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Sezione lavoro; sentenza 16 settembre 1982, n. 4889; Pres. Renda, Est. Micali, P. M. Catelani(concl. conf.); Ceccatelli (Avv. Agostini, Bellotti) c. Ditta Gival (Avv. Calabrese, Testoni).Conferma Trib. Pisa 26 agosto 1977Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 2 (FEBBRAIO 1983), pp. 389/390-393/394Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174230 .
Accessed: 28/06/2014 11:08
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
L'art. 2439, 2° comma, è posto, pertanto, a salvaguardia di tale
interesse della società, e cioè tende ad evitare che nel frattempo i sottoscrittori si ritirino. La costruzione proposta non cade nel
l'antinomia di considerare incondizionato l'obbligo dei sottoscrit
tori e condizionato quello della società: la condizione di cui si
è parlato, infatti, riguarda il contratto nel suo complesso e cioè
entrambe le parti. La condizione non può considerarsi inerente
alla proposta o all'accettazione, ma è un elemento esterno di ef
ficacia del contratto nel suo complesso. Il vincolo fra i singoli sottoscrittori e società si forma per ef
fetto della sottoscrizione, ma se tale sottoscrizione non riguarda l'intero capitale di cui all'aumento deliberato (contenuto nella
proposta mediante offerta al pubblico), non potrà verificarsi quel la congruenza fra proposta ed accettazione che è essenziale per la conclusione del contratto. Poiché è nella struttura stessa del
l'offerta che essa possa essere accettata da una pluralità di sog
getti del tutto distinti fra di loro, la legge consente che la con
gruenza di cui si è detto riguardi la proposta e le accettazioni nel
loro complesso, che pertanto diverranno efficaci non appena si
verifichi tale congruenza. Se essa non si realizza, in deroga al
l'inefficacia del contratto che ne conseguirebbe secondo i principi, l'art. 2439, 2° comma, mantiene l'obbligatorietà del vincolo dei
sottoscrittori, a tutela dell'interesse della società ad un aumento
parziale; che potrà essere valutato soltanto dall'assemblea in re
lazione alla misura di esso.
I sottoscrittori potranno interpellare la società di pronunciarsi entro un termine sull'accettazione o meno della sottoscrizione par ziale o fare fissare un termine per liberarsi dai loro obblighi ex art. 1183 c. c. Infatti l'art. 2439 prevede, al 1° comma, il ver
samento dei tre decimi, sicché la situazione da cui parte la legge è quella della mera assunzione dell'obbligo del (completamento
del) versamento; mentre la liberazione immediata delle azioni sot
toscritte è un'ipotesi di specie. Naturalmente, la delibera della società potrà prevedere il caso
espressamente, sia nel senso di escludere l'efficacia dell'aumento
parziale, come è fatto salvo dall'art. 1439, 2° comma, sia nel senso
di prevederne espressamente l'efficacia; ed allora dalla stessa de
libera si trarranno gli elementi per risolvere il problema. Non può però porsi — come sostengono i ricorrenti — come
criterio di interpretazione della delibera il principio che la legge consideri i sottoscrittori già soci al momento della parziale sot
toscrizione, sicché tale loro qualità debba essere espressamente esclusa dalla delibera stessa. E poiché i ricorrenti non deducono
altri errori di diritto che inficiano l'interpretazione della corte di
Messina secondo la quale la deliberazione prevedeva un aumento
inscindibile, tale interpretazione — coinvolgendo un apprezza mento di fatto i— non può essere censurata da questa corte. In
fatti, l'attestazione effettuata dall'amministratore ex art. 2444 c. c.
riguarda un'esecuzione dell'aumento di capitale conforme a legge ed alla delibera societaria; e tale attestazione è quindi priva di
efficacia né tale conformità non sussiste. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 16 set
tembre 1982, n. 4889; Pres. Renda, Est. Micali, P. M. Cate
lani (conci, conf.); Ceccatelli (Avv. Agostini, Bellotti) c.
Ditta Gival (Avv. Calabrese, Testoni). Conferma Trib. Pisa
26 agosto 1977.
Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Questioni ri
levabili d'ufficio — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 416; 1. 20
maggio 1970 n. 300, norme sulla tutela della libertà e dignità
dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale
nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento, art. 18. 35).
Il numero minimo dei dipendenti richiesto per l'applicazione del
l'art. 18 l. 300/1970 costituisce questione rilevabile d'ufficio da
parte del giudice e pertanto non è soggetta alle preclusioni pre
viste dall'art. 416 c. p. c. riguardo alle eccezioni proponibili
solo dalle parti. (1)
(1) Esplicitamente, in senso contrario v., richiamata in motivazio
ne, Cass. 7 aprile 1981, n. 1957, Foro it., Rep. 1981, voce Lavoro
(rapporto), n. 1689. La formulazione della massima riflette le molte incertezze della mo
tivazione della sentenza in epigrafe, la quale mostra di non avere
chiarezza in ordine: a) alla distinzione tra questioni di diritto e
questioni di fatto rilevabili d'ufficio, ed in particolare fra questioni di diritto ed eccezioni rilevabili d'ufficio; b) alla distinzione tra alle
gazione al giudizio di fatti impeditivi modificativi o estintivi e potere del giudice di rilevarne d'ufficio gli effetti sul diritto fatto valere in
Svolgimento del processo. — Il Tribunale di Pisa con sentenza in data 26 agosto 1977 riformava la decisione adottata da quel pretore nella controversia vertente tra Dario Ceccatelli e la ditta
Gival, sui rilievi seguenti: 1) che l'attore, a norma dell'art. 13 del c.c.n.l. per gli addetti all'industria del legno e del sughero sti
pulato in data 1° settembre 1973, aveva, si, l'obbligo di comuni care al datore di lavoro il suo stato di malattia, ma non era obbli
gato, del pari, a tenerlo informato del suo prolungamento oltre il periodo di prognosi formulato nel primo certificato medico,
per cui il licenziamento intimatogli per tale motivo doveva essere ritenuto illegittimo, con conseguente obbligo di reintegrazione nel
posto di lavoro; 2) che, per contro, il primo giudice aveva errato
nell'aver ritenuto proposta tardivamente, ex art. 416, 2° comma, c. p. c. la deduzione fatta dalla ditta convenuta all'udienza di
discussione secondo cui essa occupava una media permanente di
cinque o dieci dipendenti, onde non le era applicabile né l'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300 né l'art. 8 1. 15 luglio 1966 n. 604; 3) che, pertanto, il licenziamento intimato per la giusta causa as serita e non sussistente, doveva esser ritenuto convertibile in re cesso ad nutum, secondo quanto disposto dall'art. 2118 c. c.
Avverso tale decisione il Ceccarelli ha proposto ricorso per cas
sazione e vi ha resistito la ditta Gival con controricorso e conte stuale ricorso incidentale.
Motivi della decisione. — Il ricorrente, con l'unico motivo di
cassazione proposto, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 416, 2° comma, c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., ha sostenuto che il tribunale aveva errato nell'aver ritenuto pro posta tempestivamente l'eccezione sollevata dalla ditta convenuta
all'udienza di discussione dinanzi al pretore, secondo cui non le
era applicabile il sistema di tutela reale previsto dall'art. 18 1. 20
giudizio anche indipendentemente da una istanza (implicita o espli cita in tal senso) del convenuto; c) alla distinzione tra poteri istrut tori d'ufficio del giudice e potere del giudice di rilevare d'ufficio gli effetti di fatti impeditivi modificativi o estintivi allegati al giudizio.
La mancanza di chiarezza su tali questioni (su cui v. per tutti Fab erini, L'eccezione di merito nello svolgimento del processo di cogni zione, in Studi in memoria di C. Fumo, Milano, 1973, 247; E. Grasso, La pronuncia d'ufficio, Milano, 1967, I; Id., Dei poteri del giudice, in Commentario del cod. proc. civ., diretto da E. Allorio, Torino, 1973, I, 2, 1269) priva di forza di convincimento la decisione in epi grafe la quale nulla dice: aa) in ordine al se il requisito del numero minimo dei dipendenti richiesto dall'art. 35 1. 300/1970 per l'appli cabilità dell'antecedente art. 18 vada configurato come fatto impedi tivo ovvero come fatto costitutivo rispetto alla domanda con cui si fa valere in giudizio l'illegittimità di un licenziamento; bb) in ordine al se, una volta ricostruito tale requisito come fatto impeditivo, e la relativa eccezione come eccezione rilevabile d'ufficio, l'allegazione di tale fatto al giudizio debba avvenire solo ad opera delle parti entro i termini di preclusione di cui agli art. 414, 416 e 420 o no, ov vero possa avvenire anche ad opera di soggetti diversi dalle parti ma anche dal giudice (testimoni, associazioni sindacali chiamate a rendere informazioni od osservazioni ex art. 425 o 421, 2° comma, c.p.c.), ovvero ancora possa avvenire anche ad opera del giudice con un sostanziale superamento del principio della domanda, inteso in senso
ampio. In giurisprudenza sul regime delle eccezioni nel rito del lavoro,
v., da ultimo, Cass. 17 marzo 1981, n. 1571 (Foro it., 1981, I, 981, con nota di richiami) secondo cui la difesa del convenuto concernente la sottrazione di un licenziamento, in quanto collettivo, dalla disci
plina limitativa dei licenziamenti, non costituisce eccezione in senso proprio con la quale si alleghi un fatto impeditivo od estintivo bensì una mera difesa attinente alla contestazione dello stesso fatto costi tutivo della domanda e pertanto non soggetta a! termine di preclu sione di cui all'art. 416 c.p.c.; Cass. 11 luglio 1981, n. 4536 (ibid., 2402, con nota di A. Proto Pisani, In tema di prova nel processo del lavoro: temperamenti al principio di eventualità), che nella motivazione svolge una corretta distinzione teorica fra eccezio ni rilevabili solo su istanza di parte ed eccezioni rilevabili d'uffi cio da un lato, e mere difese dall'altro lato; Cass. 4 dicembre
1981, n. 6423 {id., 1982, I, 1339, con nota di richiami) secondo cui
nel rito del lavoro, a differenza del rito ordinario, non sono ammesse nel giudizio di primo grado nuove eccezioni, non rilevabili d'ufficio, che non siano state proposte tempestivamente nella memoria difen
siva di costituzione, senza che rilevi l'eventuale mancata opposizione delle altre parti alla tardiva formulazione dell'eccezione, salvo sol tanto il potere per il giudice di autorizzare anche implicitamente, ove ricorrano gravi motivi, la modifica delle eccezioni già formulate: nella
specie si discuteva circa la tardività o no di una eccezione di prescri zione; nonché, con riferimento ad una fattispecie particolare, Cass. 13 marzo 1982, n. 1652, ibid., 2531, con ulteriore nota di richiami.
Sulla nozione di eccezione in genere v. Cass. 10 gennaio 1981, n.
146, id., 1981, I, 1640, ed ivi l'ampia nota di richiami di L. Lotti. Sull'ambito di applicazione dell'art. 18 1. 300/1970, v., da ultimo,
l'efficace sintesi di F. Pirelli, In tema di campo d'applicazione della
disciplina dei licenziamenti individuali, in Riv. it. dir. lav., 1982, 65: F. Mazziotti, Il licenziamento illegittimo. Napoli, 1982, 74 ss.
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PARTE PRIMA
maggio 1970 n. 300 perché occupava un numero di dipendenti in
feriore a quindici, secondo quanto disposto dall'art. 35.
11 tribunale, per contro, avrebbe dovuto ritenere che la difesa
suddetta si risolveva nella proposizione tardiva di un'eccezione in
senso proprio, onde, al pari del primo giudice, avrebbe dovuto ri
tenerla inammissibile, a norma dell'art. 416, 2° comma, c.p.c., che obbliga il convenuto a proporre nella memoria difensiva tutte
le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili
d'ufficio.
La doglianza è infondata: l'allegazione suddetta non costituisce
affatto un'eccezione, né in senso proprio (sostanziale), né in senso
improprio (argomentazione difensiva), bensì una condicio iuris in
senso tecnico-giuridico, rilevabile d'ufficio dal giudice in sede di
verifica preliminare dell'esistenza di tutte le condizioni richieste
dalla legge per l'esercizio dell'azione proposta dall'attore.
Consegue che anche nel caso in cui la ditta convenuta fosse
rimasta contumace il pretore avrebbe dovuto verificare egualmen te di sua iniziativa la sussistenza di tutte le condizioni richieste
dalla 1. 20 maggio 1970 n. 300 per la sua applicabilità e, tra esse,
quella della consistenza numerica dei dipendenti della ditta resi
stente, perché tale requisito delimita il campo d'applicazione della
legge invocata, con riferimento all'ordine di reintegrazione del
prestatore d'opera nel posto di lavoro, secondo il combinato dispo
sto degli art. 18, T comma, e 35 della legge stessa.
La società convenuta pertanto, nel far presente che essa occu
pava un numero di dipendenti inferiore a quindici, non propo neva un'eccezione nel senso processuale del termine: non svolge
va, cioè, un'attività di contraddizione della pretesa dell'attore, ri
servata soltanto all'iniziativa di quest'ultimo, con la conseguenza che il pretore, ancorché avesse conosciuto per altra via le circo
stanze dedotte, non avrebbe dovuto tenerne conto.
La società convenuta, cosi deducendo, aveva concorso soltanto, in modo autonomo e non condizionante, all'accertamento d'ufficio
che il giudice avrebbe dovuto pur compiere in ordine alla verifica della sussistenza di tutte le condizioni richieste dalla legge per la
proposizione della domanda di reintegrazione nel posto di lavoro,
nonché dei suoi presupposti processuali. L'eccezione in senso proprio, cioè sostanziale, cui il resistente
si riferisce, consiste, invece, nella deduzione dell'esistenza di fatti
estintivi o modificativi, ovvero di circostanze impeditive, del di
ritto vantato dall'attore, senza l'allegazione dei quali il giudice non potrebbe rilevarne d'ufficio l'esistenza.
Sul tal punto, il nuovo rito del lavoro, pur essendo impron tato all'esigenza della celerità del processo mediante l'oralità, l'im
mediatezza e la concentrazione degli atti processuali, non ha in
novato affatto ai principi processuali del rito ordinario, non
avendo creato alcuna commistione tra attività processuale deman
data esclusivamente alla parte, quale soggetto del rapporto stesso,
come suo contributo all'accertamento della posizione di diritto
del bene della vita conteso, ed attività giurisdizionale, quale po tere-dovere del giudice di procedere d'ufficio all'accertamento del
l'esistenza di tutte le condiciones iuris e dei presupposti pro cessuali richiesti dalla legge per la tutela del diritto invocato.
Il nuovo sistema processuale ha voluto, si, una più intensa
partecipazione al processo delle parti private, imponendo loro
un'esposizione immediata, in fatto e in diritto, delle loro ragioni e, correlativamente, delle eccezioni proponibili, sia di rito che di
merito, ma non ha potuto fare a meno di fare eccezione per quel le rilevabili d'ufficio.
Se non avesse sottratto queste ultime alla regola generale suddetta non si sarebbe pili compreso in che cosa avrebbe do
vuto consistere, non soltanto l'attività istruttoria del giudice, ma,
addirittura, il suo maggior potere di impulso processuale che gli era stato attribuito, al fine di ridurre al massimo i tempi di acqui sizione dei termini della lite in funzione della pronuncia, quanto
più celere possibile, della sentenza.
Al giudice, pertanto, è stato mantenuto il compito esclusivo, tanto tradizionale quanto insopprimibile, di stabilire quali siano
le leggi applicabili secondo le condizioni poste dal legislatore, e
ciò non soltanto in base ai fatti ed alle circostanze dedotti dalle
parti, ma anche in base a tutti quegli elementi che esso deve
acquisire d'ufficio (ancorché le parti possano facilitargliene il
compito con le loro osservazioni) al di là, addirittura, del prin
cipio della disponibilità delle prove che anima il processo or
dinario. Delle innovazioni suddette, e delle nuove competenze e dei
limiti stabiliti all'attività processuale delle parti e del giudice, si
ha chiara conferma dalla relazione estesa dalle commissioni riu
nite del Senato (documento n. 542/A - VI legislatura) in occa
sione della discussione in aula della 1. 11 agosto 1973 n. 533, il
cui testo assume valore particolare, perché è riassuntivo di tutte
le osservazioni e proposte che erano già state avanzate dinanzi
alla Camera dei deputati, ove era stato discusso in precedenza il
provvedimento legislativo. I suoi punti salienti sono i seguenti: « Si è voluto conservare
il sistema di preclusioni e decadenze rivolto a conseguire dalle
parti la collaborazione necessaria ad una definizione della lite:
sistema che si è tradotto nell'obbligo del convenuto di prendere
posizione in maniera precisa, e non limitata ad una contesta zione generica, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda; nonché dell'obbligo, a pena di decadenza, di pro porre fin dalla costituzione in giudizio le domande riconvenzio nali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'uffi
cio, e di indicare e produrre tutti i mezzi di prova dei quali la
parte intenda valersi. « Anzi, sul punto, è opportuno sottolineare che la possibilità
prevista dall'art. 420 di modificare le domande e le eccezioni e di
dedurre nuove prove alla prima udienza non deve considerarsi la
regola, né tale deve divenire nella prassi giudiziaria, bensì l'ecce
zione affidata al controllo rigoroso del giudice. « Lo dimostra, peraltro, la stessa formulazione dell'art. 420 che
subordina la modifica delle domande e delle eccezioni e conclu
sioni già formulate all'esistenza di gravi motivi, e la proponibi lità di nuovi mezzi di prova alla reale impossibilità di una loro
deduzione nell'atto introduttivo del giudizio». II legislatore, quindi, da un lato, ha voluto sottrarre all'obbli
go di deduzione immediata delle parti tutte le eccezioni rileva bili d'ufficio, in modo da non creare commistione ed interfe renza con l'attività demandata in via esclusiva all'attività del giu dice, e, in secondo luogo, ha mostrato d'intendere per eccezioni deducibili immediatamente, se pur ve ne fosse stato bisogno, solo
quelle suscettibili di modificazione, stabilendone, poi, il divieto, « salvo grave motivo ».
Or si comprende facilmente che, in tanto un'eccezione può esser
modificata, in quanto concerna un fatto estintivo, modificativo o
impeditivo del diritto vantato dall'attore (ad esempio, art. 1442
e 1446 c.c., ex art. 1300 c.c., ovvero l'eccezione di prescrizione di cui all'art. 2948 c.c., o quella del beneficio di escussione di cui
al combinato disposto degli art. 1944 e 1908 c.c., ovvero ancora
ì'exceptio plurium litisconsortium di cui agli art. 1507 e 1525
c.c.) onde la sua allegazione si ponga come contro-diritto alla
pretesa avversaria, quale eccezione in senso stretto o sostanziale, ovvero come argomento tendente alla semplice negazione del di ritto vantato (eccezione in senso improprio).
Il concetto di «eccezione», pertanto, che ha avuto presente il legislatore nella formulazione della norma di cui all'art. 416, T comma, c.p.c., non può esser confuso affatto con quello di condicio iuris, essendo questa immodificabile e non consistendo, inoltre, in un contro-diritto che possa esser fatto valere in via di azione o di opposizione alla pretesa avversaria, né in un argo mento difensivo prospettabile nell'ambito dell'attività difensiva
riservata, ex se, all'iniziativa eventuale della parte, perché, come già detto, la sua deduzione concorre, in tale ultimo caso, in mo do del tutto secondario ed indiretto al potere-dovere del giudice di procedere alla verifica dell'applicabilità delle leggi invocate.
Il collegio, quindi, per le ragioni fin qui esposte, non ritiene di confermare l'interpretazione data da questa corte alla norma in esame con la sentenza n. 1957 del 7 aprile 1981 (Foro it.( Rep. 1981, voce Lavoro (rapporto), n. 1689) con cui, ex professo, ha affrontato per la prima volta la questione.
Con tale decisione è stato enunciato il principio di diritto se guente: « la deduzione da parte del datore di lavoro, su cui gra va l'onere probatorio relativo, dell'insussistenza del- numero mi nimo dei dipendenti richiesto per l'applicabilità dell'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300, concernente la reintegrazione del lavoratore licenziato, costituisce un'eccezione che dev'essere proposta ai sensi dell'art. 416, 2° comma, c.p.c., e soggiace, nel giudizio di
appello, alla preclusione di cui all'art. 437, 2° comma, dello stesso codice ».
Tale sentenza lascia intendere chiaramente di aver considerato la deduzione del numero dei dipendenti « eccezione » in senso
proprio, sul rilievo che essa consiste in una circostanza di fatto il cui onere probatorio incombe al datore di lavoro.
Circa l'interpretazione da dare all'eccezione, quale mezzo pro cessuale di contraddire alla pretesa altrui, si è già detto, mentre deve rilevarsi che nessuna norma di legge particolare impone al datore di lavoro di dare la prova del numero dei dipendenti che occupa nella sua impresa al fine della non applicabilità, nei suoi confronti, del sistema di tutela reale di cui all'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300, cosi come dispone, invece, l'art. 5 1. 15 lu glio 1966 n. 604, sui licenziamenti individuali in ordine all'impo sizione della prova al datore di lavoro circa la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento intimato.
La sentenza suddetta, pertanto, afferma implicitamente il prin
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
cipio che l'onere probatorio dev'essere addossato al datore di la
voro, in base alla regola generale dettata dall'art. 112 c.p.c., se
condo cui « il giudice ... non può pronunciare di ufficio su ecce
zioni che possono essere proposte soltanto dalle parti ».
L'osservazione fatta dall'imprenditore, per contro, circa la non
applicabilità, nei suoi riguardi, dello statuto dei lavoratori, deve
essere qualificata invece (lo si ripete ancora una volta) come alle
gazione difensiva concernente la verifica di una condicio iuris ri
levabile dal giudice ex officio, e rientrante nel suo potere-do
vere di conoscere della legge applicabile al caso dedotto in
giudizio. Dalle considerazioni suddette discende che tale motivo d'impu
gnazione è infondato e dev'essere rigettato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 18 agosto
1982, n. 4660; Pres. A. Caleca, Est. Tridico, P. M. Miccio
(conci, conf.); Ruggiero (Avv. Leu) c. A.c.e.a. (Avv. Piaci
teli,!). Conferma Trib. Roma 9 dicembre 1976.
Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Appello —
Nuove prove — Indispensabilità — Estremi (Cod. proc. civ.,
art. 437).
Nel giudizio di appello che si svolge nelle forme del rito del la
voro non {tossono essere richiesti mezzi di prova che la parte, ove fosse stata più diligente, avrebbe potuto e dovuto agevolmen te portare all'esame del giudice di primo grado (nella specie, si
è esclusa l'ammissibilità della produzione di documenti non in
dicati nel ricorso introduttivo, con riferimento ad una ipotesi in
cui la domanda è stata conseguentemente rigettata per mancata
prova del fatto costitutivo). (1)
(1) La decisione in epigrafe affronta non certo con perspicuità uno dei più delicati problemi posti dal rito speciale del lavoro, e cioè quando ricorra il requisito della indispensabilità cui l'art. 437
c.p.c. subordina l'ammissione di nuovi mezzi di prova in appello. In via preliminare nel caso di specie la « nuova prova » era co
stituita da un documento relativo ad un accordo sindacale. La sentenza
a) considera pacifico, e pertanto omette di dedicare al punto anche un solo cenno, che i documenti vadano trattati alla stessa stregua delle prove c.d. costituende; sul che si può probabilmente anche conve
nire, ma nella consapevolezza che non si tratta affatto di principio pacifico avendo invece la Corte di cassazione altre volte e costante mente escluso che l'art. 437, 2" comma, precluda la produzione (o la richiesta d'esibizione) di nuovi documenti in appello: v. in tal senso
esplicitamente Cass. 29 giugno 1977, n. 2835, Foro it., 1978, I, 2607,
con ampia nota di richiami, cui adde da ultimo Cass. 13 novembre
1981, n. 6023, id., Rep. 1981, voce Lavoro e previdenza (controver
sie), n. 479; 18 giugno 1981, n. 3997, ibid., n. 480; 28 maggio 1981, n. 3512, ibid., n. 481; 8 maggio 1981, n. 3049, ibid., n. 482; 23 aprile
1981, n. 2436, ibid., n. 483; 30 marzo 1981, n. 1835, ibid., n. 484; 15
gennaio 1981, n. 342, ibid., n. 485; 10 gennaio 1980, n. 198, ibid., n. 486; 3 aprile 1979, n. 1932 e 10 gennaio 1979, n. 175, ibid., nn. 487, 488; 22 gennaio 1981, n. 514, ibid., n. 492; 30 gennaio 1981, n. 716, ibid., n. 507; 26 novembre 1980, n. 6280, id., 1981, I, 727; 2
giugno 1982, n. 3372, id., Mass., 709; 15 marzo 1982, n. 1694, ibid.,
354; 17 aprile 1982, n. 2348, ibid., 491; 21 gennaio 1982, n. 162,
ibid., 34; in senso contrario v. Trib. Roma 15 giugno 1979, id.,
1979, I, 1874, con ulteriore nota di richiami, cui adde, in senso du
bitativo, Cass. 8 maggio 1981, n. 3048, id., Rep. 1981, voce cit.,
n. 489; b) non considera in modo alcuno la particolarità che nel caso
di specie la prova aveva ad oggetto un accordo sindacale, circostanza
niente affatto irrilevante in quanto il legislatore nell'art. 425, ult. com
ma, sembra avere considerato in modo autonomo rispetto alle altre
prove la prova dei « contratti ed accordi collettivi di lavoro, anche
aziendali, da applicare alla causa »; per un cenno in tal senso v.
Cass. 4 settembre 1981, n. 5045, id., Rep. 1981, voce cit., n. 421;
c) non considera per nulla, infine, che, secondo un orientamento del
tutto costante, il controllo in Cassazione circa la sussistenza del requi
sito o no della indispensabilità è possibile solo nei ristretti limiti consen
titi dall'art. 360, n. 5 {v. da ultimo Cass. 4 marzo 1981, n. 1272, ibid.,
n. 223; 17 dicembre 1981, n. 6706, ibid., n. 500; 10 dicembre 1981,
n. 6544, ibid., n. 501; 29 settembre 1981, n. 5189, ibid., n. 502; 17 lu
glio 1981, n. 4659, ibid., n. 503; 23 giugno 1981, n. 4094, ibid., n.
505; 28 aprile 1981, n. 2553, ibid., n. 506; 1° aprile 1982, n. 2013,
id., Mass., 419). Quanto al requisito della « indispensabilità » la motivazione della
sentenza in epigrafe — dopo averlo genericamente inquadrato nel conte
sto di quelle esigenze di « immediatezza, rapidità e concentrazione »
che giustificano l'adozione del regime di preclusioni nel processo del
lavoro — non va oltre il rilievo tautologico che esso « è da intendere
nel senso di imprescindibilità, di necessarietà, di impossibilità di scel
ta, nel senso cioè che la causa non possa essere decisa se non attra
verso quel determinato mezzo di prova »; dal che non si riesce pro
prio a comprendere come si possa dedurre che difettino sempre del
Il Foro Italiano — 1983 •— Parte 7-26.
Svolgimento del processo. — Con ricorso notificato il 14 marzo
1975 Ruggiero Luigi — premesso che lavorava alle dipendenze dell'A.c.e.a. con mansioni di verificatore capo e agente giurato, mansioni rientranti in una categoria superiore rispetto a quella nella quale era inquadrato (B/2) — conveniva in giudizio dinanzi
al Pretore di Roma l'azienda per sentir dichiarare il suo diritto
all'inquadramento nella categoria B/l, con ogni conseguenza di
carattere patrimoniale. L'azienda convenuta, costituitasi ritualmente in giudizio, chie
deva il rigetto della domanda perché infondata.
Il pretore rigettava la domanda con sentenza 30 maggio 1975, contro la quale proponeva appello il Ruggiero con ricorso depo sitato il 26 aprile 1976, lamentando l'errata interpretazione delle
risultanze processuali, dalle quali doveva correttamente desumer
si il suo diritto all'inquadramento nella superiore categoria riven
dicata.
L'A.c.e.a. resisteva al ricorso, chiedendone il rigetto. Con sentenza 9 dicembre 1976 il tribunale rigettava l'appello.
Quanto alle mansioni di verificatore-capo (del tutto obliterate dal
pretore) il tribunale osservava che, come già in sede sindacale (ver bale di accordo sindacale 24 agosto 1970, allegati D - H) tra la
direzione dell'azienda e la rappresentanza sindacale aziendale si
era convenuto — in aderenza al contenuto del « mansionario » —
di inquadrare le mansioni del « verificatore di sbocchi a luce tas
sata » in cat. C/S, e quelle del « verificatore-capo preposto ad un
gruppo di taratori e di verificatori di sbocchi » in C/S + M; in
tale modo pervenendosi ad una interpretazione per cosi dire au
tentica della contrattazione collettiva di categoria (c.c.n.l. 21 apri le 1970) allora in vigore. Tale accordo sarebbe stato abolito dal
successivo accordo sindacale 22 luglio 1972.
requisito della indispensabilità quei mezzi di prova « che la parte, ove fosse stata più diligente, avrebbe potuto e dovuto agevolmente portare all'esame del giudice di primo grado », e ciò perché per un verso non sembra che sussista omogeneità alcuna fra importanza og gettiva di un mezzo di prova ai fini della conoscenza dei fatti contro versi e diligenza soggettiva della parte nel rispettare termini di de cadenza, per altro verso un simile modo di argomentare comportereb be a fortiori la pressoché totale soppressione del potere del giudice di primo grado di disporre d'ufficio l'ammissione di mezzi di prova non tempestivamente richiesti dalle parti (e un risultato di questa specie sarebbe contro la lettera del primo cpv. dell'art. 421).
Col che non si intende misconoscere affatto la difficoltà di conci liare un processo ispirato in primo grado a rigide preclusioni per le
parti, con la previsione sempre in primo grado di poteri istruttori
d'ufficio esercitabili in « qualsiasi momento », e con l'attribuzione alle parti ed al giudice in appello di chiedere ed ammettere nuovi mezzi di prova « indispensabili ». Non si tratta però di difficoltà in sormontabili ove si rinunci alla pretesa di risolvere il problema in termini di logica formale o di analisi del linguaggio. Chi scrive pro prio su queste colonne (v. In tema di prova nel processo del lavoro-,
temperamenti al principio di eventualità, id., 1981, I, 2402 ss.; v. anche ora, in un più ampio contesto Lavoro [controversie individuali
di], voce del Novissimo digesto, appendice, Torino, 1983, IV, §§ 26, 27, 29, 45) ha tentato di indicare con la massima chiarezza le linee di una possibile ricostruzione ragionevole del signifi cato e del valore normativo dei poteri istruttori d'ufficio nel processo del lavoro: alla luce di quelle indicazioni diviene relativamente age vole comprendere il senso del requisito della indispensabilità di cui
al primo cpv. dell'art. 437; un mezzo di prova è indispensabile allorché sia diretto a provare un fatto {ovviamente rilevante) la cui
esistenza o inesistenza sia stata dichiarata nella sentenza di primo
grado (o comunque dovrebbe essere dichiarata nella sentenza d'ap
pello) non sulla base delle acquisizioni probatorie ma sulla base della
regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova; coerente
mente al « valore » anche normativo che assume nel processo del la
voro la ricerca tendenziale della verità materiale, come in primo
grado l'attività istruttoria può essere disposta anche al di là delle
preclusioni verificatesi a danno delle parti, cosi nel processo d'ap
pello è ancora possibile disporre l'acquisizione di mezzi di prova ove ciò si riveli necessario, «indispensabile», per risolvere la con
troversia sulla base dell'accertamento pieno dei fatti controversi e
non sulla base di regole formali di giudizio (nello stesso senso v.
C. M. Barone [Andriou, G. Pezzano, A. Proto Pisani], Le contro
versie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1974, 436; Verde, Ap
punti sul processo del lavoro3, Napoli, 1979, 100; ed oggi anche {so
prattutto la massima di] Cass. 8 maggio 1981, n. 3046, Foro it., Rep.
1981, voce cit., n. 497). Una interpretazione della specie di quella ora sinteticamente indi
cata non pretende ovviamente avere alcun carattere necessitante; essa
muove però da un'esigenza di ragionevolezza, esigenza che invece è
a dir poco dimenticata dalla motivazione della sentenza in epigrafe laddove essa si limita a registrare che l'art. 437, 2° comma, si inqua dra sia « nel principio fondamentale dell'art. 2697 c.c. », sia nel
l'ispirazione del rito del lavoro al « principio inquisitorio », senza
però trarre alcuna conseguenza da queste due pur determinanti indi
cazioni sistematiche. A. Proto Pisani A. Proto Pisani
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