sezione lavoro; sentenza 2 ottobre 1985, n. 4778; Pres. Pennacchia, Est. Della Terza, P. M.Martinelli (concl. diff.); Comendulli (Avv. Baldassarre, De Leo) c. Armarelli (Avv. Franco,Vicentini). Conferma Trib. Bergamo 5 maggio 1980Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 11 (NOVEMBRE 1985), pp. 2881/2882-2885/2886Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180027 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
nell'ambito dello stesso comune) occupino più di quindici dipen
denti, nonché alle imprese agricole che occupino più di cinque
dipendenti (sia pure soltanto nello stesso ambito territoriale),
quale che sia la dimensione complessiva dell'impresa; che in
difetto di tali requisiti, come pure nel caso di datore di lavoro
non imprenditore, è invece applicabile la tutela c.d. obbligatoria dell'art. 8 1. n. 604/66, «alfonché sussista ili requisito numerico sta
bilito dall'art. 11 stessa legge (occupazione compltessiVa 'di almeno
trentasei dipendenti); che, infine, quando difetti anche quest'ulti mo requisito, il licenziamento è disciplinato dall'art. 2118 c.c.
Nella specie, trattandosi di impresa industriale con più di
quindici, ma meno di trentasei dipendenti occupati nella sua
unica unità produttiva, la sentenza impugnata ha dunque fatto
corretta applicazione dell'art. 18 1. n. 300/70. Parimenti infondato è il secondo motivo del ricorso.
È assorbente al riguardo rilevare che il giudice del merito, con
apprezzamento di fatto congruamente motivato, ha escluso la
sussistenza del nesso causale tra licenziamento e parziale mo
dificazione delle tecniche di lavorazione, cui il dipendente non
sarebbe stato in grado di adeguarsi, soprattutto osservando che il
lungo tempo trascorso (circa quattro anni) tra ristrutturazione
aziendale e recesso -induceva ad escludere che questo avesse
tratto effettivo motivo dalla prima. Né sussiste contraddizione tra questa conclusione e l'afferma
zione di un obbligo dell'imprenditore di tentare l'addestramento
del dipendente al nuovo tipo di lavorazione prima di licenziarlo
(nel caso di esito negativo), non essendosi con ciò di certo
preteso che il periodo di addestramento dovesse addirittura avere
durata quadriennale. 11 ricorso deve essere perciò rigettato. (Omissis)
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 2 ottobre
1985, n. 4778; Pres. Pennacchia, Est. Della Terza, P. M.
Martinelli (conci. difT.); Comendulli (Avv. Baldassarre, De
Leo) c. Armarelli (Avv. Franco, Vicentini). Conferma Trib.
Bergamo 5 maggio 1980.
Lavoro (rapporto) — Disciplina collettiva — Impresa artigiana —
Requisiti — Produzione di beni di natura artistica o usuale
(Cost., art. 45; cod. civ., art. 2083; 1. 25 giugno 1956 n. 860,
norme per la disciplina giuridica dell'impresa artigiana, art. 1).
Non è impresa artigiana — e quindi ai suoi dipendenti non va
applicata la contrattazione collettiva artigianale del settore —
quella che non produce beni di natura artistica o usuale, ihtesi,
questi ultimi, come utilizzabili autonomamente per le esigenze della vita quotidiana (nella specie, si trattava di impresa
produttrice di componenti in plastica di altri oggetti). (1)
(1-2) Con le due decisioni in epigrafe la Corte di cassazione
puntualizza le nozioni di « beni di natura usuale » e di « produzione in
serie » di cui alla 1. 860 del 1956 in materia di disciplina giuridica dell'artigianato, sulle quali non si è mai in precedenza pronunciata ex
professo. Per quel che concerne genericamente i caratteri dell'impresa artigiana, cfr. la nota di richiami, anche di dottrina, di M. Niro a Cass. 8 giugno 1983, n. 3924, Foro it., 1984, I, 806, e in Cons. Stato,
1984, II, 559, con nota di P. Carnevale, L'impresa artigiana: sua
configurazione e rilevanza urbanistica. Adde, Cass. 22 settembre 1983, n. 5633, Foro it., Rep. 1984, voce Artigiano, n. 5; 5 febbraio 1968, n.
365, id., Rep. 1968, voce cit., n. 3.
Sugli aspetti relativi all'iscrizione all'albo, v., da ultimo, Cass. 28
novembre 1984, n. 6186, id., 1985, I, 742, con nota di richiami, e
Cass. 29 novembre 1984, n. 6264, id., Rep. 1984, voce cit., n. 14.
Nella giurisprudenza di merito, cfr., in senso conforme a Cass.
4778/85 circa la nozione di beni di natura usuale, Trib. Firenze 17
dicembre 1979 e Pret. Brescia 4 maggio 1976, entrambe inedite, a quel che consta.
Nello stesso senso di Cass. 526/85, in merito al concetto di
produzione in serie, v. Pret. Pavia 17 gennaio 1980, cit. da Niro nella
nota su richiamata; App. Firenze 25 febbraio 1967, id., Rep. 1967, voce cit., n. 9. Sul punto v., pure, App. Firenze 29 maggio 1971, id.,
Rep. 1971, voce cit., n. 7. Per la valorizzazione anche dell'identicità e
della quantità del prodotto, cfr. Trib. Prato 18 aprile 1984, id., Rep.
1984, voce cit., n. 11, per esteso in Dir. fall, 1984, II, 585, con nota
di M. Bronzini. Per altri utili spunti, v. Pret. Minturno 9 dicembre
1982 e Pret. Latina 11 maggio 1982, Orient, giur. pontina lav., 1982, 142 e 67.
Nelle sentenze sopra riportate sono poi da segnalare anche alcuni
passaggi delle motivazioni. In particolare, nella decisione 4778/85,
Il Foro Italiano — 1985.
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 29 gennaio
1985, n. 526; Pres. Dondona, Est. Onnis, P. M. Paolucci
(conci, diff.); Industria alimentare Ribaldone (Avv. Contaldi,
Azzaretti) c. Canova e Medici (Avv. Di Porto, Colpo, Bodo).
Cassa Trib. Biella 8 giugno 1980.
Lavoro (rapporto) — Disciplina collettiva — Impresa artigiana —
Requisiti — Limiti occupazionali (Cod. civ., art. 2083; 1. 25
giugno 1956 n. 860, art. 1, 2, 3, 4).
Va cassata con rinvio ad altro giudice la sentenza che abbia
ritenuto superato il limite occupazionale massimo previsto dal
l'art. 2, lett. a) e b), l. 860 del 1956 per il riconoscimento della
natura artigiana di un'impresa (e quindi l'inapplicabilità della
relativa contrattazione collettiva ai dipendenti di essa), soste
nendo che si trattava di lavorazione in serie, senza indagare sulla decisiva circostanza che il processo produttivo, e non il
prodotto, fosse o meno del tutto meccanizzato e, cioè, se
alcune fasi della lavorazione fossero o meno effettuate dai
titolari dell'impresa (nella specie, una società in nome colletti
vo) o dai suoi dipendenti, e senza distinguere, nel computo numerico di essi, tra amministrativi e tecnici, questi ultimi i
soli da prendere in considerazione ed in riferimento alla
situazione normale dell'azienda. (2)
I
Svolgimento del processo. — Armanelli Antonella, già dipen dente di Comendulli Mario, conveniva quest'ultimo davanti al
Pretore di Treviglio allo scopo di sentirlo condannare al paga
mento, a favore di essa ricorrente, della somma di lire 2.809.191
a titolo di differenze retributive in relazione al rapporto di lavoro
subordinato che si era svolto dal 20 novembre 1974 al 19
novembre 1976.
A sostegno della domanda la ricorrente deduceva di avere diritto
al trattamento economico e normativo disciplinato dalla conitoaitta
zionie ooJlliattìva per i dipendenti dell'indusitria dolile materie plasti
che, in quanto l'attività esercitata dal datore di lavoro, lo stampag
gio delle materie plastiche, non produoeva beni di natura artistica o
usuale, e, quindi, non rientrava nella previsione dell'art. 1, lett.
a), 1. 25 giugno 1956 n. 860, concernente l'attività artigiana. Il convenuto eccepiva che il rapporto di lavoro doveva essere
disciplinato dal contratto collettivo provinciale per le imprese
artigiane della provincia di Bergamo, divenuto efficace erga omnes
peir effetto del d.p.r. n. 1774/61, in quanto la propria impresa
doveva considerarsi artigiana in presenza dei requisiti richiesti dal
combinato disposto dell'art. 2083 c«c. e della 1. n. 860 del 1956.
Con sentenza del 6 dicembre 1979, il pretore accoglieva sostan
zialmente la domanda, disconoscendo la natura artigiana della
ditta Comendulli.
Su appello di quest'ultima, il Tribunale di Bergamo con sen
tenza del 5 maggio 1980 riduceva il credito vantato dalla lavora
l'adesione alla tesi per la quale la 1. 860 del 1956 ha innovativamente in
tegrato l'art. 2083 c.c. e non lo ha invece sostanzialmente riprodotto, e la
sottolineatura della necessità di coesistenza di tutti gli elementi previsti dalla legge stessa ai fini della configurazione in senso artigianale di
un'impresa (v., in proposito, la nota, cit., di Niro). Nella pronuncia
526/85 appare poi particolarmente significativo lo spunto per il quale
l'impresa artigiana conserva tale qualificazione anche se in determinati
momenti e per particolari esigenze produttive siano eccezionalmente
superati i limiti numerici previsti, dovendosi considerare essenziale il
criterio della « normalità ». Come pure merita menzione il rilievo per
cui, sempre ai fini dell'individuazione dei limiti occupazionali, non si
deve tener conto dei dipendenti amministrativi ma soltanto di quelli tecnici. Infine, non va sottaciuta la conferma della valorizzazione dei
caratteri di stabilità, continuità e prevalenza dell'attività lavorativa
dell'artigiano (conf., da ultimo, Cass. 14 giugno 1984, n. 3569, Foro it.,
Rep. 1984, voce cit., n. 6). Con la 1. 8 agosto 1985, n. 443, Le leggi, 1985, I, 1664, legge-qua
dro per l'artigianato, la normativa è stata notevolmente modificata. In
particolare, per gli aspetti trattati sopra, non è più presa in considera
zione la nozione di beni di natura usuale, essendo anzi previsto che
l'oggetto dell'impresa artigiana possa anche essere l'attività di produ zione di semilavorati (art. 3). È invece fatto riferimento, sempre al fine
di individuare i limiti occupazionali, all'impresa che non lavora o
lavora in serie (art. 4). L'iscrizione all'albo è espressamente finalizzata
alla fruizione delle agevolazioni a favore delle imprese artigiane (art.
5, 4" comma). La 1. 860 del 1956 e il d.p.r. 1202 del 1956 sono
abrogati. Le relative disposizioni, però, in quanto compatibili con
quelle della 1. 443 del 1985, continuano ad applicarsi fino all'emana
zione, da parte delle singole regioni, di proprie disposizioni legislative
(art. 13, 1° comma, in riferimento all'art. 1).
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2883 PARTE PRIMA 2884
trice, ma confermava la decisione pretorile sul punto della
mancanza dei caratteri dell'impresa artigiana, in quanto la ditta
Comenduli non produceva beni di natura usuale.
La ditta soccombente ricorre per cassazione, proponendo un
unico mezzo di annullamento. La Armarelli resiste con controri
corso.
Molivi della decisione. — 1. - Con l'unico mezzo, denunziando
la violazione dell'art. 2083 c.c. e la falsa applicazione dell'art. 1, lett. a), 1. 25 luglio 1956 n. 860, nonché il travisamento dei fatti, in
relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., il Comendulli lamenta che
il tribunale, dopo aver affermato che la ditta in questione era
organizzata ed operava con il lavoro professionale e manuale del
titolare, il quale aveva la piena responsabilità, della direzione e
della gestione dell'azienda, abbia, poi, escluso che questa produ cesse « beni usuali ».
Seguendo gli sviluppi giuridici dela oennata premessa, il tribu
nale avrebbe dovuto, invece, ritenere che Ila 1. o. 860 dei 1956, sulla disciplina delle imprese artigiane, riproduce, in sostanza, il
contenuto dell'art. 2083 c.c., che indica, quale criterio per indivi
duare l'impresa artigiana, l'attività professionale organizzata, pre valentemente, con il lavoro del titolare e dei componenti della
sua famiglia. In altri termini, il tribunale avrebbe dovuto ricono
scere l'equivalenza tra impresa artigiana e piccola impresa nel
l'ambito e nei limiti delle attività menzionate dalla 1. n. 860/56. Per altro verso, secondo il ricorrente, sarebbe arbitraria la
nozione attribuita dal tribunale ai « beni usuali », ossia quella di
essere utilizzabili in modo autonomo ed immediato per isaddisfa
re, con la loro funzionalità, le esigenze della vita quotidiana.
L'espressione della norma, là dove dice che l'impresa artigiana ha per scopo « la produzione di beni di natura artistica usuale »,
pone, invece, la qualificazione di « usuale » in contrapposizione a
quella di « artistica »; per cui, indipendentemente dalla immediata
ed autonoma utilizzazione dei beni, si avrebbe produzione di essi
quando il prodotto dell'impresa costituisca un'entità nuova rispef» to alle materie prime impiegate, ossia un bene economicamente
nuovo, creato dall'attività artigiana nello schema dell'art. 1 1. n.
860 del 1956.
2. - La lagnanza non ha giuridico fondamento.
L'errore della tesi svolta dal ricorrente sta nel ritenere che la 1.
25 luglio 1956 n. 860 abbia sostanzialmente riprodotto il contenu
to dell'art. 2083 c.c. in relazione alla qualificazione dell'impresa
artigiana. La rubrica del capo I) della cannata legge — « norme per la definizione e la disciplina giuridica dell'impresa artigiana » —, nonché il contenuto e lo spirito di essa, improntati al precetto costituzionale circa la tutela e lo sviluppo dell'artigianato (art. 45
Cost.), escludono, anzitutto, che la nuova normativa abbia un
carattere speciale, nel senso che non possono trarsi da essa effetti
diversi dal favore creditizio, tributario ed assicurativo attribuito
alla categoria degli artigiani. Deve, invece, ritenersi che la 1. n.
860 del i956 definisca l'imprenditore artigiano a tutti gli effetti di
legge, colmando la lacuna dell'art. 2083 c.c., che non definisce
l'artigianato. Il modo con cui sia stata colmata tale lacuna, introducendo
nell'ordinamento giuridico una figura di artigiano diversa rispetto a quella tradizionale, riprodotta o sottintesa nel codice civile,
riguarda una questione di politica legislativa, che, per favorire
l'industrializzazione delle aziende artigiane, ha sostituito, da un
lato, la nozione dell'artigianato classico, quale attività professiona le organizzata prevalentemente con il lavoro dell'artigiano e dei
componenti della famiglia, e, dall'altro, ha mantenuto il requisito della partecipazione personale, anche manuale, del titolare al
lavoro, nonché quello della sua guida e direzione rispetto ai
dipendenti. Orbene, i termini obiettivi della cennata sostituzione costitui
scono la traccia sulla quale deve muoversi l'indagine dell'interpre te per la definizione dell'impresa artigiana, considerando, tra
l'altro, che questa, per effetto della legge sopravvenuta, non c
sottoposta a limitazioni di capitale investito e non è più dominata
dal criterio della prevalenza del lavoro del titolare e dei suoi
familiari, non essendovi limite ai macchinari o alle fonti di
energie utilizzate (art. 1, 3° comma). Il che ovviamente contrasta con il concetto classico di artigiano, il quale è stato sempre collegato a quel limite massimo di capitale impegnato che si riscontra tra i requisiti del piccolo imprenditore.
Né può dirsi che la più ampia figura di impresa artigiana, introdotta dalla 1. n. 860 del 1956, coesista con queia prevista dal
codice civile, poiché, alla ipotetica distinzione tra l'artigiano-pic colo imprenditore (ex art. 2083 c.c.) ed il maggior imprenditore artigiano (ex 1. 1956 n. 860), si opporrebbe il carattere unitario
Il Foko Italiano — 1985.
del concetto giuridico di impresa artigiana, nonché la disparità di
trattamento che si verrebbe a creare per il piccolo imprenditore
(ex art. 2083 c.c.), di quale non potrebbe fruire dei conteggi creditizi ed assicurativi che la legge attribuisce all'impresa arti
giana, senza distinzioni.
Le argomentazioni esposte valgono a contraddire la itesil fon
damentale del ricorrente, secondo la quale la 1. n. 860 del 1956
non avrebbe avuto alcun carattere innovativo sostanziale rispetto alla previsione dell'art. 2083 c.c.
D'altro canto, l'interpretazione data dal tribunale alla normativa
vigente si presenta corretta, oltre che per avere colto le dimen
sioni che la nuova legge ha attribuito all'impresa artigiana, anche
per avere ritenuto che i requisiti fondamentali di questa debbano
concorrere congiuntamente.
Di guisa che la mancanza di uno solo di essi esclude l'insor
genza della figura giuridica dell'impresa artigiana. Nel caso di
specie, l'indagine del giudice di merito ha escluso l'esistenza dello
scopo stesso dell'impresa artigiana, ossia la produzione di beni (o la prestazione di servizi) « di natura artistica od usuale », consi
derando che l'azienda del Comendulli non contempla la produ zione dei beni finiti e di diretta utilizzazione, da parte dei
consumatori, ma riguarda la produzione di parti o componenti di
altri oggetti (in plastica) utilizzati da altre imprese per la compo sizione di oggetti più complessi, da immettere sul mercato.
Alla base del ragionamento, sta la corretta premessa che la
nozione di « bene di natura usuale » implichi un tipo di produ zione suscettibile di utilizzazione autonoma per le esigenze della
vita quotidiana. L'esattezza di tale criterio astratto e generale rende incensurabile, in sede di legittimità, la sua applicazione al
caso concreto, nel quale il giudice di merito ha escluso, nell'eser
cizio di una determinata attività economica, di carattere del/l'iimpre sa artigiana.
Pertanto, la sentenza impugnata non merita censura ed il
ricorso deve essere, quindi, respinto. (Omissis)
II
Motivi della decisione. — (Omissis). Con l'ottavo ed il nono
motivo, che per la loro connessione conviene insieme esaminare, denunziando violazione degli art. 1, 2, 3 e 4 1. 25 luglio 1956 n.
860, nonché erronea ed omessa motivazione circa punti decisivi dolila controversia (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.), la società ricorrente si duole che il tribunale le abbia negato la qualifica di impresa artigiana, benché fosse incontroverso il suo possesso dei requisiti fondamentali previsti alle lett. a), b) e c) dell'art. 1 legge del 1956,
per il preteso superamento del limite massimo di cinque dipen denti occupati, a norma dell'art. 2, lett. b), in irelazione agli art. 3 e 4 della stessa legge, e senza dare adeguata dimostrazione che la
produzione di pasta fresca all'uovo, in cui consisteva la sua
attività, fosse « esclusivamente in serie » e « con processo non del tutto meccanizzato », e non abbia altresì' considerato che i limiti
occupazionali stabiliti dal cit. art. 2, lett. b), andavano verificati alla stregua di un criterio di « normalità », cioè con riguardo non
già al solo momento della cessazione del rapporto di lavoro, ma anche a tutto il periodo precedente, cui le differenze retributive si riferivano. Sostiene che, ove l'impresa sia tipicamente artigiana, il lavoratore dipendente deve essere comunque retribuito alla stre
gua della contrattazione collettiva delle imprese artigiane, indi
pendentemente dal numero dei dipendenti occupati, rilevante soltanto ai fini fiscali e contributivi. Lamenta altresì che dalla
parziale coincidenza del trattamento retributivo fatto alla Medici ed alla Canova con quello stabilito dal contratto collettivo per l'industria alimentare, il tribunale abbia tratto la conseguenza che essa società avesse recepito, e comunque solo in parte, la disci
plina retributiva dell'anzidetto contratto collettivo, e che, nel determinare la retribuzione sufficiente, a norma dell'art. 36 Cost., non abbia indicato gli elementi alla stregua dei quali aveva ritenuto adeguato un determinato livello retributivo alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato dalle due dipendenti.
I due motivi devono essere accolti nei limiti segnati dalle
seguenti considerazioni.
L'art. 1 1. 25 luglio 1956 n. 860, che integra e precisa la nozione delineata nell'art. 2083 c.c., definisce artigiana l'impresa la quale risponda a determinati requisiti fondamentali consistenti nell'avere essa per iscopo la produzione di beni, o la prestazione di servizi, di natura artistica od usuale (lett. a); nell'essere
organizzata ed operare col lavoro professionale, anche manuale del suo titolare e, evèntualmente, con quello dei suoi familiari
(lett. b); nell'avere il titolare la piena responsabilità dell'azienda e
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
nell'assunzione da parte del medesimo di tutti gli oneri ed i
rischi inerenti alla sua direzione ed alla sua gestione (lett. e). Ove l'impresa possegga questi requisiti « non costituisce ostacolo
per il riconoscimento della qualità artigiana la circostanza che la
stessa adoperi macchinari ed utilizzi fonti di energia» (art. 1, 3"
comma).
A norma dell'art. 2, 1° comma, l'impresa può essere considerata
artigiana, fermo restando il concorso dei requisiti fondamentali
sopra menzionati, se, per lo svolgimento della sua attività, si
avvale della prestazione d'opera di personale dipendente, purché
questi sia sempre guidato e diretto personalmente dal titolare
dell'impresa (deve trattarsi — secondo la ratio della norma — di
guida e direzione non amministrativa ma tecnica) e siano rispet tati determinati livelli occupazionali, varianti a seconda dell'ogget to dell'impresa stessa e delle caratteristiche del processo produtti vo.
Può essere, dunque, considerata artigiana, ai sensi del 2°
comma del cit. art. 2: a) l'impresa che, non lavorando in serie,
impieghi normalmente non più di dieci dipendenti, compresi i
familiari del titolare ed esclusi gli apprendisti; b) l'impresa che,
pur dedicandosi a produzione esclusivamente in serie, non impie
ghi normalmente più di cinque dipendenti, compresi i familiari
del titolare ed esclusi gli apprendisti e sempre che la lavorazione
si svolga con processo non del tutto meccanizzato; c) l'impresa che svoljga attività nel settore dei lavori artistici, tradiizkmalii e
dell'abbigliamento su misura (elencati nel d.p.r. 8 giugno 1964 n.
537), senza l'espressa prefissione di alcun limite massimo di
dipendenti occupati, i quali, però, occorre notare, devono essere
in numero tale da consentire al titolare dell'impresa di attendere
personalmente alla loro guida e direzione artistica, sicché è
implicito nel sistema della legge, anche in tal caso, un indiretto
fattore di limitazione (a codeste imprese artigiane si riferiscono le
sentenze di questa corte n. 365 del 1968, Foro it., Rep. 1968,
voce Artigianato, n. 3, e n. 4991 del 1980, id., Rep. 1981, voce La
voro (rapporto), n. 387); d) l'impresa che presti servizi di trasporto ed impieghi normalmente non più di cinque dipendenti, compresi i
familiari del titolare ed esclusi gli apprendisti.
Anche per gli apprendisti è stabilito dall'art. 2, ult. comma, un
numero massimo, cioè non superiore a dieci per le imprese di cui
alla lett. a), a cinque per quelle di cui alle lett. b e d) ed a venti
per quella di cui alla lett. c). Nel computo dei dipendenti, rilevante ai fini della qualifica
artigiana, devono ritenersi compresi soltanto gli impiegati tecnici
e non quelli amministrativi, giacché la legge, esigendo, come
ripetutamente accennato, che i predetti dipendenti siano guidati e
diretti sotto il profilo tecnico personalmente dal titolare dell'im
presa, ha di certo inteso riferirsi a coloro che partecipano direttamente al processo produttivo ed alla prestazione dei servizi
in cui si concreta l'attività imprenditoriale artigiana.
Le società (semplici, di fatto o irregolari, in nome collettivo,
cooperative) sono considerate artigiane, a norma dell'art. 3 della
legge, purché la maggioranza dei soci partecipi personalmente al
lavoro (tale partecipazione non è ravvisabile, ove il socio si
occupi degli aspetti amministrativi ed organizzativi), e nell'impre sa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, intendendosi
codesta preminenza in senso non meramente quantitativo, ma
funzionale, cioè in rapporto con le caratteristiche strutturali
fondamentali dell'impresa artigiana. Ed anche por tali società
valgono, a norma dell'art. 4, le limitazioni numeriche stabilite
dall'art. 2, computandosi i soci partecipanti in luogo dei dipen denti.
La legge, inoltre, considerando la dimensione dell'impresa arti
giana in relazione al numero dei dipendenti « normalmente »
occupati, ha inteso significare che l'impresa stessa conserva la
qualifica artigiana anche se, in determinati momenti e per partico lari esigenze produttive, i limiti numerici previsti siano eccezio
nalmente superati, sicché la verifica del requisito occupazionale
va appunto condotta alla stregua di un tale criterio di « normali
tà ».
Ciò premesso, è da respingere, anzitutto, l'assunto della ricor
rente circa l'irrilevanza, ove sussistano, come nella specie, i
requisiti fondamentali indicati nell'art. 1 della legge, del numero
dei dipendenti occupati, essendo incontroverso che l'attività del
l'impresa Ribaldone non si svolgeva affatto nel settore dei lavori
artistici, tradizionali e dell'abbigliamento su misura, solo in rela
zione ai quali la lett. c) dell'art. 2 non stabilisce un espresso
limite numerico del personale occupato, pur essendo implicita,
come si è accennato, anche in questo settore una qualche
limitazione al riguardo, sebbene non rigidamente predeterminata.
Il Foro Italiano — 1985.
Trattandosi di impresa, in fouma di società in nome collettivo, che produceva pasta fresca 'all'uovo con l'impiago di appositi
macchinari, occorreva in primo luogo stabilire se la produzione fosse non in serie, ovvero esclusivamente in serie, con processo in
tale ipotesi non del tutto meccanizzato.
A questo riguardo giova osservare che il concetto di produzio ne in serie deve intendersi con riferimento non già alle caratteristi
che del prodotto, che può ben essere di carattere artigianale, anche se costituisce la ripetizione di un unico modello, ma al
sistema di produzione, nel senso che si ha prodotto in serie
quando sia determinante l'uso della macchina, pur rendendosi
necessario l'intervento dell'uomo. Perché l'impresa che esegue una
produzione esclusivamente in serie sia artigiana, la legge richiede
appunto che il processo produttivo non sia del tutto meccanizza
to, cioè che, oltre alle operazioni inerenti alla conduzione del
macchinario, altre fasi della lavorazione siano effettuate diretta
mente dal titolare dell'impresa e dai suoi dipendenti.
Ora, il tribunale ha ritenuto che, nella specie si trattasse di
lavorazione in serie quasi interamente meccanizzata, sicché l'im
presa, per conservare la qualifica artigiana, non potesse superare il livello occupazionale di cinque dipendenti stabilito dall'art. 2,
lett. c), e che, occupando, invece, presso di sé undici dipendenti,
compresi i due titolari, dovesse definirsi come vera e propria
impresa industriale.
Senonché, nell'impugnata sentenza difetta una qualunque inda
gine in merito all'attività in concreto svolta dall'impresa e circa
le specifiche modalità del processo produttivo, decisive per stabi
lire se l'impresa stessa in effetti fosse classificabile nell'ambito
della lett. b) dell'art. 2, mentre l'accertamento del numero dei
dipendenti occupati, in esso computati i due titolari, risulta del
tutto generico, siccome compiuto senza distinzione, per quanto
riguarda gli impiegati, tra tecnici ed amministrativi, e senza una
qualche verifica intesa a stabilire se tale dimensione occupaziona le fosse o no « normale » nel senso sopra chiarito, in relazione al
periodo di tempo considerato.
Tali difetti viziano la sentenza impugnata sul piano dell'ade
guatezza e congruità logico-giuridica della motivazione, e sotto il
medesimo aspetto appare viziata la sentenza là dove il tribunale
ha affermato che la Ribaldone aveva recepito, in materia retribu
tiva, e tuttavia solo in parte, il contratto collettivo per gli addetti
all'industria alimentare, in base alla rilevata coincidenza di alcune
voci retributive percepite dalla Canova e dalla Medici con le
corrispondenti voci previste nell'anzidetto contratto collettivo.
Infine, nella determinazione della giusta retribuzione, a norma
dell'art. 36 Cost., il tribunale avrebbe dovuto accertare la natura
ed intensità quantitativa e qualitativa delle prestazioni lavorative
delle due dipendenti, e far riferimento alla contrattazione colletti
va solo come espressione parametrica delle condizioni del merca
to e degli equi corrispettivi del lavoro, indicando i criteri di
valutazione oanciretamente utilizzati al fioe di consentirne il con
trollo circa la correttezza e congruità logico-giuridica dell'opera zione. Ma al riguardo la motivazione della sentenza è del tutto
carente. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 26 agosto
1985, n. 4550; Pres. Lo Surdo, Est. Cruciani, iP. M. Iannelli
(conci, conf.); Soc. Proda (Avv. Visconti) c. Arduini (Avv.
Rotati). Cassa App. Bologna 31 marzo 1981.
Responsabilità civile — Infortunio del dipendente per fatto illecito
del terzo — Erogazione della retribuzione durante il periodo di
invalidità — Danno per il datore di lavoro — Sussistenza —
Pagamento dei contributi previdenziali ed assicurativi — Risar
cibilità — Esclusione (Cod. civ., art. 2043, 2110).
Il datore di lavoro ha diritto ad ottenere dal terzo, che con il
proprio comportamento colposo abbia causato l'invalidità tem
poranea di un dipendente del primo, il risarcimento del danno
conseguente al pagamento della retribuzione in assenza di
controprestazione; non gli compete, invece, ristoro per quanto abbia versato a titolo di contributi previdenziali ed assicurativi
obbligatori. (1)
(1) La sentenza ribadisce che:
a) il datore di lavoro ha diritto a vedersi risarcito il danno
conseguente alla corresponsione della retribuzione ad un dipendente assentatosi dal posto di lavoro per le lesioni riportate in un incidente stradale causato dalla condotta colposa di un terzo: v., da ultimo, Cass.
30 ottobre 1984, n. 5562, Foro it., 1985, I, 145, e 23 gennaio 1984, n.
555 (+ Pret. Mirandola 19 marzo 1983), id., 1984, I, 1292, corredate
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