sezione IV penale; sentenza 22 luglio 1985; Pres. ed est. Carnevale, P.M. Cotronei (concl. diff.);ric. Fissore e altro. Annulla App. Torino 14 marzo 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 6 (GIUGNO 1986), pp. 341/342-349/350Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180443 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
provvedimento reiettivo della eccezioni di nullità da lui sollevate, abbandonava l'aula: di qui la necessità di nominare al prevenuto un difensore di ufficio e di concedere il termine a difesa. Deduce il ricorrente, oltre ad una questione di legittimità costituzionale
degli art. 130 e 131 c.p.p. in riferimento agli art. 3 e 25, 1°
comma, Cost., la insussistenza dell'illecito disciplinare nella sua
materialità. Esso, sempre ad avviso del ricorrente, si sarebbe
configurato solo se l'imputato fosse rimasto privo di assistenza;
evenienza, questa, non rispondente alla realtà, posto che s'era
immediatamente provveduto alla nomina di un difensore di
ufficio.
La deduzione non può essere condivisa. L'illecito in questione si concreta nell'astensione dell'attività da parte del difensore dopo che il medesimo, come nella specie, abbia accettato il patrocinio o compiuto uno o più atti ad esso inerenti: in tal caso, essendo
la difesa anche una condizione di regolarità del processo, occorre
far luogo alla nomina del difensore di ufficio (art. 128 c.p.p.). D'altra parte, interpretandosi la espressione dell'art. 129 c.p.p.
(« in modo che l'imputato rimanga privo di assistenza ») nel
senso suggerito dalla difesa del ricorrente, si sancirebbe una
totale inoperatività della norma. Che sia stato provveduto alla
nomina del difensore di ufficio, dunque, non rileva, risultando
tale nomina causalmente correlata all'allontanamento del difensore
dalla udienza. Vale a dire che la nomina ex art. 128 c.p.p. si
aggancia, in un modo che non può essere più chiaro ed esplicito, al comportamento del difensore; comportamento che esattamente
è stato giudicato, nella sua oggettività, rilevante sul piano disci
plinare. Certo il collegamento, nell'art. 129 c.p.p., tra allontana
mento del difensore dall'udienza e mancanza di assistenza del
l'imputato ha un significato che, però, è ben diverso da quello indicato dalla difesa del ricorrente. A giudizio di questo Supremo
collegio, il legislatore, col riferito collegamento, ha inteso ricono
scere la irrilevanza, sul piano disciplinare, dell'allontanamento di
carattere occasionale durante il quale la difesa sia stata comun
que assicurata da un sostituto (art. 127 c.p.p.).
E, se cosi è, non può apprezzarsi neppure l'altro motivo, secondo cui l'illecito in esame non sarebbe « immaginabile »
prima dell'apertura del dibattimento; ond'è che, ad avviso della
difesa, essendosi il ricorrente allontanato avanti il compimento delle formalità di apertura del dibattimento, privo di fondamento
risulterebbe l'addebito. Siffatta interpretazione, anche se — nel
passato — è stata accolta dalla giurisprudenza di questa corte (v.
Cass., sez. II, 10 marzo 1975, ric. Bagnulo ed altri, Foro it., 1976,
II, 179), non può essere seguita. Il « distinguo » è assai ambiguo e non corrisponde alla voluntas
legis. L'art. 129 c.p.p., nel formulare due ipotesi in termini
alternativi (abbandono dell'ufficio e allontanamento dall'udienza) richiede la presenza del difensore in tutte le fasi processuali e a
fortiori in quel delicatissimo momento costituito dall'estrinsecarsi
di attività che precedono il dibattimento propriamente inteso.
Basti pensare, per convincersene, alla importanza della verifica
della costituzione delle parti e della presenza o meno dei testi
moni, periti o interpreti, nonché alla rilevanza dei provvedimenti
conseguenti all'esito di tale verifica. La presenza del difensore è
qui veramente essenziale, ponendosi come condizione di regolarità di quelle attività. L'ordo procedendi ex art. 430 c.p.p., che si
conclude — dopo la lettura della imputazione — con la dichiara
zione di apertura cui si connettono limiti per l'esercizio di alcuni
diritti (v., ad es., costituzione di parte civile o intervento del
responsabile civile e del civilmente obbligato) è tale — per sua
natura — da dimostrare, con imponente evidenza, la erroneità
della prospettata tesi difensiva. Cosicché, una volta iniziata questa fase prodromica, il difensore non può allontanarsi senza incorrere
nella violazione dell'art. 129 c.p.p. Fondato, invece, appare il motivo circa il difetto, nel ricorren
te, della « coscienza o volontarietà dell'illecito ».
Com'è noto, il comportamento diretto a privare l'imputato della
difesa è rilevante sul piano disciplinare allorquando sia cosciente
o voluto. E, nella specie, la discolpa del ricorrente dinanzi alla
sezione istruttoria risulta trovare piena rispondenza negli atti. In
effetti l'avv. Palmieri « era d'accordo con il cliente di chiedere il
termine a difesa », allontanandosi dalla udienza per pochi minuti
ed informandosi, al ritorno, dal collega nominato difensore di
ufficio della data della nuova udienza. Da quest'ultima udien
za, poi, riacquistato il ruolo di difensore, prestava il suo patroci nio per tutto il corso del dibattimento. Orbene tali modalità degli accadimenti evidenziano, con sufficiente chiarezza, la mancanza
della coscienza dell'illecito nei termini spiegati. Sul punto è
mancata una « presa d'atto » da parte dei giudici di merito.
La impugnata ordinanza, pertanto, deve essere annullata senza
rinvio, risultando dagli atti del procedimento l'assoluta mancanza,
Il Foro Italiano — 1986.
nel ricorrente, della coscienza o volontarietà della infrazione. Tale
conclusione rende inutile l'esame della dedotta questione di
legittimità costituzionale, dovendosi escludere — a norma dell'art.
23 1. n. 57/53 — ogni forma di pregiudizialità. La esclusione
della incidenza della pregiudiziale, infatti, consegue, oltre che alla « dichiarazione di manifesta infondatezza », alla soluzione adotta
ta in termini di immediato e pieno proscioglimento dell'incolpato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza 22
luglio 1985; Pres. ed est. Carnevale, P.M. Cotronei (conci,
diff.); ric. Fissore e altro. Annulla App. Torino 14 marzo
1985.
Reato continuato — Reati giudicati e reati da giudicare — Reati
da giudicare commessi dopo il passaggio in giudicato della
sentenza — Continuazione — Configurabilità (Cod. pen., art.
81). Reato continuato — Reati giudicati e reati da giudicare — Reati
meno gravi — Cosa giudicata — Reati più gravi — Giudizio — Continuazione — Applicabilità (Cod. pen., art. 81).
È configuratile la continuazione fra reati già giudicati con
sentenza irrevocabile e reati da giudicare, anche se commessi
successivamente al passaggio in giudicato di detta sentenza. (\) Il giudice può ritenere il vincolo della continuazione fra reati
giudicati e reati da giudicare anche se quest'ultimi sono più
gravi di quelli per i quali è già intervenuta sentenza irrevocabi
le di condanna. (2)
'(1-2) 'La sentenza in epigrafe si segnala in quanto costituisce una
vistosa novità nella giurisprudenza della Corte di cassazione finora
costantemente orientata in senso diametralmente opposto, come chiara mente emerge dalla stessa motivazione, su entrambe le questioni affrontate e si inserisce in un filone, dalla medesima ricordato, tendente ad estendere al massimo l'ambito di applicabilità dell'art. 81, 1° cpv., c.p. È facile supporre, attesa la rilevanza teorica e pratica della problematica esaminata, un sollecito intervento delle sezioni
unite, che negli ultimi tempi intervengono con sempre maggiore frequenza e tempestività per dirimere i contrasti che insorgono nella
giurisprudenza di legittimità. Nel senso che la possibilità di considerare collegati con il vincolo
della continuazione fatti oggetto di sentenza divenuta irrevocabile ed altri fatti accertati dopo la sentenza medesima è subordinata alla
duplice condizione che il fatto o i fatti da collegare in continuazione con i precedenti siano stati commessi prima del passaggio in giudicato della sentenza e che il fatto o i fatti per i quali vi è stata condanna siano più gravi di quelli successivi, v., da ultimo, Cass. 15 giugno 1983, Ceresa, Foro it., Rep. 1984, voce Reato continuato, n. 36; 18
maggio 1983, De Marinis, ibid., n. 37; 23 marzo 1983, D'Alonzo, ibid., n. 38; 10 marzo 1983, Avena, ibid., nn. 39-40; 12 luglio 1982, Rossi,
id., Rep. 1983, voce cit., n. 9; 19 giugno 1982, Alunni, ibid., n. 2; 6
maggio 1982, De Mattia, ibid., n. 10; 11 maggio 1982, Ferrini, ibid., n. 3; 17 marzo 11982, Carraro, ibid., n. 4; 9 marzo 1982, De Col, ibid., n. 11; 27 gennaio 1982, Prighetto, ibid., n. 5; 7 dicembre 1981, Placona, ibid., n. 6; 27 novembre 1981, La Rosa, ibid., n. 7; 18 novembre 1981, Frigeri, ibid., n. 8; 29 gennaio 1981, Terlizzi, ibid., n. 12.
Recentemente, tuttavia, la stessa Corte di cassazione, nonché taluni
giudici di merito, avevano ritenuto non manifestamente infondata — in riferimento agli art. 3 e 25, 2° comma, Cost. — la questione di
legittimità costituzionale dall'art. 81, 1° cpv., c.p. nella parte in cui non consente l'applicazione della continuazione fra violazioni più gravi, oggetto del giudizio in corso, e violazioni più lievi, oggetto di sentenza passata in giudicato; Cass. 21 giugno 1985, Bartolozzi, ined.; 6 marzo 1985, Ricci, id., 1985, II, 266; Trib. Lanusei 28 settembre
1984, ibid., 84, con nota di Belfiore, il quale pone in rilievo come il problema in esame « sia, a ben vedere, di natura interpretativa e come tale superabile già in sede di applicazione della legge da parte del magistrato ordinario »; tesi questa condivisa appunto dalla sentenza che si riporta.
L'altra questione affrontata dalla corte non è stata fatta oggetto di
approfondita attenzione da parte della dottrina, ancorché siano state mosse riserve critiche all'orientamento finora pacifico della giurispru denza: cfr. Barba, In tema di reato continuato e condanna irrevocabi
le, in Giust. pen., 1976, II, 207; Bonadies, Sui pretesi limiti proces suali e sostanziali all'istituto della continuazione, in Riv. it. dir. e
proc. pen., 1968, 1239; Corpi, Reato continuato e cosa giudicata, Napoli, 1969, 371; Curcuruto, In tema di reato continuato, in Mass.
pen., 1974, 528; Delitala, Reato continuato e cosa giudicata nel codice penale vigente e nel progetto di codice penale, in Diritto penale Raccolta degli scritti, Milano, 1976 (ma lo scritto risale al
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PARTE SECONDA
Svolgimento del processo. — Con sentenza del 26 settembre 1984 il Tribunale di Saluzzo dichiarava Gianfranco Fissore e
Mauro Bricco responsabili del delitto di illecita detenzione di modica quantità di eroina al fine di venderla a terzi, commesso il 1° febbraio 1984, con la recidiva reiterata per il primo e con la recidiva specifica reiterata per il secondo; e li condannava alla
pena di tre anni di reclusione e di lire un milione di multa ciascuno.
Entrambi gli imputati proponevano appello. Il Fissore chiedeva il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, da di chiararsi prevalenti sulla recidiva, e la riduzione della pena al minimo edittale. Il Bricco, a sua volta, chiedeva, in via principa le, l'accertamento della continuazione tra il reato continuato di illecita detenzione di modiche quantità di eroina al fine di venderla a terzi, che aveva formato oggetto di un precedente giudizio conclusosi con sentenza 14 dicembre 1983 del Tribunale di Pinerolo, divenuta irrevocabile il 14 gennaio 1984, con la
quale gli era stata inflitta la pena di un anno e sei mesi di reclusione e di lire duecentomila di multa; e, in subordine, il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, da dichia rarsi prevalenti sulla recidiva, e la riduzione della pena.
La Corte d'appello di Torino con sentenza 14 marzo 1985, riconosciute ad entrambi gli imputati le circostanze attenuanti
generiche che dichiarava equivalenti alle recidive contestate, ridu ceva la pena ad essi inflitta dai primi giudici a due anni e due mesi di reclusione e lire cinquecentomila di multa ciascuno.
La corte d'appello — mentre escludeva, disattendendo il motivo
principale del Bricco, la configurabilità della dedotta continuazio ne, in quanto il reato formante oggetto del presente giudizio era stato commesso dopo il passaggio in giudicato della sentenza con cui l'appellante era stato riconosciuto responsabile dell'altro reato — riteneva di poter riconoscere ad entrambi gli imputati le circostanze attenuanti generiche in considerazione del loro com
portamento processuale confessorio e della non particolare gravità dei loro precedenti, ma di non poter dichiarare tali attenuanti se non equivalenti rispetto alle recidive, in assenza di altri motivi di
meritevolezza e avuto riguardo all'attività di distribuzione di sostanze stupefacenti da essi posta in essere nella zona, quale risultava dagli atti, ancorché non fosse stata contestata la reitera zione degli atti di spaccio.
Hanno proposto ricorso per cassazione sia il Fissore che il
Bricco, i quali, a mezzo dei rispettivi difensori, si sono doluti —
il primo — dell'eccessività della pena, che avrebbe potuto essere contenuta entro il limite minimo consentito dalla legge, e — il secondo — del mancato riconoscimento della continuazione con l'altro reato di illecita detenzione di modica quantità di sostanze
stupefacenti giudicato con la sentenza 14 dicembre 1983 del Tribunale di Pinerolo e, in subordine, della mancata ulteriore
riduzione della pena e della mancata dichiarazione di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche « sulle eventuali aggravanti nonché sulla recidiva ».
Motivi della decisione. — 1. - Per seguire l'ordine logico deve
essere esaminato, anzitutto, il primo motivo del ricorso del
Bricco, con il quale si censura la sentenza impugnata nel punto in cui è stata esclusa la configurabilità della continuazione tra il
reato continuato omogeneo giudicato con la sentenza irrevocabile del Tribunale di Pinerolo e il reato giudicato con la sentenza
impugnata, per essere stato quest'ultimo reato commesso dopo il
passaggio in giudicato della prima sentenza. Al riguardo si sostie
ne che escludere la configurabilità della continuazione — pur in
presenza di tutti i requisiti previsti dal 2° comma dell'art. 81 c.p.
e, in particolare, dell'identità del disegno criminoso (desumibile nella specie dal brevissimo tempo intercorso tra la commissione
dei due fatti e dall'identità della violazione) — per il solo fatto
dell'avvenuto passaggio in giudicato della prima sentenza darebbe
luogo ad un'ipotesi di disparità di trattamento, con conseguente « violazione del dettato costituzionale »; e che nella specie al
l'applicabilità dell'istituto non sarebbe di ostacolo il noto indiriz
zo giurisprudenziale secondo cui la continuazione tra reati giudi cati con sentenza irrevocabile e reati ancora da giudicare è
configurable solo quando il reato già irrevocabilmente giudicato
sia più grave di quello o di quelli da giudicare, giacché i reati,
rispetto ai quali si « invoca la concessione del vincolo della
continuazione », sarebbero di pari gravità.
1928), I, 521, spec. 530; Grisolia, Reato continuato e cosa
giudicata, in Giur. merito, 1974, II, 307; Zagrebelsky, Reato
continuato, Milano, 1976, 53. Di quest'ultimo autore v. anche Cosa
giudicata parziale ed applicabilità dell'art. 81, commi 2° e 3° da parte del giudice di appello, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, 1021.
Il Foro Italiano — 1986.
Il motivo — anche se le argomentazioni che lo sorreggono sono, in parte, prive di rilevanza e, in parte, non aderenti alle
caratteristiche proprie della fattispecie concreta — è, a giudizio della corte, meritevole di essere accolto.
È opportuno premettere che al suo accoglimento si oppongono due indirizzi che possono considerarsi ormai consolidati nella
giurisprudenza di questa corte: quello secondo cui la continua
zione non può trovare applicazione rispetto ai reati commessi
dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, do
vendo ad essi applicarsi la disciplina della recidiva, la quale, per il fondamento razionale e per i suoi effetti, è incompatibile con la continuazione; e quello secondo cui la possibilità di ritenere
collegati con il vincolo della continuazione fatti oggetto di una sentenza divenuta irrevocabile e fatti successivamente giudicati, sempre che tra essi sia dimostrata l'identità del disegno crimino
so, è subordinata — oltre che a quella, desumibile dall'altro
indirizzo, che il fatto o i fatti da collegare ai precedenti con il vincolo della continuazione siano stati commessi prima della sentenza irrevocabile concernente i fatti giudicati per primi —
alla condizione che il fatto o i fatti per i quali sia già intervenuta la sentenza irrevocabile di condanna siano più gravi di quelli successivamente giudicati, dovendo la pena già inflitta
con la sentenza irrevocabile essere assunta come pena-base sulla
quale operare l'aumento per la continuazione.
Il primo, in quanto il delitto di illecita detenzione di modica
quantità di eroina, oggetto del procedimento nel quale è stata
pronunciata la sentenza impugnata, è stato commesso il 1°
febbraio 1984, mentre la sentenza del Tribunale di Pinerolo, con
cui è stato giudicato il precedente reato continuato di illecita
detenzione di modica quantità di eroina, è divenuta irrevocabile
il 14 gennaio 1984.
Il secondo, giacché — dovendo aversi riguardo, al fine di
stabilire quale sia il reato più grave tra quelli legati dal vincolo della continuazione alla pena da infliggere in concreto per cia
scun reato, e non già, come sembra ritenere il ricorrente, alla
pena edittale massima prevista per ognuno di essi — il reato
continuato già giudicato, per il quale è stata irrogata la pena di
un anno e sei mesi di reclusione e di lire duecentomila di multa,
è indubbiamente meno grave di quello commesso successivamen
te, per il quale è stata applicata la più elevata pena di due anni
e due mesi di reclusione e di lire cinquecentomila di multa (pena che, per effetto del rigetto degli altri due motivi del ricorso del
Bricco, non è più suscettibile di essere ridotta). Il primo indirizzo
risale — com'è noto — alla sentenza 4 maggio 1968, Pierro, delle
sezioni unite (Foro it., 1969, II, 7).
Con questa sentenza e con le altre successive conformi, pro nunziate negli anni '70 e in questa prima metà degli anni '80, la
giurisprudenza di questa corte, da un lato, ha definitivamente
superato l'indirizzo, precedentemente prevalente, secondo cui l'i
napplicabilità delle norme sulla continuazione conseguiva (oltre che alla denuncia, alla notizia della pendenza di un processo penale, all'interrogatorio da parte della polizia giudiziaria, alla
contestazione del fatto-reato, alla carcerazione, quali fatti idonei ad interrompere l'identità del disegno criminoso) anche alla
pronuncia di una sentenza di condanna non irrevocabile, conse
guendo al superamento dei motivi inibitori derivanti dalla condot ta una nuova deliberazione delittuosa, necessariamente escludente
l'identità del disegno criminoso, in base alla considerazione assorbente e risolutiva che, a prescindere dal rilievo che la
condanna, la denuncia e la contestazione del reato possono non essere note al reo, tutti questi fatti, pur costituendo, in base
all'id quod plerumque accidit, un indizio grave che il colpevole sia stato indotto ad un riesame del programma criminoso origina rio, non possono assurgere, senza il supporto di una disposizione normativa, al ruolo di una presunzione assoluta che impediva al
giudice di indagare se, per circostanze particolari e in relazione alla personalità del reo, non debba, ritenersi, nonostante la
condanna, che il preesistente disegno criminoso sia rimasto del tutto inalterato. E, dall'altro, ha affermato che, se è vero che
l'art. 81, cpv., c.p., nel prevedere i requisiti necessari per l'u nificazione quoad poenam di una pluralità di reati, non distingue tra reati precedenti e reati successivi ad una condanna, tuttavia l'art. 99 dello stesso codice, nel prendere in considerazione
ugualmente una pluralità di reati, espressamente e specificamente disciplina, sotto il profilo sanzionatorio, quelli commessi dopo una sentenza di condanna passata in giudicato, stabilendo per essi, siano identici e non ai precedenti, un aumento da calcolarsi sulla pena da infliggere per il nuovo reato, il che dimostrerebbe che l'istituto della recidiva ha come suo presupposto il cumulo materiale delle pene. Al riguardo si è poi aggiunto che, ove si
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GIURISPRUDENZA PENALE
consideri il fondamento razionale dell'istituto della recidiva, da individuarsi nel rafforzamento della deliberazione criminosa e nella maggiore pericolosità del reo, dichiaratamente incompatibili con la persistenza della medesima inalterata ideazione criminosa,
rispetto ai reati commessi prima della condanna non può non
ravvisarsi nel detto art. 99, e, quindi, nel sistema giuridico
vigente, l'esistenza di un altro preciso limite all'applicazione dell'eccezionale disciplina del reato continuato, con la conseguen za dell'automatico e indeclinabile risorgere, per l'ipotesi in esame, del principio generale vigente in tema di trattamento sanzionato
rio del concorso materiale di reato, cioè di quello del cumulo materiale delle pene. La deroga posta a tale principio del 2°
comma dell'art. 81, per alcuni fini, non può, per sua natura, intendersi se non nei limiti previsti dalla norma o desumibili dal
sistema, sicché il limite posto dall'art. 99 renderebbe inapplicabi le, anche per la prevalenza del principio in esso contenuto, la
riduzione ad unità di reati, comunque commessi in stato di
recidiva, in relazione a quelli per i quali vi sia già stata una
sentenza irrevocabile di condanna. Sul principio enunciato non
incide, secondo questo indirizzo giurisprudenziale, il mutamento
del regime della recidiva conseguente alla nuova formulazione
dell'art. 99 c.p., introdotta con l'art. 9 d.L 11 aprile 1974 n. 99, convertito nella 1. 7 giugno 1974 n. 220, giacché con la disciplina novellistica della recidiva si è attribuito al giudice del merito
soltanto il potere discrezionale di non aumentare la pena per la
recidiva contestata, ma non anche quello di escludere la recidiva, la quale deve ancora essere obbligatoriamente contestata e, in
conseguenza della contestazione, continua a qualificare il reato ad
ogni effetto.
Il secondo indirizzo — affermatosi nella giurisprudenza di
questa corte fin dai primi decenni di vita del codice penale
vigente — muove dall'esigenza di conciliare l'applicazione dell'i
stituto della continuazione con il principio dell'intangibilità del
giudicato penale. Il giudizio suppletivo volto all'accertamento, oltre che del fatto o dei fatti-reato ancora da giudicare, dell'esistenza di un identico disegno criminoso, che avvince,
rappresentandone esse l'attuazione, le relative azioni od omissioni
a quelle proprie dei fatti-reato già giudicati con sentenza irrevo
cabile, in tanto è ammissibile, in quanto esso abbia per oggetto un singolo reato o una pluralità di reati tutti meno gravi (nel senso che la pena da irrogare in concreto sia meno elevata) di
quello o di quelli sui quali si è già formato il giudizio. Ciò
perché, soltanto in tal caso, il giudice che procede al giudizio
suppletivo — dovendo limitarsi, una volta compiuto il duplice accertamento suindicato, a determinare l'aumento da apportare sulla pena-base in relazione ai c.d. reati satelliti sottoposti al suo
giudizio — può lasciare immutata la misura della pena inflitta
per il reato più grave con la precedente sentenza passata in
giudicato; mentre, nel caso inverso, l'applicazione del regime sanzionatorio proprio della continuazione presupporrebbe inevita
bilmente, in contrasto con il principio dell'intangibilità del giudi cato che estende i suoi effetti anche alla misura della pena
irrogata, una modifica — necessariamente qualitativa ed even
tualmente anche quantitativa — della pena irrogata per il reato
meno grave con il giudicato, in quanto questa dovrebbe costituire
non più una pena autonoma, ma l'aumento della pena-base, da
determinarsi per il reato più grave che forma oggetto di accerta
mento nel giudizio ancora in corso.
La corte è, tuttavia, dell'avviso che la profonda modifica
all'istituto della continuazione apportata con la riforma novellisti
ca del 1974, le conclusioni raggiunte dalla più recente giuri
sprudenza delle sezioni unite (in particolare, con la sentenza 26
maggio 1984, Falato, id., 1985, II, 172), nel corso della lenta e
talvolta tormentata elaborazione dei caratteri dei limiti di appli cazione di un istituto cosi radicalmente modificato rispetto a
quello risultante dal testo originario del 2° comma dell'art. 81 c.p. e dalle altre disposizioni disciplinari l'ormai superata figura del
reato continuato, e i contributi, per una più moderna configura zione dell'istituto, provenienti da una larga parte della dottrina
consentano il superamento e l'abbandono dell'uno o dell'altro
indirizzo giurisprudenziale.
Anzitutto, è da ribadire, in linea generale, che, da un lato,
l'eliminazione, dal testo della norma, del riferimento sia alla
pluralità di violazioni della stessa disposizione di legge, anche se
di diversa gravità, sia alla considerazione delle diverse violazioni
come un solo reato e, dall'altro, l'abbandono della espressa
configurazione del regime sanzionatorio previsto per il reato
continuato come derogatorio rispetto a quello dettato per il
concorso materiale di reati e l'individuazione dell'essenza dell'isti
1l Foro Italiano — 1986.
tuto nella pluralità di violazioni della stessa o di diverse disposi zioni di legge, commesse, anche, in tempi diversi, con più azioni
od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, con
sentono di ritenere che l'unico elemento che individua la conti
nuazione e vale a distinguerla dal concorso materiale di reati sia
costituito dall'identità del disegno criminoso, sicché la continua
zione è confìgurabile, sia nella forma omogenea (pluralità di
violazioni della stessa disposizione di legge) sia nella forma
eterogenea (pluralità di violazioni di diverse disposizioni di leg
ge), tutte le volte in cui una pluralità di reati, ancorché puniti con pene di specie diversa, sia commessa da uno stesso soggetto in esecuzione di un identico disegno criminoso.
L'istituto della continuazione — ormai definitivamente svincola
tosi dalle sue origini storiche, che lo fecero emergere come una
escogitazione dei pratici per sottrarre alla pena capitale il colpe
vole del terzo furto — si inquadra nel processo verso una più accentuata umanizzazione della pena che si manifesta nelle mo
derne legislazioni penali e, nella sua attuale configurazione, è
caratterizzato da una pluralità di reati, anche di natura e di
specie e di indole diversa, commessi dallo stesso soggetto: plura lità di reati che differisce dal concorso materiale di reati, sotto il
profilo sostanziale, per la connessione sostanziale tra essi esistente
in funzione del fatto che le azioni o le omissioni che li
costituiscono sono state poste in essere in esecuzione di un
identico disegno criminoso e, sotto l'aspetto del regime sanziona
torio, per l'adozione del sistema del cumulo giuridico nella forma
della pena unica progressiva, invece di quello del cumulo mate
riale delle pene, sia pure limitato, accolto dall'ordinamento vigen te per il concorso materiale di reati.
Il giudice — una volta che accerti che le azioni o le omissioni
commesse da un soggetto, integranti una pluralità di reati costi
tuenti violazione di una stessa o di più violazioni di disposizione di legge, siano esecutive di un identico disegno criminoso — è
tenuto, perciò, a riconoscere l'esistenza della continuazione, e ad
applicare il relativo regime sanzionatorio, in quanto il trattamento
sanzionatorio indubbiamente più mite rispetto a quello stabilito
per il comune concorso materiale di reati — in funzione della
presenza dell'identico disegno criminoso che sorregge la pluralità di reati — è il frutto di una scelta di politica criminale compiuta
dal legislatore, cui il giudice, senza venir meno al suo dovere
funzionale di organo istituzionalmente preposto all'applicazione della legge, non può non adeguarsi, e non già un beneficio
concesso dal giudice agli imputati meritevoli, dovendo considerar
si definitivamente superata — in un sistema penale fondato sul
principio di legalità, costituzionalmente garantito — la figura, oltretutto ripugnante alla coscienza di ogni uomo moderno, del
giudice penale dispensatore di benefici o di premi.
Fatta questa breve premessa di carattere generale e passando all'analisi delle ragioni addotte a giustificazione dell'indirizzo
giurisprudenziale che esclude la configurabilità della continuazio
ne rispetto ai reati commessi dopo il passaggio in giudicato di
una sentenza di condanna, è da osservare — anzitutto — che
l'asserita incompatibilità, sul piano del fondamento razionale e
della funzione dei due istituti, tra continuazione e recidiva appare indimostrata e indimostrabile. La giustificazione razionale dell'isti
tuto della recidiva non può, infatti, essere ricercata nella maggio
re pericolosità del soggetto (la quale sarebbe peraltro ininfluente
ai fini della configurabilità della continuazione, cui sono estranee
considerazioni attinenti alla minore pericolosità sociale del sogget
to, come è univocamente dimostrato dall'ininfluenza del ricono
scimento della continuazione sull'applicazione di eventuali misure
di sicurezza), giacché la recidiva non è disciplinata dall'ordina
mento come una qualificazione giuridica soggettiva a carattere
preventivo, ma come una qualificazione giuridica soggettiva a
carattere repressivo, la quale, perciò non comporta, di per sé,
l'applicazione di una misura di sicurezza, ma, atteggiandosi come
una circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole (v. art. 70, 2° comma, c.p.), determina soltanto un aumento della
pena prevista per il reato, la cui applicazione in concreto, dopo la riforma dell'istituto operata con la novella del 1974, è peraltro rimessa al potere discrezionale del giudice.
L'insensibilità dimostrata dal reo rispetto al motivo inibitorio
derivante dalla precedente sentenza di condanna — che costitui
sce il fondamento razionale della recidiva e giustifica la valuta
zione di maggior gravità del nuovo reato commesso dopo la
sentenza di condanna passata in giudicato e la conseguente
applicabilità di una pena aumentata — non comporta, sul piano
psicologico, alcun rafforzamento della deliberazione criminosa,
peraltro non solo non incompatibile, ma del tutto conciliabile con
il permanere dell'identico disegno criminoso anche dopo la pro
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PARTE SECONDA
nuncia della sentenza irrevocabile di condanna per i reati prece dentemente commessi. Nel caso di reato commesso in esecuzione
di un identico disegno criminoso dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per un reato precedentemente com
messo, il riconoscimento della recidiva e la conseguente applica zione dell'aumento della pena prevista per il reato successivamen te commesso non sono quindi di ostacolo, sempre che si accerti il
permanere dell'identico disegno criminoso, al contestuale ricono
scimento della continuazione, operando i due istituti in ambiti
diversi e tra loro non incompatibili: quello della recidiva soltanto
rispetto ai reati commessi dal colpevole dopo una sentenza
irrevocabile di condanna; quello della continuazione riguardo a
un complesso, omogeneo od eterogeneo, di reati commessi dallo
stesso soggetto in esecuzione di un identico disegno criminoso.
I due istituti sono perciò perfettamente compatibili sul piano razionale e funzionale. Ma, pur se qualche dubbio potesse sussi
stere sulla loro compatibilità, esso non potrebbe non essere
superato dall'interprete — posto di fronte alla coesistenza formale
di due norme sostanzialmente antitetiche comprese nello stesso
sistema — se non nel senso di restituire coerenza all'ordinamen
to, al fine di recuperarne, se non la validità, il valore supremo di
giustizia, dando la prevalenza alla disciplina della continuazione,
che attinge la sua giustificazione razionale nell'esistenza di un
programma criminoso ideato prima dell'intervento della condanna
irrevocabile costituente il presupposto della recidiva. Ciò anche in
armonia con le univoche linee di tendenza della legislazione
penale degli ultimi decenni, la quale, mentre ha accordato all'isti
tuto della continuazione un'estensione di applicazione cosi ampia
che non ha riscontro nei precedenti storici dell'istituto, ha cir
coscritto il campo di applicazione della recidiva, affidando al
potere discrezionale del giudice non solo la determinazione in
concreto dell'aumento della pena nell'ambito del limite legale, ma
anche l'applicazione stessa dell'aumento.
Né è esatto che il regime sanzionatorio della recidiva presup
porrebbe il sistema del cumulo materiale delle pene. L'art. 99 c.p., nel consentire un aumento della pena irrogata
all'autore di un reato da questo commesso dopo essere stato già condannato con sentenza irrevocabile per un precedente reato, non regola affatto un'ipotesi di concorso materiale dei reati, ma
disciplina soltanto gli effetti (eventuali) sulla misura della pena da infliggere per il reato commesso dal recidivo, adeguandoli —
come si è precedentemente rilevato — a quelli di una circostanza
aggravante, riferita non già al complesso dei reati commessi da
uno stesso soggetto, e quindi a una pluralità di reati in concorso
materiale, ma esclusivamente a quel reato o a quei reati commes
si dallo stesso soggetto dopo essere stato irrevocabilmente con
dannato per un altro o per altri reati commessi in precedenza. D'altra parte, l'assoluta compatibilità della disciplina sanzionatoria
dell'istituto della recidiva con il sistema del cumulo giuridico delle pene nella forma della pena unica progressiva adottato
dall'ordinamento vigente per la continuazione trova una perento ria e indiscutibile conferma, sul piano storico, nella disciplina del
sistema sanzionatorio del concorso materiale di reati adottato dal
codice penale del 1889, la quale, come è noto, era informata, al
pari di quella attualmente prevista per la continuazione, al
sistema del cumulo giuridico delle pene nella forma della pena unica progressiva.
L'art. 76, 2° comma, di quel codice prevedeva, infatti, l'appli cazione delle norme generali sul concorso di reati o di pene anche nel caso di un reato commesso dopo la condanna ad una
pena temporanea restrittiva della libertà personale e prima che
essa fosse scontata o mentre si scontava, disponendo aumenti di
pena in misure maggiori di quelle previste per il concorso di
reati commessi prima del passaggio in giudicato di una sentenza
di condanna per alcuno di essi e l'applicazione per intero della
pena per il nuovo reato se la pena fosse stata scontata o la
condanna si fosse estinta prima che la nuova condanna fosse
eseguibile.
Come si legge nella relazione al re (n. XLI1), « nella ipotesi considerata, se manca un vero concorso di reati, si ha un
effettivo concorso di pene, di guisa che si riteneva che, pur mantenendosi al fatto della recidiva il proprio peso sulla respon sabilità del delinquente, non fosse giusto costringere questi a
scontare la pena precedente e la pena aggravata per la recidiva
secondo il criterio del cumulo materiale. Si accolse, perciò, anche
per questo caso, il sistema del cumulo giuridico, anche se in
forma più aggravata, come richiedevano la maggior gravità di
questo secondo caso, la maggior pervicacia del colpevole, cui
Il Foro Italiano — 1986.
riuscirono inefficaci le sanzioni della legge, e l'azione (parziale) della condanna e della pena ».
In contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale finora seguito da
questo Supremo collegio, deve ritenersi perciò che l'istituto della
continuazione, quale risulta dalla disciplina vigente, non sia
incompatibile con l'istituto della recidiva e che, conseguentemen te, la continuazione sia configurabile, sempre che le relative
azioni od omissioni siano state poste in essere in esecuzione di un identico disegno criminoso, anche rispetto ai reati commessi
dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per altro o altri reati precedentemente commessi.
Le conclusioni raggiunte giustificano l'annullamento della sen
tenza impugnata nel punto in cui, in conformità all'indirizzo giuri sprudenziale che la corte ritiene di abbandonare, è stata esclusa — in astratto — la configurabilità della continuazione tra il reato
di illecita detenzione di modica quantità di eroina commesso dal
Bricco il 1° febbraio 1984 e il reato continuato giudicato con la
sentenza del Tribunale di Pinerolo divenuta irrevocabile il 14
gennaio 1984. L'annullamento deve essere disposto con rinvio, dovendo un altro giudice di merito, di grado pari a quello del
giudice che ha pronunciato la sentenza annullata, accertare se le
condotte poste in essere dal Bricco possano considerarsi esecutive
di un identico disegno criminoso, compiendo cosi quella indagine di fatto sulla sussistenza o meno di un identico disegno criminoso
in esecuzione del quale il ricorrente ha commesso tutti i reati
suindicati, che i precedenti giudici di merito, per la ragione già
esposta, hanno omesso di svolgere.
La peculiarità, già posta in evidenza, della fattispecie impone
però il riesame anche del secondo indirizzo giurisprudenziale
sopra menzionato.
Oltre a richiamare in parte le considerazioni già esposte sulla
nuova disciplina della continuazione e sull'esigenza di comporre in termini di giustizia il contrasto tra norme antitetiche coesisten
ti nello stesso ordinamento (con riferimento al problema in
esame, quella sulla continuazione e quella sulla intangibilità del
giudicato), è da osservare che, come è stato dimostrato in
dottrina, il dogma dell'intangibilità del giudicato penale di con
danna per quanto attiene alla pena non è cosi assoluto come
comunemente si ritiene, esistendo nel vigente sistema processuale
penale alcune norme che dimostrano come, in determinati casi, il
giudicato penale possa essere modificato, nel punto concernente la
pena, anche in sede di esecuzione.
Oltre a quelle contenute nell'art. 579 c.p.p., per disciplinare il
caso della pluralità di condanne per il medesimo fatto contro la
stessa persona, assume particolare rilievo, ai fini della soluzione
del problema in esame, la norma dettata dall'art. 80 c.p. in tema
di concorso di reati, secondo cui le norme disciplinanti il
concorso materiale di reati ed i limiti del cumulo delle pene trovano applicazione — sia in sede di cognizione, sia in sede di
esecuzione (art. 582 c.p.p.) — anche nel caso in cui la pluralità
delle pene derivi da una pluralità di giudizi. Da tale norma si
desume che il giudicato formato in relazione ad una serie di reati
commessi dallo stesso soggetto non resti intangibile quando, nei
confronti di costui, debba essere pronunziata un'altra sentenza di
condanna, la quale importi il superamento dei limiti posti al
cumulo delle pene dagli art. 71 ss. c.p.
Sul piano storico, è poi da ricordare che l'art. 76, 1° comma,
c.p. del 1889 applicava il sistema del cumulo giuridico, con la
stessa disciplina dettata per il comune concorso materiale di reati, anche nel caso in cui, dopo una sentenza di condanna irrevocabi
le, si fosse dovuta giudicare la stessa persona per un altro reato
commesso prima della condanna.
È vero che, sia nel caso previsto dall'art. 80 c.p. vigente, sia in
quello contemplato dal 1° comma dell'art. 76 del codice abrogato, il giudice chiamato a giudicare per ultimo, nel primo caso, deve
limitarsi a ridurre le pene precedentemente inflitte, con un
computo aritmetico operato in conformità ai criteri fissati dagli
art. 71 ss. dello stesso codice, fino a raggiungere quella misura complessiva tale da consentire, tenendo conto della pena da infliggere nel nuovo procedimento, i limiti fissati dalla legge, e, nel secondo caso, doveva applicare sulla pena che riteneva di
dovere irrogare per il reato più grave da lui giudicato l'aumento
previsto in misura fissa secondo il sistema del cumulo giuridico nella forma della pena unica progressiva accolto da quel codice,
mentre, per potere applicare il regime sanzionatorio previsto per la continuazione, nel caso in cui il reato già giudicato con
sentenza irrevocabile sia meno grave di quello ancora da giudica re, il giudice che accerta la continuazione tra i due reati, secondo il sistema sanzionatorio previsto dall'art. 81 c.p., ha il potere
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GIURISPRUDENZA PENALE
discrezionale di determinare la misura dell'aumento da apportare alla pena-base che ritiene di irrogare per il reato più grave, modificando la misura della pena inflitta con la sentenza irrevo
cabile non già mediante una operazione meramente aritmetica, ma attraverso una nuova valutazione dell'entità del fatto e della
personalità del suo autore in base ai parametri fissati dall'art. 133
c.p. che si rende necessaria per la normale determinazione
dell'aumento di pena corrispondente al reato già irrevocabilmente
giudicato, al quale, una volta riconosciuta la continuazione tra lo
stesso e il reato più grave ancora da giudicare, va riservato il
ruolo di c.d. reato-satellite.
Si tratta però di una conseguenza necessaria del diverso siste
ma sanzionatorio adottato dall'ordinamento nei primi due casi e
nell'ultimo caso; ma quel che conta, ai fini della soluzione del
problema in esame, è che in tutti i casi si tratta di modificare un
giudicato di condanna nel punto concernente la misura della
pena.
Un'esigenza di coerenza del sistema impone perciò che sia
consentito al giudice che giudichi il reato più grave, legato al
vincolo della continuazione ad un altro meno grave già irrevoca
bilmente giudicato, di applicare il regime sanzionatorio proprio della continuazione, modificando, nei modi e nei limiti in cui sia
necessario per una piena applicazione di esso, la pena irrogata con la precedente sentenza divenuta irrevocabile. A tale esigenza
di coerenza si aggiunge anche un'esigenza di giustizia sostanziale,
alla quale il giudice può mostrarsi insensibile nell'interpretare la
legge, giacché — come l'esperienza dimostra — spesso il formarsi
del giudicato sul reato meno grave è una conseguenza, certamente
non prevista né voluta, delle numerose deroghe apportate dalla
legislazione degli ultimi anni alla regola del simultaneus processus
per tutti i reati connessi commessi dallo stesso soggetto o deriva
dall'impossibilità pratica di farli confluire tutti nello stesso proce
dimento.
Conseguentemente, deve ritenersi che la continuazione possa
essere riconosciuta dal giudice che procede all'accertamento del
reato più grave rispetto a un reato meno grave già giudicato con
sentenza irrevocabile. In tale ipotesi, il giudice — dopo avere
accertato il reato sottoposto al suo giudizio, e la esistenza del
nesso sostanziale tra tale reato e quello meno grave già irrevoca
bilmente giudicato consistente nel fatto di essere state le relative
condotte realizzate in esecuzione di un identico disegno criminoso
— determinerà, secondo i criteri fissati dall'art. 133 c.p., la
pena-base per il reato più grave e applicherà su tale pena
l'aumento per la continuazione, nel quale resterà assorbita la
pena già irrogata per il reato meno grave con la precedente sentenza passata in giudicato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 5 luglio
1985; Pres. Molinari, Est. Valente, P.M. Lombardi (conci,
conf.); ric. P.m. c. Renna. Conferma Trib. Torino 19 ottobre
1982.
Pubblica sicurezza — Auto con vetri oscurati — Reato configu rabile (D.p.r. 15 giugno 1959 n. 393, t.u. delle norme sulla
circolazione stradale, art. 48, 78; d.p.r. 30 giugno 1959 n. 420,
regolamento per l'esecuzione del t.u. delle norme sulla circola
zione stradale, art. 293; 1. 22 maggio 1975 n. 152, disposizioni a
tutela dell'ordine pubblico, art. 5; 1. 8 agosto 1977 n. 533,
disposizioni in materia di ordine pubblico, art. 2).
Essendo il divieto penalmente sanzionato dall'art. 5 l. n. 152/75,
cosi come modificato dall'art. 2 l. n. 533/77, sempre ed
esclusivamente riferibile all'uso di caschi protettivi o di qualun
que altro mezzo atto a travisare o a mascherare la persona
fisica, rendendone difficoltoso il riconoscimento, l'applicazione di pellicole oscuranti ai vetri laterali e a quello posteriore di
una automobile non integra la fattispecie di reato suindicata
(bensì, in ipotesi, il reato contravvenzionale di cui all'art. 78 cod.
strad., in relazione all'art. 48 stesso codice e all'art. 293 del rela
tivo regolamento di attuazione). (1)
(1) L'orientamento manifestato nella sentenza in epigrafe risulta
innovativo rispetto ai rari precedenti specifici in materia: nel senso
che l'applicazione di pellicole oscuranti ai vetri di un'automobile
integri gli estremi della disposizione di cui all'art. 5 della c.d. legge
Il Foro Italiano — 1986 — Parte II- 25.
Il giorno 7 gennaio 1982, Renna Pasqualina era sorpresa, da
agenti della polizia di Stato, alla guida dell'auto di proprietà del
marito, avente i vetri laterali e quello posteriore parzialmente oscurati da pellicola autoadesiva.
La Renna, tratta a giudizio dinanzi al Pretore di Torino, per rispondere della contravvenzione di cui all'art. 5 1. 22 maggio 1975 n. 152, come modificato dall'art. 2 1. 8 agosto 1977 n. 533, con sentenza in data 1° aprile 1982 (Foro it., Rep. 1982, voce Pubblica sicurezza, n. 19) era riconosciuta responsabile di tale reato e condannata ad equa pena.
Su appello dell'imputata, il Tribunale di Torino, con sentenza del 19 ottobre 1982, ritenuto che il fatto rientrasse nella previsio ne normativa dell'indicato art. 5, assolveva la Renna perché il fatto non costituisce reato, sul rilievo che esso doveva ritenersi
giustificato. Ricorre per cassazione il procuratore generale presso quella
corte d'appello, il quale denunciava vizio di motivazione e violazione dell'art. 5 1. n. 152/75, in quanto il giudice di appello aveva omesso di indicare, in modo specifico, la ragione giustifica trice del comportamento dell'imputata.
Il ricorso va rigettato, giacché l'impugnata decisione, seppure per una motivazione diversa da quella addotta che va corretta a norma dell'art. 538 c.p.p., non merita censura.
Il chiaro ed inequivocabile dettato letterale della norma, oltre ché la ratio che la informa, inducono ad affermare che il divieto
penalmente sanzionato dall'art. 5 1. n. 152/75, pur nel testo novellato dall'art. 2 1. n. 533/77, riguardi unicamente l'uso di caschi protettivi o di qualsiasi altro mezzo idoneo a travisare od a mascherare la persona umana, in modo di impedire o rendere difficoltoso il suo riconoscimento.
Il divieto sancito dalla norma è sempre ed esclusivamente
riferibile al mascheramento, travisamento o travestimento della
persona fisica e, di conseguenza, l'ambito di applicazione della
norma stessa è limitato alle singole ipotesi in cui l'individuo
compaia in luogo pubblico, od aperto al pubblico, in condizioni
atte a dissimulare od a nascondere la propria persona nei suoi
caratteri esteriori percepibili, sia occultando i dati somatici del
viso con caschi ed altri mezzi idonei, sia usando di tali mezzi per travisare od alterare caratteristiche fisiche.
In tali sensi, infatti, è da intendersi il significato della modifica
dell'originario testo della norma apportata dal richiamato art. 2 1.
del 1977, nel punto in cui è stato eliminato il riferimento alla
sola « copertura del volto ».
Ne consegue che il divieto della norma — da contenere
nell'alveo ricompreso tra il dettato letterale e la ratio legis —
non può essere esteso fino a comprendere la situazione fattuale
accertata dai giudici di merito, posto che, in essa, difetta l'ele
mento qualificante delle ipotesi in esso previsto e, cioè, l'uso del
mezzo vietato sulla persona dell'agente. Esatta è, dunque, sotto
tale profilo, l'adozione della formula assolutoria ritenuta nella
sentenza impugnata, dovendosi, nella specie, escludere quella più
ampia « perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato »,
in quanto l'applicazione della pellicola oscurante sui vetri degli autoveicoli può, in ipotesi, integrare il reato contravvenzionale di
cui all'art. 78 cod. strad., in relazione all'art. 48 stesso codice e
293 del regolamento di attuazione dello stesso.
Reale, qualora il riconoscimento delle persone a bordo del veicolo
risulti difficoltoso, v. la decisione di primo grado Pret. Torino 1"
aprile 1982, Foro it., Rep. 1982, voce Pubblica sicurezza, n. 19; nel
senso che l'art. 5 cit. non è applicabile qualora sia possibile l'iden
tificazione degli occupanti dell'autovettura, Pret. Terni 11 maggio 1983,
id., Rep. 1984, voce cit., n. 14. La disposizione di cui all'art. 78 cod. strad. è stata generalmente
applicata in caso di violazione delle previsioni normative dettate per il
trasporto di materiale infiammabile o comunque pericoloso: v. Cass.
20 novembre 1981, Lo Iacono, id., Rep. 1983, voce Circolazione
stradale, n. 39; 19 aprile 1978, Forlini, id., Rep. 1978, voce
cit., n. 297; 10 novembre 1975, Spinoglio, id., Rep. 1976, voce
cit., n. 343; 12 giugno 1975, Fumerò, ibid., n. 344; 13 maggio
1975, Zulli, ibid., n. 350. In dottrina, per un commento alla legge
Reale, v. Vigna e Bellagamba, La legge sull'ordine pubblico, Milano,
1975; nonché, anche in una prospettiva critica, Bricola, Politica
criminale e politica dell'ordine pubblico \(a proposito della l. 22
maggio 1975 n. 152), in Questione criminale, 1975, 271 ss.; Ferrajoli, Ordine pubblico e legislazione eccezionale, id., 1977, 362; Fiore, Ordine pubblico (dir. pen.), voce dell 'Enciclopedia del diritto, Milano,
1980, XXX, 1099.
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