sezione III penale; sentenza 21 ottobre 2004; Pres. Dell'Anno, Est. Franco, P.M. Izzo (concl.conf.); ric. Soc. Fro. Annulla senza rinvio Trib. Padova, ord. 20 maggio 2004Source: Il Foro Italiano, Vol. 128, No. 4 (APRILE 2005), pp. 203/204-211/212Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23200728 .
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PARTE SECONDA
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 21 ottobre 2004; Pres. Dell'Anno, Est. Franco, P.M. Izzo
(conci, conf.); ric. Soc. Fro. Annulla senza rinvio Trib. Pado
va, ord. 20 maggio 2004.
Frode in commercio e nelle industrie — Vendita di prodotti con segni mendaci — Luogo di produzione — Irrilevanza —
Origine e provenienza — Rilevanza (Cod. pen., art. 517; 1. 24 dicembre 2003 n. 350, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
2004), art. 4, comma 49). Frode in commercio e nelle industrie — Vendita di prodotti
con segni mendaci — Reato — Consumazione (Cod. pen., art. 517; 1. 24 dicembre 2003 n. 350, art. 4, comma 49).
In tema di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui all'art. 517 c.p., quale integrato dall'art. 4, comma 49, I. 24 dicembre 2003 n. 350, non ha alcun rilievo la provenienza materiale del bene, sicché una indicazione errata o imprecisa relativa al luogo di produzione non può costituire motivo di
inganno del consumatore, posto che origine e provenienza sono indicate dalla norma in senso esclusivamente giuridico, quali origine e provenienza dal produttore. (1)
In tema di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui all'art. 517 c.p., il reato è consumato, secondo quanto previsto dall'art. 4, comma 49, l. 24 dicembre 2003 n. 350,
fin dalla presentazione in dogana della merce recante false o
fallaci indicazioni di provenienza. (2)
(1-2) I. - La sentenza in rassegna (riportata anche in Guida al dir., 2005, fase. 12, 75, con nota di Barbuto) esclude, riportandosi ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, che il reato di vendita di
prodotti industriali con segni mendaci, di cui all'art. 517 c.p., sia inte grato da erronee indicazioni circa il luogo di produzione del prodotto, atteso anche che, al di fuori delle ipotesi previste espressamente dalla
legge (indicazioni geografiche, denominazioni di origine), si tratta di un dato irrilevante giuridicamente. Di contro, la nozione di origine e di
provenienza — rilevante per l'integrazione del reato — è squisitamente giuridica (v. anche l'art. 515 c.p., frode in commercio, richiamante
analoghe nozioni). In termini, Cass. 7 luglio 1999, Thun. Foro it., Rep. 2000, voce Fro
de in commercio, n. 9 (e, per esteso, Cass, pen., 2000, 2699): «Non è configurabile il reato di cui all'art. 517 c.p. nel caso di prodotti recanti il marchio di fabbrica di una certa ditta e l'indicazione della sua sede
legale, i quali siano stati in realtà fabbricati altrove (nella specie, all'e stero), quando il processo di fabbricazione sia stato quello indicato dalla ditta medesima e da essa periodicamente controllato».
In termini, v. Cass. 29 gennaio 2003, Piscitelli, Foro it.. Rep. 2003, voce cit., n. 16; 23 settembre 1994, Antonelli, id., Rep. 1995, voce cit., n. 10; 16 marzo 1990, Barberio, id., Rep. 1991, voce cit., n. 15 (secon do cui il reato in oggetto è integrato dall'imitazione dei marchi — an corché non registrati — e dei segni distintivi preadottati da altro im
prenditore, «la quale sia suscettibile di creare confusione sulla prove nienza dei prodotti»).
Per la giurisprudenza di merito, v. Trib. Foggia 27 marzo 2000, id., Rep. 2002, voce cit., n. 11; App. Perugia 24 febbraio 1994, id.. Rep. 1995, voce cit., n. 11.
Di rilievo già Trib. Torino 12 ottobre 1984, id., 1985, II, 230 (con nota di Fornasari, Appunti sull'applicabilità dell'art. 517 c.p. all'i potesi di produzione su commissione): «Non integra gli estremi del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, di cui all'art. 517 c.p., il fatto dei responsabili di un'impresa italiana che ponga in vendita o metta in circolazione col proprio marchio sul mercato italiano autoveicoli di cui è produttrice, fabbricati materialmente all'estero su sua licenza con gli identici requisiti tecnici di quelli omologhi da essa prodotti in Italia».
In dottrina, v. Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, Bolo gna, 1988, I, 500: «Il concetto di 'provenienza' non deve essere inteso in senso meccanicistico ma teleologico: esso cioè ricomprende le ipote si in cui il prodotto è anche lavorato da terzi su commissione del titola re del marchio, alla condizione beninteso che sia assicurata l'uniformità qualitativa dei prodotti medesimi».
II. - Senonché la legge finanziaria per il 2004, 1. 24 dicembre 2003 n. 350, art. 4, comma 49, sembra aver modificato tale assetto, disponendo che costituisce reato, punito ai sensi dell'art. 517 c.p., l'importazione o l'esportazione commerciale di prodotti recanti false o grossolane indi cazioni di provenienza.
La sentenza in epigrafe esclude però risolutamente che la nuova norma — oltretutto quantomeno ambigua — abbia modificato sostan zialmente la portata precettiva dell'art. 517 c.p., introducendo quindi una nuova fattispecie del reato, volta a punire anche l'erroneità delle indicazioni sul luogo di produzione del bene (così travolgendo la con solidata lettura del reato).
L'art. 4, comma 49, cit. ha quindi solo inteso risolvere un contrasto giurisprudenziale, anticipando il momento consumativo del reato di cui
Il Foro Italiano — 2005.
Svolgimento del processo. — Il 17 aprile 2004 il pubblico ministero presso il Tribunale di Padova convalidò il sequestro probatorio operato il 15 aprile 2004 dall'agenzia delle dogane di Padova di un quantitativo di elettrodi per saldatura proveniente dalla Romania ipotizzando il reato di cui all'art. 517 c.p. ed al l'art. 4, comma 49, 1. 24 dicembre 2003 n. 350, perché il pro dotto riportava sulle confezioni la dicitura «Fro via Torricelli 15/a Verona Italy» senza alcun riferimento alla provenienza ru mena.
all'art. 517 c.p. — immodificato nel suo contenuto strutturale — al momento della presentazione in dogana per l'immissione in consumo (v. massima 2).
L'orientamento prevalente, in effetti, era piuttosto restrittivo circa il momento consumativo del reato; cfr. Cass. 29 gennaio 2003, cit. (se condo cui l'art. 517 cit. è integrato dalla detenzione in magazzino di
prodotti in vista della successiva distribuzione per il commercio); 26
aprile 2001, Andolfo, Foro it., Rep. 2003, voce cit., n. 17 (secondo cui la presentazione della merce alla dogana per l'operazione di sdogana mento non costituisce atto di messa in circolazione dei prodotti); 11 di cembre 1995, Dubini, id.. Rep. 1996, voce cit., n. 5; 25 marzo 1997, Ngom Gora, id., Rep. 1997, voce cit., n. 10 (secondo cui il delitto in
oggetto si consuma con la messa in vendita o in circolazione di tali
prodotti; non è quindi penalmente rilevante la loro mera detenzione senza che gli stessi possano dirsi in vendita, non consentendo l'art. 517
c.p., quanto alla messa in vendita, la figura del tentativo). Contra, per l'anticipazione del momento consumativo all'atto della
presentazione in dogana, v. Cass. 27 maggio 1999, Desaler, id.. Rep. 2000, voce cit., n. 8.
III. - La sentenza in rassegna esclude la lettura estensiva sopra ri chiamata dell'art. 4, comma 49, cit., alla stregua di molteplici e strin
genti argomenti. La Cassazione — ed è qui il profilo di maggior interesse della sen
tenza — muove soprattutto dal significato e dalla funzione civilistica del marchio, appunto quale indicatore di provenienza del bene da un certo imprenditore, che ne ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica, senza che giochi alcun ruolo la mera provenienza geografica del bene stesso (salvo, beninteso, e come accennato, diversa previsione di legge).
In tale ambito va rinvenuto il significato di origine e di provenienza ai sensi dell'art. 517 c.p.
La sentenza richiama anche, pur se incidentalmente, la funzione di
garanzia qualitativa del marchio, che sempre più va affermandosi in dottrina e, con maggiori difficoltà, in giurisprudenza.
Il richiamo ai principi civilistici non è però pacifico in giurispruden za.
Trib. Torino 22 febbraio 1999, id., Rep. 2001, voce Marchio, n. 146 (e, per esteso, Giur. dir. ind., 1999, 946) segnala le grandi differenze tra la fattispecie criminosa di cui all'art. 517 c.p. e la fattispecie civili stica (quest'ultima è caratterizzata dall'incisività del diritto esclusivo del titolare del marchio e dalla conseguente ammissibilità di un rischio di confusione per il pubblico consistente anche in un mero rischio di associazione tra i due segni).
Rinvia invece alle categorie civilistiche, Cass. 25 maggio 1998, Di Munno, Foro it., Rep. 1999, voce Frode in commercio, n. 11, secondo cui — per il reato in oggetto — il consumatore medio deve essere rin venuto in chi «nel corso dei consueti acquisti e nel quotidiano rapporto con i venditori al dettaglio o con i gestori di pubblici esercizi per la ce lerità e la scarsa ponderazione che caratterizzano tali rapporti, possa es sere tratto in inganno da un marchio che, nel suo complesso, appaia equivoco e tale da ingenerare possibilità di confusione con prodotti si milari, purché il segno distintivo presenti alcuni tratti di somiglianza con quello originale e sia imitativo anche se non compiutamente ripro duttivo»; cfr. anche Cass. 9 dicembre 1998, Tombola, ibid., n. 13.
Di rilievo anche Cass. 26 giugno 1996, Pagano, id., Rep. 1996, voce Falsità in sigilli, n. 4, che traccia il confine tra l'art. 473 c.p. (contraf fazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell'ingegno o di
prodotti industriali) e l'art. 517: «la prima norma incriminatrice esige la contraffazione (che consiste nella riproduzione integrale, in tutta la sua
configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un se
gno distintivo) o l'alterazione (chei ricorre quando la riproduzione è
parziale, ma tale da potersi confondere col marchio originario o col se gno distintivo); l'altra norma prescinde, invece, dalla falsità, rifacendo si alla mera, artificiosa equivocità dei contrassegni, marchi ed indica zioni illegittimamente usati, tali da ingenerare la possibilità di confu sione con prodotti similari da parte dei consumatori comuni»; in termi ni, Cass. 7 aprile 1995, Parisi, ibid., n. 5.
Per le «nuove funzioni» del marchio, in ambito civilistico e comuni tario, v. Corte giust. 23 ottobre 2003, causa C-408/01, id., 2004, IV, 395, con osservazioni di Casaburi.
IV. - La sentenza in rassegna segnala ancora che il marchio, ormai, può essere oggetto di cessione o di licenza indipendentemente dall'a zienda o dal ramo di azienda.
Beninteso, «dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti che sono essenziali nel
l'apprezzamento del pubblico»; così il vigente art. 23, 4° comma, cod.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Il Tribunale del riesame di Padova, con ordinanza del 20
maggio 2004, confermò il decreto di convalida del pubblico mi
nistero.
La Fro s.r.l. propone ricorso per cassazione esponendo: a) che
il prodotto in questione è destinato ad utilizzatori professionali e, solo eventualmente, al consumatore finale; b) che gli elettrodi
sono stati realizzati in Romania nello stabilimento Ductil SA di
Buzau; c) che la Ductil è controllata direttamente dalla Fro al
70,38 per cento; d) che la Ductil realizza gli elettrodi in stretta
proprietà industriale (che riproduce sostanzialmente l'art. 15 1. marchi, nel testo novellato nel 1992).
Se la nuova norma avesse davvero attribuito sempre e comunque ri levanza alla provenienza materiale dei prodotti, questa finirebbe per in cidere sull'apprezzamento del pubblico nel senso indicato dall'art. 23, 4° comma, cit.
Da qui — conclude la Cassazione — il rischio che vengano dichia rate illecite le fattispecie, diffuse nella pratica, di scissione tra marchio e produttore (la sentenza richiama sia le licenze che i marchi commer
ciali, denominazione questa in realtà poco usata in ambito civile). Una tale estensione della fattispecie penale, anche a casi irrilevanti
rispetto alla tutela dei consumatori, pone problemi in termini di tassati vita e comporta «un dubbio di legittimità costituzionale della disposi zione sotto il profilo della sua manifesta irrazionalità e della violazione del principio di offensività».
In ogni caso, aggiunge la sentenza in rassegna, una tale lettura di dubbia costituzionalità è esclusa proprio dall'art. 4, comma 49, cit., che «infatti parla di false o fallaci indicazioni 'di provenienza' ... ed inve ce omette di parlare (come invece fa il richiamato art. 517 c.p.) di 'ori
gine' del prodotto». Tale omissione è significativa, in quanto il riferimento al luogo di
provenienza «geografica» del prodotto si trova proprio in norme che ri chiamano 1'«origine»; così lo stesso art. 4, comma 49, in parti succes sive (relative alla tutela — essenzialmente — dell'istituendo marchio «made in Italy», per il quale peraltro non sono stati adottati i previsti regolamenti di attuazione).
V. - A tali pur stringenti considerazioni della Cassazione, sembra quasi aver «replicato» il legislatore, con il recente d.l. 14 marzo 2005 n. 35, dì
sposizioni urgenti nell'ambito del piano di azione per lo sviluppo econo
mico, sociale e territoriale, c.d. decreto sulla competitività (Le leggi, 2005,1, 884). Infatti, il 9° comma dell'art. 1 ha modificato l'art. 4, com ma 49, 1. 350/03, prevedendo che «dopo le parole 'fallaci indicazioni di
provenienza' sono inserite le seguenti: 'o di origine'» (l'art. 1, 10° com
ma, ha invece inasprito la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 517 c.p.). Il legislatore ha quindi fatto venir meno l'argomento- letterale sopra
richiamato dalla sentenza in rassegna, depositata il 2 febbraio 2005. E evidente l'intenzione (segnalata anche da dichiarazioni di espo
nenti politici) di «rafforzare» la tutela anticontraffazione, adottando
l'interpretazione dell'art. 4, comma 49, cit. respinta da Cass. 21 ottobre 2004.
Resta beninteso da accertare se davvero la legge sanzioni ora penal mente, ai sensi dell'art. 517 c.p., anche l'erroneità quanto alla prove nienza materiale, geografica del prodotto.
Infatti, specie se si considera l'ampiezza delle argomentazioni della sentenza in rassegna, tuttora valide, può ancora ritenersi che il richiamo alla provenienza e all'origine sia essenzialmente tautologico, una en diadi che però non estende l'illiceità penale nel senso solo auspicato dal legislatore.
Quest'ultimo, in ogni caso, ha mostrato di voler costruire una fatti
specie penale (offrendone una sorta di interpretazione autentica) che la
Suprema corte ha appena ritenuto di dubbia costituzionalità. Per meglio comprendere tale ultimo intervento legislativo, occorre
ricordare che la 1. 350/03 conteneva ulteriori disposizioni (non privi di
profili francamente demagogici) per la tutela anticontraffattoria della
produzione industriale italiana; si è già accennato alla tutela della
stampigliatura «made in Italy», prevista dallo stesso comma 49 (cui,
peraltro, non consta si sia dato seguito). Soprattutto (art. 4, comma 72) è stato istituito presso il ministero
delle attività produttive il comitato nazionale anticontraffazione, con funzione di monitoraggio dei fenomeni in questione e di assistenza alle aziende.
Non consta, del pari, di particolari attività svolte da tale comitato. Ben più significativo era però l'art. 4, comma 80, secondo cui l'auto
rità amministrativa, quando accerta la violazione di un diritto di pro
prietà industriale o intellettuale, può disporre anche diffido, previo assenso dell'autorità giudiziaria, la distruzione delia merce contraffatta.
Floridia (già componente della commissione incaricata della elabo razione del codice della proprietà industriale), in AA.VV., Il codice della proprietà industriale, Milano, 2004, 206, ha segnalato che le norme della 1. 350/03, in particolare il comma 80 cit., erano volte a realizzare l'amministrativizzazione della tutela della proprietà indu
striale, come alternativa e tendenzialmente assorbente rispetto a quella
giurisdizionale. Il codice della proprietà industriale (sul quale cfr. Casaburi-Di Pao
la, Guida al codice della proprietà industriale, in questo fascicolo, V,
69) ha così recepito le disposizioni della 1. 350/03 (cui però ancora rin
II Foro Italiano — 2005.
osservanza della tecnologia produttiva, delle formule e delle
procedure aziendali di quest'ultima e sotto il continuo controllo
di personale Fro; e) che la dicitura «Fro» costituisce insieme
denominazione sociale e marchio internazionale, resa obbligato ria dal d.leg. 115/95 e dalla 1. 126/91, mentre nessuna norma
impone l'indicazione di origine sui prodotti;/) che i prodotti in
questione non subiscono alcuna influenza da fattori ambientali e
climatici. Ciò premesso la ricorrente deduce:
a) violazione di legge (primo profilo). Osserva che il prov vedimento impugnato ha aderito all'interpretazione secondo cui
l'art. 4, comma 49, 1. 350/03 avrebbe esteso le dimensioni ap
plicative dell'art. 517 c.p. mentre questa interpretazione non è
condivisibile perché i compfirtamenti tipizzati come «false o
fallaci indicazioni di provenienza» già si trovano sanzionate
dall'art. 517, mentre la nuova norma limita i suoi effetti nel
prevedere la perfezionabilità del reato sin dalla presentazione delle merci in dogana, equiparando quoad poenam all'art. 517
c.p. la fattispecie, che peraltro resta integrata solo con riferi
mento alle false o fallaci indicazioni di provenienza. Questa in
terpretazione è più coerente con l'istituto della sanatoria sul
piano amministrativo della fallace indicazione delle merci. Del
resto, in mancanza di un illecito amministrativo sanabile, l'ef
fetto voluto dal legislatore non può essere che l'estinzione del
reato. L'ordinanza impugnata deve quindi essere cassata per non aver tenuto conto della richiesta subordinata di sanare sul
piano amministrativo con l'apposizione dell'indicazione di pro venienza della merce;
b) violazione di legge (secondo profilo). Erroneamente l'or
dinanza impugnata ha ritenuto che la nuova norma abbia supe rato la precedente giurisprudenza di questa corte in quanto avrebbe attribuito rilevanza anche alla provenienza materiale
dei prodotti, sicché pure un'indicazione incompleta o imprecisa del luogo di produzione potrebbe costituire motivo di inganno.
Questa interpretazione, innanzitutto, confonde i concetti di pro venienza e di origine, in quanto solo al secondo può attribuirsi
una valenza geografica, mentre il primo identifica il soggetto sotto la cui responsabilità avviene l'industrializzazione, cioè il
produttore. In ogni caso la nuova norma non ha introdotto nuovi
elementi alla fattispecie di cui all'art. 517 c.p. né ha dato speci fica rilevanza al concetto di provenienza materiale delle merci.
Comunque nella specie non è individuabile nessun profilo di in
gannevolezza poiché la Fro controlla lo stabilimento di produ zione delle merci, che avviene sotto stretta osservanza della tec
nologia produttiva, delle formule e delle procedure aziendali
della Fro e sotto il suo continuo controllo. Manca quindi il men
dacio sulla provenienza aziendale. La provenienza deve invero
essere intesa in senso teleologico e non meccanico, sicché non è
sufficiente ad integrare il reato che il prodotto venga da terzi se
chi appone il marchio controlla l'esatta corrispondenza degli standard qualitativi;
c) violazione di legge (terzo profilo). Lamenta che erronea
mente il giudice a quo ha implicitamente ritenuto irrilevante il
fatto che l'indicazione «Fro», oltre che denominazione sociale
della ricorrente è anche marchio registrato. Infatti, pur dopo la
novella del d.leg. 480/92, il marchio conserva l'originale triade
di funzione distintiva, cioè di indicazione della fonte di prove nienza del prodotto, di funzione di garanzia qualitativa e di fun
zione suggestiva o pubblicitaria. Legittimamente, quindi, la ri
corrente ha apposto il suo marchio sui prodotti realizzati nello
stabilimento in Romania, nel pieno rispetto della funzione iden
tificativa del marchio. Non vi è quindi spazio per il concetto di
provenienza materiale mentre la legge, dove lo ha voluto, ha
imposto l'obbligo di indicazione dell'origine, ma tale obbligo non è affatto generalizzato.
In via subordinata chiede che sia sottoposta alla Corte di giu stizia europea la questione sulla conformità dell'art. 4, comma
49, 1. 350/03, laddove sia interpretato nel senso di imporre, nel
caso di specie, l'indicazione dell'origine, ai principi del trattato
relativi alla libera circolazione delle merci.
via il-d.l. 35/05, pur successivo al codice): v. la sez. II del capo III, «misure contro la pirateria»; tuttavia l'intervento amministrativo non è
ora di contrasto alla normale contraffazione, ma alla pirateria, feno
meno, almeno in astratto, ben diverso. Il travaglio normativo, poco coerente e tecnicamente scorretto, è però
tutt'altro che concluso (così come — evidentemente — non sono sopiti i propositi di «amministrativizzazione» della proprietà industriale), co me confermato dal d.l. 35/05, cit. [G. Casaburi]
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PARTE SECONDA
La ricorrente ha in seguito depositato una memoria in cui il
lustra e sviluppa ulteriormente i su indicati tre motivi di ricorso.
Sottolinea che l'interpretazione dell'ordinanza impugnata con
trasta con la funzione di garanzia qualitativa del marchio. Infat
ti, l'art. 15 d.leg. 480/92 ha eliminato il sistema della cessione o
licenza del marchio vincolata alla contemporanea cessione o li
cenza dell'azienda, introducendo il principio della cessione o li
cenza libera, purché non ne derivi inganno in quei caratteri dei
prodotti o servizi che sono essenziali nell'apprezzamento del
pubblico. Quindi, se fosse vera l'interpretazione del tribunale
del riesame, si dovrebbe ritenere la nullità della licenza del mar
chio ai sensi della suddetta disposizione perché contraria ad una
sopravvenuta norma imperativa, in quanto sarebbe ormai la leg
ge ad individuare nella provenienza materiale un carattere del
prodotto essenziale nell'apprezzamento del pubblico. Analoga mente, dovrebbe ritenersi non più praticabile la scelta (diffusis
sima) del marchio commerciale, in cui la scissione tra titolare
del marchio e produttore è assoluta ed originaria. Contesta inoltre che la disposizione in esame possa trovare
concreta attuazione allo stato, dal momento che il ministero
delle attività produttive non ha dato seguito alla disposizione della medesima 1. 350/03 (art. 4, comma 63) che prevede che le
modalità delle indicazioni di origine ed uso del marchio «made
in Italy» siano definite con regolamento. Sull'istanza di rimessione alla Corte di giustizia ex art. 234
del trattato di Roma, osserva che la giurisprudenza europea si è
più volte espressa con disfavore quanto alle marcature di origine dei prodotti, e ciò in applicazione dell'art. 30 (ora 28) sulla libe
ra circolazione di beni e servizi e dell'art. 36 (ora 34) sulle mi
sure ad effetto equivalente. La norma in questione, secondo
l'interpretazione contestata, avrebbe l'effetto di scoraggiare i
rapporti tra imprese situate in diversi Stati membri, inducendo
l'impresa che deve far realizzare propri prodotti apponendovi il
marchio a rivolgersi all'industria nazionale invece che ad im
prese di altri Stati.
Solleva inoltre eccezione d'illegittimità costituzionale della
disposizione di cui all'art. 4, comma 49, cit. in riferimento agli art. 3 e 41 Cost, sotto il profilo dell'ingiustificata disparità di
trattamento tra gli imprenditori nazionali e della compressione della libertà di iniziativa nei confronti di alcuni imprenditori na
zionali. Sarebbe infatti consentito solo agli imprenditori nazio
nali che si rivolgano, per la realizzazione dei propri prodotti, ad
altri produttori nazionali di omettere l'origine, mentre tale indi
cazione sarebbe obbligatoria qualora i prodotti fossero realizza
ti, a parità di condizioni, all'estero. Vi sarebbe inoltre disparità di trattamento tra imprenditore che esporta ed imprenditore che
distribuisce solo in Italia. Vi sarebbe inoltre una discriminazio
ne alla rovescia perché all'operatore nazionale sarebbe imposto
l'obbligo di indicazione dell'origine, mentre all'operatore di un
altro Stato membro dell'Unione europea tale obbligo non sareb
be imposto. Motivi della decisione. — L'art. 517 c.p. (vendita di prodotti
industriali con segni mendaci) punisce «chiunque pone in ven
dita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o pro dotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o
esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, pro venienza o qualità dell'opera o del prodotto».
Secondo il diritto vivente, come emerge dalla giurisprudenza di questa Suprema corte, con l'espressione origine e provenien za del prodotto il legislatore (ad eccezione delle ipotesi espres samente previste dalla legge) ha inteso fare riferimento alla pro venienza del prodotto da un determinato produttore e non già da un determinato luogo (sez. Ili 7 luglio 1999, Thun, Foro it.,
Rep. 2000, voce Frode in commercio, n. 9). Con questa decisione si è osservato, in particolare, che, se
condo la concorde e più accreditata dottrina e giurisprudenza, il
marchio rappresenta il segno distintivo di un prodotto siccome
proveniente da un determinato imprenditore e contenente de
terminate caratteristiche qualitative in quanto risultato di un
processo di fabbricazione del quale il detto imprenditore, titola re del segno distintivo, coordina economicamente e giuridica mente i vari momenti e fattori del procedimento di produzione.
Neil'interpretare il precetto penale, quindi, non può trascurarsi
la funzione che il marchio ha nell'attuale realtà economica, in cui numerose imprese, multinazionali o semplicemente nazio
nali, si avvalgono, ai fini della produzione, dell'attività di altre
imprese in vario modo controllate. Tale tipo di organizzazione produttiva è pacificamente ritenuto lecito, proprio perché la ga ranzia che l'art. 517 c.p. ha inteso assicurare al consumatore ri
guarda l'origine e la provenienza del prodotto non già da un
Il Foro Italiano — 2005.
determinato luogo (ad eccezione delle ipotesi espressamente
previste dalla legge), bensì da un determinato produttore, e cioè
da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica
e tecnica del processo di produzione. Non può invero negarsi che l'imprenditore, nel campo dell'attività industriale, ben può affidare a terzi sub-fornitori l'incarico di produrre material
mente, secondo caratteristiche qualitative pattuite con l'esecuto
re, un determinato bene, e può imprimervi il proprio marchio
con i suoi segni distintivi e quindi lanciarlo in commercio (Cass. 29 gennaio 1979, Vitaloni, id., Rep. 1980, voce Marchio, n. 35).
Si è anche osservato che il consumatore confida sull'esistenza
di determinati requisiti dei prodotti acquistati e la disposizione di cui all'art. 517 c.p. è volta a tutelare appunto la fiducia del
l'acquirente. A tal fine, l'induzione in inganno di cui all'art.
517 c.p. riguarda l'origine, la provenienza o qualità dell'opera o
del prodotto; ma i primi due elementi sono funzionali al terzo
che in realtà è il solo fondamentale posto che il luogo o lo sta
bilimento in cui il prodotto è confezionato è indifferente alla
qualità del prodotto stesso. Del resto, la disciplina generale del
marchio non esige che venga pure indicato il luogo di produzio ne del prodotto e che dal punto di vista giuridico il marchio non
garantisce la qualità del prodotto ma rappresenta solo il colle
gamento tra un determinato prodotto e l'impresa, non nel senso
della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del
produttore il quale, solo di fatto, ne garantisce la qualità nel sen
so che è il solo responsabile verso l'acquirente. A fortiori sif
fatta regola deve valere allorché si tratti di lavori su commissio
ne in cui il sub-produttore deve attenersi alle regole tecniche
impartite dal committente, perché l'attività del primo resta paci ficamente in tal caso puramente materiale ed esecutiva ed il
committente è legittimato a contraddistinguere il prodotto con il
suo segno distintivo. E non è richiesto dalla disciplina generale del marchio che venga pure indicato il luogo di fabbricazione
perché non imposto dalla legge e perché non sussiste per l'im
prenditore l'obbligo di informare che egli non fabbrica diretta
mente i prodotti. Da questo principio è stata fatta derivare la conseguenza che
«anche un'indicazione errata o imprecisa relativa al luogo di
produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei tas
sativi aspetti considerati dall'art. 517 c.p., in quanto deve rite
nersi pacifico che l'origine del prodotto deve intendersi in senso
esclusivamente giuridico, non avendo alcuna rilevanza la pro venienza materiale, posto che origine e provenienza sono indi
cate, a tutela del consumatore, solo quali origine e provenienza dal produttore» (sez. Ili 7 luglio 1999, Thun).
Considerazioni e principi questi che sono stati recentemente
ribaditi da questa sezione con la sentenza 5 marzo 2003, Moret
ti, anche con riferimento al reato di cui all'art. 515 c.p. (frode nell'esercizio del commercio), rilevandosi che anche tale reato
riguarda l'origine e la provenienza del prodotto da un determi
nato produttore e, cioè, da un imprenditore che ha la responsa bilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione e non da un determinato luogo, non avendo alcuna rilevanza la
provenienza materiale del bene, in sé considerata. È tuttavia accaduto che l'art. 4, comma 49, legge finanziaria
24 dicembre 2003 n. 350 ha disposto, al primo periodo, che
«l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione
ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci
indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi
dell'art. 517 c.p.». Il secondo periodo, peraltro, dispone che «costituisce falsa
indicazione la stampigliatura 'made in Italy' su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'o
rigine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata
l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso
di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ri
tenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana».
Il terzo periodo del medesimo comma stabilisce poi che «le
fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle mere; in dogana per l'immissione in consumo o in li
bera pratica e sino alla vendita al dettaglio», mentre il quarto ed il quinto periodo dispongono rispettivamente che «la fallace
indicazione delle merci può essere sanata sul piano ammini
strativo con l'asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant'altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana» e che «la falsa indica
zione sull'origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l'esatta indi
cazione dell'origine o l'asportazione della stampigliatura 'ma
de in Italy'».
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GIURISPRUDENZA PENALE
L'agenzia delle dogane di Padova, nonché il pubblico mini stero ed il Tribunale del riesame di Padova, hanno aderito al
l'interpretazione secondo cui la suddetta disposizione, oltre a
precisare il momento consumativo del reato di cui all'art. 517
c.p., anticipandolo sin dalla presentazione del prodotto o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera prati ca, avrebbe anche esteso la portata precettiva che, alla stregua del diritto vivente, aveva l'art. 517 c.p., rendendolo applicabile non più soltanto ai falsi o fallaci segni distintivi o indicazioni atti a trarre in inganno sull'origine o provenienza del prodotto da un determinato imprenditore, che si assume la responsabilità del prodotto stesso, ma anche sulle false e fallaci indicazioni
atte a trarre in inganno sul luogo di produzione materiale, ed in
particolare a far ritenere il consumatore che il prodotto sia stato
materialmente fabbricato in Italia. La nuova disposizione, quin di, avrebbe esteso la fattispecie penale di cui all'art. 517 c.p. anche ai casi (come quello in esame) di prodotti fabbricati o
fatti fabbricare in stabilimenti esteri da un produttore o impren ditore italiano che si assume la piena responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione ma che rechino
solo il marchio o l'indicazione dell'impresa italiana e non anche
l'indicazione del fatto che la fabbricazione materiale è avvenuta in uno stabilimento estero, così potendo far ritenere al consu
matore che il luogo di fabbricazione del prodotto sia uno stabi
limento nazionale. Questa interpretazione — secondo il tribu
nale del riesame — sarebbe giustificata dalla ratio della nuova
normativa, che sarebbe quella di promuovere (anche con la
creazione di un marchio ed un fondo di protezione straordinaria del «made in Italy») la produzione italiana in ogni suo aspetto e di potenziare il più possibile le «eccellenze» italiane, ratio che
pertanto avrebbe indotto a riconoscere rilevanza oggi anche alla
provenienza materiale dei prodotti. Sostiene invece il ricorrente che questa interpretazione non è
condivisibile, anche perché i comportamenti tipizzati come «fal
se o fallaci indicazioni di provenienza» trovavano già sanzione nell'art. 517 c.p., e che l'interpretazione esatta è quella secondo cui la nuova disposizione è diretta essenzialmente ad eliminare
il contrasto di giurisprudenza sulla perfezionabilità del reato fin
dal momento della presentazione della merce in dogana, equipa rando quoad, poenam la fattispecie all'art. 517 c.p. e precisando che tale fattispecie sia integrata solo con riferimento alle false o
fallaci indicazioni di provenienza. Ritiene questa corte che — sebbene la nuova disposizione sia
stata redatta in termini che effettivamente possono a prima vista
apparire poco chiari — debba essere ritenuta inesatta e vada
quindi respinta l'interpretazione seguita dall'ordinanza impu
gnata. Innanzitutto, invero, appare fondata la considerazione del ri
corrente secondo cui si deve supporre che il legislatore si sareb
be espresso ben diversamente, sia sul piano lessicale sia su
quello sistematico, qualora effettivamente avesse voluto modifi
care sostanzialmente e profondamente la portata precettiva del
l'art. 517 c.p. ed il significato che, secondo il diritto vivente, deve attribuirsi alla nozione di origine e di provenienza di un
prodotto, ed avesse inteso introdurre una nuova fattispecie di
reato rispetto a quella già prevista dall'art. 517 c.p. Considera
zione questa che appare ancor più significativa perché, se fosse
vera l'interpretazione seguita dal tribunale del riesame, il legis latore avrebbe in tal modo non solo ampliato la portata precetti va dell'art. 517 c.p. (e delle altre disposizioni penali che fanno
riferimento all'origine e provenienza dei prodotti) estendendo i
comportamenti delittuosi ivi previsti, ma avrebbe anche modifi
cato la funzione di garanzia qualitativa che attualmente ha an
che il marchio, incidendo non solo sulla liceità dei casi in cui il
titolare appone il proprio marchio a prodotti fatti realizzare da
terzi, ma anche sulla latitudine della facoltà per il titolare di
concedere in licenza il marchio. Infatti, mentre ai sensi dell'art.
15 d.leg. 480/92 sono possibili la cessione e la licenza del mar
chio senza la contemporanea cessione o licenza dell'azienda o
del ramo di azienda, purché dal trasferimento o dalla licenza
non derivi inganno in quei caratteri dei prodotti che sono essen
ziali nell'apprezzamento del pubblico, la nuova disposizione avrebbe invece attribuito rilevanza indifferenziata alla prove nienza materiale dei prodotti, ossia avrebbe individuato in via
generale ed indifferenziata nella provenienza materiale del pro dotto da una determinata fabbrica un carattere del prodotto es
senziale nell'apprezzamento del pubblico, con rilevanti conse
guenze sia sulla liceità della licenza di marchio sia sulla prati cabilità e la portata della diffusissima scelta del marchio com
merciale, in cui è assoluta ed originaria la scissione tra marchio
e produttore.
Il Foro Italiano — 2005.
Al contrario, se si tiene conto delle espressioni usate e della
struttura e della collocazione della nuova disposizione, appare che l'intenzione del legislatore non sia stata affatto quella di in
cidere in tal modo sulla disciplina del marchio o comunque di
modificare così profondamente il significato che i termini origi ne e provenienza del prodotto hanno nell'art. 517 c.p. e nelle altre disposizioni penali che ad essi fanno riferimento, bensì sia
stata più semplicemente quella di risolvere il contrasto giuris
prudenziale sul momento consumativo del reato (cfr. sez. Ili 26
aprile 2001, Andolfo, id., Rep. 2003, voce Frode in commercio, n. 17; 27 maggio 1999, Desaler, id., Rep. 2000, voce cit., n. 8), stabilendo che esso si perfeziona sin dal momento della presen tazione dei prodotti e delle merci in dogana per l'immissione in
consumo o in libera pratica nonché quella di promuovere, anche
attraverso la creazione di un apposito ente (comma 61), l'istitu
zione e la tutela del marchio «made in Italy», la cui regolamen tazione, peraltro, è stata demandata ad un apposito regolamento
delegato (comma 63 del medesimo art. 4). A questa interpretazione deve pervenirsi anche sulla base del
significato proprio delle parole utilizzate dal legislatore. Il pri mo periodo del comma 49 in esame, infatti, parla di false o fal
laci indicazioni di «provenienza», punendole ai sensi dell'art.
517 c.p. Ora, con l'espressione «provenienza», come si è visto, si è sempre inteso la provenienza da un determinato produttore e
non da un determinato luogo di fabbricazione, e niente induce a
ritenere che questa volta il legislatore abbia inteso mutare pro fondamente il significato comune del termine, e ciò per di più
implicitamente e senza alcuna specifica indicazione espressa.
Un'interpretazione diversa, del resto, si porrebbe contro il gene rale principio di tassatività delle fattispecie penali, anche tenen
do conto che allo stato dell'attuale legislazione solo in alcuni
casi la legge ha attribuito rilevanza al luogo ed ha quindi impo sto la specifica indicazione del luogo di origine delle merci e dei
prodotti, e ciò lo ha fatto sempre in modo espresso ed in quei casi in cui fattori climatici o ambientali possono avere un'inci
denza sulla qualità del prodotto (ad es., in tema di denominazio
ni di origine protetta, o di indicazioni geografiche protette o di
etichettatura di alcuni prodotti agroalimentari, e così via). Dal
che deriva anche che una così ampia estensione della fattispecie
penale anche a casi che sarebbero palesemente irrilevanti al fine
dell'interesse perseguito dalla norma, che è e resta solo quello della tutela del consumatore contro indicazioni o segni che pos sano trarlo in inganno sulla qualità del prodotto (e non già
—
come inesattamente ritenuto dal tribunale del riesame — anche
o solo quello della promozione della produzione italiana in ogni suo aspetto), comporterebbe un dubbio di legittimità costituzio
nale della disposizione sotto il profilo della sua manifesta irra
zionalità e della violazione del principio di offensività. Ne con
segue che la soluzione ermeneutica qui seguita deve essere pre ferita anche per la necessità di dare alla disposizione una neces
saria interpretazione adeguatrice. Inoltre, nei casi in cui si è dubitato che una norma potesse far
riferimento non solo alla provenienza del prodotto da un dato
imprenditore ma anche alla sua produzione o fabbricazione in
un dato luogo, si trattava di norme che parlavano di «origine» del prodotto, mentre per «provenienza» si è generalmente intesa
la provenienza dal produttore e non dal luogo di fabbricazione.
Ora, il primo periodo del comma 49 in esame, parla solo di «fal
se o fallaci indicazioni di provenienza» ed omette invece di
parlare (come invece fa il richiamato art. 517 c.p.) di «origine» del prodotto, e tale omissione, che non può certo ritenersi frutto
di dimenticanza, non può avere altro significato che quello di
rendere chiaro che la disposizione penale di cui al primo perio do del comma 49 cit. si riferisce solo alla provenienza da un
produttore e non a quella geografica. Il termine «origine», inve
ce, è utilizzato nel secondo e nel quarto periodo del comma 49
con riferimento anche ai prodotti e merci «non originari dall'I
talia ai sensi della normativa europea sull'origine». Ora, la
normativa europea in materia, ed in particolare il regolamento
(Cee) 2658/87 del consiglio del 23 luglio 1987 (relativo alla nomenclatura tariffaria e statistica ed alla tariffa doganale co
mune) nel fissare i criteri per determinare l'origine dei prodotti
(art. da 22 a 26) si riferisce in via generale al luogo di produzio ne o di ultima trasformazione sostanziale dei prodotti. Sennon
ché, anche a voler ipotizzare che il comma 49 cit., con il far ri
ferimento alla normativa europea sull'origine, abbia voluto sta
bilire che per origine si debba intendere il luogo di produzione o
di ultima trasformazione del prodotto, ciò non incide sull'inter
pretazione che qui si segue, perché tale riferimento è stato co
munque fatto alla stampigliatura «made in Italy» di cui parla la
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PARTE SECONDA
prima parte del secondo periodo del comma 49. Pertanto, sareb
be semmai solo per l'apposizione del marchio «made in Italy» che potrebbe farsi riferimento alla produzione del prodotto in
Italia, e ciò senza voler considerare che, in forza della disposi zione di cui al comma 63, le modalità di istituzione e di uso del
marchio «made in Italy» sono demandate ad un apposito rego lamento delegato.
In conclusione, il comma 49 dell'art. 4 in esame contiene una
complessa serie di disposizioni che si riferiscono a fattispecie diverse. Il primo periodo riguarda le false e fallaci indicazioni di
«provenienza» del prodotto e, per i motivi indicati, deve ritener
si che si riferisca alla provenienza come è stata sempre pacifi camente intesa, ossia alla provenienza da un produttore e non
alla provenienza da un luogo determinato. Il secondo periodo
riguarda invece la tutela del marchio «made in Italy» (marchio la cui disciplina è demandata ad un regolamento delegato) e di
spone che costituisce falsa indicazione l'apposizione di questo marchio su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi
della normativa europea sull'origine. Ne consegue che i criteri
utilizzati dalla normativa europea per stabilire l'origine di un
prodotto sono richiamati e possono essere utilizzati solo in rela
zione all'apposizione del marchio «made in Italy», e non anche
per le false indicazioni di provenienza di cui al primo periodo (che continuano ad essere quelle previste dal diritto vivente), e
ciò sia perché il primo periodo parla di «provenienza» e non di
«origine» sia perché la prima parte del secondo periodo limita
chiaramente il richiamo alla normativa europea (dettata per
l'applicazione della tariffa doganale e per altri limitati effetti) alla sola falsa indicazione della stampigliatura «made in Italy».
Ma la conferma testuale dell'interpretazione adottata si ricava
dalle parole utilizzate dal legislatore nella seconda parte del se condo periodo del comma 49. Stabilisce infatti questa disposi zione che l'uso di segni, figure o quant'altro possa indurre il
consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana costituisce una fallace indicazione anche qualora sia in
dicata l'origine o la provenienza estera dei prodotti. Dunque,
per espressa e testuale indicazione del legislatore, un prodotto ben può essere di origine e provenienza estera perché fabbricato
all'estero, e ciò nonostante essere di origine italiana. Ed infatti, se l'espressa indicazione dell'origine o provenienza estera, os sia della fabbricazione all'estero, non esclude che vi sia una
contemporanea falsa indicazione dell'origine italiana del pro dotto stesso, ciò può solo significare che quando parla di origine italiana il legislatore non intende riferirsi al luogo di produzione (che infatti nell'ipotesi in esame è indicato in modo veritiero) bensì proprio al produttore che assume la responsabilità giuridi ca, economica e tecnica della produzione (che potrebbe essere
sia straniero sia italiano, nonostante la merce sia stata prodotta all'estero, e che viene appunto falsamente indicato come italia
no). La disposizione può avere un significato logico solo in que sto senso, ossia solo ritenendo che essa si riferisca all'ipotesi di
un prodotto fabbricato all'estero per conto di un produttore este ro che ne ha assunto la responsabilità, prodotto sul quale venga esattamente indicato che il luogo di produzione è all'estero (la provenienza estera) ma venga falsamente indicato che il pro duttore è italiano. Altrimenti — se cioè la disposizione inten desse solo rafforzare la tutela e punire l'apposizione di segni in dicativi della fabbricazione in Italia accanto all'indicazione di fabbricazione all'estero — la disposizione stessa sarebbe inutile
perché delle due l'una: o l'indicazione della fabbricazione all'e stero rende gli altri segni inidonei a far ritenere il prodotto fab bricato in Italia, ed allora non sarebbe configurabile il reato, ov vero gli altri segni sono idonei a trarre in inganno il consumato re sulla fabbricazione in Italia del prodotto nonostante l'indica
zione della provenienza estera, ed allora la disposizione sarebbe
superflua. Nel caso di specie, è pacifico che si tratta di elettrodi per sal
datura fabbricati in Romania nello stabilimento della Ductil SA, società controllata per oltre il settanta per cento dalla Fro di Ve rona s.r.l., osservando le tecnologie produttive, le formule e le
procedure aziendali e con il costante controllo del personale di
quest'ultima, che si assume la responsabilità giuridica, econo mica e tecnica del loro processo di produzione e ne garantisce al consumatore la qualità mediante l'apposizione della sua deno minazione sociale e del suo marchio. L'indicazione sugli elet trodi del nome e del marchio del vero produttore, quindi, è veri tiera e non è idonea ad ingannare il consumatore sulla prove nienza e sulla qualità dei prodotti, mentre è del tutto irrilevante che non sia stato indicato anche il luogo di fabbricazione mate riale dei prodotti stessi, luogo appunto indifferente in ordine alla
Il Foro Italiano — 2005.
loro qualità ed alla tutela del consumatore, e la cui indicazione,
per le considerazioni svolte, non può ritenersi imposta dal
comma 49 dell'art. 4 legge finanziaria 24 dicembre 2003 n. 350.
Il reato prospettato dal pubblico ministero non è pertanto allo
stato nemmeno astrattamente configurabile. Ne consegue che sia l'ordinanza impugnata sia il decreto di
convalida del sequestro probatorio disposto dal pubblico mini
stero di Padova il 17 aprile 2004 devono essere annullati senza
rinvio e che va disposta la restituzione all'avente diritto delle
cose in sequestro.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 14
ottobre 2004; Pres. Dell'Anno, Est. Petti, P.M. Izzo (conci,
diff.); ric. Di Girolami. Conferma App. L'Aquila 31 ottobre
2003.
Sanità pubblica — Rifiuti solidi urbani — Ordinanza con tingibile ed urgente — Illegittimità — Reato — Stato di necessità — Esclusione (Cod. pen., art. 54; d.leg. 5 febbraio
1997 n. 22, attuazione delle direttive 91/156/Cee sui rifiuti, 91/689/Cee sui rifiuti pericolosi e 94/62/Ce sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, art. 13, 51).
Il sindaco non può invocare il ricorso al potere di ordinanza ai
sensi dell'art. 13 d.leg. 5 febbraio 1997 n. 22, in mancanza di
situazioni eccezionali, per risolvere l'ordinaria esigenza di
smaltimento dei rifiuti; né per giustificare l'utilizzazione di
una discarica senza autorizzazione regionale può addurre
l'esimente dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p. per ché il pericolo non può considerarsi inevitabile quando può essere superato con rimedi finanziari anche se costosi. (1)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 18
giugno 2004; Pres. Vitalone, Est. Lombardi, P.M. Iacoviel
10 (conci, diff.); ric. Pinto. Conferma App. Bari 9 giugno 2003.
Sanità pubblica — Rifiuti solidi urbani — Discarica comu
nale — Sindaco — Responsabilità — Fattispecie (D.leg. 5
febbraio 1997 n. 22, art. 13, 51).
La prosecuzione della gestione di una discarica di rifiuti urbani in epoca successiva alla scadenza della validità dell'ordinan
za emessa ex art. 13 d.leg. 22/97 configura in capo al sindaco
11 reato di cui all'art. 51, 3° comma, anche in presenza del
l'attribuzione di compiti in materia al dirigente dell'ufficio tecnico comunale, attesa la distinzione tra compiti di gestione
politica ed amministrativa nell'organizzazione dell'ente e
stante la riferibilità all'organo politico dei compiti di orga nizzazione generale e di predisposizione dei mezzi occorrenti
al corretto funzionamento dei singoli settori di attività del
l'ente. (2)
(1-2) I. - Sulla questione concernente la gestione di una discarica comunale senza autorizzazione e la relativa responsabilità penale del
sindaco, affrontata, con tagli leggermente diversi, anche nelle sentenze che si riportano, da ultimo, v. Cass. 19 settembre 2000, Bartone, Foro
it., 2002, lì, 251, con nota di richiami di Paone. Con particolare riferimento al profilo della ripartizione delle funzioni
tra organi di governo e organi burocratici del comune, v. Cass. 25 mar zo 2004, Caracciolo, Riv. ambiente e lav., 2005, 31.
II. - In materia di discarica, si registrano molteplici pronunce da
parte della Corte di giustizia: v. sent. 25 novembre 2004, causa C
447/03, inedita (non avendo adottato le misure necessarie per assicurare che i rifiuti stoccati o depositati in discarica, presenti nel sito dell'ex stabilimento Enichem di Manfredonia (provincia di Foggia) e nella di scarica di rifiuti urbani Pariti I, sita nella zona di Manfredonia, fossero
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