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Sezione III penale; sentenza 15 novembre 1961; Pres. Sigurani P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro...

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Sezione III penale; sentenza 15 novembre 1961; Pres. Sigurani P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro (concl. conf.); ric. Aiuti ed altri Source: Il Foro Italiano, Vol. 85, No. 3 (1962), pp. 51/52-63/64 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23150357 . Accessed: 25/06/2014 05:19 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.229.229.210 on Wed, 25 Jun 2014 05:19:08 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione III penale; sentenza 15 novembre 1961; Pres. Sigurani P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro(concl. conf.); ric. Aiuti ed altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 85, No. 3 (1962), pp. 51/52-63/64Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23150357 .

Accessed: 25/06/2014 05:19

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51 PARTE SECONDA

un margine di discrezionalità, per cui il suo comportamento

potrà diversamente atteggiarsi a seconda delle variabili

caratteristiche della situazione ; non viola certamente l'ob

bligo di tenersi il più possibile vicino al margine destro della

carreggiata il conducente, che se ne allontani per evitare

un ostacolo, appunto perchè la norma è elastica.

jMa le norme rigide hanno questo di particolare, che

esse tendono, a differenza di quelle elastiche, a imporre cautele che in astratto appaiono necessarie, e che in con

creto potrebbero essere anche superflue. Nel caso concreto, se l'osservanza di una norma rigida renderebbe impossibile il movimento, è perfettamente logico che l'interesse della

circolazione prevalga sull'interesse della sicurezza tutelato

da quella particolare norma, perchè il primo è un interesse

concreto, il secondo è un interesse che rimane nel campo dell'astrazione ; se questa prevalenza non fosse ricono-'

sciuta, si procurerebbe un danno certo e concreto per l'in

tralcio alla circolazione, al fine di evitare un pericolo sol

tanto presunto. Sulla base di questa impostazione è facile fissare il li

mite, entro il quale il diritto può essere esercitato anche

in violazione di una norma, e stabilire le condizioni alle

quali l'esercizio del diritto viene ad essere subordinato. Il

limite è il pericolo concreto, la condizione è rappresentata dall'uso di tutti i possibili accorgimenti idonei ad evitare

ogni pregiudizio alla sicurezza del traffico.

Può pervenirsi allora alle seguenti conclusioni.

In tema di contravvenzioni stradali, l'esimente dell'eser

cizio di un diritto, correlativo al diritto del cittadino di

circolare nelle pubbliche strade, può escludere la punibilità solo se si tratti della violazione di norme rigide, la cui stretta

osservanza impedirebbe il movimento dei veicoli con possi bilità di eventuale intralcio, perchè in tal caso l'interesse

concreto della circolazione prevale sull'interesse della sicu

rezza, astrattamente tutelato dalla norma. L'esimente potrà

applicarsi però solo se il diritto venga esercitato con tutte

le possibili cautele atte ad evitare ogni concreto pericolo. Non è punibile pertanto, per la contravvenzione di cui

all'art. 104, 10° comma, cod. strad., il conducente che

circoli contro mano in curva, costretto dalla necessità di

superare un veicolo in sosta o altro ostacolo non facilmente

rimovibile, a condizione che egli compia la manovra usando

tutti gli accorgimenti di cui può disporre, idonei a garan tire la sicurezza dei veicoli procedenti in direzione contra

ria, riducendo al minimo la velocità, azionando i segnali

acustici, ecc.

Nel caso di specie, giustamente sono state disattese le

giustificazioni addotte dall'imputato. Il Giudice di merito, con motivato e insindacabile apprezzamento di fatto, ha

accertato che effettivamente vi erano veicoli in sosta nella

curva, ma ha anche accertato che da questa situazione non

sorgeva la necessità di spostarsi sulla carreggiata sinistra,

perchè da quei veicoli all'asse mediano della strada esi

steva la distanza di quattro metri.

Non vale addurre la presenza di pedoni sulla carreggiata

destra, perchè l'imputato avrebbe dovuto attendere che essi

si spostassero o si allontanassero ; nè vale addurre la esi

stenza di un crocevia poco lontano, perchè egli avrebbe

dovuto ridurre convenientemente la velocità. Il ricorrente

pone in rilievo che nella zona non esisteva un limite di

velocità, come se tale situazione gli attribuisse il diritto

di procedere a velocità sostenuta ; ma è ovvio osservare

al riguardo che, ove non vige un limite fisso della velocità,

vige sempre il criterio della velocità relativa non pericolosa. Con il secondo motivo di gravame si sostiene che, ai

fini dell'applicazione della norma di cui all'art. 104, 10°

comma, cod. strad., circola contro mano soltanto il veicolo

che proceda completamente sulla mezzeria di sinistra, non

quello che la invada solo parzialmente. Anche questa tesi, apoditticamente affermata e non

dimostrata dal ricorrente, è giuridicamente infondata.

Eelativamente alla circolazione in curva, l'art. 104 cod.

strad. prevede due ipotesi contravvenzionali : il fatto

del conducente del veicolo che percorra una curva senza

tenersi il più vicino possibile al margine destro della car

reggiata (destra, rigorosissima), previsto dal 2° comma e

punito ai sensi dell'ult imo comma, e il fatto di chi circola contro mano in prossimità o in corrispondenza di una

curva, previsto e punito più severamente dal 10° comma. La disciplina della mano da tenere nella circolazione stra dale è basata infatti su due principi fondamentali, che

corrispondono a due diverse esigenze e finalità : quella di non turbare la corrente di transito che si svolge nella dire zione contraria, e quella di turbare il meno possibile la corrente di transito che si svolge nella medesima direzione.

Sulla base di questi principi deve ricercarsi la esatta

interpretazione filologica e tecnica del termine « contro mano ». 11 divieto di circolare contro mano in curva è senza dubbio diretto al fine di evitare ogni turbativa alla

corrente del traffico che si svolge nella direzione contraria ; ed è evidente che una turbativa di tal genere può derivare

anche dal veicolo che occupi solo una parte della semicar

reggiata di sinistra.

Pertanto, ai fini dell'applicazione della norma, di cui

all'art. 104, 10° comma, cod. strad., si verifica il fatto

della circolazione contro mano, nella ipotesi in cui il vei

colo occupi una parte, più o meno grande, della semicar

reggiata di sinistra ; ne consegue che risponde della con

travvenzione anche il conducente del veicolo che proceda a cavallo dell'asse mediano della strada.

Con il terzo e ultimo motivo si sostiene che nella specie il fatto non costituiva reato, perchè la striscia continua di

mezzeria era stata collocata illegittimamente, e non in

seguito ad un regolare provvedimento. La doglianza non può essere presa in considerazione,

perchè il divieto di circolare contro mano in curva non è

subordinato dalla legge alla esistenza della striscia continua

di mezzeria ed è applicabile quindi anche laddove questa

segnaletica manchi ; il fatto che nella specie quei segni sulla carreggiata fossero stati apposti illegittimamente non può avere alcuna rilevanza, e l'imputato quindi non

può avere alcun interesse a questo accertamento della cui

omissione si duole.

Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione III penale ; sentenza 15 novembre 1961 ; Pres.

Sigurani P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro (conci,

conf.) ; ric. Aiuti ed altri.

(Conferma App. Roma 23 maggio 1959)

Istruzione penale — Sentenza istruttoria — Deposito

dopo il termine ili eui all'art. 372 cod. proe, pen. ma prima della scadenza di quello di eui all'art. 377 cod. proc. pen. — rVullilà — Insussistenza

• (Cod. proc. pen., art. 372, 377). Parte civile — Ordinanza ammissiva della costitu

zione — Inoppugnabilità — Limiti — Cognizione del giudice della impugnazione — Contestazione della « legitimatio ad causam » — Ammissibilità

(Cod. proc. pen., art. 91, 100, 190). Parte civile — Successione tra enti pubblici per in

corporazione — Diritto dell'ente incorporante di

costituirsi parte civile per delitti a danno dell'ente

incorporato — Sussistenza (Cod. proc. pen., art. 22). Cassa di risparmio — Natura di ente pubblico — Pub

blica funzione e non servizio pubblico (Cod. pen., art. 357, 358 ; r. d. 25 aprile 1929 n. 967, t. u. sulle casse

di risparmio). Peculato — Distrazione — Nozione — Fattispecie

(Cod. pen., art. 314). Peculato — Assegno a vuoto tratto su una cassa di

risparmio e negoziato presso altra banca — Ap

partenenza del bene all'ente pubblico — Insussi

stenza (Cod. pen., art. 314).

La sentenza istruttoria di rinvio a giudizio può esser valida

mente depositata anche se non sia decorso il termine per la

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53 GIURISPRUDENZA PENALE 54

denuncia delle nullità verificatesi nell'istruzione, purché sia trascorso il termine di cui alVart. 372 cod. proc. pe nale. (1)

L'imputato, condannato al risarcimento dei danni, può con

testare, in sede di gravame, che spetta alla parte civile

la resite di erede o rappresentante ex lege, in base alla

quale venne pronunciata la condanna. (2) L'ente pubblico, succeduto per incorporazione nella universa

lità del patrimonio di un altro ente pubblico, ha diritto a

costituirsi parte civile per i delitti commessi a danno del

l'ente incorporato. (3) Le casse di risparmio hanno natura di enti pubblici e le atti

vità che esse esplicano rappresentano una pubblica fun zione e non il semplice esercizio di un pubblico servizio. (4)

Ricorre la deviazione del bene della pubblica Amministrazione

dalla propria destinazione istituzionale, che integra la

« distrazione » di cui all'art. 314 cod. pen., nel caso in cui

il funzionario di una cassa di risparmio ponga in essere

operazioni spericolate, mediante strumenti di credito

inidonei o addirittura criminosi (come la utilizzazione di

cambiali di comodo o il pagamento di assegni a vuoto) e

senza il rispetto delle norme statutarie dell'ente. (5) Non sussiste peculato per distrazione nell'ipotesi che venga

pagato da una banca negoziatrice un assegno a vuoto tratto

su una cassa di risparmio. (6)

La Corte, ecc. — A) Si deduce anzitutto, sul piano pro

cessuale, una pretesa disfunzione verificatasi nella fase istrut

toria e incidente sulla validità della sentenza di rinvio :

in particolare la mancata maturazione del termine ex art.

372 cod. proc. pen. per nullità della ordinanza emessa dal

Giudice istruttore sulla richiesta di proroga, con conseguente

impossibilità di un rituale deposito della sentenza con

clusiva, nonché della eventuale convalescenza dei vizi ve

rificatisi nel corso della istruttoria formale, regolata dal

l'art. 377.

Ritiene la Corte suprema che l'argomentazione difensiva

non abbia, nella specie odierna, fondamento giuridico. L'art. 372, 3° comma, attribuisce al giudice istruttore la

(1) Per i precedenti, tutti conformi, v. la nota alla sentenza

impugnata App. Roma 23 maggio 1959, Aiuti, Foro it., 1960, II, 65.

In dottrina, cons., da ultimo, Zhara Buda, Sul termine di deposito della sentenza istruttoria, in Giusi, pen., 1961, III, 55

(nota adesiva alla sent, citata). (2) Contra i precedenti richiamati in nota ad App. Roma

23 maggio 1959, citata ; cui adde, Cass. 25 maggio 1959, Urbinati, Foro it., Rep. 1960, voce Parte civile, n. 19 ; 29 novembre 1960,

Spada, Giust. pen., 1961, III, 221. Per una ipotesi particolare, cons. Cass. 11 ottobre 1960, Soremin, ibid., 172, m. 318.

(3) Il principio riassunto viene, a quanto consta, per la

prima volta affermato dalla Corte suprema : neppure la dot

trina si è finora occupata del fenomeno della successione inter vivos tra enti pubblici, ai fini dell'ammissibilità della costitu

zione di parte civile. V., peraltro, sugli effetti extrapenali della

successione tra enti pubblici, Cass. 3 ottobre 1959, n. 2642, Foro it., 1960, I, 1557, con nota di richiami.

Il fenomeno della successione a titolo universale viene riscon trato nel caso di fusione mediante incorporazione di società di

capitali: si vedano, da ultimo, Cass. 21 giugno 1961, n. 1482 e 3 febbraio 1961, n. 223, in questo volume, I, 105, con ampia nota di richiami.

(4) Conf. oltre ai precedenti indicati in nota ad App. E.oma 23 maggio 1959, citata : Cass. 10 luglio 1958, Fortini, Foro it.,

Rep. 1959, voce Peculato, n. 11.

Contra, in quanto ha ritenuto che l'attività di raccolta de!

risparmio, esercizio del credito, ecc. dia luogo ad un pubblico servizio e non ad una pubblica funzione, Cass. 12 dicembre

1960, Tringali, id., 1961, II, 164, con nota di richiami.

(5-6) Sulla nozione di appartenenza del denaro alla pubblica Amministrazione, di cui all'art. 314 cod. pen., cons. Cass. 19

ottobre 1959, Mattinò, Foro it., Rep. 1960, voce Peculato, n. 12 ; 10 luglio 1958, Fortini, e 11 ottobre 1958, Cappello, id., Rep. 1959, voce cit., nn. 11, 12 ; 27 giugno 1958, Peroni, e 12 novembre

1958, Broccoli, id., Rep. 1958, voce cit., nn. 2-4 ; App. Milano

8 febbraio 1958, Dato, id., 1958, II, 191, con nota di richiami, cui adde Lozzi, L'appartenenza nel diritto penale, in Riv. dir.

proc. pen., 1958, 697 ; Chcarotti, Appartenenza, voce dell'Enci

clopedia del diritto, Milano, 1958, II, 708,

facoltà di prorogare il termine di cinque giorni, previsto

per il deposito degli atti, per giusta causa e per il tempo ritenuto assolutamente indispensabile. Trattasi di una po testà discrezionale, il cui esercizio è collegato alla presenza di presupposti, che l'organo istruttorio è chiamato ad ap

prezzare sovranamente, con riguardo anche alle esigenze del processo. L'ordinanza, che provvede sulla richiesta di

proroga, deve essere motivata, com'è prescritto dall'art.

148, nel senso che non può limitarsi ad enunciare la nuda

volontà dell'istruttore ; però, affinchè codesto obbligo

possa ritenersi soddisfatto, non si richiede un esame detta

gliato delle singole ragioni addotte, ma è sufficiente una

valutazione globale della concreta situazione denunciata, al lume degli elementi all'uopo forniti.

Orbene, poiché nella ipotesi odierna la richiesta di pro

roga era stata genericamente formulata (complessità delle

indagini, imminenza di festività), il Giudice non aveva

l'obbligo di soffermarsi a confutare partitamente quei motivi, ma bastava che ritenesse l'istanza sfornita di una

giusta causa, la quale soltanto (se in realtà sussistente) avrebbe potuto imprimere una pausa al corso del procedi mento.

Chiarito che la ordinanza di rigetto della richiesta di

proroga venne ritualmente emessa, ne deriva che, sca

duto il termine dei cinque giorni fissato ex lege, legalmente il Giudice istruttore provvide al deposito della sentenza di

rinvio.

Consegue pure, dalla fissazione dell'anzidetto presuppo sto, che esattamente il Tribunale ritenne nella specie ope rante la particolare disciplina della convalescenza delle

nullità istruttorie previste dall'art. 377 cod. proc. pen. Nè a contrastare codesto assunto può valere la circostanza

che il deposito della pronunzia di rinvio avvenne prima che

fosse scaduto il termine di cinque giorni, concesso alla parte

per denunciare i vizi incorsi durante la fase istruttoria.

Dal combinato disposto degli art. 372, ult. comma, e 377

emerge chiaramente che, passati i cinque giorni dall'av

viso di deposito degli atti, cominciano a decorrere paralle

lamente, da un lato, il termine di quindici giorni concesso

al giudice per il compimento conclusivo delle sue funzioni

(rinvio a giudizio ovvero proscioglimento), e, dall'altro, il

termine di cinque giorni riservato alle parti per la denuncia

motivata dalle eventuali nullità. Ciò implica ovviamente

che," potendo l'attività del giudice concludersi anche nel

primo giorno e l'iniziativa della parte attuarsi nell'ultimo

dei giorni concessi, il deposito della sentenza di rinvio può ben avvenire quando ancora l'interessato è in condizioni

di avvalersi della propria facoltà di dedurre i vizi verifi

catisi nel corso della istruzione. Non vi è dubbio che, quando codesta anticipazione si verifichi, la denuncia di nullità fatta

dalla parte provocherà, se fondata, la invalidità della sen

tenza di rinvio, ancorata agli atti istruttori, poi riconosciuti

nulli ; però la eventualità di una dispersione di energia

processuale non toglie che la parte, la quale intenda denun

ciare determinate nullità incorse nella istruzione formale, sia tenuta a rispettare comunque il disposto dell'art. 377,

pena la sanatoria del vizio prevista da quella norma.

B) Sempre sul terreno processuale si assume che la

Cassa di risparmio di Roma non avrebbe potuto esercitare

nel processo l'azione riparatoria concernente il danno ca

gionato dai colpevoli alla Cassa di risparmio di Latina, per difetto delle condizioni richieste dalla legge.

Al riguardo va osservato che, se l'assunto difensivo

non può accogliersi per le ragioni che saranno fra poco enun

ciate, deve tuttavia disattendersi la premessa su cui la

Corte di merito ha creduto di far leva : che, cioè, essendo

inoppugnabile il provvedimento che ammette la parte ci

vile nel processo penale, non sarebbe consentito in sede di

gravame di riesaminare il punto relativo alla sussistenza

del titolo, richiesto ex lege per l'affiancamento della pretesa

riparatoria a quella penale, fatta valere dal P. m.

È esatto che, nel sistema del codice in vigore, l'ordinanza

di ammissione della parte civile non è soggetta ad impu

gnazione ; ciò è stabilito dall'art. 190. Nè codesta norma

può ritenersi in contrasto col 1° comma dell'art. Ili della

Costituzione, in forza del quale « tutti i provvedimenti giù

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55 PARTE SECONDA 56

risdizionali devono essere motivati », essendo evidente

ohe l'esigenza della motivazione (bisogno di ricostruire

il pensiero del decidente) non implica ex necesse l'esigenza del gravame (rinnovabilità o controllo della decisione). Lo stesso art. Ili della Carta, del resto, nell'assoggettare in ogni caso a ricorso per cassazione per violazione di

legge, insieme, con le sentenze, i soli provvedimenti sulla

libertà personale, lascia fuori dalla previsione i provvedi menti diversi dalle sentenze, aventi un altro oggetto.

Però dal fatto cbe la ordinanza de qua sia inoppugnabile, non è lecito pervenire alla conclusione adottata dalla Corte

di appello. Quel principio comporta soltanto che, accolta

la parte privata accessoria nel processo penale, l'imputato non potrebbe insorgere contro la relativa ordinanza, denun

ciando il difetto dei requisiti richiesti a pena di inammissi

bilità (art. 94, capov.). Ciò per evitare che la posizione di

una parte possa restare esposta al rischio di eventuali mu

tamenti, per causa di inosservanza di formalità, successi

vamente rilevata. Grazie a codesta esigenza, intesa alla

conservazione delle attività processuali, anche al giudice è

consentito di dichiarare la inammissibilità della costitu

zione di parte civile solo fino all'inizio della discussione

finale del dibattimento di primo grado (art. 99).

Ma, ammessa la parte civile e pronunciata condanna del

l'imputato al risarcimento del danno, può dedursi, in sede

di gravame, la carenza della legitimatio ad causarti. Codesta

particolare situazione riguarda, non tanto un generico

rapporto col titolo risarcitorio accampato dalla parte,

quanto il titolo specifico che si è fatto valere nel processo

penale. Per conseguenza, il soggetto passivo dell'azione

riparatoria può lecitamente contestare che la parte civile

avesse il titolo vantato, e che è stato posto a base della con

danna cumulativa. La soluzione, d'altronde, è pienamente conforme a ragione. Se l'accoglimento della domanda,

proposta dalla parte civile, è avvenuto in quanto il giudice di primo grado le ha attribuito la qualità, ad es. di erede

o rappresentante ex lege, non si vede perchè dovrebbe ne

garsi all'imputato il diritto di contestare in sede di impu

gnazione che la parte civile avesse quella qualità, grazie alla quale appunto la condanna venne pronunciata.

L'assunto, a parere di questo Supremo collegio, trova

conforto anche in un preciso disposto normativo. L'art. 100

statuisce che l'ammissione della parte civile non pregiudica la decisione sul diritto della medesima ad ottenere il risar

cimento nella sede particolare prescelta ; il che significa che, benché ammessa la parte accessoria, a dispetto di ogni eventuale opposizione, il giudice è sempre libero, al mo

mento della decisione, di negarle il titolo integratore della

legitimatio ad causarti. Ora, se questa valutazione è consen

tita in primo grado, è ovvio che l'interessato possa denun

ciarne la erroneità anche in sede di gravame. La sentenza della Corte di merito, nonostante la inac

cettabilità della premessa, deve essere tenuta ferma perchè in definitiva va convalidata l'esatta soluzione dei Giudici

di primo grado. 1) Per quanto attiene alla legitimatio ad causarti,

l'art. 22 ammette all'esercizio cumulato delle azioni ripara tone ex delieto in sede penale, il danneggiato, il suo rappre sentante legale o volontario, ovvero il suo erede entro i

limiti della quota ereditaria. Per quali ragioni il legislatore abbia consentito anche a quest'ultimo soggetto di avvalersi

del processo penale per la proposizione delle pretese privati stiche, è agevole individuare : essendo l'erede un succes

sore a titolo universale nei beni del defunto, gli si è voluta

attribuire la medesima facoltà che sarebbe spettata al suo

dante causa, danneggiato dal reato. È opportuno sotto

lineare al riguardo che, con la commissione dell'illecito che

abbia cagionato danno, sorge in capo all'interessato la cor

rispondente ragione creditoria (art. 185 cod. pen.) ; sicché, ove quest'ultimo deceda e altri gli succeda in universum

ius, l'anzidetta ragione si trasferisce nella sfera giuridica del successore. Di qui l'esigenza sentita, dall'ordinamento

processuale, di assicurare al secondo un trattamento ana

logo a quello di cui il primo avrebbe potuto fruire.

Ora, se il motivo della estensione fatta dall'art. 22 va

ricercato essenzialmente nella universalità del titolo sue

cessorio, e non anche nella causa della successione, la tesi, che vorrebbe delimitare la nozione di erede, contenuta nella citata norma, al solo ambito della successione mortis

causa, non può cbe risultare ingiustificata. Tenuto conto delle finalità sistematiche della disposizione, alle quali va fatta la massima parte in sede esegetica, il termine « erede » va inteso nel senso di successore a titolo universale della

persona, fisica o giuridica, cui il reato ha prodotto danno.

Qualità codesta che ricorre, fra altro, in capo all'ente pub blico che abbia incorporato in sè altro ente di pari natura, con conseguente devoluzione del patrimonio di quest'ul timo in quello del primo.

Ciò premesso, essendo emerso nella specie odierna che

la Cassa di risparmio di Latina, soggetto passivo dell'ille

cito di peculato, era stata incorporata dalla Cassa di rispar mio di Roma, senza che si fosse previamente proceduto allo stato di liquidazione e quindi con effetti estintivi im

mediati, esattamente i primi Giudici ritennero che l'Ente

incorporante dovesse considerarsi un erede della Cassa di

risparmio di Latina, agli effetti dell'art. 22, e pertanto

legittimato a far valere le proprie pretese risarcitone nel

processo penale. (Omissis)

0) Sul piano sostantivo viene dedotto, in primo luogo, che la Corte di merito erroneamente avrebbe ritenuto la

sussistenza del delitto di peculato ; mentre le risultanze

acquisite erano state di tal genere da escludere la configu rabilità di quel tipo di illecito.

Al fine di valutare l'accettabilità o meno dell'assunto

difensivo si impone un accenno, sia pure schematico, alle

concrete modalità della fattispecie, obietto del procedi mento.

È stato accertato dal Giudice di merito che, nel 1937, venne istituita la Cassa di risparmio di Latina, il cui statuto

prevedeva, fra altro, la concessione di crediti condizionata

a garanzia reale ed equivalente, con eccezione degli sconti

e risconti di cambiali con scadenza di regola non eccedente

i mesi sei, che fossero munite di due firme di riconosciuta

solvenza. All'epoca dei fatti, taluni degli imputati si tro

vavano, nei confronti della Cassa, nella seguente posizione

soggettiva : l'Aiuti era presidente del Consiglio di ammi

nistrazione ; il D'Errico fungeva da direttore generale ; il

Cafagna esplicava mansioni di contabile capo ; il Barto

lomeo era stato già prima e divenne di nuovo componente del Consiglio di amministrazione ; il Tufo semplice impie

gato, mentre lo Zangrilli dirigeva la filiale dell'ente in fun

zione a Formia.

In occasione di un processo per truffa a carico del geo metra Grossi Gennaro, si profilarono le prove di gravissime disfunzioni di carattere patrimoniale in seno alla Cassa

di risparmio di Latina. Indagini amministrative, disposte

dagli organi competenti (Ispettorato della Banca d'Italia e Commissario straordinario della Cassa), in seguito con

fermate dalle perizie giudiziarie, posero in luce i segmenti episodi qui descritti secondo i loro tratti essenziali. Il pre sidente del Consiglio di Amministrazione dell'Ente, Aiuti, al fine di finanziare una società cinematografica alla cui

presidenza era preposto, aveva scontato a mezzo di presta nomi (Ferrari Luisa, Zacchero Antonio, Fanti Giovanni,

Giorgi Gustavo, Leonori Angela) numerosi effetti, il cui

importo al 31 dicembre 1956 superava la cifra di lire 43

milioni. Codeste operazioni erano avvenute con l'autoriz

zazione del direttore D'Errico, nonché con l'ausilio dell'im

piegato Tufo, il quale aveva contraffatto anche talune firme

di girata. Inoltre l'Aiuti, su un proprio conto corrente

aperto con la Cassa, aveva emesso nel biennio 1955-56

assegni a vuoto per la somma complessiva di lire 240 mi

lioni, taluni dei quali erano stati riscossi presso altri isti

tuti bancari. A copertura del rapporto venivano utilizzati

assegni, emessi quasi sempre a vuoto su diverse banche, col

pieno consenso del D'Errico, che permetteva addirittura

che quei titoli venissero accreditati al titolare del conto come contante, con beneficio immediato di valuta.

Si accertò pure, nel corso delle indagini esperite, che il

geometra Grossi, già dipendente della Cassa di Latina e poi messosi nel mondo degli affari, aveva negoziato, nel corso del 1955, titoli di credito per l'importo complessivo di circa

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GIURISPRUDENZA PENALE

lire 4.500.000.000. Aperti numerosi conti presso varie ban

che, egli emetteva una enorme quantità di assegni allo sco

perto, in seguito pareggiati con altri titoli parimenti emessi a vuoto. Giovandosi soprattutto dell'intervallo di tempo intercorrente fra la riscossione delle somme e l'arrivo degli assegni alle banche trattane, il Grossi riusciva a conseguire utili, a titolo di autofinanziamento. Di codesta mano vra anomala era pienamente consapevole il direttore D'Er rico ; egli infatti vistava gli assegni a vuoto presentati per il pagamento ; disponeva che talvolta venissero cambiati in assegni I.c.c.r.i., aventi natura di assegni circolari ; aveva finito col rinunciare ad una qualsiasi firma di garanzia, accontentandosi della sola obbligazione del Grossi ; era

intervenuto in più occasioni affinchè titoli, per l'importo di lire 170.000.000, sostassero presso l'ufficiale giudiziario oltre il termine per il protesto. L'attività c. d. di auto finanziamento del Grossi aveva affondato le proprie in sane radici anche in un complesso rapporto amministra tivo-contabile intervenuto fra l'Ente di Latina e la Cassa rurale di Alatri, Società cooperativa a responsabilità illi

mitata, di cui era direttore Volpari Giuseppe. Trovandosi

quest'ultima in difficili condizioni e desiderando allargare la sfera delle proprie attività, aveva concluso, nel giugno 1955, una convenzioni con la Cassa di Latina, per cui i

saldi liquidi, derivanti dalla progettata collaborazione, si

sarebbero dovuti tenere in linea di costante quasi pareggio, con facoltà per l'istituto creditore di chiedere in qual siasi momento la necessaria copertura. Codesta condizione,

peraltro, non si era potuta realizzare ; dopo pochi giorni il conto, soprattutto in conseguenza delle operazioni com

piute dal Grossi, presentava uno scoperto di oltre lire 150

milioni, che a fine luglio divenne di lire 300.000.000.

Allo scopo di riequilibrare il rapporto di corrispondenza fra i due Enti, si era pensato di sostituire le operazioni

eseguite a mezzo di assegni privi di copertura con altre in

cardinate sul fido cambiario. Si escogitò allora il seguente si

stema, di cui il D'Errico e il Cafagna, per la Cassa di Latina, e il Yolpari, per l'Ente di Alatri erano pienamente consa

pevoli. Il Grossi scontava cambiali di comodo presso la

Cassa di Alatri, che gli accreditava gli importi su un ap

posito conto, rimettendo poi gli effetti all'Ente di Latina

per l'incasso. Il titolare dell'accredito emetteva poi sul

conto anzidetto assegni, che gli venivano pagati dalla

Cassa di Latina con relativa annotazione a debito della

Cassa di Alatri sul conto di corrispondenza. Per effetto di

codeste operazioni, l'Ente di Latina si trovò esposto, alla

fine del 1955, per l'ingente importo di oltre lire 900.000.000.

I funzionari, incaricati delle indagini amministrativo

contabili, poterono ancora assodare che i sistemi attuati

dal Grossi per autofinanziarsi (emissione di assegni a vuoto, riscossione e successiva copertura con altri titoli irrego lari, oppure sconto di cambiali rilasciate da prestanomi

compiacenti) erano stati sostanzialmente adottati in altri

complessi e onerosi rapporti, che ebbero a protagonisti, da un lato il Cusumano, il Grillo e il Pietrangeli, e dall'al

tro lo lori e il Ruo, e di cui il D'Errico, il Cafagna e lo Zan

grillo (quest'ultimo per la parte degli episodi svoltosi attra

verso la filiale di Formia) avevano avuto consapevole cono

scenza e che avevano reso possibili col loro intenzionale com

portamento. Venne anche posto in luce che in taluue opera zioni bancarie era intervenuto in qualità di partecipe il

Bartolomeo.

Dalla sentenza di merito si apprende, da ultimo, che per effetto delle caotiche operazioni compiute o permesse dai

funzionari della Cassa di Latina a vantaggio di privati

speculatori o anche proprio, si era verificato un tale stato

di anemia patrimoniale da rendere necessaria l'incorpora zione del predetto Ente nella Cassa di risparmio di Roma.

Alla luce delle predette complesse circostanze di fatto, si possono ora vagliare le numerose doglianze dedotte dai

ricorrenti, sia con motivi di portata comune, sia con mezzi

di contenuto più circoscritto, riferentisi solo a taluni

fra essi.

1) Si assume in primo luogo, con riferimento alla im

putazione di pesulato, che erroneamente la Corte di merito

avrebbe attribuito alla Cassa di risparmio di Latina la na

tura di ente pubblico, e ai suoi funzionari o rappresentanti la veste di pubblici ufficiali.

Questo Supremo collegio non crede che la censura abbia fondamento giuridico.

Le casse di risparmio, sorte nel clima economico-sociale

del secolo XVIII, si contrapposero sin dall'inizio alle ban

che vere e proprie : mentre queste ultime si davano come

programma essenziale la raccolta e la utilizzazione interes sata di depositi ingenti, le prime miravano soprattutto alla elevazione materiale e morale delle classi umili, attraverso l'avviamento in un comune collettore dei loro modesti

risparmi monetari, il corrispondente impiego in operazioni di assoluta sicurezza e la destinazione finale degli utili, detratti i giusti interessi e le spese, ad iniziative di pubblica assistenza.

Codesta peculiare caratteristica, che aveva trovato un

primo e significativo riflesso nella legge organica del 15

luglio 1888 n. 5546, ebbe un sempre più accentuato ricono scimento nelle disposizioni che si susseguirono nel tempo.

In particolare il t. u. approvato con r. decreto 25 aprile 1929 n. 967 e il parallelo regolamento approvato con r. decreto 5 febbraio 1931 n. 225, in considerazione degli scopi altamente sociali delle casse, operanti quali mezzo di rac colta di risparmio e di distribuzione di utili entro vasti settori delle masse più modeste e bisognose, apprestarono numerosi strumenti normativi intesi ad assicurare il fun zionamento di istituzioni così benefiche per la collettività. Il legislatore ebbe cura di sottoporre ad accurata regola mentazione, non soltanto la nascita delle casse di rispar mio, ancorandola ad apposito riconoscimento ministeriale, ma la loro concreta ed efficiente funzionalità, al lume degli statuti costitutivi, nonché le fasi estintive delle casse mede sime imposte o consigliate dalle circostanze. In corrispon denza a codeste specifiche direttive, furono anche apprestati opportuni strumenti di controllo volti a segnalare eventuali disfunzioni dell'organo e ad eliminarne le riscontrate ano malie.

Poiché, dunque, le casse di risparmio, sebbene in origine sorte alla insegna del diritto privato, ben presto passarono sotto la guida e il controllo, assorbenti e integrali, dello

Stato, sembra lecito concludere che esse abbiano la natura di enti pubblici di carattere economico ; se è vero che codesto attributo compete fra altro, ad ogai istituzione dotata di autonomia giuridica, venuta ad inserirsi, per le moda

lità della sua genesi e le peculiarità del suo sviluppo, in

grembo all'ordinamento statuale. Né contro siffatta solu zione può fondatamente obiettarsi che, come attestato

dalla comune esperienza, anche le casse di risparmio ope rano con finalità di lucro, al pari di ogni altro soggetto avente

scopi mercantili ; sicché, almeno nel circoscritto settore di

attività, mirante alla realizzazione dei predetti fini, l'ente

si presenterebbe con notazioni privatistiche, e come tale

dovrebbe essere considerato ad ogni possibile effetto giu

ridico-penale. A parte l'evidente inaccettabilità di codesto

criterio discriminatorio, per cui si verrebbe ad operare una

scissione nel grembo di una istituzione strutturalmente

compatta, e come tale valutabile unitariamente, secondo le sue caratteristiche essenziali, sta di fatto che in nessun caso

l'apprezzamento degli aspetti speculativi dell'ente potrebbe incidere sulla sua effettiva qualificazione. Invero, anche nei

confronti delle operazioni svolte a scopo di guadagno ri

marrebbe pur sempre fermo il principio che gli utili conse

guiti non possono andare mai a vantaggio del capitale (escluso

perciò da ogni partecipazione a quel beneficio), ma devono

essere esclusivamente utilizzati per la formazione della c.

d. massa di rispetto e per il compimento di opere di bene

ficenza ovvero di pubblica utilità.

Riconosciuta alle casse di risparmio la veste di enti pub

blici, in quanto destinate a svolgere funzioni di preminente interesse statuale, secondo le direttive e con il costante

vigile controllo dello Stato, ne segue che i soggetti, chia

mati a formare comunque la volontà dell'ente o a rappre sentarlo nello svolgimento dei rapporti giuridici essenziali, devono considerarsi pubblici ufficiali, ai sensi dell'art. 357

cod. penale. A questo punto corre obbligo di esaminare, per esigenze

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59 PARTE SECONDA 6G

di completezza, un altro aspetto della questione trattata :

vedere cioè se le casse di risparmio non si debbano consi

derare meri istituti incaricati di un servizio di natura pub blica (e non già di una pubblica funzione) e per conseguenza i loro esponenti suscettibili della diversa qualifica prevista dall'art. 358 cod. penale.

La legge 7 marzo 1938 n. 141, che convertì con modifiche il r. decreto legge 12 marzo 1936 n. 375, contenente disposi zioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della

funzione creditizia, stabilisce in via di massima che « la rac

colta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma el'eser

cizio del eredito sono funzioni di interesse pubblico » e che

le predette attività sono espletate « da istituti di credito

di diritto pubblico, da banche d'interesse nazionale, da casse

di risparmio e da istituti, banche, enti ed imprese private a

tale fine autorizzati » (art. 1). La stessa legge aggiunge che

« tutte le aziende, che raccolgono il risparmio tra il pubblico ed esercitano il credito, sono sottoposte al controllo di un

organo dello Stato, che viene a tal fine costituito e che è

denominato Ispettorato per la difesa del risparmio e per lo

esercizio del eredito » (art. 2). Ora, poiché dalle riportate

disposizioni risulta chiaramente ohe le funzioni della rac

colta del risparmio e dell'esercizio del credito, in ogni caso

da considerarsi di pubblico interesse, possono costituire

appannaggio anche di istituti di diritto privato, se ne vor

rebbe dedurre che le casse di risparmio non sono riconduci

bili nel novero degli enti investiti di funzioni pubblicisti

che, in vista dell'attività che esse svolgono, dato che i me

desimi compiti sono esplicabili egualmente da parte di sog

getti privati. L'attività delle casse di risparmio, invece, in quanto diretta a soddisfare essenzialmente esigenze di

carattere economico, in nessun caso riferibili alla sfera della

potestà di imperio, integrerebbe un mero servizio di carat

tere pubblicistico, e parallelamente i soggetti, investiti di

quelle mansioni, dovrebbero definirsi « incaricati di un

pubblico servizio ».

Questo Supremo collegio non crede di potere condividere l'anzidetta argomentazione. Anzitutto va osservato che,

qualora si ritenga che, ai fini della soluzione del quesito in esame, siano decisivi i testi di legge dianzi citati, il loro

tenore sembrerebbe contrastare così la tesi che le casse di

risparmio siano investite di funzioni pubbliche, come l'al

tra che esse svolgano soltanto un pubblico servizio. Invero, una volta ammesso che soggetti privati possano rimanere

tali anche se provvedono alla raccolta del risparmio e alla

realizzazione del credito, non si vede perchè le sole casse

dovrebbero assumere la veste di incaricate di un pubblico

servizio, quando svolgano le predette attività.

In secondo luogo, si rileva che l'assunto qui discusso,

per negare la qualità di pubbliche funzioni ai compiti svolti

dalle casse di risparmio, postula una visione alquanto an

gusta della complessa e delicata materia in esame. Come già si è visto, gli enti in discussione non hanno

per fine immediato e diretto l'esercizio di una qualsiasi forma di credito proficuo, attraverso la utilizzazione dei

mezzi monetari, in ogni modo e presso chiunque raccolti.

Grli scopi essenziali che esse perseguono, a differenza dei sog getti di diritto privato, sia pure passibili di controllo generico ad opera dell'Ispettorato, sono profondamente diversi spe cie sul piano dei riflessi sociali. In primo luogo le casse

mirano a suscitare e poi ad accrescere nella coscienza delle

classi più modeste l'amore per il risparmio, considerato come

strumento di elevazione materiale e, di conserva, morale

della comunità associata. In tal modo, l'obietto dei depo siti si presenta, più che come un mero bene destinato all'in

vestimento, quale contenuto di un gesto di previdenza con

sapevole e perciò socialmente rilevante. In secondo luogo, la utilizzazione dei mezzi monetari si svolge nell'ambito di negozi giuridici assolutamente privi di alea ; ciò all'ov

vio scopo di non pregiudicare il compimento ordinato e

continuo dei programmi istituzionali.

SDa ultimo, l'importo degli utili residuati, in nessun caso

destinabili a beneficio del capitale, viene avviato al co

stante incremento della massa di rispetto, onde rendere

sempre più ampi i settori della collettività, chiamati a

ruire dei vantaggi perseguiti dall'ente, nonché all'attua.

zione di opere di beneficenza o comunque al soddisfaci mento di pubblici bisogni.

Risulta allora ben chiaro che i compiti, assegnati dall'or dinamento alle casse di risparmio, non possono considerarsi

semplici espressioni di un pubblico servizio, di un mezzo strumentale cioè apprestato dall'Amministrazione pubblica per il soddisfacimento di talune tra le più elementari esi

genze proprie della collettività, da attuarsi fuori da ogni possibile conflitto di rapporti intersubiettivi. Nel caso in esame, gli enti, oltre cbe a incoraggiare il risparmio, a favorirne l'accesso a particolari investimenti, giusta il dettato costituzionale (art. 47) e a regolarne la redistri buzione secondo direttive statuali, devono anche provve dere all'attuazione di scelte discriminatorie (specie con ri

guardo ai finanziamenti preferenziali o alle assegnazioni degli utili, da compiersi costantemente secondo le finalità

istituzionali), che implicano ex necesse l'esercizio di una

potestà di contenuto decisorio, con paralleli riflessi nella sfera giuridica delle parti interessate : nota distintiva co

desta, fra altro, della funzione pubblica amministrativa.

2) Si deduce ancora dalla difesa che, nella ipotesi di cui all'odierno procedimento, erroneamente i Giudici di merito avrebbero riscontrato la fattispecie delittuosa del

peculato per distrazione (art. 314 cod. pen.) ; mentre i

fatti ritenuti in concreto costituivano semplici infrazioni

regolamentari, o, al più, mero abuso innominato di ufficio, ai sensi dell'art. 323 cod. penale.

L'assunto, a parere di questo Supremo collegio, non ha

pregio giuridico. L'art. 314 cod. pen. considera come peculato, fra altro,

la distrazione del denaro o di altra cosa mobile, apparte nenti alla pubblica Amministrazione, compiuta da un sog getto qualificato a profitto proprio od altrui. Per distra zione deve intendersi la destinazione del bene al consegui mento di finalità, che non sono del pubblico ente, ma che

costituiscono un miraggio del funzionario come privato oppure di terzi estranei. In definitiva, la norma incrimina la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un

pubblico servizio, che impiega la cosa mobile o il denaro della Amministrazione pubblica, anziché per la realizza zione degli scopi istituzionali di quest'ultima, per l'attua zione interessata di programmi che non sono dell'ente ma di altri.

Per stabilire se le finalità, al cui servizio vengono messi i beni, appartenenti all'Amministrazione, e dei quali il fun zionario ha il possesso a causa della sua posizione qualifi cata, coincidano ovvero divergano da quelle che l'ente pub blico intende perseguire, bisogna avvalersi di un duplice criterio : a) anzitutto, la valutazione della intrinseca na tura dell'affare, verso cui i beni vengono indirizzati ; b) in secondo luogo, se del caso, il riscontro dell'avvenuta osservanza delle essenziali formalità, richieste dallo statuto dell'ente con riguardo all'operazione in concreto attuata.

Per ciò che riflette il primo punto, si rileva che, perchè possa ritenersi la rispondenza della operazione ai fini isti tuzionali dell'ente pubblico, si esige che quest'ultima sia stata concepita come la risultante di un piano chiaramente

preordinato anche dell'uso dei mezzi sanamente prescelti per la realizzazione del programma. Naturalmente, gli or

gani dell'ente devono avere piena conoscenza delle modalità

più importanti dell'affare, che si intende svolgere in modo da poterne saggiare le attitudini ad uno sviluppo fisiolo

gico e conseguentemente deliberare sul richiesto intervento

patrimoniale. La coincidenza fra le finalità dell'ente pubblico e quelle

del singolo operatore non potrà invece sussistere, quante volte il secondo, privo di idee chiare ed organiche, volte all'attua zione di un piano bene individuato e di verosimile fruttuo

sità, e del tutto sprovvisto di mezzi finanziari, si avventuri in operazioni spericolate, col solo, indistinto miraggio di trarne lauti profitti, e avvalendosi di strumenti di credito assolutamente inidonei e talora addirittura di carattere cri minoso (utilizzazione di cambiali di comodo o di assegni emessi a vuoto). Ne deriva che se, nelle condizioni anzi

descritte, gli organi competenti del pubblico ente destinano

consapevolmente denaro a sostegno di quelle avventurose

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operazioni, essi immettono i beni dell'Amministrazione

in un vortice oscuro, distraendoli con ciò stesso dal fine

al quale invece andavano indirizzati. Circa il secondo

punto, più addietro precisato, deve rilevarsi che, sebbene

una determinata attività produttivistica sia stata chiara

mente e consapevolmente ideata, tuttavia la sua realizza

zione può non combaciare con le finalità essenziali dell'ente,

quali risultano dalla sua stessa natura ed eventualmente

anche dal suo statuto.

Si è già accennato che le casse di risparmio, data la loro

peculiare funzione, devono evitare in modo assoluto ope razioni che si presentino come rischiose, avere cura di man

tenere una costante liquidità di cassa, rifiutare giri di affari

che implichino la concentrazione di assai cospicui rapporti

patrimoniali in capo ad uno solo o pochi soggetti. Ciò al

l'ovvio scopo di assicurare in ogni evenienza il consegui mento dei fini per cui furono istituite.

È lecito dedurne che, ove gli organi responsabili consa

pevolmente disattendano le anzidette prescrizioni, essi

attuano, in linea obiettiva, una distrazione del pubblico denaro, cioè un allontanamento del bene dalla sua isti

tuzionale destinazione, che, col concorso degli altri neces

sari requisiti, può integrare lo schema tipico dell'art. 324

cod. penale. A tal proposito va chiarito che, perchè si abbia distra

zione, è necessario che la mancata osservanza delle direttive

di massima, fissate dallo statuto oppure connaturali alla

essenza del pubblico ente, implichi un fondamentale disser

vizio del medesimo. Qualora invece una determinata ope

razione, sebbene attuata senza il rispetto delle regole pre

viste, non metta in giuoco la effettiva funzionalità dell'ente,

l'organo, che se ne rese autore, sarà soltanto passibile delle

particolari sanzioni di cui agli art. 50 e 52 t. u. delle leggi sulle casse di risparmio, approvato con r. decreto 25 aprile 1929 n. 967. Fissati in tal modo i confini tra le due specie di illecito, risulta evidente la insostenibilità dell'assunto, secondo cui la violazione delle norme statutarie delle casse

di risparmio darebbe luogo, sempre ed esclusivamente, alla

applicabilità delle più lievi pene, di cui si è fatto parola. Contro codesta tesi sta, oltre che la logica del sistema, la

stessa lettera della legge. L'art. 50 infatti, nell'assoggettare a pena pecuniaria sino a lire 3.000 (ora equivalente alla

multa, in egual misura, grazie al disposto ex art. 7 r. decreto

21 maggio 1931 n. 601) i promotori, gli amministratori, i

direttori, i sindaci e i liquidatori delle casse di risparmio che si siano resi responsabili di determinate inosservanze, fa espressamente salva l'applicabilità delle « maggiori pene comminate dal codice penale ».

Esaminata, alla luce di codeste premesse, la odierna fat

tispecie, bisogna riconoscere che la Corte di merito ha reso

una pronunzia giuridicamente ineccepibile. Accertati insindacabilmente che, in breve volgere di

tempo, gli organi responsabili della Cassa di Latina, in taluni

casi di intesa con quelli della Cassa rurale di Alatri, avevano

devoluto cifre enormi a sostegno di operazioni non chiara

mente e scrupolosamente programmate, come contropar tita di una colossale catena di assegni emessi a vuoto op

pure di cambiali di comodo, calpestando con ciò le più ele

mentari norme di oculatezza e di probità professionale, i Giudici di appello a ragione hanno ritenuto che codesta

plurima condotta si presentasse, sul piano oggettivo, come

una forma evidente di distrazione del denaro, appartenente alla Cassa di risparmio di Latina. Invero, in codesta intri

cata e caleidoscopica vicenda, da un lato si erano imbastite

operazioni, solo apparentemente di normale carattere ban

cario, ma in realtà di esclusivo favoritismo, e dall'altro si

erano pretermesse intenzionalmente tutte le doverose cau

tele, imposte dalla natura dell'ente pubblico o dal suo stesso

statuto : con la conseguenza inevitabile di trascinare nel

baratro finanziario un'istituzione a suo tempo fiorente, e

di renderla inidonea alla ulteriore attuazione degli scopi pub

blicistici, in vista dei quali era stata espressamente creata.

3) Si deduce ancora dalla difesa di taluni impugnanti

che, anche per le altre considerazioni, la Corte di merito

avrebbe dovuto escludere la sussistenza della ipotesi crimi

nosa contestata.

Anzitutto dal punto di vista della effettività del nocu

mento patrimoniale : infatti, posto che molti fra gli obbli

gati erano in grado di soddisfare con i propri beni gli impe gni assunti, non si sarebbe potuto riscontrare l'estremo

costitutivo del nocumento nei confronti della Cassa di ri

sparmio creditrice.

Questo Supremo collegio ritiene che la riferita argo mentazione debba disattendersi per un duplice motivo.

Primo, perchè non appartiene allo schema del peculato per distrazione l'elemento integratore del danno ; sicché

l'illecito si presenta completo nella sua struttura obiettiva

non appena sia stata attuata la consapevole destinazione

dei beni del pubblico ente verso finalità diverse ed essen

zialmente contrastanti con quelle istituzionali. Secondo,

perchè, per stabilire se un illecito, il quale risulti collegato all'adempimento di una obbligazione pecuniaria, sia stato

o meno perpetrato, bisogna unicamente tenere conto della

verificatasi inosservanza dell'obbligo, con i modi e nel

tempo previsti ; a nulla rilevando che il debitore adempia successivamente i propri impegni, il che può implicare sol

tanto, se del caso, l'attenuazione oppure la estinzione del

reato (vedi, rispettivamente, gli art. 62, n. 6, e 641 cod.

pen.), o anche che l'obbligato sia in condizioni da rendere

possibile al creditore la realizzazione delle sue pretese attraverso le normali vie del processo, il che sta solo a si

gnificare che il reo è in grado di assicurare al danneggiato il soddisfacimento delle ragioni ex delieto, spettanti a que st'ultimo.

Nella ipotesi odierna, pertanto, fosse anche vero che ta

luno o più fra gli autori delle operazioni c. d. bancarie

incriminate erano dotati di beni di fortuna, su cui la Cassa di Latina avrebbe potuto totalmente risarcirsi, ciò non

valeva ad escludere la sussistenza dell'illecito ; il quale, dal punto di vista oggettivo, si era perfezionato non ap

pena gli organi del pubblico ente avevano destinato ingenti

quantità di denaro a sostegno di affari che, per la loro stessa

natura e per il modo con cui erano stati perfezionati, si pre sentavano in contrasto con le finalità peculiari della pub blica istituzione. La presenza eventuale di beni, in capo ai

privati beneficiari delle spericolate operazioni, avrebbe

avuto il solo effetto di rendere possibile un tempestivo ri

sarcimento del danno ex delieto da parte dei colpevoli, con

le previste conseguenze attenuanti, ovvero di assicurare

il proficuo esercizio delle pretese creditorie in fase esecu

tiva. Si sostiene; in via ulteriormente subordinata, che,

poiché la condotta ascritta ai prevenuti sarebbe stata con

traddistinta da una nota di imprudenza, e quindi di mera

colpa, non si poteva ritenere a loro carico una figura di

delitto tipicamente dolosa.

Anche codesta argomentazione non sembra dotata di

effettiva consistenza. Pur essendo indiscutibile che il pe culato richieda, a parte subiectì, il requisito del dolo, è al

trettanto indubbio che l'atteggiamento psicologico in que stione possa presentarsi come soltanto eventuale : nel senso

cioè che l'evento, sebbene non direttamente voluto, viene

tuttavia preso in conto e consapevolmente accettato come

conseguenza della condotta che si ha in animo di realiz zare. Non, dunque, colpa accompagnata dalla semplice

previsione del risultato ; bensì consapevole volontà di un

comportamento, tradotta in atto anche a costo di produrre un determinato evento.

Ora, nella specie odierna, venne accertato in sede di me

rito che gli organi della Cassa di Latina, da un lato, e i loro

partecipi, dall'altro, avevano concepito e realizzato il loro

criminoso programma, avendo piena consapevolezza delle

conseguenze che sarebbero potute derivarne al pubblico ente (compromissione della essenziale funzionalità) e tut

tavia accettandone la eventuale produzione. In base a co

desta premessa, esattamente la Corte di merito fu di avviso

che il reato ascritto agli imputati dovesse considerarsi per fetto, anche dal punto di vista dell'elemento intenzionale.

È appena il caso di osservare, da ultimo, che, avendo la

Corte ritenuto la sussistenza nella fattispecie esaminata

della figura criminosa del peculato, non doveva attardarsi

a stabilire se gli episodi accertati potessero o meno inte

grare l'ipotesi delittuosa dell'abuso innominato di ufficio

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63 PARTE SECONDA 64

ex art. 323 cod. pen.. Poiché codesta norma è chiamata ad

agire solo sussidiariamente, come è fatto palese dalla clau sola che vi risulta inserita, è ovvio che, una volta ritenuta

applicabile una particolare disposizione incriminatrice, cioè

quella riguardante il peculato, l'altra norma di contenuto

più ampio non potesse in nessun caso riuscire operante.

4) A questo punto si impone l'esame di una ulteriore

questione, che, sebbene concerna un limitato settore del

l'accusa, si innesta nella più ampia indagine riflettente la

struttura del peculato. Si assume da taluni fra gli impu

gnanti che, negli episodi consistiti nella emissione a vuoto di assegni bancari sulla Cassa di Latina, ma riscossi presso altri istituti di credito, non si sarebbe mai potuta riscon

trare la ipotesi criminosa ex art. 314 cod. pen., per carenza di molteplici elementi costitutivi : invero nella specie sa

rebbero mancati, da un lato, l'appartenenza del denaro

alla predetta Cassa (di proprietà invece delle varie banche

negoziatrici dei titoli) e, dall'altro, un possesso qualsiasi del

numerario de quo da parte dei funzionari responsabili del

l'Ente di Latina.

Osserva in proposito questo Supremo collegio che la im

postazione di fondo, data al quesito dalla Corte di merito, non può accogliersi perchè ancorata a premesse giuridica mente erronee. La pronunzia conclusiva deve tenersi, pe raltro, ferma, in quanto si concilia con i dati posti a base

della condanna, e che sono diversi da quelli cui la difesa si

richiama per fondare le proprie esatte deduzioni.

I Giudici di appello, al fine di riscontrare la figura del

peculato nella previsione in esame, si sono limitati ad affer

mare che, quando le banche negoziatrici dei titoli emessi

a vuoto sulla Cassa di Latina versavano ai porgitori dei do

cumenti le relative somme, esse anticipavano denaro di

pertinenza della Cassa trattaria : donde la configurabilità del delitto ex art. 314 cod. penale.

L'assunto è inaccettabile per varie ragioni. Anzitutto

la Corte nulla dice sull'estremo del possesso per ragioni della funzione o del servizio che il colpevole deve avere

sulla cosa distratta, e che nella specie difficilmente si sarebbe

potuto riconoscere ai funzionari infedeli della Cassa di

Latina nei confronti del numerario erogato dalle banche

negoziatrici degli assegni irregolari. In secondo luogo i

Giudici di merito non riescono a porre nella sua giusta luce il complesso rapporto giuridico in concreto considerato.

Occorre al riguardo precisare che il portatore di un assegno

bancario, che intenda riscuoterlo, può, fra l'altro, farne

obietto di un contratto di sconto, che ha la genuina essenza

di un rapporto giuridico di « prestito », oppure negoziarlo

presso la banca con cui ha in precedenza istituito un rap

porto di conto corrente. Tanto nell'un caso quanto nell'altro, il contraente, che esegue in concreto la solutio, si serve di

denaro che è di sua diretta ed esclusiva proprietà, e che non

può quindi considerarsi di pertinenza dell'ente trattario, cui l'emittente del titolo aveva rivolto l'ordine dì pagare

attingendo alla provvista che si supponeva già esistente.

Però va subito rilevato che la decisione di condanna,

pronunciata dal Tribunale e confermata in sede di appello, ebbe a considerare come episodi di « distrazione », assorbiti

nella figura cumulativa della continuazione, non già gli

importi dei vari assegni a vuoto emessi sul conto di Latina

e riscossi o fatti riscuotere presso banche diverse dell'ente

trattario (nel qual caso dovrebbero riuscire operanti nel

settore sanzionatorio le osservazioni di cui sopra), bensì

l'accreditamento finale compiuto in un certo momento

dalla Cassa di Latina a favore del titolare del conto, in con

trasto con l'effettiva situazione cartolare. Infatti, emerge dal tenore della imputazione, mossa all'Aiuti ed al D'Er

rico con capo B della rubrica, e posta a fondamento della

più lata declaratoria di responsabilità a titolo di concorsi

in peculato continuato, che si faceva carico ai prevenuti di avere compiuto, in conseguenza della emissione di asse

gni a vuoto per complessive circa lire 300.000.000 da parte dell'Aiuti, la distrazione a favore di quest'ultimo della

somma di lire 8.321.277, quale risultante di un accredito

finale indebitamente contabilizzato.

Ora, se le sentenze di merito, sia pure in modo non ec

cessivamente chiaro, intesero definire come distrazione

punibile (assorbita nella figura dell'illecito continuato) solo il predetto accreditamento conclusivo, e non già la emis sione dei singoli assegni non forniti di copertura, riesce del tutto accademica, nella specie concreta, la disputa sul

punto se possa oppur no sussistere il delitto ex art. 314,

quando l'assegno a vuoto venga negoziato presso una banca

diversa dal trattario : quesito che, come già si è visto, esige una risposta negativa. Nessun dubbio invece sulla ricorri

bilità della figura delittuosa del peculato, quando si suppon

gano i dati che le pronunce di merito ritengono insindaca bilmente come certi. Invero, se per distrazione deve inten

dersi la deviazione del bene patrimoniale dal fine ultimo cbe

esso è chiamato istituzionalmente a perseguire nell'interesse

dell'Amministrazione pubblica, è chiaro che codesta dis

funzione ricorra ogni qualvolta il soggetto qualificato, sia pure senza una materiale consegna, metta comunque a disposizione del terzo beneficiario, contra ius, la cosa o il

denaro appartenente al pubblico ente : il che nella specie era appunto avvenuto. (Omissis)

Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione IV penale ; sentenza 27 ottobre 1961 ; Pres. Duni

P., Est. Lapiccirella, P. M. Lenzi (conci, conf.) ; ric. Grossi.

(Conferma Trib. Forlì 20 febbraio 1961)

Circolazione stradale — Revoca o sospensione giu diziale della patente —- Natura giuridica (D. pres. 15 giugno 1959 n. 393, t. u. delle norme sulla circola

zione stradale, art. 91). Circolazione stradale — Revoca o sospensione giu

diziale della patente — Sospensione condizio nale dell'esecuzione — Inapplicabilità (D. pres. 15 giugno 1959 n. 393, art. 91 ; cod. pen., art. 163,

166).

La revoca o la sospensione della patente, disposta dal giudice, non è una pena principale o accessoria, nè una misura

di sicurezza, sibbene una sanzione criminale atipica, che rientra nella categoria degli effetti penali della con danna. (1)

Il beneficio della sospensione condizionale della esecuzione

della pena principale non è applicabile all'ordine giu diziale di revoca o sospensione della patente di guida. (2)

La Corte, ecc. — (Omissis). Con il secondo motivo

il ricorrente assume che il provvedimento di sospensione della patente adottato nei suoi confronti è viziato da

errori di diritto ; a questo proposito sono state prospet tate due tesi in netto contrasto tra di loro.

Si sostiene in primo luogo che, poiché era stata con

cessa la sospensione condizionale della pena, il beneficio

doveva esser concesso anche per la sospensione della pa tente trattandosi di pena accessoria. La tesi è giuridica mente infondata perchè l'art. 166 cod. pen. dispone: «la

sospensione condizionale della pena non si estende alle

(1-2) Ha ritenuto che la revoca o la sospensione della pa tente sia una pena accessoria : Pret. Livorno 12 aprile 1960, Vuono, Foro it., Rep. 1960, voce Circolazione stradale, n. 492.

Confr. sull'argomento : Duni, Cassone, Gabbi, Trattato di diritto della circolazione stradale, Roma, 1961, vol. II, pag. 1282 e segg. ; Palladino, Il provvedimento giudiziale di sospensione e revoca della patente di guida, in Corti Brescia, Venezia e Trieste, 1960, 699 ; Agrifoglio, Sospensione e revoca della patente nel nuovo codice stradale, in Arch, circolaz., 1960, 1237 ; Fbanca e Obza, Osservazioni sul 5° comma dell'art. 91 del vigente codice

stradale, in Scuola pos., 1960, 437. Sulla natura giuridica della sospensione della patente di

sposta dal prefetto ai sensi dell'art. 91, 5° comma, del vigente codice stradale, cons., nella motivazione, Corte cost. 14 febbraio

1962, n. 10, in questo fascicolo, I, 398, con nota di richiami.

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