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sezione lavoro; sentenza 17 marzo 1984, n. 1847; Pres. Bonelli, Est. Tridico, P. M. Grimaldi (concl....

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sezione lavoro; sentenza 17 marzo 1984, n. 1847; Pres. Bonelli, Est. Tridico, P. M. Grimaldi (concl. conf.); Fantacchiotti (Avv. Agostini) c. I.n.p.s. (Avv. Abati, Maresca, Vario, Ausenda). Cassa Trib. Ascoli Piceno 20 marzo 1979 Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 4 (APRILE 1985), pp. 1167/1168-1169/1170 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23178437 . Accessed: 25/06/2014 00:25 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.78.109.66 on Wed, 25 Jun 2014 00:25:42 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione lavoro; sentenza 17 marzo 1984, n. 1847; Pres. Bonelli, Est. Tridico, P. M. Grimaldi(concl. conf.); Fantacchiotti (Avv. Agostini) c. I.n.p.s. (Avv. Abati, Maresca, Vario, Ausenda).Cassa Trib. Ascoli Piceno 20 marzo 1979Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 4 (APRILE 1985), pp. 1167/1168-1169/1170Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178437 .

Accessed: 25/06/2014 00:25

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PARTE PRIMA 1168

febbraio 1980, n. 1026, id., Rep. 1980, voce cit., n. 457; 9 gennaio 1981, n. 191, id., 1982, I, 515, e 17 giugno 1983, n. 4189, id.,

Rep. 1983, voce cit., n. 1024).

Senza necessità di ulteriore trattazione di tale tematica che ha

dato peraltro luogo a copiosa giurisprudenza anche dei giudici di

merito, si deve conclusivamente sul punto affermare che il

progresso qualitativo realizzato dall'art. 13 dello statuto dei lavo

ratori — in conformità dell'art. 35, 1° comma, Cost. — rispetto all'originario art. 2103 c.c. (che garantiva soltanto la retribuzione e la « posizione sostanziale » del dipendente in relazione alla

possibilità della sua assegnazione « ad una mansione diversa »: 1°

comma) consiste nell'aver voluto salvaguardare, nell'ambito delle

finalità di tutela della dignità del lavoratore che è uno dei

caratteri primari dello statuto stesso, per l'appunto il « patrimonio

professionale » di lui anche nei più modesti gradi. È perciò evidente come l'astratto riferimento al livello di categoria della

classificazione contrattuale unica si riveli di per sé insufficiente

per il diretto riconoscimento di quell'equivalenza delle mansioni alla cui sussistenza è subordinata la legittimità del loro mutamen

to.

11 suddetto sistema di classificazione unica (conglobamento fun

zionale delle qualifiche) introdotto dalla contrattazione collettiva nei

grandi settori produttivi a partire dal 1970 e ormai diffuso anche nel

pubblico impiego (cfr., da ultimo, gli art. 17 e 18 1. 29 marzo

1983 n. 93) ha indubbiamente consentito il superamento di una forma di frammentaria articolazione delle qualifiche dei dipenden ti ormai non più rispondente alle esigenze della moderna orga nizzazione del lavoro permettendo inoltre in una certa misura, l'abolizione altresì della distinzione fra le categorie operaia e

impiegatizia, tuttavia la circostanza del raggruppamento in uno stesso livello di categoria di diversi profili professionali può tutt'al più rivelare (come ha osservato la dottrina) una semplice « tendenziale » equivalenza delle corrispondenti posizioni lavorati

ve, ma — date la vastità di ogni raggruppamento e le differenze

ontologiche spesso notevoli fra le mansioni descritte dai singoli profili in esso contenuti (peraltro non sempre analitici e a volte solo esemplificativi) — ciò non può essere bastevole per far ritenere aprioristicamente che dette mansioni siano senz'altro di

equivalente contenuto professionale nel senso sopra precisato e

quindi di reciproca intercambiabilità per accertare il che è invece necessaria di volta in volta una specifica concreta indagine.

Che poi il sistema di natura « rigida » stabilito dall'art. 13 dello statuto dei lavoratori possa a volte comportare degli inconvenienti

per lo stesso lavoratore, che pur di mantenere un qualsivoglia posto di lavoro o essere trasferito ad una sede più ambita sarebbe disposto anche a svolgere mansioni inferiori, è un aspetto pratico che non può influire sull'interpretazione della norma volta tra l'altro a soddisfare esigenze di certezza (cfr. sent. n. 1026 del 1980 e 4189 del 1983 cit.) e che in termini generali concerne piuttosto la politica legislativa: può solo in proposito osservarsi che, ail fine del mantenimento dell'occupazione, il

legislatore è intervenuto per facilitare processi di mobilità intera

ziendale, incentivando anche quella spontanea (cfr., in particola re, la 1. 12 agosto 1977 n. 675).

In relazione poi ai presupposti di fatto emergenti nella presente causa non dev'essere neppure affrontato l'ulteriore delicato pro blema relativo alla possibilità d'impiego del lavoratore in mansio ni diverse ed anche inferiori allorquando egli, in particolare a causa di malattia, abbia perduto la sua precedente attitudine

professionale, che la dottrina ha pur fatto oggetto di riflessione tentando soluzioni di salvaguardia della nuova, sia pur meno

qualificata, professionalità. Ma nella fattispecie si è all'opposto dedotto da parte del ricorrente che egli non era idoneo, per le sue condizioni di salute, a svolgere le nuove mansioni che gli erano state assegnate come operaio di officina e non già quelle precedentemente da lui espletate come autista.

Considerato poi che i sopraesposti principi concernono ovvia mente anche le ipotesi di mutamento di mansioni collegato al trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva (per il che anzi è necessaria la prova di ragioni tecniche, organizzative e

produttive: art. 13, 1" comma, ult. parte, statuto lavoratori) e che l'attuale disciplina colpisce con la sanzione di nullità qualsiasi atto con cui il lavoratore abbia comunque consentito a svolgere mansioni non equivalenti (art. 13, 2° comma, cit.) si osserva

dunque come nella fattispecie il giudice d'appello, per valutare la

legittimità oppure no del rifiuto del Catania di espletare le nuove mansioni a lui assegnate avrebbe dovuto — come detto —

approfondire l'esame sull'avvenuto rispetto dell'equivalenza delle mansioni stesse ritenendo lecito oppure no il rifiuto a seconda della insussistenza ovvero della sussistenza di tale requisito nel

senso sopra precisato, ed invero questa Suprema corte ha affer

mato che il lavoratore che venga richiesto di prestare la sua

attività in mansioni diverse da quelle equivalenti ben può rifiuta

re la prestazione in base al principio inadimplenti non est

adimplendum sancito dall'art. 1460 c.c., conservando il diritto a

percepire la retribuzione, sempre che dichiari di essere disposto a

svolgere le mansioni per le quali è stato assunto o quelle

equivalenti, ovvero quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito (cfr. sent. n. 2691/77, ciit.). La legittimità del licenziamento avrebbe dovuto quindi essere

valutata non solo sulla base della documentazione della società

attestante il rifiuto da parte del Catania delle nuove mansioni, ma altresì attraverso l'esame adeguato dei motivi sostanziali per i

quali il rifiuto stesso era stato opposto all'occorrenza utilizzando

gli elementi ora indicati nel primo e nel secondo motivo dell'at

tuale ricorso.

Sulla base di tali considerazioni si rivela pertanto la necessità

di un completo riesame del merito in relazione ai suddetti profili, col che rimangono assorbite le altre questioni prospettate nel

ricorso, laddove le risultanze delle indagini medico-legali alle

quali il ricorrente fa pur riferimento nel quarto motivo potrebbe ro semmai essere considerate sul piano della valutazione delle

ragioni del rifiuto, del che si è ora detto. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 17 marzo

1984, n. 1847; Pres. Bonelli, Est. Tridico, P. M. Grimaldi

i(concl. conf.); Fantacchiotti (Avv. Agostini) c. I.n.p.s. (Avv.

Abati, Maresca, Vario, Ausenda). Cassa Trib. Ascoli Piceno 20

marzo 1979.

Previdenza sociale — Pensione di invalidità — Riproposizione della domanda in sede amministrativa — Precedente sentenza

passata in giudicato — Irrilevanza (Cod. civ., art. 2909; disp. att. cod. proc. civ., art. 149).

Poiché la sentenza che rigetta la domanda di pensione di invali dità acquista efficacia di giudicato per il solo periodo preceden te alla sua emanazione, potendo modificarsi la situazione di

fatto rilevante ai fini del diritto alla prestazione previdenziale in momento successivo, sussiste sempre l'obbligo dell'I.n.p.s. di

istruire la nuova domanda inoltrata in sede amministrativa dall'assicurato al quale sia stata giudizialmente già negata la

pensione. (1)

Svolgimento del processo. — Con atto depositato il 28 febbraio 1978 Fantacchioitti Mario proponeva ricorso al Pretore di Ascoli Piceno per ottenere il riconoscimento del suo diritto a pensione di invalidità con conseguente condanna nei confronti dell'I.n.p.s., che aveva rigettato l'istanza presentata in via amministrativa il 28 febbraio 1974.

Si costituiva l'I.n.p.s. eccependo la improponibilità della do

manda, essendo passata in giudicato una sentenza di rigetto emessa il 24 marzo 1975 dello stesso pretore su precedente domanda amministrativa del Fantacchiotti, e contestando nel merito la sussistenza del diritto a pensione.

Il pretore, rilevato che il periodo dal 28 febbraio 1974 — data dell'istanza amministrativa — al 24 marzo 1975 — data della

precedente sentenza — era coperto dal giudicato e che per il

periodo successivo al giudicato non poteva essere utilmente invo cato il disposto dell'art. 149 disp. att. c.p.c. non avendo il ricorrente indicato aggravamenti successivi o nuove malattie, respingeva la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il Fantacchiotti, osser vando come il pretore avesse errato respingendo nel merito la domanda che invece, in accoglimento della eccezione dell'I.n.p.s.,

(1) La sentenza è riportata anche in Riv. giur. lav., 1984, III, in corso di pubblicazione, con nota di V. Ferrari, Ammissibilità della riproposizione della domanda di pensione di invalidità e profili di incostituzionalità nelle prospettive della riforma della invalidità pensio nabile.

Sulla limitazione dell'efficacia di giudicato della sentenza in materia di pensione di invalidità alla situazione rebus sic stantibus, cfr. Cass. 17 marzo 1984, n. 1852, Foro it., Mass., 364, e 27 novembre 1984, n. 6156, id., 1985, I, 745, con nota di richiami.

Sulla istruzione delle domande di pensione di invalidità da parte dell'I.n.p.s. in sede amministrativa, v. Pret. Torino 9 novembre 1983, id., 1984, I, 610, con nota di richiami.

Il Foro Italiano — 1985.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

avrebbe dovuto essere dichiarata improponibile; in via principale,

comunque, chiedeva l'accoglimento della domanda almeno da

epoca successiva a quella in cui si era formato il giudicato che

logicamente non poteva operare alcuna preclusione per accerta

menti successivi, i quali rimanevano possibili senza che venisse invocato alcun aggravamento o infermità sopravvenuta, per cui

risultava ultroneo il riferimento all'art. 149 disp. att. c.p.c. Si costituiva l'I.n.p.s., osservando che la situazione di non

invalidità fino al 24 marzo 1975 è coperta dal giudicato; che

l'accertamento dello stato invalidante successivamente a tale data, essendo stata la domanda in via amministrativa presentata prece dentemente ad essa, è possibile solo applicando il citato art. 149; tale disposizione, però, può essere applicata solo all'interno di un

giudizio in corso e non come introduzione di un nuovo giudizio; che infine manca il presupposto processuale del ricorso al pretore

perché la domanda amministrativa del 28 febbraio 1974 deve

ritenersi assorbita nella decisione -del 24 marzo 1975.

Con sentenza 20 marzo 1979 il Tribunale di Ascoli Piceno

dichiarava improponibile la domanda, avanzata col ricorso 28 feb

braio 1978. Osservava detto giudice che, per l'art. 443 c.p.c., la do

manda giudiziaria non è proponibile se prima non siano esauriti i

procedimenti amministrativi; nella specie un procedimento ammi

nistrativo non è stato validamente instaurato perché la domanda

all'I.n.p.s. del 28 febbraio 1974 in pendenza del procedimento

giudiziario, concluso con sentenza 24 marzo 1975, deve ritenersi

invalida o perlomeno inefficace nel senso che non determina

nell'I.n.p.s. il potere-dovere di istruirla in quanto, per l'art. 149

disp. att. c.p.c., ogni nuovo elemento in corso di giudizio va

riservato in quest'ultimo. Se è inefficace in tal senso, tanto che, ove l'I.n.p.s. si attivasse,

ogni suo provvedimento sarebbe inficiato dal vizio di straripa

mento di potere, è anche inefficace a costituire il valido presup

posto processuale cui, pur dopo la nuova disciplina, fa riferimen

to l'art. 443 c.p.c. Quest'ultimo prevede in tale ipotesi la sospensione anche

d'ufficio del procedimento e la fissazione di un termine al

ricorrente per la presentazione del ricorso in sede amministrativa.

Tale disciplina — sempre secondo il tribunale — non appare

applicabile in grado d'appello, perché contrasta con il principio

generale del doppio grado della giurisdizione di merito, né appare

praticabile la via della rimessione degli atti al pretore che è

limitata ai casi tassativamente indicati negli art. 353 e 354 c.p.c.

Avverso tale sentenza il Fantacchiotti ha proposto ricorso per

cassazione, cui resiste l'I.n.p.s. con controricorso illustrato con

memoria.

Motivi della decisione. — Il ricorrente — censurando l'impu

gnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 2909

c.c. nonché dell'art. 149 sub art. 9 1. 11 agosto 1973 n. 533 e

degli art. 112 e 443 c.p.c., motivazione insufficiente e contraddit

toria (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.) — si duole dell'erronea

pronuncia del tribunale, erronea sotto più profili: per avere,

anzitutto, violato i principi di corrispondenza tra il chiesto ed il

pronunciato e quelli che regolano il giudicato esterno.

Il tribunale, partendo dal presupposto che la sentenza del 24

marzo 1975 su una precedente domanda di pensione di invalidità

presentata in via amministrativa nel 1972 costituisse appunto cosa

giudicata tale da precludere l'esame della domanda amministrati

va del 1974 e senza curarsi affatto di accertare se la sentenza del

1975 potesse porsi in effetti come cosa giudicata rispetto alla

nuova domanda amministrativa del 1974 relativamente al periodo

successivo a quella decisione, ha erroneamente dichiarato la

improponibilità della domanda in questione.

Dall'erronea premessa di un giudicato non accertato, il tribuna

le ha ricavato la conclusione, pure erronea, che la domanda del

1974 non determinava nell'I.n.p.s. il potere-dovere di istruirla e

che non poteva costituire presupposto per l'applicazione dell'art.

149. Infatti, indipendentemente dal giudicato, per almeno il periodo

successivo al 24 marzo 1975, giustamente era stato dedotto che, a

tutto concedere, in ogni caso la domanda giudiziale era proponi

bile per accertare lo stato di invalidità a partire dalla data

suddetta fino al momento della nuova pronuncia.

Su questo punto pare che il ragionamento della sentenza

impugnata sia addirittura incomprensibile, perché, se, per l'art.

149 e per i noti principi di giurisprudenza, qualsiasi domanda

amministrativa spiega i suoi effetti nel tempo per gli aggravamen

ti successivi, non si vede come, e per quale ragione giuridica, la

domanda giudiziale, in ipotesi improponibile per l'effetto nel

periodo febbraio 1974-marzo 1975 non sia poi invece proponibile

per l'effetto per il periodo successivo, in relazione ad una doman

da amministrativa che potrà, semmai, spiegare effetti solo limita

tivi noi tempo, anche per il principio che il più contiene il meno.

Altri errori ha poi compiuto la sentenza impugnata, male

interpretando e applicando l'art. 443 c.p.c., che è applicabile anche in grado di appello e il riferimento agli art. 353 e 354

c.p.c. è del tutto erroneo.

Il ricorso è fondato. Il nucleo centrale dell'errore del tribunale

consiste nella totale obliterazione del periodo successivo alla

sentenza 24 marzo 1965, se il giudicato copre, come suol dirsi, il

dedotto ed il deducibile, è fin troppo evidente che questo

principio riguarda — e non può non riguardare — il periodo

compreso tra la data della domanda e quella della pronuncia

giurisdizionale, mentre il principio di efficacia del giudicato non opera rispetto a fatti successivi all'accertamento giurisdizio nale.

Come questa Corte suprema ha già avuto modo di affermare, al

fine di stabilire la fondatezza o meno deìl'exceptio iudicati

proposta in un giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della

pensione d'invalidità, deve considerarsi che, mentre la pensione costituisce il petitum della domanda, la causa petendi, intesa

come il titolo o faitto costituito della pretesa, non si identifica con

i meri fatti invocati a sostegno del titolo stesso, ma si concreta

nel fatto giuridico dal quale deriva il diritto alla pensione, e cioè

nello stato invalidante che determina una riduzione della capacità di guadagno nella misura prevista dalla legge, mentre le singole cause dello stato di menomazione fisiopsichica si presentano come

condizioni materiali che giustificano la causa petendi. Né la diversità delle controversie può discendere soltanto

dall'eventuale presentazione di più domande in sede amministrati

va in tempi diversi, perché l'accertamento del giudice non verte

sulla legittimità o fondatezza dei procedimenti amministrativi, bensì' sulla sussistenza o meno del diritto, considerato nella sua

unitarietà temporale e causale, al conseguimento della pensione di

invalidità.

Ora le considerazioni svolte dal tribunale sono certamente

erronee, perché la domanda amministrativa del 1974 è del tutto

autonoma rispetto a quella del 1972, sicché l'I.n.p.s. aveva il

dovere giuridico di istruirla e di pronunciarsi su di essa, indipen dentemente dal fatto che l'assicurato aveva presentato altra do

manda amministrativa nel 1972.

Da quanto precede emerge in maniera evidente che il tribunale

ha del tutto omesso, in primo luogo, di interpretare la portata del

giudicato, ossia della sentenza 24 marzo 1975 pronunciata tra le

stesse parti; in secondo luogo, ha omesso di accertare la rile

vanza e la operatività della domanda amministrativa del 1974 sia

in relazione al potere-dovere dell'Ln.p.s. di provvedere su di essa

sia in relazione alla domanda amministrativa del 1972, anche al

fine di accertare se le infermità fossero o non identiche.

Tali gravi carenze della sentenza non consentono di stabilire in

che misura si sia verificato l'effetto del giudicato. In ogni caso, come sopra si è detto, tale efficacia non può estendersi al periodo successivo alla emanazione della sentenza.

Del pari erronee sono le affermazioni della impugnata sentenza

per quanto concerne l'applicabilità dell'art. 149 disp. att. c.p.c. Tale disposizione prevede l'accertamento in corso di giudizio

dello stato di invalidità e la relativa valutazione, da parte del

giudice, non solo degli aggravamenti ma anche di tutte le

infermità comunque incidenti sul complesso invalidante che si

siano verificate nel corso tanto del procedimento amministrativo

quanto di quello giudiziario. Anche in questa direzione l'indagine del tribunale avrebbe

dovuto orientarsi ed attivarsi. Mentre resta assorbito ogni ulteriore profilo di doglianza, il

ricorso va accolto e l'impugnata sentenza va cassata con rinvio ad un giudice di pari grado — che si designa nel Tribunale di

Camerino — il quale procederà ad un nuovo esame della causa

alla luce dei principi dianzi enunciati. (Omissis)

I

CORTE D'APPELLO DI NAPOLI; decreto 11 aprile 1984; Pres.

Del Matto, Rei. Favara; Soc. Casa di cura C. G. Ruesch.

CORTE D'APPELLO DI NAPOLI;

Società — Società di capitali — Atti sociali — Ambito del

controllo omologatorio (Cod. civ., art. 2330, 2411).

In sede di omologazione degli atti societari, il giudice deve

limitarsi a verificare la conformità dell'atto alla legge od allo

statuto, in funzione dell'interesse pubblico al regolare svolgi

Il Foro Italiano — 1985.

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