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sezione lavoro; sentenza 14 dicembre 1999, n. 14065; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Martone(concl. parz. diff.); Soc. Sap (Avv. Magno) c. Accrocca; Accrocca (Avv. Falla Trella) c. Soc. Sap.Cassa Trib. Roma 13 febbraio 1997Source: Il Foro Italiano, Vol. 123, No. 1 (GENNAIO 2000), pp. 51/52-57/58Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23195300 .
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PARTE PRIMA
n. 621) ma solo quando la lavoratrice aveva ricevuto la lettera
di licenziamento (10 dicembre 1990). II ricorso non è fondato.
Come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, il
rapporto di lavoro della De Leo era ancora in corso a tutti
gli effetti fino al dicembre 1990, poiché solo in data 10 dicem bre 1990 venne intimato il licenziamento e le retribuzioni matu
rate fino a tale data vennero ammesse al passivo del fallimento.
Il richiamo alla disposizione di cui al 2° comma dell'art. 17
appare quindi fuori di luogo, poiché all'inizio del periodo di
astensione obbligatoria dal lavoro la De Leo non era sospesa, né assente senza retribuzione (né disoccupata).
Alla luce di tali considerazioni, anche il richiamo alla prece dente decisione di questa corte appare fuori di luogo, poiché nel caso di specie manca completamente la prova del fatto de
dotto dall'Inps e cioè che la ditta Quarta Maria fosse inattiva
sin dal marzo 1989 o che comunque la stessa De Leo non avesse
prestato attività lavorativa sin da tale data.
Dalla decisione impugnata risulta, infatti, che la De Leo fu
licenziata il 10 dicembre 1990, a distanza di oltre tre mesi dal
parto (avvenuto il 26 agosto 1990), e che al momento di inizio
del periodo di astensione dal lavoro la resistente era ancora re
golarmente in servizio.
In presenza di un valido rapporto di lavoro (confermato dal
la pacifica circostanza dell'ammissione al passivo delle retribu
zioni della De Leo maturate fino alla data del licenziamento), l'istituto non poteva legittimamente negare il diritto alla richie
sta indennità economica di maternità.
Tra l'altro, l'art. 2, 3° comma, lett. b), 1. n. 1204 del 1971
(secondo il quale: «Il divieto di licenziamento non si applica nel caso . . . b) di cessazione dell'attività dell'azienda cui essa
è addetta») esclude chiaramente che la cessazione dell'attività
della azienda possa essere equiparata a licenziamento in man
canza di un atto formale di recesso, come invece l'istituto ricor
rente sembra ritenere nel ricorso per cassazione.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 14 dicem
bre 1999, n. 14065; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Mar
tone (conci, parz. diff.); Soc. Sap (Avv. Magno) c. Accroc
ca; Accrocca (Avv. Falla Trella) c. Soc. Sap. Cassa Trib.
Roma 13 febbraio 1997.
Lavoro (rapporto di) — «Part-time» — Malattia — Periodo
di comporto — Fattispecie (Cod. civ., art. 1464, 2110; d.l.
30 ottobre 1984 n. 726, misure urgenti a sostegno e ad incre
mento dei livelli occupazionali, art. 5; 1. 19 dicembre 1984
n. 863, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 30
ottobre 1984 n. 726, art. unico). Lavoro (rapporto di) — Malattia — Assenze intermittenti —
Periodo di comporto — Applicabilità — Inidoneità perma nente — Giustificato motivo di recesso (Cod. civ., art. 1464,
2110; 1. 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti indivi duali, art. 3).
Nel caso di licenziamento per eccessiva morbilità di lavoratore
a tempo parziale, il periodo di comporto applicabile è, in as
senza di regola contrattuale collettiva specifica, quello previ sto dalla disciplina collettiva per i lavoratori a tempo pieno
qualora si tratti di part-time orizzontale, cioè con orario ri
dotto ma uniforme per tutti i giorni, dovendo invece, il perio do stesso, qualora si tratti di part-time verticale e cioè con
orario normale per alcuni mesi dell'anno o per alcune setti
mane al mese, essere determinato dal giudice, eventualmente
con ricorso alle fonti sussidiarie degli usi e dell'equità di cui
all'art. 2110 c.c., diminuendo la durata prevista per i lavora
tori a tempo pieno in proporzione alla quantità della presta
li. Foro Italiano — 2000.
zione, in modo che, avuto riguardo alla particolarità del rap
porto, resti salva la causa del contratto e sia mantenuto co
stante l'equilibrio di scambio tra prestazione e contropresta
zione, con l'osservanza dei limiti derivanti dall'art. 1464 c.c.
(nella specie, si trattava di part-time orizzontale). (1) Anche nell'ipotesi di assenze del dipendente per malattie a ca
rattere intermittente o reiterato, ancorché frequenti e discon
tinue in relazione ad uno stato di salute malfermo, il datore
di lavoro può licenziare il dipendente stesso solo dopo il su
peramento del periodo di conservazione del posto fissato dal
la contrattazione collettiva ovvero, in mancanza, determinato
secondo equità, potendo invece licenziarlo per giustificato mo
tivo oggettivo, ai sensi degli art. 3 l. 15 luglio 1966 n. 604
e 1464 c.c., indipendentemente da tale superamento, quando
l'infermità abbia carattere permanente ed implichi pertanto
definitiva incapacità fisica, e manchi un apprezzabile interes
se del datore di lavoro alle future, ridotte prestazioni lavora
tive del dipendente. (2)
Motivi della decisione. — I due ricorsi — principale ed inci
dentale condizionato — in quanto proposti contro la stessa sen
tenza, vanno, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., riuniti.
Con il primo motivo del ricorso principale, la Sap — nel de
nunciare violazione e falsa applicazione degli art. 2110, 1362
ss., 1174, 1325, 2094, 1464 c.c. e 5 1. 19 dicembre 1984 n. 863, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione cir
ca punti decisivi della controversia (art. 360, nn. 2 e 3, c.p.c.) — censura la sentenza impugnata per avere sostenuto: a) che
l'esame delle fonti collettive e individuali consente di determi
nare il periodo di comporto, senza necessità di ricorrere alle
fonti sussidiarie di cui all'art. 2110 c.c.; b) che la lettura degli art. 52 e 53 ccnl, effettuata dal pretore, non è persuasiva e
che non è dato rinvenire alcuna incompatibilità tra la misura
del comporto per il rapporto a tempo pieno e quella per il rap
porto a tempo parziale. Secondo la società ricorrente, il tribunale, che ha violato al
tresì i criteri di ermeneutica contrattuale, perché — una volta
stabilito che il periodo di comporto doveva essere determinato
in base a quanto stabilito dal ccnl — ha trascurato, tuttavia, di indagare sulla reale intenzione delle parti, si è contraddetto,
(1) Con la sentenza in epigrafe la Corte di cassazione sviluppa —
ed in parte puntualizza — la propria giurisprudenza in argomento: cfr. Cass. 11 aprile 1990, n. 3063, Foro it., Rep. 1990, voce Lavoro (rap porto), n. 526, che non sembra distinguere tra part-time orizzontale e part-time verticale; 11 giugno 1983, n. 4034, id., Rep. 1983, voce
cit., n. 2537, e Giust. civ., 1984, I, 237, con nota di M. Papaleoni, Eccessiva morbilità e lavoro a tempo parziale, che si pronunzia per il «riproporzionamento» appunto in fattispecie di part-time verticale; nella non ricca giurisprudenza di merito, cfr., sempre nella direzione della riduzione proporzionale del comporto, Pret. Roma 29 marzo 1994, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 1598, che è stata riformata dalla deci sione cassata da Cass. 14065/99 sopra riportata; Pret. Firenze 29 otto bre 1993, ibid., n. 1599; Pret. Siracusa 18 agosto 1993, ibid., n. 1600; Pret. Roma 19 ottobre 1991, id., Rep. 1992, voce cit., n. 616, e, per esteso, Giur. it., 1992, I, 2, 504, con nota di I. Piccinini, Comporto, «part-time» ed equità-, Trib. Lodi 20 novembre 1984, Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 2226; cfr. altresì Pret. Roma 22 settembre 1997, id., Rep. 1998, voce cit., n. 768, in un caso in cui il contratto collettivo
prevedeva che il trattamento di malattia dovesse essere garantito al la voratore part-time in proporzione alla durata della prestazione; in dot
trina, cfr., più di recente, per differente soluzione, G. Pera, Sul com
porto per sommatoria nel «part-time», in Riv. it. dir. lav., 1998, I, 357 ss., cui Cass. 14065/99 sopra riportata è tributaria per la ricostru zione critica del dibattito in argomento, che anche qui si richiama.
(2) Contra, Cass. 14 ottobre 1993, n. 10131, Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 1558, e, per esteso, Riv. it. dir. lav., 1994, II, 721, con nota di R. Del Punta, Sulle c.d. clausole di esclusione del comporto per sommatoria, e Riv. critica dir. lav., 1994, 612, con nota di R. Muggia, La parabola dell'equità: quando il giudice si fa parte e legislatore, secondo cui, poiché la disciplina speciale dell'art. 2100 c.c. prevale non solo su quella generale della risoluzione del rap porto di lavoro prevista dall'art. 3 1. n. 604 del 1966, ma anche su
quella generale della risoluzione dei contratti per impossibilità soprav venuta, parziale o temporanea, solo il superamento del periodo di com
porto costituisce per il datore legittima causa di recesso. In tal senso, cfr., tra le altre, Cass. 2 dicembre 1986, n. 7136, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 2279. Conforme, sulla seconda parte della massima, da
ultimo, Cass. 20 aprile 1998, n. 4012, id., 1999, I, 969.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
posto che, per un verso, ha affermato che, in caso di determi
nazione equitativa, l'esigenza di bilanciamento degli opposti in
teressi comporta l'obbligo di non prevedere — per il rapporto a part-time — un periodo di comporto superiore a quello previ sto per il rapporto a tempo pieno. E, per converso, ha però tralasciato l'esame se il bilanciamento di interessi non imponga la determinazione del comporto per il part-time in modo pro
porzionale alla durata della prestazione. Il primo motivo è infondato e va rigettato. La corte è chiamata nuovamente ad occuparsi del problema
della determinazione del periodo di comporto nel rapporto di
lavoro a tempo parziale. Problema che, non avendo finora trovato una esaustiva solu
zione né in dottrina, né in giurisprudenza, deve — in questa sede — essere esaminato in modo approfondito.
In precedenza, questa corte aveva affermato che il contratto
di lavoro a tempo parziale non è di per sé incompatibile con
l'operatività delle disposizioni collettive che disciplinano la du
rata del comporto con riferimento esclusivo al rapporto di lavo
ro a tempo pieno e che è affidato al giudice (di merito) il com
pito di stabilire, nella fattispecie concreta, la possibilità e le mo
dalità di applicazione di dette disposizioni, e, in caso negativo, di fare ricorso alle fonti sussidiarie indicate nell'art. 2110 c.c.
(usi o equità), di modo che, avuto riguardo alla particolarità del rapporto, resti salva la causa del contratto e sia mantenuto
costante l'equilibrio dello scambio fra prestazione e contropre
stazione, con l'osservanza dei limiti derivanti dall'art. 1464 c.c.
(Cass. 4034/83, Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro (rapporto), n. 2537).
Per la giurisprudenza successiva (Cass. 3063/90, id., Rep. 1990,
voce cit., n. 526), indipendentemente dalla quantità e modalità
della prestazione, nel contratto di lavoro a tempo parziale van
no adattati, «se non incompatibili», gli istituti previsti dalla leg
ge e dalla privata contrattazione «con il rispetto delle debite
proporzioni che però non possono essere più ampie ma ridotte;
nel senso che in tema di comporto la tutela della conservazione
del posto non può essere di durata superiore a quella attribuita
al prestatore della fattispecie tipica, ovvero a tempo pieno».
Sicché, nel lavoro part-time caratterizzato da una prestazione di orario ridotto ed a giorni alterni, il comporto per malattia
non potrebbe essere superiore, ma inferiore, «se non uguale», a quello previsto dal contratto collettivo per la prestazione full
time, «giacché la diversa strutturazione del rapporto non giusti
fica, nel bilanciamento degli opposti interessi, un maggior sacri
ficio per l'imprenditore attraverso un giudizio di proporzione alla rovescia» (Cass. 3063/90, cit.). Con la conseguenza che, ove non sia specificamente previsto un termine di comporto per il dipendente part-time, il giudice del merito, avvalendosi del
potere conferitogli dal 2° comma dell'art. 2110 c.c., deve equi tativamente ed in relazione alla fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato, o applicare lo stesso termine o, comun
que, ridurlo in proporzione alla quantità della prestazione ed
al sacrificio che il datore si era assunto per un rapporto normale.
Per superare la (ritenuta) non appagante soluzione scelta dal
la giurisprudenza — la quale non aveva, peraltro, tenuto conto
della distinzione tra part-time orizzontale e part-time verticale — una parte della dottrina si è orientata nel senso che il princi
pio di riduzione proporzionale opera soltanto nel caso in cui
il trattamento è legato alla prestazione da un nesso di stretta
corrispettività (così, ad esempio, per la retribuzione e le ferie), mentre non varrebbe quando tale nesso non sussiste, come in
tema di prova, preavviso e comporto; conseguentemente deve
applicarsi — per il comporto — quanto previsto per il tempo
pieno. Pur dovendosi condividere (sostanzialmente) la conclusione,
l'argomentazione non è esauriente; non è, infatti, mancato chi
ha fatto rilevare che, nel contratto di lavoro, la disciplina è
ben lontana (a proposito della corrispettività e dell'onerosità)
dal modello rigido scambista, tanto che si è elaborata la teoria
della corrispettività «complessiva», di difficile individuazione
pratica. Ad avviso della corte, il problema può (e deve) essere supera
to, muovendo dal presupposto che il contratto di lavoro part time ha in comune — con quello a tempo pieno — la causa
giuridica (cioè, lo scambio lavoro-retribuzione), differenziando
si — dal secondo — soltanto per la riduzione quantitativa della
prestazione lavorativa (cfr. Cass. n. 8721 del 1992, id., Rep.
Il Foro Italiano — 2000.
1993, voce cit., n. 557); con la conseguenza che, ove nel con
tratto collettivo vi sia una lacuna in ordine al comporto (per
sommatoria) per i lavoratori a tempo parziale, non si impone il ricorso alla determinazione equitativa del giudice.
Infatti, non è rinvenibile alcuna valida ragione, in base alla
quale il lavoratore a tempo parziale dovrebbe avere un tratta
mento diverso da quello previsto per il lavoratore a tempo pie
no, giacché è opinione largamente condivisa quella che esclude
la «specialità» del lavoro a tempo parziale.
Va, tuttavia, puntualizzato che le considerazioni precedenti
valgono per il rapporto di lavoro part-time c.d. orizzontale (os sia con orario ridotto ma uniforme per tutti i giorni), posto che esso presenta la stessa estensione di tempo del rapporto di
lavoro a tempo pieno, e per il quale, quindi, vi è congruità con le norme collettive sul comporto. Diversa è, invece, la si
tuazione del part-time c.d. verticale (specie se esso è su base
stagionale), con prestazione svolta con orario normale per alcu
ni mesi dell'anno o per alcune settimane al mese. In tale ipotesi, la suddetta relazione di conformità non ha ragion d'essere, do
vendosi applicare il principio del riproporzionamento del perio do di comporto mediante ricorso alle fonti indicate dall'art. 2110
c.c. e, in particolare, all'intervento equitativo del giudice, al
fine di evitare conseguenze eccessivamente onerose per il datore
di lavoro.
A questo punto, deve essere affermato, ai sensi dell'art. 384
c.p.c., il seguente principio di diritto: «nel caso di licenziamen
to per eccessiva morbilità di un lavoratore part-time, in assenza
di una specifica disciplina contrattuale collettiva, il periodo di
comporto applicabile è quello previsto dalla stessa disciplina per i lavoratori a tempo pieno (full-time), qualora si tratti di rap
porto di lavoro part-time orizzontale, con orario ridotto ma
uniforme per tutti i giorni; mentre — nel caso di rapporto part time c.d. verticale — è affidato al giudice di merito il compito di ridurre in proporzione alla quantità della prestazione, even
tualmente facendo ricorso alle fonti sussidiarie indicate dall'art.
2110 c.c. (usi o equità), il detto periodo, di modo che, avuto
riguardo alla particolarità del rapporto, resti salva la causa del
contratto e sia mantenuto costante l'equilibrio dello scambio
fra prestazione e controprestazione, con la osservanza dei limiti
derivanti dall'art. 1464 c.c.».
In questa linea si colloca la sentenza impugnata, le cui con
clusioni, sul punto, vanno condivise.
Invero, sul piano processuale, è pacifico che, nella specie in
cui si verteva in tema di rapporto part-time orizzontale, in as
senza di specifica previsione della contrattazione collettiva, il
tribunale ha correttamente applicato il periodo di comporto pre visto per i lavoratori a tempo pieno, escludendo che esso fosse
stato superato e dichiarando, conseguentemente, illegittimo il
licenziamento intimato alla signora Carla Accrocca.
Con il secondo motivo del ricorso principale, si denunciano
violazione e falsa applicazione degli art. 1174, 1325, 1464, 2094
c.c.; dell'art. 3 1. 15 luglio 1966 n. 604, e dell'art. 18 1. 20
maggio 1970 n. 300, come modificato dalla 1. 11 maggio 1990
n. 108; degli art. 112 e 277 c.p.c., nonché omessa, contradditto
ria e insufficiente motivazione circa punti decisivi della contro
versia (art. 360 nn. 1, 2 e 3, c.p.c.). Si deduce che l'argomentazione, addotta dal tribunale per
escludere la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, consiste in un'unica apodittica frase e che il giudice di appello è incorso in un equivoco, poiché — nella fattispecie — si è
in presenza di due licenziamenti; uno, intimato per superamen to del periodo di comporto; il secondo, riferito allo scarso ren
dimento per eccessiva morbilità.
A quest'ultimo licenziamento non è applicabile l'art. 2110 c.c.
Il secondo motivo è fondato nei limiti delle ragioni che
seguono. Alla corte è sottoposta nuovamente la questione dell'ammis
sibilità e validità del licenziamento determinato dalla eccessiva
morbilità del prestatore di lavoro subordinato, che, secondo l'o
pinione della società ricorrente, deve essere inquadrata e risolta
alla sola stregua della disciplina dettata dall'art. 3 1. 15 luglio 1966 n. 604, mentre — ad avviso del tribunale — va risolta
esclusivamente alla luce dell'art. 2110 c.c., di modo che l'ipote
si del giustificato motivo oggettivo (art. 3 1. 604/66, cit.) non
potrebbe «operare in presenza di un periodo di comporto». La risposta (alla questione) deve essere parzialmente favore
vole alla tesi della ricorrente.
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PARTE PRIMA
In via preliminare, va ricordato che l'art. 2118 c.c. attribui
sce il diritto di recesso dal contratto di lavoro subordinato a
«ciascuno dei contraenti», imponendo solo l'obbligo del preav
viso, «nel termine e nei modi stabiliti». Tale articolo è stato
però modificato dall'art. 1 1. 15 luglio 1966 n. 604, per cui
il licenziamento del prestatore di lavoro non è più libero, ma
«ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regola mento e di contratto collettivo o individuale», esso non può avvenire che «per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per
giustificato motivo». L'art. 3 della stessa legge precisa che «il
licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determi
nato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali
del prestatore di lavoro, ovvero da ragioni inerenti all'attività
produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funziona
mento di essa».
Secondo una accreditata opinione, l'art. 3 cit., parlando ge nericamente di notevole inadempimento degli obblighi contrat
tuali del prestatore, si riferisce sia all'ipotesi di inadempimento
imputabile (al debitore e, quindi, allo stesso prestatore), che
produce il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, sia
alle ipotesi di inadempimento non imputabile, che giustifica il
licenziamento per motivo oggettivo. Costituendo, perciò — in
quanto concernente un contratto sinallagmatico quale è quello di lavoro e per quanto qui interessa — una specificazione degli art. 1453, 1455, 1463 e 1464 c.c. (Cass., sez. un., 7755/98, id.,
1999, I, 197). L'art. 1464 c.c. suole essere evocato anche quando la presta
zione di una parte «è divenuta solo parzialmente impossibile», nel qual caso l'altra parte «può recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale». Infatti, è ricondotta alla impossibilità parziale la sopravvenuta
incapacità — non totale — di eseguire la prestazione lavorativa. In relazione a tale fattispecie (configurata come licenziamen
to per giustificato motivo oggettivo), la giurisprudenza ha uti
lizzato spesso la normativa codicistica sull'impossibilità parziale della prestazione (art. 1464 c.c.), ponendola in relazione alla
disciplina fissata dall'art. 3 1. 604/66.
È stato così affermato il principio, secondo cui la sopravve nuta inidoneità permanente del lavoratore a svolgere regolar mente le mansioni assegnategli trova disciplina nella norma di
cui all'art. 1464 c.c. che, regolando gli effetti dell'impossibilità parziale della prestazione nei contratti sinallagmatici, prevede la possibilità di recesso dell'altra parte ove questa non abbia un interesse apprezzabile a ricevere un adempimento parziale; ne consegue la configurabilità, per il datore di lavoro, del giu stificato motivo di licenziamento, a norma dell'art. 3 1. n. 604 del 1966, per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organiz zazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa (Cass. n. 8 del 1988, id., Rep. 1988, voce cit., n. 1996; 1439/86, id., Rep. 1986, voce cit., n. 2083; 5686/91, id., Rep. 1991, voce
cit., n. 1522; v. anche Cass. 3040/96, id., Rep. 1996, voce cit., n. 1484).
Su un piano più generale, va, però, ricordato che è netta la distinzione fra malattia e inidoneità al lavoro.
La malattia del lavoratore e l'inidoneità al lavoro sono cause di impossibilità della prestazione lavorativa, che hanno natura e disciplina giuridica diverse: la prima ha carattere temporaneo, implica la totale impossibilità della prestazione e determina, ai sensi dell'art. 2110 c.c., la legittimità del licenziamento quando ha causato l'astensione dal lavoro per un tempo superiore al
periodo di comporto. La seconda ha carattere permanente, o, quanto meno, durata
indeterminata o indeterminabile, non implica necessariamente
l'impossibilità totale e consente la risoluzione del contratto —
ai sensi degli art. 1256 e 1463 c.c. — indipendentemente dal
superamento del periodo di comporto (ex plurimis, Cass.
8855/91, id., Rep. 1991, voce cit., n. 1237; 3517/92, id., Rep. 1992, voce cit., n. 1744; 5416/97, id., Rep. 1997, voce cit., n.
1528). Consegue che l'ammissibilità e la validità del licenziamento
determinato dalla eccessiva morbilità del lavoratore subordina to deve essere inquadrata e risolta alla sola stregua della disci
plina prevista dall'art. 2110 c.c., senza possibilità di utilizzare il disposto dell'art. 3 1. n. 604 del 1966 (v. Cass., sez. un., n. 2072 del 1980, id., 1980, I, 936; nn. 2073 e 2074 del 1980, id., Rep. 1980, voce cit., nn. 1102, 1103), dal momento che la disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro per supera
li, Foro Italiano — 2000.
mento del periodo di comporto posta dal detto art. 2110 (2°
comma) è rimasta ferma e immodificata pur dopo le innovazio ni apportate alla normativa del licenziamento individuale (pri ma regolato dagli art. 2118 e 2119 c.c.) dalle leggi 15 luglio 1966 n. 604 e 20 maggio 1970 n. 300, riguardando la disposizio ne dell'art. 2110 c.c. cit. un'ipotesi di risoluzione di per sé legit tima e giustificata dalla stessa previsione del protrarsi dell'im
possibilità della prestazione oltre un determinato limite tempo rale (Cass. 2491/79, id., Rep. 1979, voce cit., n. 1183; 716/97,
id., Rep. 1997, voce cit., n. 1728, specialmente in motivazione). Del resto, la specialità e la portata derogatoria delle regole det tate dall'art. 2110 c.c. rispetto alla disciplina dei licenziamenti
individuali di cui alle menzionate leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 ed a quella degli art. 1256 e 1464 c.c. si sostanzia
no e si risolvono — da un lato — nel vietare al datore di lavoro di recedere unilateralmente dal rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (appunto, il comporto, pre determinato dalla legge o dalle parti collettive o secondo equi
tà), e — dall'altro — nel prevedere il superamento di quel limi
te quale unica condizione di legittimità del recesso, esonerando così lo stesso datore di lavoro dall'onere di fornire la prova di un giustificato motivo (ex art. 3 1. 604/66) o della sopravve nuta impossibilità della prestazione (Cass. 6601/95, id., Rep. 1995, voce cit., n. 1614; 716/97, cit.).
Il tribunale si è attenuto ai suddetti criteri, onde ha ritenuto
illegittimo il licenziamento intimato all'attuale resistente, disat
tendendo la richiesta della società datrice di lavoro di qualifica re il recesso come fondato su un giustificato motivo oggettivo «non potendo tale ipotesi operare in presenza di un periodo di comporto».
Lo stesso tribunale ha, tuttavia, omesso di considerare e va lutare se il medesimo licenziamento, giustificato «dalla cronici tà della malattia» (del lavoratore, n.d.r.), in quanto «dimostra va l'inettitudine della dipendente anche per il futuro a rendere
possibile un normale rendimento», potesse (e dovesse) essere ritenuto legittimo — come dedotto dall'attuale ricorrente — per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione.
E ciò tenuto conto che l'applicabilità della disciplina speciale dell'art. 2110 c.c., in luogo di quella sui licenziamenti indivi duali dettata dalla 1. n. 604 del 1966, deve essere riconosciuta nei limiti in cui sussiste il rapporto di specialità tra le due disci
pline, e cioè limitatamente alla materia connessa ad entrambe, e da esse difformemente regolamentata.
Un siffatto rapporto di specialità non sussiste, invece, in te ma di licenziamento per impossibilità sopravvenuta (parziale) della prestazione, la cui fattispecie è autonoma rispetto a quella disciplinata dall'art. 2110 c.c., nel senso che nessuna regola mentazione sul punto è stabilita da quest'ultimo; fattispecie per la quale è a carico del datore di lavoro l'onere di provare (ex art. 5 1. 604/66) non solo l'inidoneità fisica al lavoro (cfr. Cass. 439/91, id., Rep. 1991, voce cit., n. 1514), ma anche la man canza di un suo apprezzabile interesse alle future prestazioni lavorative (ridotte) del dipendente (cfr. Cass. 5713/93, id., Rep. 1993, voce cit., n. 1460).
La motivazione dell'impugnata sentenza, quindi, appare ca rente sul punto ora esaminato, atteso che, pur avendo la Sap denunziato, nell'atto di appello, la violazione degli art. 3 1. 604/66 e 1464 c.c., deducendo — come anticipato — di avere intimato il licenziamento de quo per «sopravvenuta impossibilità parzia le della prestazione», il tribunale non ha risposto, incorrendo nel (denunziato) vizio di motivazione.
In conclusione, il primo motivo del ricorso principale va ri
gettato, mentre va accolto il secondo motivo, nei limiti delle
ragioni suesplicitate. La sentenza impugnata deve, perciò, esse re cassata limitatamente alla censura accolta, restando assorbi
to, per effetto del rigetto del primo motivo, il ricorso incidenta le condizionato, con cui la lavoratrice — nel denunciare omes
sa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, con riferimento all'art. 360, n. 5, c.p.c., in relazione agli art. 2110 e 1374 c.c. — lamenta che il tribunale non abbia eviden ziato la differenza tra rapporto di lavoro part-time orizzontale e rapporto part-time verticale.
La causa va rinviata ad altro giudice di appello, che si desi
gna nel Tribunale di Velletri, il quale procederà ad un nuovo esame ed appronterà adeguata motivazione, tenendo conto del
seguente principio di diritto:
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
«Il caso di malattia del lavoratore, con riguardo al quale l'art.
2110, 2° comma, c.c., prevede che il recesso del datore di lavo
ro può essere esercitato solo dopo il protrarsi dell'impossibilità della prestazione per il periodo di tempo stabilito dalla legge, dalle norme collettive, dagli usi o secondo equità (c.d. periodo di comporto), va inteso non in senso limitato alla malattia a
carattere unitario e continuativo, ma è comprensivo dell'ipotesi di un succedersi di malattie a carattere intermittente o reiterato, ancorché frequenti e discontinue in relazione ad uno stato di
salute malfermo (c.d. eccessiva morbilità). Consegue, stante la
prevalenza dell'art. 2110 c.c. (disposizione speciale) sulla disci
plina generale della risoluzione del rapporto di lavoro, che, an
che nell'ipotesi di reiterate assenze del dipendente per malattie, il datore di lavoro non può licenziarlo per giustificato motivo, ai sensi dell'art. 3 1. 15 luglio 1966 n. 604, ma può esercitare
il recesso solo dopo il periodo all'uopo fissato dalla contratta
zione collettiva, ovvero, in difetto, determinato secondo equità. Nel caso di sopravvenuta infermità permanente e di conse
guente impossibilità della prestazione lavorativa, che è ipotesi nettamente distinta dalla malattia del dipendente — anch'essa
causa di impossibilità della prestazione lavorativa — in quanto ha natura e disciplina giuridica diversa atteso che, a differenza
della malattia, avente carattere temporaneo, essa ha, invece, ca
rattere permanente o, quanto meno, durata indeterminata o in
determinabile, è ravvisabile un giustificato motivo di recesso del
datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato ex art. 3
1. n. 604 del 1966 e 1463 e 1464 c.c., indipendentemente dal
superamento del periodo di comporto, soltanto quando la so
pravvenuta incapacità fisica abbia carattere definitivo e manchi
un apprezzabile interesse — del datore di lavoro — alle future
prestazioni lavorative (ridotte) del dipendente».
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 7 dicem
bre 1999, n. 13656; Pres. Senofonte, Est. Papa, P.M. Ce
niccola (conci, conf.); Dragone (Avv. Pittelli) c. Comune
di Catanzaro (Aw. Garcea, Mdugliani). Conferma App. Ca
tanzaro 19 luglio 1996.
Espropriazione per pubblico interesse — Determinazione del
l'indennità — Area edificata abusivamente — Indennizzo com
misurato alla sola area — Demolizione non disposta o non
eseguita — Irrilevanza (L. 22 ottobre 1971 n. 865, programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sul
l'espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazio ni alle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n. 167,
29 settembre 1964 n. 847, ed autorizzazione di spesa per in
terventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, age
volata e convenzionata, art. 16; 1. 28 gennaio 1977 n. 10,
norme per l'edificabilità dei suoli, art. 15; 1. 28 febbraio 1985 n. 47, norme in materia di controllo dell'attività urbanistico
edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie, art.
47; d.l. 11 luglio 1992 n. 333, misure urgenti per il risana
mento della finanza pubblica, art. 5 bis; 1. 8 agosto 1992 n.
359, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 11 lu
glio 1992 n. 333).
La determinazione dell'indennità di esproprio relativamente ad
un'area edificata in assenza di concessione edilizia, deve ef
fettuarsi, come prescritto dall'art. 19, 9° comma, l. 22 otto
bre 1971 n. 865, in base al valore della sola area, pur se ri
guardo alla costruzione abusiva non sia stata disposta o ese
guita la demolizione, dovendosi ritenere che tale circostanza
Il Foro Italiano — 2000.
non sia rilevante ai fini indennitari, ma attenga ad autonomo
e concorrente profilo sanzionatolo. (1)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 22 lu
glio 1999, n. 499/SU; Pres. Bile, Est. Vignale, P.M. Lo Ca
scio (conci, parz. diff.); Soc. La Meridionale (Aw. Di Mar
tino) c. Pres. cons, ministri e altro. Cassa App. Napoli, giunta
speciale espropriazioni, 16 gennaio 1997.
Espropriazione per pubblico interesse — Determinazione del
l'indennità — Zone terremotate — Programma straordinario
di edilizia residenziale — Edificio abusivo — Valutazione —
Rilascio di concessione in sanatoria — Accertamento (L. 15
gennaio 1885 n. 2892, norme per il risanamento della città
di Napoli, art. 13; 1. 14 maggio 1981 n. 219, conversione in
legge, con modificazioni, del d.l. 19 marzo 1981 n. 75, recan
te ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provve
dimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori
colpiti, art. 80, 81, 84). Espropriazione per pubblico interesse — Occupazione d'urgen
za — Decorrenza (L. 25 giugno 1865 n. 2359, espropriazioni
per causa di pubblica utilità, art. 71; 1. 22 ottobre 1971 n.
865, art. 20; 1. 14 maggio 1981 n. 219).
Nella valutazione di un immobile abusivamente costruito, ai fi ni della determinazione dell'indennità di occupazione e di
esproprio per la realizzazione del programma straordinario
di edilizia residenziale per le zone terremotate, è necessario
l'accertamento dell'avvenuto rilascio di concessione in sana
toria, non essendo sufficiente la sola considerazione dell'av
venuta presentazione della relativa domanda. (2) Nelle occupazioni per le quali è prevista una presa di possesso
dell'immobile entro un termine a pena di perdita dell'effica
cia, il periodo di durata dell'occupazione decorre dalla data
di immissione in possesso. (3)
(1-2, 7) Elemento di decisiva importanza, coincidente con l'entrata in vigore dell'art. 5 bis 1. 359/92, è stato colto, parallelamente alla pre visione delle potenzialità legali di edificazione quale presupposto per
l'applicabilità dei nuovi criteri indennitari (su cui v., da ultimo, Cass. 15 marzo 1999, n. 2272, Foro it., 1999, I, 1432, con nota di richiami), nella necessità di una preventiva verifica di compatibilità delle entità
indennizzabili alla disciplina urbanistica (Vignale, Espropriazione per
pubblica utilità e occupazione illegittima, Napoli, 1998, 257). L'edificabilità di fatto, in precedenza concepita come edificabilità «che
prescinde da un'espressa previsione legale», e dunque caratterizzata da
connotati «agiuridici», quando non «antigiuridici» (Vignale, op. cit., 258 s. Secondo Cass. 20 marzo 1990, n. 2317, Foro it., Rep. 1990, voce Elettrodotto, n. 4, ai fini della liquidazione dell'indennizzo, pote va ritenersi il carattere edificatorio del terreno anche in mancanza di
uno sviluppo edilizio attuale della zona, quando ricorressero elementi
certi ed obiettivi attestanti una concreta attitudine all'edificazione, te
nendo conto degli strumenti urbanistici in vigore, ma anche di eventuali concrete attività di edificazione, anche abusive, che di fatto avessero avuto inizio nel comprensorio, determinando un incremento della do manda e quindi del valore di suoli utilizzabili nello stesso modo, aventi
analoghe caratteristiche, di ubicazione, accessibilità, ecc., ancorché an
che in tale ipotesi decurtato delle spese necessarie per le infrastrutture), non può che essere ancorata, oggi, e nella limitata misura in cui debba farsi ricorso ad essa (ovvero in assenza di disciplina urbanistica), ad
un paradigma di legalità. Il principio assume una doppia valenza, diret
ta e indiretta: come valutazione dei suoli da espropriare su cui insistano
edifici (indennizzabili in base al valore di mercato: Cass. 21 maggio
1998, n. 5064, id., 1999, I, 1231, con nota di Benini), e come valutazio
ne dei suoli localizzati in aree non interessate da una disciplina urbanistica.
All'auspicata interruzione del circolo vizioso ingenerato dalla tradi
zione giurisprudenziale sull'edificabilità di fatto, perviene, sia pure con
l'applicazione di una vecchia regola, la prima pronuncia in epigrafe, affermativa dell'indennizzabilità della sola area ove l'edificio vi sia sta
to costruito senza licenza, indipendentemente dalla demolizione: il cri
terio stabilito dall'art. 16, 9° comma, 1. 22 ottobre 1971 n. 865, per le costruzioni eseguite senza licenza, secondo cui della costruzione «de
ve essere disposta ed eseguita la demolizione, ai sensi dell'art. 26 stessa
legge, e l'indennità è determinata in base al valore della sola area», ha carattere inderogabile, come si evince dall'art. 15, 7° comma, 1. 28
gennaio 1977 n. 10, in relazione all'art. 12, 1° comma, 1. 865/71, e
natura sanzionatoria, concorrente con la demolizione e non consequen
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