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sezione lavoro; sentenza 13 luglio 1995 n. 7674, Pres. Lanni, Est. Toriello, P.M. Tondi (concl....

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Page 1: sezione lavoro; sentenza 13 luglio 1995 n. 7674, Pres. Lanni, Est. Toriello, P.M. Tondi (concl. conf.); Ferrante (Avv. De Notariis) c. Inps (Avv. Zicavo, Ausenda, Gigante, Palmieri).

sezione lavoro; sentenza 13 luglio 1995 n. 7674, Pres. Lanni, Est. Toriello, P.M. Tondi (concl.conf.); Ferrante (Avv. De Notariis) c. Inps (Avv. Zicavo, Ausenda, Gigante, Palmieri). CassaTrib. Larino 4 dicembre 1991Source: Il Foro Italiano, Vol. 118, No. 11 (NOVEMBRE 1995), pp. 3155/3156-3159/3160Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23190391 .

Accessed: 28/06/2014 18:51

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3155 PARTE PRIMA 3156

capitale dell'ulteriore rendita spettante», cui si riferisce l'art.

75 dello stesso t.u. nel prevedere la possibilità della sua capita lizzazione mediante la corresponsione, ad estinzione di ogni di

ritto, di una somma pari appunto a tale valore capitale, da de

terminare anche questo in base alle anzidette tabelle, e fermi

restando i ratei già versati.

Diverso sarebbe se ricorresse una ipotesi (non di esonero del

datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni subiti

dal lavoratore infortunato ma) di regresso o di surroga dell'I

nail: allora l'istituto avrebbe diritto al rimborso delle prestazio ni eseguite in favore dell'infortunato, corrispondenti alle passi vità patrimoniali effettivamente subite sia per il pagamento dei

ratei di rendita già versati che per lo stanziamento della somma

capitale produttiva della rendita dovuta per il futuro (da ulti

mo, Cass. 25 febbraio 1992, n. 2325, id., Rep. 1992, voce cit., n. 169 e 24 ottobre 1991, n. 11296, id., Rep. 1991, voce cit., n. 172).

Quanto sopra, peraltro, vale solo limitatamente al minor im

porto, pressoché irrisorio e comunque di modesta entità, di lire

390.000, rappresentativo del danno differenziale, dal momento

che per il maggior importo di lire 70.000.000, rappresentativo del danno biologico e del danno morale, trattasi di somma co

munque dovuta, che per quanto sopra detto il lavoratore infor

tunato può richiedere, autonomamente e non a titolo differen

ziale, al proprio datore di lavoro, indipendentemente dalla enti

tà della prestazione previdenziale dell'Inail.

Con il secondo motivo, riconducibile all'art. 360, n. 5, c.p.c., e subordinatamente formulato «per l'ipotesi che la corte doves

se ritenere infondato il primo» — sicché, a questo punto, esso

va esaminato —, il ricorrente denuncia «contraddittorietà della

motivazione» e deduce che la rivalutazione dell'importo di lire

70.000.000 «sancita in sede di dispositivo dal 1° novembre 1986»

è «in aperta contraddizione con quanto in precedenza afferma

to circa la valutazione in moneta attuale del danno biologico e del danno morale», aggiungendo che «al massimo, poiché i

giudici di secondo grado hanno dato espressamente atto . . .

che le componenti non patrimoniali del danno erano state stabi

lite in via equitativa dal pretore già rivalutate alla data della

decisione, l'ulteriore rivalutazione potrà essere riconosciuta sol

tanto dal 6 novembre 1990 (data della sentenza di primo grado)». Il motivo è fondato. E va posto in rilievo come lo stesso

resistente riconosca che «nella parte motiva [della sentenza im

pugnata] si indica che lire 70.000.000 sono espressi in termini

attuariali e lire 390.000 al 31 dicembre 1985», e si dichiari per ciò remissivo «circa la decorrenza della rivalutazione dell'im

porto di lire 70.000.000 dal 6 novembre 1990».

Il tribunale, dopo aver dato atto che il primo giudice aveva

determinato il danno del Gratton «in complessive lire

232.000.000, di cui 119.000.000 a titolo di invalità temporanea e permanente, da rivalutare con decorrenza 1° gennaio 1986, e 113.000.000 per le altre componenti, già rivalutate alla data

(6 novembre 1990) della decisione», e dopo aver proceduto, per dette altre componenti, vale a dire per il danno biologico e per il danno morale, a nuova valutazione e liquidazione, riducendo ne il quantum a complessive lire 70.000.000 «con valutazione

monetaria attuale», ha statuito invece nel dispositivo (cronolo

gicamente anteriore, com'è noto, alla motivazione) che l'intera

somma di lire 70.390.000 — comprensiva del danno «differen

ziale», pari, come sopra si è detto, a lire 390.000 — dev'essere

rivalutata con decorrenza 1° gennaio 1986: secondo gli indici Istat fino al 31 dicembre 1990, ed in altra misura (11% annuo,

pari al reddito netto degli investimenti in titoli di Stato) dal

1° gennaio 1991 al saldo.

Sussiste dunque il denunciato vizio, perché delle due l'una:

o davvero i 70 milioni sono l'espressione monetaria attuale del

danno biologico e morale (e un ulteriore problema è capire se l'attualità è riferita alla data della sentenza di primo o di secon

do grado), e allora l'attuale rivalutazione non può che decorre

re dal 6 novembre 1990 (data della sentenza di primo grado) o dall'8 gennaio 1992 (data della sentenza di secondo grado); o la rivalutazione deve effettivamente decorrere anche per i 70

milioni (come per le altre 390 mila lire) dal 1° gennaio 1986, e allora essi non sono l'espressione monetaria «attuale» — ben

sì alla data del 31 dicembre 1985 — del danno biologico e mo

rale. Sul punto, insomma, la decisione impugnata è oscura e

insanabilmente contraddittoria.

Occorre a questo punto ricordare che nel rito del lavoro il

Il Foro Italiano — 1995.

dispositivo della sentenza, che viene letto in udienza ed è utiliz

zabile come autonomo titolo esecutivo, è atto dotato di rilevan

za esterna, che fissa irretrattabilmente, portandolo a conoscen

za delle parti, il contenuto della decisione, con la conseguente

inapplicabilità sia del principio della interpretazione e della in

tegrazione del dispositivo alla luce del tenore della motivazione, che del procedimento di correzione degli errori materiali ex art.

287 e 288 c.p.c., sicché il contrasto tra l'uno e l'altra comporta la nullità della sentenza a norma dell'art. 156, 2° comma, c.p.c., che si converte in motivo di impugnazione ai sensi dell'art. 161, 1° comma, stesso codice (e che in difetto d'impugnazione de

v'essere risolto dandosi prevalenza al dispositivo, secondo il prin

cipio della intangibilità di questo atto che, acquistando pubbli cità con la lettura fattane in udienza, cristallizza stabilmente

la statuizione emanata) (Cass. 27 gennaio 1993, n. 979, id., Rep.

1993, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 138; 22 giu

gno 1992, n. 7605, ibid., n. 139, e 18 marzo 1992, n. 3362,

id., Rep. 1992, voce cit., n. 152). Trattasi di errore, infatti, che «può essere eliminato solo mediante un nuovo giudizio, in

staurato a seguito di impugnazione, e non già adottando una

motivazione che sia contraria al dispositivo», giacché «quando si adotta questa seconda soluzione . . . tale contraddittorietà por ta inevitabilmente all'annullamento della sentenza» (Cass.

7605/92, cit., in motivazione). In conclusione, il ricorso dell'Attala dev'essere rigettato quanto

al primo motivo, e accolto quanto al secondo, con conseguente cassazione parziale della decisione impugnata e rinvio della cau

sa per nuovo esame, in relazione al motivo accolto, ad altro

giudice di appello che si designa come dispositivo.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 13 luglio 1995 n. 7674, Pres. Lanni, Est. Toriello, P.M. Tondi (conci,

conf.); Ferrante (Avv. De Notarhs) c. Inps (Avv. Zicavo,

Ausenda, Gigante, Palmieri). Cassa Trib. Larino 4 dicem

bre 1991.

Previdenza e assistenza sociale — Pensione di vecchiaia — Pro

secuzione dell'attività lavorativa oltre la soglia d'età pensio nabile — Decorrenza (L. 23 aprile 1981 n. 155, adeguamento delle strutture e delle procedure per la liquidazione urgente delle pensioni e per i trattamenti di disoccupazione e misure

urgenti in materia previdenziale e pensionistica, art. 6; d.l.

22 dicembre 1981 n. 791, disposizioni in materia previdenzia le, art. 6; 1. 26 febbraio 1982 n. 54, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 22 dicembre 1981 n. 791).

Il mancato esercizio dell'opzione per il mantenimento in servi

zio oltre la soglia pensionabile con comunicazione del lavora

tore che deve pervenire alla conoscenza del datore di lavoro

almeno sei mesi prima del compimento dell'età pensionabile, anche quando il rapporto di lavoro sia di fatto proseguito,

comporta la decorrenza della pensione di vecchiaia dal giorno successivo a quello di cessazione dell'attività lavorativa prose

guita oltre il limite dell'età (la Suprema corte ha ritenuto inap

plicabile alla fattispecie la previsione dell'art. 6 d.l. n. 791 del 1981 come sostituito dalla l. n. 54 del 1982, secondo cui in ipotesi di prosecuzione dell'attività lavorativa per esercizio

dell'opzione la pensione decorre dal primo giorno del mese

successivo a quello di presentazione della domanda ammini

strativa). (1)

(1) Sulla natura pubblicistica e previdenziale dell'art. 6 d.l. n. 791 del 1981, come sostituito dalla 1. n. 54 del 1982, v. Cass. 13 gennaio 1994, n. 315, Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 505, e Riv. it. dir. lav., 1994, II, 547, con nota di Franco, secondo cui la norma è inderogabile dall'autonomia negoziale sia individuale che col

lettiva, tanto da doversi ritenere nulla la clausola del contratto collettivo

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Svolgimento del processo. — Michele Ferrante propone ri

corso per la cassazione della sentenza 4 novembre 1991 del Tri

bunale di Larino, confermativa di quella con la quale il pretore del luogo aveva rigettato la sua domanda tendente a ottenere

la pensione di vecchiaia non già — come liquidata dall'Inps — con decorrenza 1° novembre 1986, primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda amministra

tiva, bensì' dal 1° maggio 1986, giorno successivo a quello in

cui egli aveva cessato l'attività lavorativa, volontariamente pro

seguita nonostante il possesso (dal 1° febbraio 1986) dei neces

sari requisiti di età e di anzianità assicurativa e contributiva.

Il tribunale ha motivato il rigetto del gravame del Ferrante osservando che il caso è interamente disciplinato dall'art. 6 1.

26 febbraio 1982 n. 54, che per i lavoratori optanti per la prose cuzione dell'attività lavorativa oltre l'età pensionabile individua

la data di decorrenza della pensione di vecchiaia appunto nel

primo giorno del mese successivo a quello di presentazione del

la domanda. Questa non essendo stata dal Ferrante presentata immediatamente, egli subisce «le coseguenze dell'inadempimen to dell'onere (legale) relativo». Né rileva che la prosecuzione dell'attività lavorativa fosse avvenuta, senza cioè la comunica

zione al datore di lavoro prevista dallo stesso art. 6, cit., giac ché tal'altro onere «opera unicamente nel rapporto tra il lavo

ratore e il datore di lavoro». Il ricorso del Ferrante è affidato a due motivi. L'istituto inti

mato si è limitato a depositare la procura. Motivi della decisione. — Coi due motivi, entrambi ricondu

cibili all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., vien fatta denuncia di viola

zione e falsa applicazione dell'art. 6 1. 26 febbraio 1982 n. 54

e dell'art. 6 1. 23 aprile 1981 n. 155, oltre che di «falso presup posto» e di «omesso esame e omessa pronunzia», e la decisione

impugnata è censurata sostenendosi:

che «ogni riferimento alla 1. n. 54 è erroneo e fuorviante», in quanto «da un lato il ricorrente alla data del 1° febbraio

1986 aveva maturato appieno i requisiti per la pensione di vec

chiaia (età e contributi), dall'altro non aveva presentato alcuna domanda di opzione al datore di lavoro», sicché nel caso in

esame «non ricorrono per nulla i requisiti sostanziali e formali

del citato art. 6» della stessa legge; che la fattispecie deve essere viceversa esaminata e risolta esclu

sivamente in base all'art. 6 1. n. 155, «che disciplina ex professo la decorrenza della pensione di vecchiaia», ancorandola alla coe sistenza di entrambi i requisiti minimi (60 anni di età, 15 anni di età, 15 anni di anzianità assicurativa), per cui la pensione decorre dal primo giorno del mese successivo «alla contestuale

esistenza dei due requisiti suddetti», salvo che «su richiesta del

l'interessato» essa non debba decorrere invece da un diverso

successivo momento; nella specie, già alla data del 1° febbraio 1986 nella quale il ricorrente compi i sessant'anni, quei requisiti minimi coesistevano entrambi, né vi fu richiesta alcuna di diffe

rimento, e pertanto il diritto alla pensione di vecchiaia è matu

rato alla stessa data, anche se, l'attività lavorativa essendo pro

seguita fino al 30 aprile 1986, «per il divieto di cumulo (la pen

sione) deve decorrere dal 1° maggio 1986». Il ricorso è fondato. E i due motivi nei quali esso si articola

devono essere esaminati congiuntamente, stante l'intima loro

connessione e interdipendenza. Il prospettato dubbio circa l'applicabilità, nella specie, del

l'art. 6 1. 23 aprile 1981 n. 155, o dell'art. 6 d.l. 22 dicembre

1981 n. 791 come sostituito dalla legge di conversione 26 feb braio 1982 n. 54, non può che essere risolto alla stregua del

principio stabilito dall'art. 14 disp. sulla legge in generale, il

che prevede !a validità dell'opzione inviata ma non anche ricevuta al

meno sei mesi prima del compimento dell'età pensionabile, in violazio ne della previsione normativa che considera l'atto di natura ricettizia

e dunque valido ed efficace solo se ricevuto entro quel termine.

Analogamente, per l'inderogabilità delle norme che prevedono la ne cessità del preavviso per il collocamento a riposo nel settore privatisti co, a differenza di quanto accade nel pubblico impiego, e la nullità

della clausola di contratto collettivo secondo cui la cessazione del rap

porto avverrebbe automaticamente al raggiungimento dell'età pensiona bile, cfr. Cass. 25 luglio 1994, n. 6901, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 1540.

Per ulteriori riferimenti, cfr. Corte cost. 8 giugno 1994, n. 225, id.,

1994, I, 2022, con nota di G. Amoroso, che ha ritenuto l'applicabilità dell'art. 6, cit., al rapporto di lavoro dei dirigenti.

Il Foro Italiano — 1995.

quale dispone che «le leggi penali e quelle che fanno eccezione

a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi

e i tempi in esse considerati».

In materia di decorrenza della pensione di vecchiaia, la rego la generale è certamente quella dettata dalla prima delle due

suindicate norme, vale a dire dall'art. 6 1. n. 155 del 1981, che

(innovando rispetto al previgente art. 18 d.p.r. 27 aprile 1968

n. 488, che la faceva decorrere dal primo giorno del mese suc

cessivo alla presentazione della domanda) stabilisce al 1° com

ma che essa decorre «dal primo giorno del mese successivo a

quello nel quale l'assicurato ha compiuto l'età pensionabile, ov

vero, nel caso in cui a tale data non risultino soddisfatti i requi siti di anzianità assicurativa e contributiva, dal primo giorno del mese successivo a quello in cui i requisiti suddetti vengono

raggiunti» (prevedendo poi al 2° comma che «su richiesta del

l'interessato» essa decorre invece «dal primo giorno del mese

successivo a quello nel quale è stata presentata la domanda,

sempre che tale decorrenza sia stata indicata contestualmente alla presentazione della domanda stessa», con ciò consentendo

all'interessato di scegliere un diverso e successivo momento, più conveniente in relazione ai valori contributivi della sua posizio ne assicurativa).

L'altra — posteriore — norma, vale a dire l'art. 6 1. n. 54

del 1982, altrettanto certamente fa eccezione alla prima, e al l'anzidetta regola nella stessa contenuta, stabilendo al 5° com

ma (che la Corte costituzionale, con sentenza 11 febbraio 1988, n. 156, Foro it., Rep. 1988, voce Previdenza sociale, nn. 901-903, ha giudicato legittimo con riferimento agli art. 3 e 38 Cost.)

che, «qualora i lavoratori abbiano esercitato l'opzione di cui

ai commi precedenti, la pensione di vecchiaia decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale è stata presentata la domanda». È il caso di precisare che si tratta dell'opzione «di continuare a prestare la loro opera» cui i lavoratori «i quali non abbiano raggiunto l'anzianità contributiva massima utile

prevista dai singoli ordinamenti» sono facultati «fino al perfe zionamento di tale requisito o per incrementare la propria an zianità contributiva e comunque non oltre il compimento del

sessantacinquesimo anno di età» e «sempreché non abbiano ot

tenuto o non richiedano la liquidazione di una pensione a cari

co dell'Inps o di trattamenti sostitutivi, esclusivi od esonerativi

dell'assicurazione generale obbligatoria». Perché possa trovare

applicazione questa seconda norma eccezionale (è la rubrica del l'art. 14 cit. a definire leggi eccezionali quelle «che fanno ecce

zione...», ecc.), è dunque necessario che vi sia stato «esercizio

dell'opzione». Il quale esercizio, a norma del 2° comma dello

stesso art. 6, cit., «deve essere comunicato al datore di lavoro

almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto

alla pensione di vecchiaia». In proposito, questa corte ha avuto modo di precisare: a) che l'opzione si configura come un diritto

potestativo del lavoratore; ti) che esso si esercita mediante una

dichiarazione di volontà avente carattere recettizio; c) che il ter

mine entro il quale dev'essere fatta la prescritta comunicazione

al datore di lavoro è stabilito a pena di decadenza; d) che il

dies a quo di tale perentorio termine coincide con la data di

compimento dell'età pensionabile, quando si consegue automa

ticamente il diritto alla pensione di vecchiaia, concettualmente

distinto dal diritto al concreto conseguimento della prestazione

assicurativa, legato anche alla sussistenza dei requisiti di anzia

nità assicurativa e contributiva (Cass. 13 gennaio 1994, n. 315,

id., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 505; 4 febbraio 1993, n. 1380, id., Rep. 1993, voce cit., n. 517; 2 luglio 1992, n.

8112, id., Rep. 1992, voce cit., n. 1537; 30 maggio 1989, n.

2613, id., Rep. 1989, voce cit., n. 500). Nella specie, è fuori contestazione che nessun esercizio di op

zione fu nell'anzidetto termine comunicato al datore di lavoro

da parte del Ferrante, il quale nega anzi, in questa sede, che ricorressero «i requisiti sostanziali e formali» all'uopo occor

renti. Il Tribunale di Larino ha però ritenuto — se n'è fatto

già cenno in narrativa — che «non ha alcun rilievo che la pro trazione della prestazione sia avvenuta in fatto, cioè senza che

il datore di lavoro ne avesse preavviso ex art. 6 cit., poiché tale onere di comunicazione opera unicamente nel rapporto tra il lavoratore e il datore di lavoro ed è finalizzato a consentire

la prosecuzione di un rapporto che, secondo la regola, dovreb

be cessare».

L'assunto non può essere condiviso, proprio perché altrimen

ti si finirebbe con l'applicare la norma eccezionale dell'art. 6,

cit., oltre l'unico caso in essa considerato: quello dei lavoratori

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3159 PARTE PRIMA 3160

«che abbiano esercitato l'opzione di cui ai commi precedenti»;

rispetto al quale, il caso in questione è non tanto diverso quan to addirittura opposto. È il caso, infatti, di un lavoratore che

non ha esercitato l'opzione. Non v'è interpretazione estensiva

(consentita, purché la lettera e la ratio della norma siano rispet

tate) né analogica (vietata) che possano condurre a un tal risul

tato, la cui assurdità è di tutta evidenza. Non basta la mera

prosecuzione dell'attività lavorativa. Occorre che ad essa si ac

compagni l'esercizio dell'opzione di cui ai commi precedenti», in tutto e per tutto rispondente cioè ai requisiti di sostanza e

di forma fissati dai richiamati commi, che ne contengono la

previsione e la disciplina: non derogabile questa — si noti —

dall'autonomia negoziale privata, con conseguente nullità, ad

es., della clausola contrattuale che preveda come sufficiente il

solo invio, e non anche la ricezione, della dichiarazione, entro

il previsto termine (Cass. n. 315 del 1994, cit.). Dire che l'op zione, e relativo «onere di comunicazione», è istituto che afferi

sce unicamente al rapporto di lavoro, significa fare un'afferma zione profondamente errata, e non accorgersi che, viceversa,

l'opzione medesima è rilevante anche e soprattutto nel rapporto

previdenziale. È stato, in proposito, autorevolmente osservato:

che il contenuto dell'art. 6 è teoleologicamente apprestato per la disciplina di una situazione patrimonialmente rilevante che

afferisce direttamente e immediatamente al rapporto giuridico di previdenza sociale e non al rapporto di lavoro subordinato, il quale, per vero, resta coinvolto solo in via indiretta; che le

disposizioni di cui trattasi, introducendo deroghe alla normati

va generale concernente la decorrenza del trattamento di vec

chiaia, incidono nella fattispecie complessa a formazione suc

cessiva del pensionamento, e hanno natura e rilevanza pubblici stiche; che la facoltà di opzione è riconosciuta non già tanto

per continuare a prestare lavoro, quanto essenzialmente, se non

addirittura esclusivamente, per permettere all'iscritto di incre

mentare la sua anzianità contributiva per poter poi conseguire, all'atto del pensionamento per vecchiaia, un trattamento econo

mico più congruo e comunque più adeguato alle sue esigenze di vita, sicché la continuità lavorativa si presenta come una me ra situazione strumentale rispetto all'obiettivo «politico» che la

legge persegue attraverso l'attribuzione all'iscritto dell'anzidetta

facoltà opzionale. L'esercizio dell'opzione, d'altro canto, è indissolubilmente le

gato alla prescritta comunicazione che ne va data (deve essere

comunicato») al datore di lavoro, e la include come suo ele

mento essenziale, sostanziandosi, come si è detto, in un atto

recettizio, ed essendo proprio degli atti di tale specie che per

produrre effetto devono non soltanto manifestarsi, ma anche essere diretti e comunicati al destinatario; dovendosi ulterior

mente precisare che la natura recettizia o meno di un atto unila terale non dipende tanto dalla forma eventualmente prescritta dalla legge per tale comunicazione, quanto piuttosto dalla fun

zione normativamente conferitagli nell'ambito di un determina to istituto, la quale implichi, appunto, che l'atto stesso, per gli effetti giuridici suoi propri e per le conseguenze che è rivolto a produrre, debba venire a conoscenza del destinatario (art. 1334 c.c. e Cass. 3 ottobre 1985, n. 4783, id., Rep. 1986, voce Con tratti agrari, n. 371 e 17 gennaio 1983, n. 375, id., 1983, I,

2186). Invero, l'esercizio del diritto potestativo di opzione, cui fa riscontro, com'è noto, la «soggezione» del datore di lavoro, tenuto a subirne passivamente le conseguenze, soltanto se ed in quanto a costui comunicato determina l'effetto di inibirgli il licenziamento del lavoratore optante per il motivo del rag

giunto limite dell'età pensionabile, e soltanto allora garantisce pertanto al medesimo lavoratore di poter effettivamente incre mentare la propria anzianità contributiva, che è il fine (previ denziale e primario) cui l'opzione tende e che altrimenti — in caso di mancata comunicazione — sarebbe o potrebbe essere frustrato.

D'altro canto ancora, la circostanza che il lavoratore continui a prestare la propria attività lavorativa pur dopo il compimento dell'età pensionabile — e va rammentato al riguardo come nel

campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica, a differenza che nel pubblico impiego, non operi l'automaticità del c.d. col locamento a riposo per limiti di età, occorrendo sempre che

intervenga una delle cause di cessazione (dimissioni o licenzia

mento) previste dalla legge (Cass. 25 luglio 1994, n. 6901, id.,

Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 1540) — non costituireb be comunque comportamento concludente dal quale poter de

li Foro Italiano — 1995.

sumere inequivocabilmente che egli abbia inteso avvalersi della

facoltà di opzione (Cass. 24 luglio 1987, n. 4017, id., Rep. 1987, voce cit., n. 509), nella quale si mette in luce — in motivazione — che il previsto termine perentorio, senza del quale la detta

facoltà «non avrebbe senso», mira ad evitare «ogni situazione

di incertezza non solo nell'ambito del singolo rapporto privato, ma anche nell'interesse generale (liquidazione delle pensioni, ac

crediti contributivi, ecc.) della pubblica amministrazione»). Ogni altra questione restando assorbita, non rimane che cas

sare — in accoglimento del ricorso — la decisione impugnata, non conforme al principio di diritto sopra illustrato, che ai sen

si e per gli effetti dell'art. 384, 1° comma, c.p.c. può essere cosi sintetizzato:

«L'art. 6 d.l. 22 dicembre 1981 n. 791, come sostituito dalla

legge di conversione 26 febbraio 1982 n. 54, che faculta gli iscritti

all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vec

chiaia e i superstiti a proseguire l'attività lavorativa per incre

mentare l'anzianità contributiva fino a raggiungere eventualmente

quella massima, e comunque non oltre il compimento del ses

santacinquesimo anno di età, nello stabilire, al 5° comma, che la pensione di vecchiaia, per i lavoratori che esercitano tale op zione, decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale è stata presentata la domanda, detta una norma di

stretta interpretazione perché eccezionale (art. 14 disp. sulla leg ge in generale) rispetto all'art. 6 1. 23 aprile 1981 n. 155 sulla

decorrenza delle pensioni di vecchiaia. Essa non è pertanto ap

plicabile nel caso — affatto diverso, e addirittura opposto a

quello considerato — in cui l'attività lavorativa sia proseguita di fatto oltre il compimento dell'età pensionabile, richiedendosi

invece che tale prosecuzione sia preceduta da un esercizio del

l'opzione conforme alla disciplina sostanziale e procedimentale di cui ai commi precedenti richiamati dallo stesso 5° comma

del citato art. 6 1. n. 54 del 1982, dove si prescrive tra l'altro

(al 2° comma) che per avvalersi della facoltà di opzione il lavo

ratore deve darne comunicazione al datore di lavoro almeno

sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pen sione di vecchiaia, coincidente col compimento dell'età pensio nabile».

All'enunciato principio si atterrà il giudice di rinvio, che si

designa nel Tribunale di Campobasso.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 13 luglio 1995, n. 7665; Pres. ed est. Sammartino, P.M. Palmieri

(conci, diff.); Auguadro e altri (Avv. Giancola) c. Sperduti e altri (Avv. Longoni). Regolamento di competenza d'ufficio.

Competenza civile — Giudizio possessorio — Giudizio di meri to — Competenza del pretore — Esclusione (Cod. proc. civ., art. 8, 689, 703).

La competenza esclusiva del pretore in materia possessoria è limitata all'emanazione dei provvedimenti interdittali, mentre la competenza a conoscere del giudizio di merito, la cui in

staurazione è meramente eventuale ed oggetto del quale può essere un'azione petitoria o un'azione personale, si determina

secondo le regole generali. (1)

(1) I. - Nello stesso senso, v. Cass. 3975/84, Foro it., Rep. 1986, voce Possesso, n. 50; contra, Cass. 25 gennaio 1993, nn. 830 e 831, id., 1993, I, 2562, con nota di Impagnatiello.

Nel caso di specie il pretore, innanzi al quale era stata esercitata azio ne di reintegra ex art. 703 c.p.c. e richiesti provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c., aveva emanato i provvedimenti interdittali e d'urgen za e rimesso le parti innanzi al tribunale competente per valore; riassun to il giudizio, il tribunale, ritenuta la competenza per materia del preto re a conoscere della domanda possessoria, aveva sollevato conflitto di competenza d'ufficio. La Suprema corte, premesso che la questione era tra quelle da trattarsi sulla base della disciplina previgente alla novella del 1990, ha affermato la competenza del tribunale, pervenendo alla solu

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