sezione lavoro; sentenza 19 maggio 1986, n. 3319; Pres. Onnis, Est. O. Fanelli, P. M. MorozzoDella Rocca (concl. conf.); Prestana (Avv. D'Amati) c. Cassa di risparmio di Padova e Rovigo(Avv. Ozzola, Penasa). Conferma Trib. Padova 18 dicembre 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 6 (GIUGNO 1986), pp. 1529/1530-1531/1532Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180389 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
compromesso (previsione di non emissione, che parte dagli arbi
tri, di lodi parziali). Del pari, non è determinante l'argomento (sempre addotto a
sostegno dell'immediata impugnabilità) imperniato sul rilievo che
la « riforma » del 1950 ha privilegiato il criterio dell'impugnazio ne immediata delle pronunce parziali, poiché quella normativa
non ha affatto abolito l'istituto dell'impugnazione (facoltativamen
te) differita, anzi l'ha espressamente conservato.
Allo stesso modo, però, non tutti gli argomenti addotti a
sostegno della tesi contraria sono decisivi.
Sicuramente non determinante è quello secondo cui il lodo
parziale, se impugnato immediatamente, dovrebbe di necessità
essere dichiarato nullo, perché non ha pronunciato su tutta la
materia oggetto del compromesso; e ciò in quanto la nullità per
incompletezza di pronuncia va rapportata al tipo di lodo impu
gnato: di modo che dovrebbe apparire chiaro che se il lodo
nasce come « parziale », quel tipo di nullità non si attaglia ad
esso.
Ugualmente, non sono decisivi quegli argomenti che agitano il
pericolo di conflitti tra la pronuncia emessa dal giudice dell'im
pugnazione del lodo parziale e quella emessa dagli arbitri col lodo definitivo, poiché il pericolo è assolutamente innocuo, in
quanto la pronuncia definitiva, se incompatibile con la pronuncia del giudice dell'impugnazione parziale, cade ex se (art. 336 c.p.c.).
Vi è, invece, un argomento — a sostegno della tesi dell'impu gnazione necessariamente differita — che si presenta come decisi
vo e insuperabile; ed è quello che prende in considerazione gli effetti della pronuncia giudiziale emessa in sede di impugnazione immediata del lodo parziale, nel caso in cui il lodo definitivo non
venga poi pronunciato dagli arbitri.
Il caso più clamoroso sarebbe quello di un lodo parziale che
condannasse una delle due parti a pagare all'altra una provvigio nale. Si fa l'ipotesi dell'immediata impugnazione di tale lodo
parziale e del rigetto (o dichiarazione di inammissibilità) di tale
impugnazione con una sentenza che poi passa in giudicato. Se,
quindi, gli arbitri, per una qualunque ragione che non mette
conto di indicare, omettono di pronunciare il lodo definitivo,
quella parte non solo si troverà condannata senza che vi sia stata
pronuncia sul rapporto, ma addirittura resterà senza possibilità di
esperire un qualsiasi rimedio giuridico.
Ora, poiché una incongruenza non può verificarsi con riferi
mento al giudizio ordinario, non essendo ipotizzabile che il
giudice statuale omette la pronuncia della sentenza definitiva, ma
può ben verificarsi nel giudizio arbitrale una volta ritenuta
l'impugnabilità immediata del lodo parziale, la sola conseguenza che può trarsene è che l'istituto dell'impugnazione immediata non
si adatta affatto al giudizio arbitrale. Quello rappresentato, infatti, non è un semplice « inconveniente » (di quelli che, secondo il
detto latino, non hanno efficacia dimostrativa), ma il chiaro indice
dell'inconciliabilità del giudizio arbitrale con l'istituto dell'impu
gnazione immediata, proprio per la manifesta abnormità delle
conseguenze che possono derivarne.
6. - L'importanza risolutiva di tale rilievo è stata negata in
sede dottrinale, essendosi osservato come la parte che potrebbe soffrire di tale eventualità può proporre (anche se vittoriosa in
parte qua) riserva di impugnazione condizionata alla incompletez za eventuale di pronuncia.
Non v'è dubbio che se ciò fosse possibile, sarebbe con ciò
stesso dimostrato che il sistema offre uno specifico rimedio e che,
quindi, quello rappresentato sarebbe, al massimo, uno di quegli
innocui « inconvenienti » di cui si è detto.
Il fatto, però, è che l'istituto della riserva facoltativa di
impugnazione è assolutamente estraneo al giudizio arbitrale, in
quanto: difetta il presupposto pratico di funzionamento, costitui
to dalla comunicazione della sentenza arbitrale parziale da parte della (inesistente) cancelleria; può normalmente mancare una
qualsiasi udienza successiva al deposito del lodo e utile a segnare il termine infra quem per la formulazione della riserva.
Una tale obiezione di inapplicabilità dell'istituto della riserva
facoltativa di impugnazione non è, certo, sfuggita alla ricorrente,
la quale sostiene che « la mera forma » della riserva non gioche
rebbe un ruolo essenziale nel sistema dell'impugnazione quale
istituito dalla riforma del 1950, essenziale essendo la possibilità di
scelta (tra l'impugnazione immediata e la riserva di impugnazione
differita), non la forma di esprimerla; di modo che, colui che
decidesse di differire l'impugnazione contro il lodo parziale (im
mediatamente impugnabile) potrebbe farlo « mediante la semplice
comunicazione di tale intento (o, in genere, della non acquiescen
za) alla controparte e agli arbitri ».
Ora non v'è dubbio che un tale sforzo ricostruttivo meritereb
II Foro Italiano — 1986.
be, in qualche sede, un certo riconoscimento; ma questo, ovvia
mente, non può avvenire in sede giurisdizionale, soprattutto ad
opera della corte regolatrice del diritto che non ha mai ricono
sciuto al giudice il potere di sostituirsi clandestinamente al
legislatore. Perché pare indubitabile che il ricercare equipollenti di
certe precise formalità volute dal legislatore in una materia —
qual è quella delle impugnazioni — in cui il rispetto della forma
rappresenta la principale garanzia dei diritti della « controparte »
non compete certo all'interprete se questo intende restare sostan
zialmente rispettoso della volontà della legge. La ricorrente non dimentica, poi, di rilevare che se è ammesso
il lodo parziale deve essere ammessa l'impugnazione immediata.
Questa argomentazione si basa sul convincimento che non
potrebbe, ontologicamente, configurarsi la possibilità di attribuire
al giudice il potere di pronunciare una sentenza parziale, se a
tale possibilità non fosse correlata l'attribuzione, alle parti, della
facoltà di proporre l'impugnazione immediata.
Ma che una tale ontologica dipendenza non esista nell'ambito
della logica giuridica resta dimostrato dal fatto che proprio il
codice del 1940 — del quale non può, certo, essere negata la « sistematicità » — prevedeva (prima della riforma del 1950) le
sentenze parziali, ma tuttavia non attribuiva alle parti del proces so la facoltà di impugnarle se non con la sentenza definitiva.
In altri termini, la possibilità, o meno, di esperire il rimedio
dell'impugnazione immediata contro le sentenze parziali è frutto di una scelta del legislatore; scelta che può essere fatta « libera mente », poiché non incide sui sommi principi della logica giuridica,
qualunque sia la « direzione » nella quale viene esercitata. La conclusione, allora, è che se il legislatore ha scelto, per le
sentenze giudiziali non definitive, il sistema dell'impugnazione immediata, e, invece, per i lodi arbitrali non definitivi, il sistema
dell'impugnativa necessariamente differita, non ha fatto altro che esercitare liberamente un proprio potere. All'interprete, perciò, non resta che prendere atto di tale volontà normativa.
7. - In conclusione, quindi, le sezioni unite ritengono che, una volta ammessa la possibilità dell'emanazione, nel giudizio arbitra
le, del lodo « parziale », non per questo deve essere ammessa la
possibilità dell'impugnazione immediata contro di esso, essendo
invece conforme alla volontà della legge ritenere che l'impugna zione di tale lodo debba essere proposta unitamente all'impugna zione contro il lodo definitivo.
Il ricorso, pertanto, in quanto improntato all'opposta conclusio
ne, deve essere respinto. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 19 maggio 1986, n. 3319; Pres. Onnis, Est. O. Fanelli, P. M. Morozzo
Della Rocca (conci, conf.); Prestana (Avv. D'Amati) c. Cassa
di risparmio di Padova e Rovigo (Avv. Ozzola, Penasa). Con
ferma Trib. Padova 18 dicembre 1982.
Lavoro (rapporto) — Procedimento disciplinare — Sospensione cautelare del dipendente — Conclusione del procedimento disci
plinare — Effetti.
La sospensione cautelare del lavoratore, la cui durata è limitata al tempo occorrente allo svolgimento del procedimento discipli nare o penale cui accede, legittima la sospensione del diritto alla retribuzione soltanto se ciò sia previsto dalla contrattazione
collettiva, con la conseguenza che, in tale ipotesi, qualora intervenga il licenziamento del dipendente, la risoluzione del
rapporto di lavoro va fatta risalire all'iniziale momento in cui sono state cautelarmente sospese le reciproche obbligazioni, mentre in caso di conclusione del procedimento in senso
favorevole al lavoratore il rapporto riprende il suo corso dal momento della sospensione e il datore di lavoro è tenuto a
corrispondere le retribuzioni arretrate. (1)
(1) La sentenza riportata ribadisce taluni principi elaborati dalla giurisprudenza della Cassazione in tema di sospensione cautelare del lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare o penale, ponendo in risalto, in particolare, l'incidenza della contrattazione collettiva sulla disciplina degli effetti relativi all'obbligo della retribuzione nel periodo in cui è operante la misura cautelare. In senso conforme, anche quanto alle conseguenze del diverso esito del procedimento disciplinare o penale in funzione del quale è stata disposta la sospensione, v. Cass. 26 luglio 1984, n. 4421, Foro it., Rep. 1984, voce Lavoro (rapporto), n. 970, e 26 marzo 1982, n. 1885, id., 1982, I, 967: in questa stessa prospettiva cfr. altresì' Cass. 23 ottobre 1985, n. 5203, id., Mass., 1961,
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1551 PARTE PRIMA 1532
Motivi della decisione. — (Omissis). Col terzo motivo si lamenta
che il tribunale abbia ritenuto legittima la retroazione del licenzia
mento e della cessazione dell'obbligo di retribuzione, alla data della
sospensione cautelare, perché sebbene la giurisprudenza abbia repu tato legittime clausole (quale quella di cui agli art, 99 e 109 del con
tratto collettivo applicabile alla specie) che prevedono siffat
ta retroattività, esse possono trovare ragionevole applicazione solo
quando rispondano alle esigenze di predeterminazione, di preventi va contestazione e di rapidità, indicate da detta giurisprudenza.
La sospensione non deve tradursi in ragion fattasi da parte del
datore di lavoro, perchè verrebbe a costituire una sanzione
disciplinare mascherata, nonostante l'etichetta attribuitale dai
contratti collettivi.
Comunque, anche in ipotesi di accertata (ex nunc) legittimità del recesso, il datore di lavoro deve essere condannato a corri
spondere al lavoratore le retribuzioni non corrisposte durante il
periodo di sospensione. Anche questa censura è infondata.
La sospensione cautelare del dipendente sottoposto a procedi mento disciplinare o penale, mentre, se non prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva, può essere dal datore di lavoro applica ta nell'esercizio del suo potere direttivo, ma solo nel senso che esso può rinunciare ad avvalersi delle prestazioni del lavoratore, ferma peraltro, stante la unilateralità di tale rinuncia, la sua
obbligazione di corrispondere la retribuzione in relazione al per durante rapporto di lavoro, laddove, invece, normativamen te o convenzionalmente prevista, può legittimare — in quan to specificamente stabilito — oltre alla sospensione della
prestazione lavorativa, anche quella della controprestazione retri butiva (come appunto previsto dal contratto collettivo applicabile alla specie).
La sua durata, peraltro, in armonia con la natura meramente interinale di detta misura cautelare, in quanto tale non sanziona toria e quindi inidonea a incidere di per sé sulla esistenza delle
contrapposte obbligazioni delle parti, non può che essere limitata al tempo occorrente allo svolgimento della procedura cui è
propedeutica, cioè quella disciplinare e penale; e la sua efficacia è destinata a risolversi senza residui non appena quella procedura sia esaurita, dato che, se il rapporto non rimanga risolto, esso
riprende il suo corso dal momento in cui le relative obbligazioni rimasero sospese, mentre, se il rapporto venga meno, la perdita del posto di lavoro e dei connessi diritti risale alla data di inizio della procedura di licenziamento.
Il carattere, dunque, interinale della misura in questione, desti nata a durare finché duri il procedimento cui accede, ne compor ta la caducità, nel senso che al termine e secondo l'esito di esso si potrà stabilire se la disposta, preventiva sospensione resti
giustificata, ovvero debba venir meno a tutti gli effetti, ovvero se
gli effetti del procedimento desciplinare debbano risalire — ove
espressamente previsto — all'iniziale momento in cui siano state cautelarmente sospese le reciproche obbligazioni.
secondo cui l'esercizio del potere di rinunciare unilateralmente alla prestazione non fa venir meno l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni, salvo che non sia diversamente stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva. Inoltre, negli stessi termini della sentenza in epigrafe, v., da ultimo, Cass. 21 marzo 1986, n. 2022, inedita, in cui è peraltro posta in dubbio la legittimità di una clausola contrattuale che escluda, anche in caso di riammissione in servizio per assoluzione con formula piena del lavoratore, la corresponsione delle retribuzioni maturate durante la sospensione cautelare e il computo di tale periodo agli effetti dell'anzianità del dipendente. Nel senso della illegittimità di una sospensione cautelare a tempo indeterminato e senza retribuzione v. Trib. Milano 30 settembre 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 1320.
In tema di sospensione cautelare e di diritto alla retribuzione in caso di proscioglimento del lavoratore incolpato in sede penale cfr. altresì Corte cost. 28 novembre 1973, n. 168, id., 1974, I, 619.
Sulla natura provvisoria e interinale della sospensione cautelare e sulla distinzione dai provvedimenti disciplinari, con conseguente inap plicabilità delle garanzie procedurali previste dall'art. 7 1. n. 300/70, v. Cass. 22 gennaio 1985, n. 258, id., Mass., 62; 27 maggio 1981, n. 940, id., 1981, I, 2223, con nota di Silvestri, cui si rinvia per una panoramica della dottrina e della giurisprudenza in tema di sospen sione cautelare.
Sullo specifico problema del trattamento economico spettante al lavoratore sospeso cfr. in dottrina, in senso dubitativo sulla legittimità dell'esclusione della retribuzione, Miani Canevari, La sospensione cautelare, in Lavoro e prev. oggi, 1983, 20; D'Auria, La sospen sione cautelare non disciplinare: osservazioni su di una giurispruden za recente, in Riv. giur. lav., 1982, II, 327; Miscione, Della sospensione cautelativa, in Giur. it., 1981, I, 1, 1837.
Il Foro Italiano — 1986.
È quanto questa corte a sezioni unite ha ritenuto, anche sulla
base di precedenti sue decisioni, nonché tenuto conto di analogo
principio canonizzato nel settore del pubblico impiego, con sent.
26 marzo 1982, n. 1885 (Foro it., 1982, I, 1967) e in sezione sem
plice ha ribadito con sent. 26 luglio 1984, n. 4421 (id., Rep. 1984, voce Lavoro (rapporto), n. 970).
In relazione a tale giurisprudenza sembra eccessiva la critica, avanzata da pur accorta dottrina, che pone in dubbio che la
contrattazione collettiva possa validamente attribuire al datore di lavoro il potere di sospensione cautelare, potendosi replicare che, risolvendosi la procedura disciplinare per la irrogazione del
licenziamento in una sostanziale garanzia per il lavoratore, cui si
evita la perdita immediata del posto di lavoro e si offre la
possibilità di preventivamente scagionarsi, deve necessariamente
ammettersi la necessità di una corrispondente garanzia nei ri
guardi del datore di lavoro, e cioè che la prestazione lavorativa sia nei casi più gravi sospesa con provvisoria esclusione del
lavoratore stesso dall'azienda fino a che non possa emettersi un
provvedimento positivo o negativo in ordine alle mancanze al
medesimo addebitate. Ed una cosi' delicata materia, ai fini di un ragionevole contemperamento dei rispettivi interes
si, non può trovare appropriata regolamentazione se non in
quegli atti nei quali si sostanzia la fonte stessa del potere disciplinare, e cioè nella contrattazione collettiva, la quale —
tenuto conto appunto della finalità garantistica dell'adozione della
procedura disciplinare anche per i licenziamenti per giusta causa — può prevedere un corrispondente sacrificio del diritto al lavoro e alla retribuzione in attesa della definizione della procedura stessa (cfr. Cass. 11 marzo 1980, n. 1632, id.., Rep. 1980, voce cit., n. 1277).
Certo, proprio muovendo dalla evidenziata finalità garantistica, potrebbe ritenersi che, ove sul punto taccia la disciplina collettiva, la misura cautelare (ove risulti già correlata alla contestazione
degli addebiti in sede di procedura disciplinare) debba venire adottata con formalità tali da porre il lavoratore in condizione di
sapere in relazione a quale mancanza quella misura venga dispo sta, e quindi di apprestare le proprie difese; e che la sua durata
massima, non predeterminata, debba essere congrua, cioè ricondu cibile ad un ragionevole contemperamento dei contrapposti inte
ressi, nel senso che la durata del procedimento disciplinare, ove rimessa all'iniziativa e alla discrezionalità del datore di lavoro, non pregiudichi il lavoratore assoggettatovi.
Ma, quanto al secondo punto, il rimedio è contenuto nel sistema stesso come sopra delineato; invero, un eccessivo protrar si del procedimento per inerzia del datore di lavoro trova rimedio e disincentivazione nell'obbligo del datore di lavoro di
corrispondere le retribuzioni arretrate in caso di conclusione del
procedimento stesso in senso favorevole al lavoratore. Al che
potrà eventualmente aggiungersi il risarcimento del danno, ove sia ravvisabile altresì violazione di obblighi di correttezza e lealtà, ovvero per lesione del diritto del lavoratore a svolgere la sua attività lavorativa con i conseguenti riflessi professionali.
Se, viceversa, il procedimento si conclude sfavorevolmente al
prestatore di opera, la ritenuta legittimità delle clausole collettive che prevedono la retroattività dell'atto espulsivo esclude che
possa ritenersi lesa una posizione soggettiva del dipendente. Nella specie, in relazione all'accenno in proposito enucleabile
nella censura, va rilevato che il giudice del merito non ha mancato di valutare, sia pure indirettamente, anche tale aspetto, accuratamente indicando le concrete ragioni, riferibili essenzial mente allo stesso incolpato che, da un lato, aveva mosso rilievi solo generici e dall'altro aveva chiesto termini a di
fesa, ma anche al ritardo nelle risposte da parte della p.a. con la quale era intercorso il contemporaneo rapporto d'impiego di esso inquisito, per cui il procedimento disciplinare, e la relativa retroazione del provvedimento risolutorio, si erano prolungati per circa sei mesi.
È, parimenti, quanto al primo punto, dalla sentenza stessa risulta che anche in ordine al provvedimento cautelare l'inquisito era stato posto in grado di svolgere le sue difese, e che le aveva in concreto esercitate.
Il ricorso va dunque rigettato. (Omissis)
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