Sezione lavoro; sentenza 16 gennaio 1981, n. 383; Pres. Dondona, Est. Nocella, P. M. Caristo(concl. conf.); Di Vico (Avv. Paparazzo) c. Condominio via Pascal n. 5, Roma. Cassa App. Roma 21ottobre 1977Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 3 (MARZO 1981), pp. 679/680-687/688Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171431 .
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PARTE PRIMA
La Corte, ecc. '— Svolgimento del processo. — Con ricorso del
4 agosto 1978 Antonio Roteilo e Rita Lapillo, nella qualità di
genitori esercenti la patria potestà sui figli Luigi, Daniela, Tiziana,
Ciro e Salvatore chiedevano al giudice tutelare di Napoli la
nomina di un curatore speciale per l'accettazione di una donazio
ne immobiliare da essi fatta in favore dei figli con atto del notaio
Spena in data 19 luglio 1978.
Il Pretore di Napoli, in funzione di giudice tutelare, riteneva
che la competenza a provvedere sulla istanza spettasse al tribuna
le ai sensi dell'art. 321 cod. civ., nel cui schema la fattispecie era
inquadrabile. Su reclamo del p.m. presso il Tribunale di Napoli, proposto a
norma dell'art. 740 cod. proc. civ., lo stesso tribunale con decreto
del 7 novembre 1978 dichiarava la competenza del giudice tutela
re, sul rilievo che si trattasse di un conflitto di interessi patrimo
niali rientrante nella previsione dell'art. 320 cod. civile.
A seguito di tale decisione, i coniugi Rotello-Lapillo rinnovava
no l'istanza al giudice tutelare, ma questo con ordinanza del 13
novembre 1979 ha richiesto di ufficio (art. 45 cod. proc. civ.) il
regolamento di competenza. Motivi della decisione. — La richiesta di regolamento è sicura
mente ammissibile perché, per effetto delle declaratorie di incom
petenza emesse dal giudice tutelare e dal Tribunale di Napoli, si
è determinato il conflitto (negativo) di competenza previsto dal
l'art. 45 cod. proc. civile.
Tale conflitto va risolto nel senso dell'affermazione della com
petenza del giudice tutelare a provvedere sulla istanza dei coniugi
Antonio Roteilo e Rita Lapillo. A questa conclusione si perviene sulla base di molteplici
considerazioni che concorrono a far ritenere che la fattispecie in
esame, dopo la riforma del diritto di famiglia attuata con la legge
19 maggio 1975 n. 151, rientra sicuramente nell'ambito di previ
sione dell'art. 320 cod. civile.
Tralasciando quindi la disamina degli orientamenti dottrinari e
giurisprudenziali risalenti ad epoca anteriore alla citata legge (una
tale disamina avrebbe soltanto un significato d'ordine storico,
dovendo il conflitto di competenza essere risolto alla stregua della
normativa vigente), vanno sottolineate alcune modifiche apportate
alle disposizioni che particolarmente interessano (art. 320 e 321
cod. civ.), le quali denotano che non è possibile dubitare ulte
riormente dell'inquadramento della fattispecie di cui si discute
nello schema dell'art. 320.
Secondo il nuovo testo di tale norma, per l'accettazione di ogni
tipo di donazione, e non soltanto di quelle soggette a « pesi e
condizioni » (come disponeva, invece, lo stesso art. 320 prima
della modifica), è richiesta l'autorizzazione del giudice tutelare.
Anche l'accettazione di una donazione pura e semplice è stata
dunque ritenuta come possibile fonte di pregiudizio per il minore.
Da questo dato normativo positivo deriva, sul piano concettua
le, la coerente considerazione che nella sovrana prospettazione-va
lutazione del legislatore non è rimasta estranea la configurabilità
di un potenziale contrasto tra la posizione del donante e quella
del donatario, altrimenti difetterebbe di base logica la disposizio
ne (innovativa) sulla necessità che sia apprezzata dal giudice
tutelare la convenienza, per il minore, dell'accettazione di ogni
tipo di donazione.
Nell'ipotesi di donante non investito della legale rappresentanza
il contrasto non ha concretamente possibilità di emergere, e non
rientra perciò nello schema dell'art. 320, perché la tutela del
minore è assicurata, come per tutti gli atti eccedenti l'ordinaria
amministrazione, sia dalla posizione dei genitori (o di quello che
esercita in via esclusiva la patria potestà) quali soggetti estranei al
rapporto derivante dalla donazione, sia attraverso l'autorizzazione
che il giudice può concedere o non concedere ai fini dell'accetta
zione nell'interesse dei minori.
Se, invece, la qualità di donante viene assunta da uno o da
entrambi i genitori investiti della legale rappresentanza dei figli
minori, si realizza la fattispecie del conflitto di interessi patrimo
niali delineata nell'art. 320, per cui sorge il potere-dovere del
giudice tutelare di nominare un curatore speciale.
Va aggiunto, a titolo di convalida di questa interpretazione, che
la possibilità (astrattamente considerata) del conflitto di interessi
patrimoniali tra donante e donatario risulta confermata anche
sulla base di altre disposizioni. A norma dell'art. 437 cod. civ. il donatario, sia pure nei limiti
del valore della donazione ricevuta, assume l'obbligo, con prece
denza sugli altri soggetti indicati nell'art. 433, di prestare gli
alimenti al donante.
Già questa situazione giuridica, scaturente direttamente dalla
legge, è tale da richiedere una valutazione di convenienza, e
quindi una scelta, per chi riceve la donazione, tra l'arricchimento
che essa comporta e l'assunzione dell'obbligo della prestazione
degli alimenti.
Nel caso di donazione fatta dal genitore investito della rappre
sentanza legale, il conflitto si delinea ancor più marcatamente
perché alla ragione anzidetta si aggiunge la potenziale posizione,
in certo senso contrapposta, in cui vengono a trovarsi i due
soggetti del rapporto, i quali sono reciprocamente tenuti, anche in
base aid altro titolo, cioè per la semplice qualità di genitore e di
figlio, alla prestazione degli alimenti, con le ripercussioni correlate
al fenomeno depauperamento-arricchimento dei rispettivi patrimo
ni.
Tale ultimo rilievo esclude altresì che il coniuge non donante,
egualmente investito della rappresentanza, possa essere considera
to soggetto estraneo al conflitto di interessi in caso di donazione
fatta dall'altro genitore, in quanto anche egli, nella qualità di
titolare — nei confronti del coniuge donante e, in linea gradata,
del figlio — della pretesa alimentare, ha un indubbio interesse
(proprio) ad incrementare l'uno, ovvero a non depauperare l'altro,
dei due patrimoni coinvolti nel contratto di donazione.
Dunque, sia nel caso in cui la qualità di donante venga assunta
da uno soltanto dei genitori investiti della rappresentanza, sia
quando la qualità stessa ricorra in entrambi (come nella fattispe
cie in esame), il curatore speciale deve essere nominato nella
persona di altro soggetto, non potendo trovare applicazione l'ul
tima parte dell'art. 320.
Le ragioni esposte valgono a dimostrare come non sia possibile
inquadrare la fattispecie nello schema dell'art. 321 cod. civ., il
quale disciplina una diversa situazione giuridica, e cioè quella che
si ricollega alla impossibilità o alla mancanza di volontà dei
genitori, ovvero di quello che esercita in via esclusiva la potestà,
di compiere uno o più atti di interesse del figlio, eccedente
l'ordinaria amministrazione.
Ai fini della soluzione del conflitto che qui interessa non è
necessario procedere alla disamina delle varie ipotesi di applicabi
lità dell'art. 321, con le implicazioni che tale indagine comporta
sul piano della individuazione degli impedimenti d'ordine materia
le o giuridico rientranti nella previsione della norma, in quanto
deve sicuramente escludersi che il conflitto di interessi tra genito
ri donanti e figli donatari in potestate possa trovare inquadramen
to sistematico nell'art. 321; il quale è preordinato a porre
rimedio non ad un conflitto di interessi, nel senso previsto dal
precedente articolo, ma ad una situazione di insufficiente prote
zione del minore, come si desume anche dalla qualità dei soggetti
legittimati a ricorrere in questi casi al tribunale (il figlio stesso, il
pubblico ministero, o uno dei parenti che vi abbia interesse).
Il tribunale provvede, come dispone l'ultima parte della norma,
dopo aver sentito i genitori, per cui sembra evidente che la
situazione configurata e regolata dal legislatore con la disposizione
in esame muova dal presupposto della esistenza di un impedimen
to o di una condotta volutamente omissiva dei genitori rispetto
alla attività necessaria per la tutela dei minori.
Per questi motivi, ecc.
I
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 16 gennaio
1981, n. 383; Pres. Dondona, Est. Nocella, P. M. Caristo
(conci, conf.); Di Vico (Avv. Paparazzo) c. Condominio via
Pascal n. 5, Roma. Cassa App. Roma 21 ottobre 1977.
Lavoro (rapporto) — Addetti alle pulizie di immobili urbani —
Natura del rapporto — Accertamento — Poteri del giudice di
merito — Fattispecie (Cod. civ., art. 2094; legge 4 febbraio
1958 n. 23, norme sul conglobamento e perequazioni salariali
in favore dei portieri e altri lavoratori addetti alla pulizia di
stabili urbani, art. 1).
L'attività degli addetti alle pulizie di immobili urbani è ricon
ducibile sia nella categoria del rapporto di lavoro subordinato
che in quella del rapporto di lavoro autonomo secondo gli
specifici caratteri in concreto assunti dalla prestazione, sicché,
per una corretta qualificazione del rapporto dedotto in giudi
zio, è compito del giudice di merito inquadrare gli elementi
di fatto, liberamente ricercati e individuati, nell'appropriato
schema legale tipico risultante dai criteri, generali e astratti,
che presiedono alla distinzione tra lavoro subordinato e la
voro autonomo (nella specie, la sentenza di merito è stata cas
sata per vizio di insufficiente motivazione su un punto de
cisivo della controversia in quanto, pur in presenza di circo
stanze di fatto equivoche e ambigue, la prestazione era stata
sussùnta nello schema del lavoro autonomo senza tener conto
che il fondamentale elemento distintivo tra le due categorie
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
è costituito dalla subordinazione, intesa come assoggettamento al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di
lavoro). (1)
II
PRETURA DI PARMA; sentenza 31 marzo 1980; Giud. M. De
Luca; Barazzoni (Avv. Piazza) c. I.n.p.s. (Avv. Campili).
Lavoro (rapporto) — Pulizia delle scale effettuata da condomino
in favore del condominio — Lavoro subordinato — Configu rabilità — Conseguenze previdenziali (Cod. civ., art. 2094; leg
ge 4 febbraio 1958 n. 23, art. 1).
È configuratile un rapporto di lavoro subordinato, con il conse
guente obbligo di versamento dei contributi previdenziali re
lativi all'assicurazione generale obbligatoria, nell'ipotesi di un
condomino che, senza disporre di una propria organizzazione autonoma, svolga giornalmente attività di pulizia delle scale
in favore del condominio. (2)
I
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Con citazione
notificata il 13 luglio 1971, Di Vico Annunziata, assumendo di
avere quale custode curato la pulizia dell'immobile, sito in Roma, via Pascal 5, dal 1° ottobre 1967 al 30 settembre 1981 con
impegno lavorativo di quattro ore giornaliere, conveniva in giudi zio avanti al Tribunale di Roma il condominio dello stabile per sentirlo condannare, previo accertamento della sussistenza del
rapporto di lavoro subordinato, al pagamento ia suo favore di lire
2.603.445 per differenze retributive.
Il condominio convenuto, costituitosi in giudizio, contestava il
fondamento della domanda, eccependo che tra le parti era inter
corso un contratto di appalto, la cui scrittura privata esibiva.
(1-2) L'assenza di un paradigma legale rigido, enucleabile dalla
legge o dal contratto collettivo, e la compatibilità dei servizi di pu lizia di immobili urbani con entrambi i rapporti, sia subordinato che
autonomo, sono state, da ultimo, affermate da Cass. 18 giugno 1980, n.
3885, Foro it., Mass., 774, che, nel ribadire il costante orientamento secondo cui la qualificazione del rapporto deve essere compiuta con riferimento al reale contenuto e alle concrete modalità della presta zione, ha confermato la decisione di merito che aveva inquadrato nel
lavoro autonomo l'attività di pulizia di uno studio professionale svolta senza l'osservanza di un rigido orario di lavoro e con possibilità di
farsi sostituire da altre persone nell'esecuzione dell'opera. In senso
conforme, sempre in ordine alla specifica attività di pulizia di immo
bili, v. Cass. 23 ottobre 1978, n. 4796, id., Rep. 1978, voce Lavoro
(rapporto), n. 266, che ha ritenuto corretta la riconduzione nel la
voro autonomo del contratto con cui una donna si era obbligata a pu lire le scale, lavare i vetri e lucidare gli ottoni delle parti comuni di un
edificio senza essere vincolata ad un orario o a modalità fissate dal da
tore di lavoro; 29 novembre 1978, n. 5660, ibid., n. 272, secondo cui
non è censurabile la decisione del giudice di merito che, sulla base
della valutazione globale delle circostanze concrete, abbia considerato
come autonoma la prestazione del servizio di pulizia di un immobile
mancante dell'elemento della subordinazione, ancorché il prestatore fosse retribuito in parte con la concessione in godimento gratuito di un
alloggio e in parte con una somma di denaro suddivisa in tredici men
silità. Sempre in argomento, sulla mancanza di una presunzione asso
luta di subordinazione e sulla compatibilità con la categoria del la
voro autonomo di prestazioni che generalmente formano oggetto del
rapporto di lavoro subordinato (servizio di custodia), Cass. 4 maggio
1978, n. 2065, id., Rep. 1979, voce cit., n. 283. Un criterio meno ela
stico risulta, invece, seguito da Cass. 10 novembre 1971, n. 3207, id.,
Rep. 1971, voce cit., n. 132, secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto, il giudice non può trascurare le disposizioni normative
contenute nel contratto corporativo 3 aprile 1938 e nella legge 4 feb
braio 1958 n. 23 che considerano le prestazioni dei lavoratori addetti
alla pulizia di immobili urbani adibiti ad abitazione come oggetto ti
pico di lavoro subordinato e mai di lavoro autonomo, con la conse
guenza che quest'ultimo deve ritenersi del tutto eccezionale e può es
sere desunto soltanto in base ad elementi ben certi e determinanti.
Sui criteri distintivi tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e sui
limiti del sindacato di legittimità vertente sull'operazione logica di qua
lificazione giuridica del rapporto, incisivamente indicati dalla sentenza
in epigrafe, Cass. 14 giugno 1979, n. 3353, id., 1979, I, 2897, con os
servazioni di O. Mazzotta, ed ivi richiami di giurisprudenza; 15 di
cembre 1979, n. 6543, id., Rep. 1979, voce cit., n. 256; 12 novem
bre 1979, n. 5862, ibid., n. 231; 20 gennaio 1979, n. 464, ibid., n. 266.
Non risultano .precedenti in termini sulla problematica, ampiamente
trattata dalla sentenza pretorile che si riporta, della configurabilità del
rapporto di lavoro subordinato tra condomino e condominio in rela
zione all'attività di pulizia delle scale svolta dal primo. Per la temati
ca, ritenuta analoga a quella decisa, della compatibilità della dur
plice posizione di socio di una società e di lavoratore subordinato del
la medesima, cfr. Cass. 27 marzo 1979, n. 1797, ibid., n. 309.
Con sentenza del 7 febbraio 1975 l'adito tribunale rigettava la
domanda.
La Corte d'appello di Roma con sentenza del 21 ottobre 1977
rigettava il gravame, interposto dalla soccombente, confermando la decisione di primo grado.
Nella motivazione la corte di merito osservava che, a prescin dere dal nomen iuris dato dalle parti al contratto, la natura di
lavoro autonomo risultava dall'interpretazione delle clausole con
trattuali attinenti: 1) alla fornitura da parte della Di Vico del
materiale occorrente per le pulizie, con incidenza a suo carico di
un rischio economico, sia pure modesto; 2) alla libertà di scelta
di orario nell'esecuzione delle opere; 3) alla fissazione di un
corrispettivo annuo, da versarsi in soluzioni mensili. La corte
rilevava quindi che l'elemento della subordinazione era assente, atteso che l'amministratore del condominio si limitava ad un
generico controllo del risultato dell'opera, e. che, abbandonata la
tesi originaria di essere addetta anche alla custodia dell'immobile, la Di Vico non aveva dimostrato la durata dell'impegno lavorati
vo di quattro ore giornaliere, che non doveva peraltro essere
adempiuto da lei personalmente purché il risultato fosse raggiun to. Aggiungeva la stessa corte che l'incombenza di riscuotere le
quote condominiali, di solito affidata all'addetto alla pulizia se
condo la disciplina collettiva, non poteva da sola acquisire effica
cia probatoria ai fini della sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato e che, inoltre, la lavoratrice non aveva prestato le
proprie energie lavorative esclusivamente a favore del condomi
nio, in quanto, scopate le scale tutti i giorni e lavatele una volta
la settimana, aveva modo ed agio di dedicarsi ad altri lavori.
Propone ricorso per cassazione la- Di Vico, formulando tre
motivi di annullamento.
Motivi della decisione. — Con il primo motivo si denuncia
violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, n. 3,
cod. proc. civ.) e si sostiene che il contratto collettivo 30 aprile 1938 e la legge 4 febbraio 1958 n. 23 definiscono il lavoro di
pulizia degli immobili urbani, adibiti ad abitazione, se continuati
vo e non occasionale, come rapporto di lavoro subordinato, senza
che contraria rilevanza possa avere il diverso tenore del contratto
privato, stipulato in frode alla legge, e l'estensione delle incom
benze, affidate agli addetti alle pulizie, classificati come tali nella
lett. c) dell'art. 1 del suddetto contratto collettivo in base alla
loro principale mansione.
Con il secondo motivo si denuncia, in subordine, insufficienza e
contraddittorietà di motivazione (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.)
perché la corte di merito, senza esaminare i criteri, generali ed
astratti, che presiedono alla distinzione tra rapporto di lavoro
subordinato e rapporto di lavoro autonomo, ha escluso la subor
dinazione in base ad elementi inconcludenti, atteso che: a)
l'onere di provvedere i materiali, occorrenti alla pulizia, più che
un trasferimento di un irrisorio rischio economico, doveva essere
interpretato come assegnazione di ulteriore incombenza allo scopo
di fare uso moderato di tali materiali; b) la clausola contrattuale
non conferiva una libertà di scelta del tempo della esecuzione dei
lavori, ma la limitava nelle prime ore del mattino o alla tarda
sera; c) il sistema di pagamento pattuito era tipico del rapporto di lavoro subordinato.
Con il terzo motivo si denuncia, ancora in subordine, ulteriore
vizio di motivazione (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.) per avere la
corte: a) escluso il vincolo di subordinazione a causa della
genericità del controllo, operato dall'amministratore del condomi
nio o dai condomini sulla buona esecuzione dell'opera, mentre è
normale che nel rapporto di lavoro degli addetti alla pulizia il
controllo non vada oltre una verifica successiva all'esecuzione
dell'opera; b) ritenuto sfornita di prova l'affermazione circa la
durata dell'impegno lavorativo, senza considerare l'effettiva esi
genza dello stabile e la natura dei lavori pattuiti; c) svalutato
l'incombenza relativa alla riscossione delle quote condominiali; d)
dato rilevanza ad una ipotetica possibilità di svolgimento di altre
attività, che non sarebbero state comunque incompatibili con il
vincolo di subordinazione.
I tre motivi possono essere congiuntamente esaminati per le
loro connessioni logiche; mentre il primo di essi, proposto in via
principale è infondato, sono invece fondati gli altri due, almeno
nelle argomentazioni essenziali.
Non è sostenibile la tesi, secondo la quale il lavoro degli
addetti alla pulizia degli immobili urbani è definito dalla norma
collettiva corporativa (contr. coli. 30 aprile 1938) e dalla legge (4
febbraio 1958 n. 23) come subordinati senza che contraria rile
vanza abbiano la diversa qualificazione, data dalle parti, e le
eventuali mansioni aggiuntive a quelle di pulizia.
La semplice descrizione di mansioni tipiche dell'addetto alla
pulizia in norme, collettive o legislative, che disciplinano il
rapporto di lavoro subordinato, non può infatti comportare la
Il Foro Italiano — 1981 — Parte I
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PARTE PRIMA
qualificazione del rapporto concreto come tale in ogni caso in cui
quelle mansioni siano continuative e non occasionali. La descri
zione delle mansioni tipiche, contenute in norme collettive o
legislative, vale a fornire i criteri di identificazione di quel
particolare lavoro rispetto ad altri, ma non può sostituire, nella
sua equivoca genericità, i criteri, generali e astratti, che secondo
le norme fondamentali di legge (art. 2094, 2103 segg. cod. civ.)
presiedono alla distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e
rapporto di lavoro autonomo. La continuità delle prestazioni
tipiche di pulizia, considerate dalla normativa collettiva e dalla
legge, non è, poi, una caratteristica esclusiva del lavoro subordi
nato, tale da escludere aprioristicamente qualsiasi altra qualifica
zione, potendo essa riscontrarsi anche nelle diverse configurazioni di lavoro autonomo, che implichino l'esecuzione continuativa o
ripetitiva di un'opera (Cass. 6 aprile 1970, n. 928, Foro it., Rep.
1970, voce Lavoro autonomo, n. 1). Né la norma collettiva né la legge determinano uno schema
legale fisso, completo in tutti i suoi elementi, in cui possa
inquadrarsi il rapporto di lavoro relativo agli addetti alla pulizia
degli immobili urbani, ma, disciplinando questo come rapporto di
lavoro subordinato, pongono le condizioni della loro applicabilità nel presupposto della ricorrenza della subordinazione, in quanto sussiste in concreto, e quindi richiedono, da parte dell'interprete, la verifica di tale presupposto alla stregua delle reali condizioni di
fatto.
La tesi del ricorrente, pertanto, come esattamente osservato
nella sentenza di questa Corte suprema n. 5660 del 29 novembre
1978 (id., Rep. 1978, voce Lavoro (rapporto), n. 272), « inavverti
tamente investe il naturale e corretto rapporto di priorità logico
giuridica tra la situazione di fatto, creatasi tra le parti, che
integra gli estremi della subordinazione alla stregua delle norme
generali » e la disciplina collettiva (o legislativa) che regolamenta determinati rapporti di prestazioni d'opera, supponendo sussistenti
in essi (come probabilmente o solitamente ricorrenti) gli elementi
della subordinazione ».
La sentenza n. 3207 del 10 novembre 1971 di questa corte (id.,
Rep. 1971, voce cit., n. 132), cui il ricorrente fa riferimento,
afferma il principio che « ai fini della qualificazione del rapporto, devono essere considerate anche le disposizioni normative di cui
al contratto collettivo 30 aprile 1938 e della legge 4 febbraio 1958
n. 23, riguardanti i lavoratori addetti, alla pulizia degli immobili
urbani ad uso di abitazione, in cui le prestazioni di pulizia delle
scale o di altre parti comuni dello stabile ed altre consimili sono
considerate come oggetto tipico di lavoro subordinato e mai di
lavoro autonomo, che è pertanto da considerarsi eccezionale alla
stregua delle richiamate norme, e dunque desumibile soltanto da
elementi ben certi e determinanti». L'ipotesi normativa non
determina però né un paradigma legale rigido, cui ricondurre il
rapporto del contenuto tipico, né una presunzione assoluta di
subordinazione, che vincoli l'opera dell'interprete, dato il possibile
riscontro, in base al principio della prevalenza del rapporto reale
rispetto a quello formale, sia del rapporto di lavoro subordinato
sia del rapporto di lavoro autonomo.
Data la possibile verifica di fatto di entrambi i rapporti, non
può ritenersi tra di essi alcuna relazione di normalità ed eccezio
nalità. Si può convenire tuttavia che il giudice del merito — al
fine di reprimere possibili abusi connessi all'adozione della forma
del contratto d'opera — debba nella sua libera valutazione tener
presente, in relazione allo specifico caso esaminato, la probabile o
solita ricorrenza, in rapporti del genere, della subordinazione.
Affermata la compatibilità dei servizi di pulizia degli immobili
urbani adibiti ad abitazione con entrambi i rapporti, autonomo e
subordinato, è compito del giudice del merito inquadrare il
rapporto concreto nell'uno o nell'altro schema, tenuto conto dei
criteri, generali e astratti, che presiedono alla loro distinzione.
In proposito è ormai giurisprudenza costante di questa Corte
suprema che la ricerca e l'individuazione degli elementi di fatto,
che valgano ad inquadrare il rapporto nell'uno o nell'altro sche
ma, costituiscono apprezzamenti di fatto, insindacabili in sede di
legittimità, ove adeguatamente e correttamente motivati, mentre è
censurabile in tale sede soltanto la determinazione dei criteri
generali e astratti da applicare al caso concreto (fra le numerose
Cass. n. 1047 del 1973, id., Rep. 1973, voce cit., n. 286; n. 1065
del 1975, id., Rep. 1975, voce Lavoro e previdenza (controversie),
n. 131, e successive conformi). Occorre però precisare che la
qualificazione giuridica del rapporto ad opera del giudice di
merito costituisce un'operazione logica complessa, che comporta
non soltanto l'adozione degli esatti criteri giuridici, generali e:
astratti, da applicare al caso concreto, ma anche la riconduzione
degli elementi di fatto, liberamente ricercati e individuati, nello
schema di legge, per modo che costituisce materia di controllo di
legittimità anche quest'ultima fase di inquadramento logico-giuri
dico.
Si deve premettere che non v'è alcuna necessità che i criteri
generali e astratti, che distinguono il rapporto di lavoro autonomo
da quello subordinato siano specificamente enunciati, data la loro
individuazione in copiosa e costante giurisprudenza, ma è suffi
ciente che siano presupposti. La corte di merito, presupponendo la conoscenza degli elementi discretivi dei due rapporti, ha
valutato gli elementi di fatto, sottoposti al suo esame, riconducen
doli nello schema del lavoro autonomo, nonostante la loro ambi
guità a causa della compatibilità logica degli stessi con lo schema
del lavoro subordinato, in ciò incorrendo in un palese difetto di
motivazione.
Ricorre infatti il vizio di insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia quando la sentenza riveli un'obiettiva
deficienza del criterio logico in base al quale il giudice ha
formato il suo convincimento, senza che alcuno degli elementi
considerati valgano di per sé a dare adeguata ragione della
pronuncia.
Orbene nel caso in esame la corte di merito ha desunto la
natura di lavoro autonomo dai seguenti elementi, sicuramente
equivoci: 1) la libertà di scelta dell'orario di esecuzione dell'ope ra, che però non è incompatibile con la subordinazione, la quale non viene meno per la minor o maggior frequenza delle mansioni
svolte o la mancanza di una durata oraria, quando sussiste la
continuità delle prestazioni; 2) la fissazione di un corrispettivo annuo in soluzioni mensili, che può essere indifferentemente
pattuita sia nel rapporto di lavoro autonomo in corrispettivo del
risultato dell'opera sia nel rapporto di lavoro subordinato in
corrispettivo dell'energia lavorativa prestata; 3) la possibilità della
lavoratrice di dedicarsi ad altri lavori, nonostante che l'assogget tamento, nella subordinazione del lavoratore al datore di lavoro, non sia esclusivo nel senso che il dipendente per la natura delle
mansioni esercitate può concretamente trovarsi nella condizione
di attendere ad altre occupazioni; 4) la genericità del controllo
sul risultato dell'opera, che però non esclude di per sé solo la
subordinazione, atteso che non è necessario che il potere direttivo
di lavoro si eserciti mediante ordini continui, dettagliati e stretta
mente vincolanti, ma è sufficiente una direttiva data in via
generale, cui può corrispondere anche un controllo soltanto suc
cessivo in relazione alla natura del lavoro svolto; 5) la possibilità del lavoratore di farsi sostituire, che, mentre può significare la
deficienza della collaborazione, può anche assumere valore ambi
guo nei rapporti (addetti alla pulizia, portierato) che tale sostitu
zione consentono; 6) l'incombenza relativa alla riscossione delle
quote condominiali, considerata peraltro in senso negativo, senza
porla in correlazione con gli altri elementi. Dato ciò la qualifica zione giuridica, data dalla corte di merito al rapporto concreto,
non è sorretta da adeguati argomenti logici.
Pertanto sarà compito del giudice di rinvio procedere a nuova
e libera valutazione globale della concreta situazione di fatto,
tenendo presente che il principale elemento oltre quello della
continuità della prestazione e dell'onerosità di questa, che vale a
caratterizzare il rapporto di lavoro subordinato e a distinguerlo da quello di lavoro autonomo, è la subordinazione, consistente
nell'assoggettamento al potere organizzativo, direttivo e disciplina re del datore di lavoro, al quale soltanto spetta di determinare le
modalità, anche di tempo e di luogo, inerenti alla prestazione delle energie lavorative: subordinazione che, pur potendo com
portare eventuali margini, più o meno ampi, di iniziativa e di
discrezionalità da parte del dipendente, non può tuttavia prescin dere dalla dedizione funzionale della di lui energia lavorativa allo
scopo perseguito dal datore di lavoro (a differenza che nella
locatio operis in cui è contemplato il puro e semplice risultato
dell'opera).
Il ricorso deve essere pertanto accolto per quanto di ragione e
la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altro
giudice. Quale giudice del rinvio si designa la Corte d'appello di
Perugia, sezione lavoro, alla quale può essere demandato il
regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.
Per questi motivi, ecc.
II
Il Pretore, ecc. — Svolgimento del processo. — Con ricorso in
data 25 gennaio 1980, diretto al Pretore di Parma in funzione di
giudice del lavoro, Barazzoni Eugenia esponeva testualmente:
« 1) La ricorrente ha prestato la sua opera alle dipendenze del
condominio "Lubiana" corr. in Parma via Molossi 21, nel perìo do dal 1° agosto 1973 al 15 settembre 1975 provvedendo giornal mente e per un'ora alla pulizia delle scale: assunta a seguito di
deliberazione condominiale con la dichiarata qualifica di dipen dente e previa comunicazione all'ufficio provinciale del lavoro, la
Barazzoni effettuò le prestazioni sotto le direttive dell'amministra
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
tore, che le imponeva i tempi e le modalità, che le forniva
l'attrezzatura, ecc.
2) Il condominio oltre a pagare la retribuzione convenuta di lire
500 orarie versò la regolare contribuzione all'I.n.p.s.
3) Addi' 7 marzo 1977 cessata la prestazione lavorativa la
istante presentava all'I.n.p.s. di Parma domanda per la prosecu zione volontaria dell'assicurazione generale obbligatoria; l'I.n.p.s. la respingeva dichiarando non essere sussistito tra il condominio Lubiana e essa Barazzoni un vero e proprio rapporto di lavoro
subordinato e annullando pertanto i contributi. I dovuti ricorsi in via amministrativa, curati dal patronato
A.c.I.i. di Parma, non sortivano esito alcuno. La inquità del
provvedimento dell'I.n.p.s. è di tutta evidenza.
La circostanza che la Barazzoni ha prestato le proprie mere
energie lavorative sotto la direzione e la vigilanza del dirigente condominiale, la fornitura da parte del datore di lavoro della
necessaria attrezzatura, il collegamento tra la retribuzione e la
durata della prestazione, lo stesso atteggiamento del condominio
che ha inteso assumere una dipendente e a tale realtà si è
uniformato, ecc. indicano senza ombra di dubbio che il rapporto inter partes è stato di lavoro subordinato idoneo a dar vita ad un
valido rapporto assicurativo previdenziale ».
Tutto ciò premesso, l'attrice cosi concludeva: « Piaccia al sig. pretore, contrariis reiectis e previe le declara
torie tutte del caso e di legge, giudicare e dichiarare illegittimo il
provvedimento dell'I.n.p.s. in data 4 luglio 1975 portante l'annul
lamento dei contributi versati a favore della istante dal condomi
nio Lubiana nel periodo dal 1° agosto 1973 al 15 agosto 1975 e
dichiarare valida a tutti gli effetti la posizione assicurativa costi
tuita a favore della ricorrente dal condominio Lubiana; conse
guentemente dichiarare fondata la domanda 7 marzo 1977 di
autorizzazione a continuare, mediante versamenti volontari, l'assi
curazione obbligatoria e condannare nel senso l'istituto convenu
to. Vinte le spese da distrarsi a favore del sottoscritto procurato re ».
Con decreto in data 25 gennaio 1980, il pretore adito fissava
l'udienza di discussione. (Omissis) Motivi della decisione. — Ritiene il pretore che siano fondate
le domande dell'attrice Barazzoni Eugenia dirette ad ottenere la
declaratoria di illegittimità dell'annullamento, da parte del conve
nuto I.n.p.s. dei contributi, versati in suo favore dal condominio
Lubiana per il periodo dal 1° agosto 1973 al 15 agosto 1975, e,
per l'effetto, il riconoscimento del preteso diritto alla prosecuzione volontaria nella assicurazione generale obbligatoria.
Infatti, contrariamente a quanto ritenuto dall'istituto convenuto
a sostegno del suo impugnato provvedimento di annullamento, ha
natura di rapporto di lavoro subordinato, ad avviso del pretore, il
rapporto tra l'attuale attrice ed il condominio Lubiana, che ha
dato luogo alla contribuzione annullata.
E la conseguente validità di tale contribuzione integra il requi sito contributivo del preteso diritto alla prosecuzione volontaria
nella assicurazione generale obbligatoria.
Invero, ad avviso del pretore, la proposta qualificazione giuridi ca del rapporto tra l'attuale attrice ed il condominio Lubiana non
è incompatibile con la partecipazione della attrice al condominio
medesimo. Infatti, sebbene sia sprovvisto di personalità giuridi
ca, il condominio di edifici (art. 1117 segg. cod. civ.), quale « ente di gestione » ordinato alla conservazione delle parti comu
ni dell'edificio, all'esercizio dei servizi comuni e alla regolamenta zione del godimento delle prime e della prestazione e fruizione
dei secondi, è tuttavia caratterizzato da una peculiare « orga nizzazione di gruppo», normativamente strutturata ed inderoga bilmente imposta, la quale, oltre a disciplinare i « rapporti interni » (dei condomini tra loro e nei confronti del condominio)
in base al « criterio della quota » ed al « principio maggiorità' rio », si presenta all'esterno come gruppo e può essere centro di
imputazione di situazioni e rapporti giuridici sostanziali (ivi
compresi rapporti di lavoro subordinato) e processuali (cfr. Cass.
17 aprile 1974, n. 1046, Foro it., 1974, I, 2360), per il tramite di
una unitaria rappresentanza conferita, dall'assemblea condominiale
o (in via eccezionale) dall'autorità giudiziaria (ai sensi dell'art.
1129 cod. civ. e dell'art. 65 disp. att. stesso codice), all'ammini
stratore (sulla cui qualificazione giuridica come mandatario o
come organo del condominio, proposta dalla giurisprudenza e
rispettivamente da una autorevole dottrina, non pare necessario
prendere posizione al fine del decidere).
Ora ritiene il pretore che — analogamente alla ipotesi del
conferimento in società di attività personale del socio (esaminata
ripetutamente dalla giurisprudenza; cfr. Cass. 8 giugno 1977, n.
2360, id., Rep. 1977, voce Lavoro (rapporto), n. 285; 30 marzo
1968, n. 990, id., Rep. 1968, voce Società, n. 153; 30 marzo 1966,
n. 841, id.. 1966, 1, 1959) — la prestazione d'opera del condomi
no in favore del condominio possa, in astratto, costituire adem
pimento, sotto forma di datio pro solvendo e pro soluto (ai sensi
dell'art. 1197 cod. civ.) della obbligazione, imposta (dall'art. 1123
cod. civ.) a ciascuno dei condomini in favore del condominio, di
contribuire alle « spese necessarie per la conservazione e per il
godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei
servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla
maggioranza ... in misura proporzionale...» alla quota di pro
prietà, «... salva diversa convenzione ... ».
Tuttavia, perché la prestazione lavorativa del condomino in
favore del condominio possa considerarsi adempimento di tale
obbligazione, è necessario che risulti la volontà del condominio
creditore di «consentire» (ai sensi dell'art. 1197 cod. civ.) tale
datio pro solvendo, offerta unilateralmente dal condominio, op
pure di dare luogo alla « diversa convenzione » nello stesso
senso, in ordine alla « ripartizione delle spese » condominiali, che
viene fatta salva dalla disposizione, nella stessa materia, del citato
art. 1123 (cfr., sulla analoga ipotesi del conferimento in società
della attività personale del socio, Cass. n. 2370/1977, cit.).
Ora, nel caso di specie, non risulta ttna siffatta volontà del
condominio Lubiana, e, perciò, va escluso che l'opera, prestata dall'attuale attrice per le pulizie delle parti comuni dell'edificio,
possa integrare adempimento della sua obbligazione di contribuire
alle spese condominiali (ai sensi dell'art. 1123 cod. civile). Ne consegue che la decisione della presente controversia dipen
de esclusivamente dalla soluzione della questione attinente alla
natura, subordinata o autonoma, della prestazione d'opera dell'at
tuale attrice.
Ora ritiene il pretore — analogamente all'orientamento consoli
dato della giurisprudenza in ordine alla configurabilità di un
rapporto di lavoro subordinato tra socio (o, addirittura, ammini
stratore) di società (anche di persone) e la società medesima oltre
che tra associato ed associazione in partecipazione (cfr., sul punto Cass. 30 marzo 1968, n. 990, cit.; 22 novembre 1968, n. 3802,
id., Rep. 1969, voce Previdenza sociale, n. 550; 13 gennaio 1972, n. 1105, id., Rep. 1972, voce Associazione in partecipazione, n. 1; 12 febbraio 1973, n. 428, id., 1973, I, 2146; 9 novembre 1974, n.
3481, id., 1974, I, 2324; 16 dicembre 1974, n. 4333, id., Rep. 1974, voc6 Lavoro (rapporto), n. 990; 8 giugno 1977, n. 2360, cit.; 8
maggio 1977, n. 2043, id., 1977, I, 2706; 14 febbraio 1977, n. 673,
id., 1977, I, 822) — che non sia astrattamente incompatibile la
posizione di condomino con quella di lavoratore dipendente dal
condominio.
Infatti la persona, che partecipi ad un condominio, all'evidenza
non perde, per ciò solo, la capacità giuridica di autonomo
soggetto di diritti individuali e può quindi istituire, lasciare
permanere, con il condominio medesimo rapporti giuridici, diversi
dai rapporti « interni » (tra condomini e tra questi ed il condo
minio), ivi compreso il rapporto di lavoro subordinato (cfr. la
citata Cass. n. 428/1973). Peraltro la partecipazione di ciascun condomino alla assemblea
condominiale non è di ostacolo all'esercizio, da parte dell'assem
blea medesima e dell'amministratore del condominio, dei poteri
(organizzativi, direttivi, di controllo, disciplinari, ecc.), propri del
datore di lavoro, sul condomino, che presti lavoro subordinato in
favore del condominio.
Ritiene inoltre il pretore che un rapporto di lavoro subordinato,
oltre che astrattamente configurabile, sia nella specie effettivamen
te intercorso tra il condominio Lubiana e l'attuale attrice.
Questa infatti — come risulta dalla deposizione di Gabriele
Pardi (amministratore del condominio Lubiana) — «... ha fatto
le pulizie delle scale... » dell'edificio condominiale, utilizzando
« strumenti e materiali...» forniti dal condominio e dietro « com
penso », a seguito di deliberazione della assemblea condominiale
(dalla cui omessa verbalizzazione derivano conseguenze giuridiche, che non hanno rilievo al fine del decidere) — ora, ancorché
siano astrattamente compatibili con il rapporto di lavoro auto
nomo (cfr. Cass. 6 aprile 1970, n. 828, id., Rep. 1970, voce Lavoro
autonomo, n. 1), tuttavia, per formare oggetto di tale rapporto, « i servizi di pulizia devono costituire il risultato di attività,
assicurata con autonoma organizzazione dei mezzi necessari ed
assunzione del relativo rischio da parte del locator, operis».
Viceversa, in difetto di una qualsiasi organizzazione autonoma,
la prestazione del servizio di pulizia si risolve nella « esecuzione
di mere prestazioni di lavoro», che non può formare oggetto né
di appalto (ai sensi della legge 23 ottobre 1960 n. 1369; cfr., in
motivazione: Cass. 4 giugno 1977, n. 2307, id., 1978, I, 1302; 26
gennaio 1976, n. 235, id., 1976, I, 2452) né, ad avviso del pretore,
di locatio operis, ma soltanto di locatio operarum (sulla distinzio
ne tra locatio operis e locatio operarum, cfr., di recente: Cass. 15
giugno 1977, n. 2494, id., 1978, I, 170; n. 2706/1977, cit.; Pret.
Pisa 21 novembre 1977, id., 1979, I, 1585).
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PARTE PRIMA
In dipendenza della ritenuta sussistenza nella specie di un
rapporto di lavoro subordinato, ne costituiscono soltanto una
conseguenza giuridica non solo i diritti di lavoratori ma anche i
poteri (direttivo, organizzativo, disciplinare, ecc.) del datore di
lavoro, il cui mancato esercizio non può, da solo, costituire
elemento sintomatico della natura autonoma del rapporto. (Omis
sis) Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 14 gen naio 1981, n. 327; Pres. Vigorita, Est. Santosuosso, P. M.
Catelani (conci, conf.); Mercogliano (Avv. Procaccini) c.
Mauro (Avv. Sibilla). Cassa App. Napoli 24 febbraio 1978.
Filiazione — Filiazione naturale — Riconoscimento — Figlio in
frasedicenne — Riconoscimento da parte di un genitore — Op
posizione del genitore che ha effettuato per primo il ricono
scimento — Sentenza — Appello — Inammissibilità — Re
clamo — Ammissibilità (Cod. civ., art. 250).
Avverso la sentenza del tribunale per i minorenni che tiene luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio naturale
infrasedicenne da parte del genitore che ha effettuato per pri mo il riconoscimento stesso deve proporsi reclamo e non ap
pello. (1)
(1) In senso conforme: App. Trento 14 ottobre 1977, Foro it., Rep. 1979, voce Filiazione, n. 34, e con nota di Dogliotti, in Giur. me
rito, 1979, I, 600; Trib. min. Venezia 6 aprile 1976, Foro it., Rep. 1978, voce cit., n. 36.
In altre occasioni la Cassazione aveva seguito un diverso orienta
mento, ritenendo che avverso le sentenze emesse in esito a procedi menti in camera di consiglio fosse esperibile l'ordinario ricorso per cassazione: sent. 18 luglio 1973, n. 2120, id., Rep. 1973, voce Camera di consiglio, n. 4 (in tema di sanzioni a carico di amministratori di
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza che abbiano preso parte a deliberazioni alle quali erano interessati personalmente); 28 di cembre 1967, n. 3022, id., 1968, I, 391, con nota di richiami (in tema di cittadinanza).
In dottrina favorevoli alla soluzione di cui alla massima che si
riporta sono Attardi, in Commentario della riforma del diritto di fa miglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, Padova, 1977, I, 2, 1000; Andrioli, in Foro it., 1975, V, 174. Contrari A. e M. Finocchiaro, Riforma del diritto di famiglia, Milano, 1975, li, 189.
Sulla natura camerale del procedimento ex art. 250 cod. civ.: Cass. 9 novembre 1978, n. 5116, Foro it., Rep. 1979, voce Filiazione, n. 31; Trib. min. Firenze 5 giugno 1978 e App. min. Roma 25 gennaio 1978, Giur. merito, 1980, I, 843 e 93, e in dottrina: Carraro, in Commen
tario, cit., II, 1, 669; Tamburrino, Lineamenti del nuovo diritto di
famiglia italiano, Torino 1978, 330; Della Rocca, Appunti sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, 86.
Contesta tale qualificazione, pur giungendo a configurare un pro cedimento delle caratteristiche analoghe a quelle camerali, Trib. min. Genova 4 dicembre 1975, Foro it., 1975, I, 2805, sulla base di una ri tenuta contrapposizione tra sostanza contenziosa e forma camerale, e in dottrina, A. e M. Finocchiaro, Riforma, cit., 190; Baviera, Di ritto minorile, Milano, 1976, I, 670. Un analogo problema di individua zione della forma dell'impugnazione si è posto in riferimento alla sen tenza emessa nel procedimento di opposizione alla dichiarazione di stato di adottabilità: Cass. 15 luglio 1980, n. 4541, Foro it., Mass., 889 e 4 agosto 1977, n. 3464, id., 1978, I, 114, con nota di richiami, ri
tengono che l'appello debba proporsi con ricorso da depositare nella cancelleria del giudice di secondo grado nel termine perentorio di cui all'art. 314/13 cod. civ., mentre Cass. 22 novembre 1979, n. 6079, id., Rep. 1979, voce Adozione, n. 48 e 20 gennaio 1979, n. 435, ibid., n. 46, affermano che debba proporsi con citazione.
Sui limiti di applicabilità dell'art. 250 cod. civ. all'ipotesi in cui il
genitore che abbia effettuato per primo il riconoscimento sia dece
duto, v. Cass. 21 ottobre 1980, n. 5636, id., 1981, I, 66, con osserva zioni di A. Lener.
Sulla nozione di interesse del minore nel procedimento de quo: Trib. min. Genova 25 gennaio 1979, id., 1980, 'I, 819, con nota di ri chiami e osservazioni di Dogliotti, cui adde Trib. min. Roma 18 marzo 1980, Giust. civ., 1980, I, 1718, con nota di Del Conte. Trib. Bologna 7 maggio 1979, Foro it., 1980, I, 1238, ha sollevato
questione di costituzionalità dell'art. 250 cod. civ. nella parte in cui sembra dare valore preponderante alla priorità cronologica del ricono scimento rispetto a considerazioni piti sostanziali dell'interesse del mi
nore, in riferimento agli art. 3 e 30 Cost. La sentenza che si riporta non affronta espressamente il problema
della individuazione del termine perentorio entro il quale deve pro porsi il reclamo, che è problema concettualmente distinto da quel lo della forma della impugnazione (in tal senso v. da ultimo C. M. Barone, id., 1981, I, 22). App. Trento e Trib. min. Venezia, cit., ritengono che il reclamo debba proporsi entro i dieci giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza. La soluzione, da condi
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — L'8 febbraio
1977, Carmela Mauro ricorreva al Tribunale per i minorenni di
Napoli ed esponeva che nel 1971 aveva avuto una figlia naturale
per la relazione avuta con Felice Mercogliano; la bambina, riconosciuta subito dial padre, non era stata invece da lei ricono
sciuta nemmeno quando, nel 1973, la ricorrente aveva contratto
matrimonio col Mercogliano; che tale riconoscimento però s'im
poneva ora che i coniugi si erano separati di fatto ed il Merco
gliano aveva abbandonato anche la figlia. Tanto premesso, la Mauro chiedeva al tribunale di consentire il
riconoscimento stesso, ritenendo ingiustificata l'opposizione da
parte del genitore che aveva per primo riconosciuto la bambina.
Il giudice adito, istruita Ita causa, accoglieva il ricorso. Avverso
questa decisione, il Mercogliano proponeva reclamo alla corte
d'appello, sezione minorenni. Il difensore della Mauro chiedeva
che il reclamo stesso fosse « rigettato » per inammissibilità ed in
ogni caso per infondatezza. Anche il p.g. concludeva per il rigetto del reclamo.
La corte d'appello, premesso che la procedura prevista dall'art.
250 cod. civ. ha natura contenziosa e termina con sentenza, ha
ritenuto che le impugnazioni si propongono con i normali mezzi
dell'appello e poi del ricorso per cassazione, e non con reclamo
ex art. 739 cod. proc. civ. e poi con ricorso ex art. Ill Cost.
Non ostano a questa conclusione le norme dell'art. 38 disp. att.
cod. civ., le quali valgono esclusivamente per affermare la compe tenza del tribunale per i minorenni e per regolare l'ipotesi in cui
il suddetto tribunale decide con decreto, ma non nel caso, come
quello di specie, in cui la decisione è adottata con sentenza.
La corte d'appello, quindi, ha dichiarato inammissibile il recla
mo proposto dal Mercogliano; il quale ricorre ora per cassazione
sulla base di due motivi.
Motivi della decisione. — Con il primo mezzo il ricorrente
sostiene che avverso il provvedimento che il tribunale per i
minorenni adotta ai sensi dell'art. 250 cod. civ. l'impugnazione si
propone con reclamo, come espressamente prevede l'art. 38 disp. att. cod. civile. Questa norma è ampiamente formulata, fa espres so riferimento all'art. 250 e non distingue se il provvedimento ab
bia la forma di decreto o di sentenza.
Con il secondo mezzo sostiene subordinatamente che l'atto di
impugnazione da lui proposto poteva essere interpretato anche
come 'appello, e che, in ogni caso, anche se avente la forma di
reclamo, l'errore doveva ritenersi sanato perché era stato raggiun to lo scopo di instaurare il contraddittorio fra le parti.
All'esame delle tesi prospettate in questo secondo mezzo non è
necessario passare, dal momento che il collegio ritiene che il
primo motivo di ricorso sia fondato.
L'affermazione del principio, secondo cui anche avverso la
sentenza del tribunale per i minorenni sul ricorso previsto dall'art.
250, 4° comma, cod. civ., il mezzo d'impugnazione previsto dalla
legge è il reclamo alla sezione di corte d'appello per i minorenni, trova lia sua base giustificativa in vari argomenti, ma soprattutto
nell'esegesi dell'art. 38 disp. att. cod. civ., cosi come risulta modificato dall'art. 221 della legge di riforma n. 151/1975.
Il citato art. 38, infatti, non contiene soltanto disposizioni relative alla competenza. Di questa natura sono indubbiamente le norme di cui ai primi due comma dell'articolo stesso; nel primo dei quali si fa riferimento anche all'art. 250 cod. civ. nell'elenco dei provvedimenti che sono di competenza del tribunale per i
minorenni.
La norma di cui al terzo comma stabilisce che « in ogni caso »
(dei molteplici elencati nelle disposizioni precedenti) deve se
guirsi il rito camerale, sentito il pubblico ministero. Ed al quarto comma viene sancito che contro il « provvedimento » emesso dal
tribunale per i minorenni si propone « reclamo » davanti ®lla
sezione di corte d'appello per i minorenni.
Da questa normativa appare lecito dedurre le seguenti osserva zioni: a) che per tutti i provvedimenti indicati nell'articolo in
esame deve seguirsi il rito camerale, e le disposizioni comuni ai
procedimenti in camera di consiglio (art. 737 segg. cod. proc. civ.)
videre, non trova ostacolo nella lettera dell'art. 739 cod. proc. civ., da ritenere appicabile in virtù del richiamo implicito alla disciplina ge nerale dei procedimenti camerali contenuto nell'art. 38 disp. att. cod.
civ., dettato espressamente per l'ipotesi che il provvedimento abbia la forma di decreto, trattandosi di norma speciale, rispetto a quella gene rale di cui all'art. 739 cod. proc. civ., suscettibile di interpretazione estensiva. Un'opposta soluzione, che ritenesse applicabili i termini acce leratori ordinari sarebbe comunque irrazionale perché, come è stato no tato nelle sentenze di merito citate, le esigenze di semplicità e celerità, che sono alla base della scelta del procedimento camerale, verrebbero
inspiegabilmente frustrate nei gradi di impugnazione e limitate al solo
procedimento di primo grado.
G. Salmè
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