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Sezione III penale; sentenza 16 aprile 1959; Pres. Loschiavo P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro...

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Sezione III penale; sentenza 16 aprile 1959; Pres. Loschiavo P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro (concl. conf.); imp. Zaccaria Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 1 (1960), pp. 3/4-9/10 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23152072 . Accessed: 28/06/2014 15:24 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.220.202.75 on Sat, 28 Jun 2014 15:24:39 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione III penale; sentenza 16 aprile 1959; Pres. Loschiavo P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro(concl. conf.); imp. ZaccariaSource: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 1 (1960), pp. 3/4-9/10Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23152072 .

Accessed: 28/06/2014 15:24

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PARTE SECONDA

il codice Zanardelli, non deve essere giudicata in astratto, bensì in concreto, in relazione cioè alle circostanze di fatto conosciute e conoscibili dall'agente, nel momento in cui ha cominciato ad agire, giudizio, quindi, ex ante, e non ex 'post, nel senso che il giudice deve riportarsi al momento in cui l'azione venne posta in essere, tenendo conto delle circostanze che in quel momento erano o potevano dal

l'agente essere conosciute, perchè, ove giudicasse alla stre

gua delle circostanze effettivamente verificatesi nel corso

dell'azione, inevitabilmente dovrebbe concludere il suo

giudizio con la affermazione della inidoneità degli atti, essendo evidente che se un determinato evento non si è

realizzato, è perchè nel caso concreto hanno fatto difetto le condizioni indispensabili al suo verificarsi, e, quindi, gli atti posti in essere dall'agente sono stati inidonei, per non avere l'agente stesso tenuto conto di tutte le circostanze costituenti le condizioni necessarie dell'evento avuto di mira. Da ciò la impossibilità di distinguere tra inidoneità assoluta e inidoneità relativa patrocinata dall'antica dot

trina, in quanto un tentativo punibile può sussistere se

gli atti, pur essendo in sè normalmente inidonei, sono ido nei nel caso concreto, in quanto, cioè, una azione non può mai astrattamente considerarsi idonea o inidonea, tale carattere potendo essere stabilito unicamente in relazione alle circostanze della fattispecie concreta.

Gli a.tti, pertanto, sono da considerare idonei solamente

quando, esaminati con giudizio ex ante, ed in relazione alle circostanze conosciute e conoscibili, si dimostrano capaci di potere probabilmente raggiungere il risultato che era nei propositi dell'agente conseguire, risultato che, però, non è stato raggiunto per circostanze indipendenti dalla volontà dell'agente stesso.

Ma ad aversi la punibilità del tentativo, la idoneità degli atti non è sufficiente, richiedendo la fattispecie anche il

requisito che gli atti siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, richiedendo cioè anche il requisito dell'univocità degli atti, che dal legislatore è stato posto nella speranza di superare in tal modo la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, distinzione che figurava nel codice Zanardelli, per il quale, come per i codici che lo avevano preceduto, in tanto poteva parlarsi di tentativo

punibile in quanto l'agente avesse dato inizio alla esecuzione del reato. Ma il problema è rimasto, perchè, come è stato esattamente osservato, la differenza fra atti preparatori ed atti esecutivi non è stata abolita, bensì mantenuta e

perfezionata, nel senso che la esecuzione del reato deve rite nersi cominciata allorché gli atti idonei, messi in essere, siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, e che anche oggi, quindi, vi sono atti preparatori non puni bili a titolo di tentativo, come è ribadito anche dall'art. 115 e dagli art. 303, 304, 305, 322, 414, 461, 468, 548 cod. pen., norme queste che non avrebbero ragione di essere se tutti

gli atti, con i quali si palesa all'esterno la intenzione delit

tuosa, fossero punibili. Ora, quando si parla di atti univocamente diretti a

commettere un delitto, il problema è di stabilire se la dire zione univoca debba desumersi esclusivamente dagli atti

quali sono, oppure possa desumersi anche aliunde, come ad es. dalla confessione dell'agente, se cioè nel sistema del co dice costituisce un criterio di essenza, oppure un criterio di

prova, essendo evidenti le diverse conseguenze alle quali si perviene, ritenendo ohe il legislatore abbia seguito l'uno

piuttosto che l'altro criterio. Questo Supremo collegio ha ri

petutamente ritenuto, e da tale insegnamento non ha ragione di discostarsi, che ai fini di riconoscere la direzione dell'atto, si può tenere conto anche di elementi sintomatici, quali, ad es., la confessione, perchè ove si dovesse tenere conto sol tanto di elementi desunti dalla significazione obiettiva di una già realizzata, sebbene incompiuta, manifestazione at

tuosa, si perverrebbe all'assurdo di esigere per l'accerta mento del tentativo la integrale consumazione del reato, solo in questa gli atti compiuti rivelando ex se la indecli nabile direzione a violare quella determinata norma penale. Più chiaramente, se si dovesse guardare esclusivamente

all'atto, non sarebbe quasi mai possibile determinarne la direzione.

In applicazione di tale criterio, questa Suprema corte, anche recentemente ha ritenuto che l'introduzione nella casa altrui è atto di per se stesso relativamente equivoco, e diventa atto esecutivo del reato di furto, quando la inten zione dell'agente sia proprio quella di rubare, intenzione desumibile da tutte le circostanze, prima fra tutte la con fessione dell'agente, ribadendo così l'insegnamento che non solamente all'atto in sè deve aversi riguardo, dovendo, invece, tale atto valutarsi unitamente ad altre prove desunte

aliunde, non senza avvertire, però, che queste altre prove possono integrare la prova della univocità, ma non costi tuire la sola prova di tale univocità. Che la univocità dell'atto non sia un criterio di essenza, bensì un criterio di prova, è dimostrato anche dalla considerazione che la formula adottata dal codice non è quella di atti univoci, bensì quella più larga di atti diretti in modo non equivoco, formula, quindi, riferibile non alla univocità come caratteri stica intrinseca dell'atto, bensì alla non equivocità della sua

direzione, considerata, nel suo complesso, nonché dalla con siderazione che nella Relazione sul progetto definitivo è detto espressamente che «l'atto deve essere idoneo, cioè

capace di produrre l'evento ed obiettivamente diretto al

l'evento, cioè deve rivelare di per sè la intenzione dell'agente : tale infrazione non potrà essere desunta esclusivamente aliunde (ad es. dalla confessione), ma nulla vieta che sia

desunta, insieme dall'atto e da altri elementi. Fra i sintomi rivelatori deve essere anche l'atto ».

Nella specie non esiste alcun dubbio sulla idoneità

dell'atto, avendo la sentenza impugnata ritenuto in punto di fatto che il Ciccone si era spacciato con la Eanucci come facente parte di una organizzazione di contrabbandieri di

stupefacenti, ed aveva qualche mese prima mostrato alla donna una boccetta contenente polvere bianca, boccetta che era della stessa foggia di quella della quale ad momento del fermo venne trovato in possesso, e detto alla stessa che quella polvere era cocaina ; che tra il Ciccone e la Eanucci era intervenuto un accordo, in base al quale il

primo, in una determinata ora della notte, si sarebbe recato

all'Albergo Astoria, per consegnare alla seconda la cocaina

pattuita ; che effettivamente, secondo quanto convenuto, il Ciccone si era recato nella notte del fermo dalla Eanucci con lo scopo di consegnare una sostanza che sembrava cocaina e ritirare il prezzo, e che tutto ciò si evinceva non soltanto dal fatto che il Ciccone era stato trovato in pos sesso di una boccetta sigillata con ceralacca rossa, il che escludeva che potesse di quella sostanza fare personalmente uso, escludeva, cioè anche per questo verso, la equivocità dell'atto, ma anche dalle dichiarazioni della Eanucci e dello stesso Ciccone, che aveva ammesso, tra le tante sue

dichiarazioni, di essersi recato dalla Eanucci medesima per

consegnarle non la cocaina pattuita, bensì una sostanza che appariva tale, ed infine dal fatto non contestato che il

Ciccone non avrebbe avuto alcuna altra ragione di recarsi a

quell'ora in quell'Albergo. Per questi motivi, rigetta, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione iii penale ; sentenza 16 aprile 1959 ; Pres. Lo schiavo P., Est. Frisoli, P. M. De Gennaro (conci, conf.) ; imp. Zaccaria.

(Gassa App. Genova 22 gennaio 1958)

Simulazione di reato — « Notitia criminis » mediante citazione — Rilevanza costitutiva del reato —

Informative iterate — Pluralità di illeciti (Cod. pen., art. 367).

Truifa — Frode processuale — Inapplicabilità del l'art. 640 cod. pen. (Cod. pen., art. 374, 640).

Ben può riscontrarsi una valida informativa di reato nella condotta di chi, adita l'autorità giudiziaria civile per ottenere a proprio vantaggio una specifica pronuncia,

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GIURISPRUDENZA PENALE

affermi che un reato, perseguibile d'ufficio, è stato perpe trato e chieda di dame la corrispondente prova. (1)

Per stabilire se una pluralità di false informative criminose

dia vita ad un unico reato oppure ad una pluralità di

illeciti, bisogna tener conto soprattutto della identità o della

diversità (essenziali) dei rispettivi destinatari, indipenden temente dalla circostanza, di portata contingente, che la

prima notizia abbia o meno provocato il compimento di

urna qualsiasi attività processuale. (2) Il comportamento fraudolento della parte tendente all'inganno

del giudice può ricadere sotto la sanzione dell'art. 374 e

non invece sotto quella dell'art. 640 cod. penale. (3)

La Corte, eco. — Fatto. — Con sentenza 6 luglio 1956 il Tribunale di Genova dichiarò Zaccaria Alfio colpevole di simulazione di reato, commessa alio scopo di riscuotere dalla Società « Assicurazioni generali » l'indennizzo contrat

tualmente dovutogli in caso di furto (art. 367, 61, n. 2, cod. pen.), condannandolo ad un anno di reclusione. Lo assolse invece dall'addebito di tentata truffa aggravata in

danno della Società assicuratrice, convenuta in giudizio civile (art. 56, 640, 61, n. 7, cod. pen.), perchè il fatto non costituisce reato.

Proposto appello sia dal P. m. sia dall'imputato, la

Corte di Genova, con pronunzia 22 gennaio 1958, dichiarò lo Zaccaria colpevole anche di tentata truffa aggravata e 10 condannò a mesi sei di reclusione e a lire 12.000 di multa, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

Ricorre ora l'imputato, deducendo :

1) erronea applicazione dell'art. 367 cod. pen. per essersi ritenuta la realizzabilità dell'illecito mediante una citazione in giudizio civile ;

2) applicazione altrettanto erronea dell'art. 367, in

quanto al momento della trasmissione degli atti al P. m.

pendeva già un procedimento penale contro gli autori

ignoti del furto ;

3) erronea applicazione dell'art. 640 cod. penale. Diritto. — A) Col primo mezzo il ricorrente assume che,

nella specie odierna, si sarebbe dovuto ritenere l'inapplica bilità della disposizione incriminatrice ex art. 367 cod. pen., essendosi lo Zaccaria limitato a convenire in giudizio la Società assicuratrice per il pagamento dell'indennizzo, spet tantegli in dipendenza del furto patito, e a formulare al

riguardo opportuni mezzi di prova. La tesi non può condividersi. È bensì Vero che, per aversi

11 delitto di simulazione di reato, occorre che la falsa affer mazione circa la sussistenza dell'illecito venga contenuta, fra altro, in una « denuncia » ; però, affinchè si abbia co desto requisito modale non si richiede necessariamente che l'autore dia vita ad un atto, che risulti compiuto se condo le particolari prescrizioni di cui agli art. 7-8 cod.

proc. pen. Basta per contro una qualsiasi notitia criminis, fornita consapevolmente all'autorità giudiziaria penale, o ad altra che a quella sia tenuta a riferire, da cui possa derivare una turbativa nell'ordinato svolgimento delle funzioni di

giustizia. Chiarito che, ai fini della simulazione di reato, non si

richiede l'attuazione di un impulso intenzionalmente diretto a sollecitare l'intervento di determinati organi (stimolo che è caratteristico della « denuncia » vera e propria), ne con

segue che ben può riscontrarsi una valida informativa di reato nella condotta di chi, adita l'autorità giudiziaria civile per ottenere a proprio vantaggio una specifica pro nunzia, affermi che un reato (perseguibile ex officio) è stato

perpetrato e chieda di darne la corrispondente prova. Ben ché l'affermazione in ordine alla sussistenza dell'illecito sia resa al solo scopo di rendere accoglibile l'istanza, radi cata in quel particolare presupposto, non vi è dubbio che

(1-2) V. la sent. conf. di primo grado Trib. Genova 27 luglio 1956, Zaccaria, Foro it., Rep. 1957, voce Simulazione di reato, nn. 3-6. Y. pure Cass. 21 novembre 1955, Natale, ibid., nn. 1, 2.

(3) Conf. Cass. 12 ottobre 1956, Rutili ; Trib. Palermo 7 dicembre 1955, Cali, Foro it., Rep. 1956, voce Truffa, nn. 61, 62.

l'attore, attraverso il proprio comportamento, determina

l'insorgenza dell'obbligo del rapporto al P. m., e con ciò l'artificiosa messa in moto di appositi ingranaggi.

Nè varrebbe poi rilevare che, quando la parte chieda di

provare l'effettiva realtà del reato enunciato, con ciò stesso essa esclude che l'illecito risulti già un dato di espe rienza sicuramente accaduto ; sicché mancherebbe la pre messa per l'osservanza del precetto posto con l'art. 3 codice di rito penale. Invero si ricava dal tenore di questa dispo sizione che la doverosità del rapporto al Procuratore della

Repubblica da parte del giudice civile si profila non appena « apparisce alcun fatto nel quale può ravvisarsi un reato

perseguibile di ufficio » ; il che significa che la concretezza

dell'obbligo coincide non tanto col momento in cui deter minati episodi vengano positivamente provati, quanto con

quello in cui se ne profila la possibile esistenza. Orbene

codesto presupposto ricorre appunto nel caso che l'attore,

dopo avere incluso nella esposizione dei fatti, messi a base

della citazione, la descrizione dell'episodio costitutivo di reato (art. 163, 3° comma, cod. proc. civ.), abbia rinnovato il proprio assunto in numerose comparse scambiate col

convenuto, rendendo in tal modo « apparente », ai fini che

qui interessano, l'illecito penale posto a fondamento della domanda.

B) — Col secondo mezzo la difesa deduce che lo Zac

caria, già nell'agosto 1952, aveva denunciato all'autorità di pubblica sicurezza un furto con scasso e con ingente danno, commesso da ignoti nel suo negozio di orologeria sito in Genova, Via Canevari. Ritenuto simulato il predetto furto, lo Zaccaria era stato chiamato a rispondere del delitto ex art. 367 cod. pen. ; senonchè, essendo intervenuta l'am nistia di cui al decreto pres. 19 dicembre 1953 n. 922, il Tribunale di G-enova aveva dichiarato la estinzione del

l'illecito, con pronunzia dibattimentale del 23 febbraio 1954. Successivamente il Giudice istruttore, con sentenza 23

dicembre 1955, aveva concluso il procedimento, già iniziato contro ignoti per il preteso furto subito dallo Zaccaria, di

chiarando non doversi procedere « perchè il fatto non sus siste ».

Ciò premesso, si assume che, richiedendosi dalla strut tura del reato, di cui all'art. 367, che la falsa notizia abbia

determinato l'inizio di un procedimento penale, ed avendo nella specie odierna la prima denuncia di furto dato luogo ad indagini contro persone ignote, poi conclusesi con la

decisione istruttoria del 23 dicembre 1955, la seconda

denuncia contenuta nella citazione civile dell'agosto 1954 non si sarebbe potuta ritenere atta a produrre un risultato

processuale, che già si era verificato in dipendenza di un

precedente e autonomo fattore. In definitiva, quindi, la

posteriore condotta dello Zaccaria si sarebbe dovuta con

siderare un'appendice, penalmente irrilevante, di quella in

precedenza realizzata, e nei cui confronti era stata applicata la causa estintiva dell'amnistia.

Osserva la Corte suprema che la tesi su riferita non può ritenersi adattabile alla fattispecie esaminata per un duplice ordine di considerazioni.

Anzitutto non è esatta la premessa sistematica, che cioè si richieda, per la sussistenza della simulazione di

reato, che la falsa informativa abbia provocato il con creto avvio di una procedura nei confronti dell'illecito simulato. Dall'art. 367 cod. pen. invece si desume chia ramente che rientra nel paradigma delittuoso ivi previsto il fatto di chi « afferma falsamente essere avvenuto un

reato, ovvero simula le tracce di un reato in modo che si possa iniziare un procedimento penale per accertarlo ».

Questo vuol dire che ai fini della sussistenza dell'illecito la norma esige soltanto la mera eventualità che un proce dimento venga aperto in conseguenza della notitia criminis fornita all'autorità, e non pure l'effettivo suo inizio. Da ciò inoltre consegue che l'illecito ex art. 367 può ben riscon trarsi anche nel caso che l'organo, cui la falsa notizia viene

inoltrata, sia in grado di rilevare per ragioni di vario genere, la scarsa attendibilità della informativa, e ritenga di sol lecitare dall'autorità giudiziaria competente, non tanto

l'avvio di indagini circa il preteso reato denunciato, quanto un procedimento a carico del simulatore.

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PARTE SECONDA

Secondariamente va rilevato che, per risolvere il quesito se più denunce riguardanti un medesimo falso episodio criminoso integrino in ogni caso un unico reato di simula

zione, o possano dare vita invece ad una pluralità di illeciti, non giova richiamarsi alla circostanza (ritenuta decisiva invece dal ricorrente) che dalla prima notitia criminis sia

già scaturito o meno (in concreto) un effettivo procedimento penale. Poiché si è visto che, grazie alla struttura della norma in esame, è sufficiente per la configurabilità della simulazione di reato la sola possibilità di opportune indagini a cura degli organi a ciò designati, e poiché d'altra parte è innegabile che, nonostante l'avvenuta apertura di un

procedimento penale a seguito di una prima notizia di

reato, altre e indipendenti indagini possono essere suggerite da una denuncia posteriore, specie se indirizzata ad una

diversa autorità, se ne deve desumere che l'effettivo avvio di un procedimento penale, collegato all'inoltro di una

determinata informativa, non impedisce di attribuire ad una

ulteriore notitia la portata costitutiva di una nuova ipotesi di simulazione punibile.

Ad avviso di questo Supremo collegio, la soluzione del delicato quesito va ricercata per altra via.

Si ricava dalla struttura di talune previsioni delittuose,

raggruppate nel titolo 3° del codice penale, che la condotta

integrativa dell'illecito viene presa in considerazione proprio a causa della sua rilevanza strumentale nei riguardi di una

specifioà attività, che l'ordinamento giuridico attribuisce a

deterniinati organi. In altri termini la efficienza antigiuridica del comportamento vien fatta scaturire dall'attitudine del medesimo a provocare l'eventuale compimento di taluni

atti, di natura processuale, da parte degli organi cui la

condotta tipica in concreto si rivolge. Codesta nota distintiva si riscontra, ad esempio, nelle

figure criminose di reato di calunnia (art. 368) e di autoca lunnia (art. 369) ; in queste ipotesi, il contegno ivi descritto si palesa dotato di una carica offensiva, in quanto risulta

idoneo a suscitare lo svolgimento di una particolare attività

proprio da parte dei destinatari della indebita dichiarazione. Ciò posto, appare chiaro che, se l'autore della condotta

la rinnovi davanti lo stesso organo, cui si era in precedenza rivolto, codesto successivo contegno non può ritenersi dotato di efficienza offensiva ; invero la successiva dichiarazione non è atta a sollecitare dall'autorità adita lo svolgimento di una funzione, di carattere processuale, già esplicatasi con riferimento ad analoga istanza precedentemente formulata. Non vi è dubbio quindi, che, ove il simulatore dia per qualsiasi motivo una seconda notitia criminis alla stessa autorità cui aveva presentato la precedente denuncia, codesto contegno non può considerarsi costitutivo di reato, in quanto è inidoneo a produrre un risultato già realizzatosi.

Del tutto diversa si presenta la situazione, quando l'autore di una precedente informativa (di contenuto simu lato o calunnioso) ripete successivamente ad altro organo la falsa notizia. In tal caso, ben potendosi compiere da questa ultima autorità un qualsiasi passo in dipendenza della illecita dichiarazione, deve riconoscersi alla medesima un'effi cienza offensiva nei riguardi del bene giuridico protetto, e pertano l'attitudine a costituire materia di un'autonoma

imputazione. In sintesi può affermarsi che, per stabilire se una plu

ralità di false informative criminose dia vita ad un unico reato oppure ad una pluralità di illeciti, bisogna tener conto soprattutto della identità o della diversità (essen ziali) dei rispettivi destinatari, indipendentemente dalla

circostanza, di portata contingente, che la prima notizia abbia o meno provocato il compimento di una qualsiasi attività processuale.

Nella specie odierna è stato accertato che lo Zaccaria, dopo avere simulato le tracce di un furto con scasso ai

propri danni, e averne fatto apposita denunzia agli organi di polizia nell'agosto 1952, iniziò a distanza di due anni una procedura civile intesa ad ottenere dalla Società assi curatrice il pagamento dell'indennizzo, contrattualmente dovuto in caso di furto. La informativa dell'illecito perse guibile di ufficio, veniva in tal modo rivolta ad una autorità

essenzialmente diversa, ed era quindi atta a provocare da

parte di quest'ultima il compimento del rapporto ex art. 3

cod. proc. pen. e l'eventuale inizio di un relativo proce dimento da parte degli organi a ciò designati. Esattamente,

pertanto, fu ritenuto che questo secondo episodio avesse una sua autonomia e che dovesse essere raggiunto da congrua sanzione.

0) — Col terzo mezzo si assume che, nella instaurazione della controversia civile da parte dello Zaccaria, non si sarebbe mai potuto riscontrare la ipotesi delittuosa di cui

agli art. 56 e 640 cod. pen., non ammettendo il sistema in

vigore la punibilità della truffa processuale. Questa Corte suprema ritiene che la deduzione difen

siva sia giuridicamente corretta e che meriti, quindi, di essere accolta.

La struttura dell'art. 640 postula essenzialmente che la commissione degli artifici o dei raggiri determini nella vittima uno stato di errore, con conseguente danno del

l'ingannato o di un terzo e parallelo profitto ingiusto per il colpevole o per altra persona. Però, siccome la situazione subiettiva di errore non può risultare di per sè causa di

danno, si è d'accordo nel riconoscere che lo schema criminoso

presuppone un ulteriore elemento costitutivo, altrettanto

indispensabile benché innominato : il compimento cioè

di un atto di disposizione patrimoniale da parte di colui che subisce l'inganno, con ripercussioni dannose proprie od altrui. Esaminata, alla luce di codesta premessa, l'attività multiforme svolta dal giudice nell'ambito dell'ordinamento

processuale, bisogna ammettere che quell'organo può rima nere vittima di errori, cagionati dal contegno malizioso, o

comunque ingannevole, tenuto dalle parti interessate. I

molteplici rimedi, apprestati per la eliminazione eventuale

delle conseguenze del processo fraudolento, comprovano l'esattezza dell'assunto.

Ma se è innegabile la possibilità dell'inganno esercitato dalle parti verso la persona del giudice, deve escludersi che

quest'organo — nella estrinsecazione del proprio compito

funzionale — ponga in essere atti dispositivi patrimoniali,

afferenti cioè in modo diretto la sfera degli interessi propri dei soggetti partecipi del procedimento.

Il rilievo si palesa di sicura evidenza nei confronti sia delle decisioni di condanna sia di quelle di carattere costi tutivo in senso stretto oppure di contenuto determinativo. In codeste ipotesi la produzione degli effetti va fatta risa lire direttamente e immediatamente alla volontà della legge, mentre la funzione del giudice resta circoscritta all'accerta mento dei presupposti, dalla cui presenza dipende che l'anzi detta volontà possa in concreto operare. Ma anche nei ri

guardi delle pronunzie di mero accertamento la conclusione non può essere dissimile.

Benché il compito attribuito al giudice si risolva nell'at tuazione della funzione accertatrice, la realizzazione della tutela giuridica nei riguardi della parte interessata promana essenzialmente dalla norma, di cui si è riconosciuta l'effet tiva portata nei confini di un particolare settore.

Se dunque all'autorità giudiziaria incombe in sostanza il dovere di stabilire se ricorrano o meno i presupposti affinchè una precisa volontà di legge possa produrre determinati

effetti, è chiaro che la pronuncia in proposito emessa non si

presenta come un atto dispositivo nei riguardi del patri monio dei soggetti interessati. Per conseguenza, ove il dolo delle parti o di talune di esse abbia reso possibile l'emana zione di una sentenza viziata a causa di frode, la condotta attrice viene ad incidere su un elemento che non appartiene alla struttura della truffa, sicché la disposizione incrimina trice ex art. 640 non può essere applicata.

L'esattezza di una siffatta impostazione è comprovata inoltre dal travaglio legislativo, cui talune norme vennero

sottoposte in occasione della riforma penale del 1940. È noto che, nella elaborazione del nuovo codice, il legislatore ritenne di elevare a dignità di figura autonoma di reato una particolare ipotesi di inganno, perpetrato ai danni del

giudice o del perito ; sorse così la previsione criminosa della frode processuale (art. 374 cod. pen.) collocata fra i delitti contro l'amministrazione della giustizia.

Orbene, se il legislatore avesse ritenuto che in seno all'art. 640 fossero da ricomprendere tutte le ipotesi di frode,

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GIURISPRUDENZA PENALE 10

eventualmente perpetrate dalle parti ai danni del giudice, avrebbe certamente avvertito la esigenza tecnico-sistema

tica di farle oggetto di apposite previsioni, da includersi, al pari della frode processuale, nel titolo terzo. Altrimenti

si sarebbe avuta la incongruenza di considerare lesiva del

bene giuridico della regolare amministrazione della giustizia una condotta intesa all'inganno del giudice o del perito in sede di compimento di un singolo mezzo istruttorio, mentre una complessa azione fraudolenta, volta ad inqui nare l'intero processo, sarebbe stata ritenuta offensiva, anziché del predetto bene giuridico, del solo patrimonio di

pertinenza privata. Ma poiché il legislatore si limitò invece

a formulare la sola ipotesi ex art. 374, vien fatto di con

cludere cbe, a suo avviso, ogni altra previsione di truffa

processuale doveva essere considerata estranea all'ambito

dell'art. 640.

La sentenza impugnata deve pertanto annullarsi senza

rinvio nel capo concernente il tentativo di truffa aggra

vata, con eliminazione della relativa pena di mesi sei di

reclusione e di lire 12.000 di multa.

. Per questi motivi, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione III penale ; sentenza 25 febbraio 1959 ; Pres.

Loschiavo P., Est. Fiusoli, P. M. Lorenzo (conci,

diff.) ; ric. Sansonetti (Avv. Ungaro, Andrioli) e

Torraca.

(Cassa Oiud. istr. Trib. Fonia 29 giugno 1958)

Società — Disposizioni penali — Conilitto di inte

ressi eon la società — Mancata astensione dell'am

ministratore dalla delibera consiliare — Nozione — Insussistenza del reato (Cod. civ., art. 2631).

Sentenza in materia penale — Amnistia — Sostitu

zione della formula liberatoria — Annullamento

senza rinvio (Cod. proo. pen., art. 152).

Non può farsi rientrare nello schema dell'art. 2631 cod. civ.

la semplice « presenza » dell'amministratore al momento

della delibera, in quanto la « presenza » non implica necessariamente la partecipazione alla delibera, e può anzi verificarsi per escluderla. (1)

Perchè ricorra il requisito costitutivo del « conflitto di inte

ressi » non basta che per effetto della delibera in programma, la società possa trovarsi depauperata dei vantaggi con

nessi alla sua attività statutaria, si richiede anche che

l'anzidetto risultato corrisponda ad un interesse dell'am

ministratore, facente parte del consiglio, che viene a trovarsi

così in netta posizione antitetica con l'interesse proprio della società. (2)

Sostituendosi la formula liberatoria « per non aver commesso

il fatto » o « perchè il fatto non costituisce reato » all'altra

di improcedibilità per amnistia, ai sensi dell'art. 152,

capov., cod. proc. pen., l'annullamento della sentenza

impugnata deve essere pronunciato senza rinvio. (3)

La Corte, ecc. — Osserva la Corte suprema che il primo mezzo (di carattere assorbente) proposto dal Sansonetti

risulta giuridicamente fondato, e pertanto va accolto.

(1-3) Non risultano precedenti giurisprudenziali specifici. In dottrina v. Antolisei, Sulla responsabilità penale degli am

ministratori delle società per azioni, in Dir. economia, 1958, 1411 ;

Minekvini, Sulla natura dell'i- interesse sociale » nella disciplina delle deliberazioni assembleari e di consiglio, in Riv. dir. civ.,

1956, 314. A proposito di delitti in genere nella materia sociale, v. la

sent. App. Roma 3 giugno 1957, P. m. c. Naddei, Foro it.,

1958, II, 99, con nota di richiami. V. pure : Sez. istr. App. Mi

lano 19 settembre 1957, Terrani, ibid., 175. E sul conflitto di

interessi, nel suo aspetto soprattutto civilistico, Cass. 9 luglio

1958, n. 2466, id., Rep. 1958, voce Società, "n. 288 ; 20 maggio

1954, n. 1625, id., Rep. 1954, voce cit., nn. 203, 204.

L'art. 2631 cod. civ. assoggetta a pena «l'amministra tore che, avendo in una determinata operazione per conto

proprio o di terzi un interesse in conflitto con quello della

società, non si astiene dal partecipare alla deliberazione

del consiglio relativa all'operazione stessa ». Come si de

sume chiaramente dal dettato della norma incriminatrice, obietto del divieto è il concorso consapevole dell'ammini

stratore, che si trovi in conflitto d'interessi con la società, alla formazione della volontà dell'organo, attraverso l'eser

cizio del diritto di voto ; in altri termini, ciò che si vuole

punire è la condotta in concreto spiegata per ottenere la

prevalenza di una fra più tesi in contrasto, nel libero gioco delle diverse dichiarazioni di voto. Fissata in tal modo la

obiettività tipica della previsione delittuosa appare evi

dente che non può farsi rientrare nello schema dell'art. 2031

la semplice « presenza » dell'amministratore al momento

della delibera. Invero, se la diretta partecipazione alla

decisione collegiale presuppone necessariamente la pre senza del membro consiliare al momento del voto, non

basta per contro il fatto della mera presenza dell'ammi

nistratore a far ritenere avvenuto il suo concorso nella

formazione della volontà dell'organo. Talvolta anzi, specie quando si profili la esigenza di

rendere edotti gli altri membri del consiglio deliberante

dell'anomala situazione, l'amministratore in conflitto di in

teressi interviene alla seduta proprio per annunciare la sua

astensione : il che significa che « presenza » e « partecipa zione alla delibera » sono concetti autonomi, non sempre collimanti fra loro.

Nella specie odierna, la sentenza impugnata dà atto

che il Sansonetti, benché presente alla deliberazione presa il 15 gennaio 1949 dal Comitato esecutivo della Fincompar

(Compagnia finanziaria commerciale e di partecipazioni) in ordine all'acquisto di un blocco di azioni della Compa

gnia finanziaria partecipazione (C.f.p.), non sottoscrisse il

relativo verbale.

La sentenza, inoltre, nell'esaminare la posizione degli

imputati Bussetti Ferdinando e Lapenna Luigi, compo

nenti, insieme col Sansonetti, del Comitato esecutivo della

Fincompar, e chiamati a rispondere di concorso col San

sonetti medesimo nel reato ex art. 2631 cod. civ., precisa, in base alle risultanze processuali acquisite agli atti ed

opportunamente valutate, che la delibera 15 gennaio 1949

relativa all'acquisto delle azioni C.f.p. fu il risultato del

comportamento malizioso dei « soli Bussetti e Lapenna »

interessati all'operazione. Orbene, grazie ai predetti accer

tamenti, il Giudice istruttore avrebbe dovuto considerare

raggiunta la prova che il Sansonetti fosse rimasto estraneo

alla formazione della delibera collegiale del 15 gennaio

1949, e che quindi egli non avesse commesso il fatto ascrit

togli nel capo di imputazione. La decisione, pertanto, va annullata, sostituendosi alla

formula di non doversi procedere « per estinzione del reato

a causa di amnistia », l'altra a contenuto più ampio « per non aver commesso il fatto ».

Anche il motivo di gravame, dedotto dal Torraca, si

presenta fondato in diritto, per cui deve essere accolto.

Lamenta l'impugnante che il Giudice istruttore abbia

respinto l'istanza difensiva, intesa ad ottenere un proscio

glimento con formula piena, sulla base di una interpreta zione dell'art. 2631 cod. civ., giuridicamente inaccettabile.

La deduzione è esatta.

L'art. 2391, 1° comma, cod. civ. stabilisce testualmente :

« L'amministratore, che in una determinata operazione ha,

per conto proprio o di terzi, interesse in conflitto con quello della società, deve darne notizia agli altri amministratori

e al collegio sindacale, e deve astenersi dal partecipare alle

deliberazioni riguardanti l'operazione stessa ». Con l'art.

2631, già citato, il legislatore ha provveduto a presidiare, con apposita sanzione penale, l'osservanza da parte del

l'amministratore dell'obbligo di astensione ; dal che con

segue che la mancata informativa dell'esistenza del con

flitto di interessi, mentre può dar luogo a reazioni di ca

rattere riparatorio, non è atta ad integrare la figura di reato.

Perchè ricorra il requisito costitutivo del « conflitto di in

teressi » non basta che, per effetto della delibera in pro

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