta il soggetto qualificato, sia pure senza una materiale consegna, metta comunque a disposizione del terzo beneficiario, contra ius, la cosa o il
denaro appartenente al pubblico ente : il che nella specie era appunto avvenuto. (Omissis)
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione IV penale ; sentenza 27 ottobre 1961 ; Pres. Duni
P., Est. Lapiccirella, P. M. Lenzi (conci, conf.) ; ric. Grossi.
(Conferma Trib. Forlì 20 febbraio 1961)
Circolazione stradale — Revoca o sospensione giu diziale della patente —- Natura giuridica (D. pres. 15 giugno 1959 n. 393, t. u. delle norme sulla circola
zione stradale, art. 91). Circolazione stradale — Revoca o sospensione giu
diziale della patente — Sospensione condizio nale dell'esecuzione — Inapplicabilità (D. pres. 15 giugno 1959 n. 393, art. 91 ; cod. pen., art. 163,
166).
La revoca o la sospensione della patente, disposta dal giudice, non è una pena principale o accessoria, nè una misura
di sicurezza, sibbene una sanzione criminale atipica, che rientra nella categoria degli effetti penali della con danna. (1)
Il beneficio della sospensione condizionale della esecuzione
della pena principale non è applicabile all'ordine giu diziale di revoca o sospensione della patente di guida. (2)
La Corte, ecc. — (Omissis). Con il secondo motivo
il ricorrente assume che il provvedimento di sospensione della patente adottato nei suoi confronti è viziato da
errori di diritto ; a questo proposito sono state prospet tate due tesi in netto contrasto tra di loro.
Si sostiene in primo luogo che, poiché era stata con
cessa la sospensione condizionale della pena, il beneficio
doveva esser concesso anche per la sospensione della pa tente trattandosi di pena accessoria. La tesi è giuridica mente infondata perchè l'art. 166 cod. pen. dispone: «la
sospensione condizionale della pena non si estende alle
(1-2) Ha ritenuto che la revoca o la sospensione della pa tente sia una pena accessoria : Pret. Livorno 12 aprile 1960, Vuono, Foro it., Rep. 1960, voce Circolazione stradale, n. 492.
Confr. sull'argomento : Duni, Cassone, Gabbi, Trattato di diritto della circolazione stradale, Roma, 1961, vol. II, pag. 1282 e segg. ; Palladino, Il provvedimento giudiziale di sospensione e revoca della patente di guida, in Corti Brescia, Venezia e Trieste, 1960, 699 ; Agrifoglio, Sospensione e revoca della patente nel nuovo codice stradale, in Arch, circolaz., 1960, 1237 ; Fbanca e Obza, Osservazioni sul 5° comma dell'art. 91 del vigente codice
stradale, in Scuola pos., 1960, 437. Sulla natura giuridica della sospensione della patente di
sposta dal prefetto ai sensi dell'art. 91, 5° comma, del vigente codice stradale, cons., nella motivazione, Corte cost. 14 febbraio
1962, n. 10, in questo fascicolo, I, 398, con nota di richiami.
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