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Sezione lavoro; sentenza 23 luglio 1984 n. 4328; Pres. Afeltra, Est. Genghini, P. M. Paolucci...

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Sezione lavoro; sentenza 23 luglio 1984 n. 4328; Pres. Afeltra, Est. Genghini, P. M. Paolucci (concl. conf.); I.n.p.s. (Avv. Rainone Tripputi, Vario, Ausenda) c. Cremaschi e altro (Avv. Bussi). Cassa Trib. Mantova 13 ottobre 1980 Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 12 (DICEMBRE 1984), pp. 2983/2984-2987/2988 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23178343 . Accessed: 28/06/2014 16:56 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 46.243.173.44 on Sat, 28 Jun 2014 16:56:03 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione lavoro; sentenza 23 luglio 1984 n. 4328; Pres. Afeltra, Est. Genghini, P. M. Paolucci(concl. conf.); I.n.p.s. (Avv. Rainone Tripputi, Vario, Ausenda) c. Cremaschi e altro (Avv. Bussi).Cassa Trib. Mantova 13 ottobre 1980Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 12 (DICEMBRE 1984), pp. 2983/2984-2987/2988Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178343 .

Accessed: 28/06/2014 16:56

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2983 PARTE PRIMA 2984

sullo stato fisico dell'invalido e sulla sua eventuale pericolosità è

rivolto alla tutela degli interessi pubblici ai quali si è accennato, dei quali è pervasa la materia e per i quali si è introdotto questo limite alla autonomia privata: ove l'accertamento è sfavorevole

all'invalido, serve a rimuovere il divieto di licenziamento, mentre

nel caso sia a lui favorevole, qualifica come illecita e lesiva del

suo diritto soggettivo la risoluzione del rapporto. Da tutto ciò

discendono alcune conseguenze in ordine alla natura giuridica del

collegio medico, nonché dei suoi atti, ed altresì in ordine agli effetti della sua incompleta composizione al momento della ema

nazione dell'atto, ed ai conseguenti poteri di impugnazione da

parte dell'interessato e di decisione previa istruttoria da parte dell'autorità giudiziaria.

Innanzi tutto il collegio medico in questione non può qua lificarsi come collegio c.d. virtuale, tale cioè che può deliberare

anche non nella completezza dei suoi componenti: si tratta di un

c.d. collegio reale, tale cioè che può validamente deliberare

esclusivamente con il plenum dei suoi componenti. Il che avviene

non solo e non tanto per consentire un maggiore approfondimen to delle questioni trattate, ma soprattutto perché, data la natura

confliggente degli interessi sui quali l'atto è destinato a spiegare i

suoi effetti, la legge richiede sia una adeguata rappresentazione

degli interessi stessi, sia che la potestà del collegio sia esercitata

proprio in relazione alle finalità specifiche per le quali è stata

istituita. Se è ben vero che i c.d. collegi tecnici sono configurati dalla legge a volta come reali ed a volta come virtuali si può affermare che nel caso in esame la natura stessa dell'atto che il

collegio è chiamato a formare presuppone la completa rappresen tazione di tutti gli interessi (alieni) dei quali i membri del

collegio sono portatori e che sono suscettibili di influire anche su

valutazioni solo apparentemente squisitamente tecniche, ma che

contengono margini di rilevante opinabilità (si pensi soltanto al

concetto di pericolosità). Pertanto nel caso in esame la mancanza di un componente del

collegio provoca la invalidità dell'atto di certazione dello stato di

incapacità lavorativa, sul quale si è fondato il licenziamento. Si

tratta evidentemente di illegittimità per contrasto con la legge; correttamente il giudice di merito ha fatto uso dei suoi poteri

giurisdizionali disapplicandolo nel momento che era chiamato a

decidere sulla lesione del diritto soggettivo dedotta dal lavoratore

licenziato non ricorrendone i presupposti voluti dalla legge. Ed è

del pari evidente che condizione di legittimità del licenziamento

non è la esistenza della certazione comunque data, ma proprio la

esistenza dei presupposti richiesti dalla legge, che il giudice

pertanto non poteva esimersi dall'accertare, cosi come del resto

avrebbe fatto nel caso che l'accertamento del collegio medico

fosse stato ritualmente formato ma fosse stato successivamente

impugnato nel merito. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 23 luglio

1984, m. 4328; Pres. Afeltra, Est. Genghini, P. M. Paolucci

(conci, coni.); I.n.p.s. (Avv. Rainone Tripputi, Vario, Au

senda) c. Cremaschi e altro (Aw. Bussi). Cassa Trib. Mantova

13 ottobre 1980.

Previdenza sociale — Pensione — Cumulo con la retribuzione —

Limite — Applicabilità all'intero trattamento pensionistico (L. 30 aprile 1969 n. 153, revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale, art. 20).

Il limite massimo di centomila lire mensili entro il quale, a norma dell'art. 20 l. 30 aprile 1969 n. 153, è possibile il

cumulo fra retribuzione e pensione, va applicato, non alla sola

quota di pensione eccedente il trattamento minimo, ma a tutto

il trattamento pensionistico nel suo complesso, facendo salvo

il principio dell'intangibilità del trattamento minimo nei casi in

cui è normativamente previsto. (1)

(1-2) Contrasto nella giurisprudenza della sezione lavoro, in un

primo tempo pronunciatasi come nella sentenza 5344/83 che si riporta eli giugno 1983, n. 4035, Foro it., Rep. 1983, voce Previdenza sociale, n. 558, e poi successivamente orientatasi all'opposto, oltre che con la decisione 4328/84 che si riporta, con le pronunce 10 aprile 1984, n. 2316 e n. 2318, id., Mass., 457; 12 aprile 1984, n. 2381, ibid., 470; 14

luglio 1984, n. 4133, ibid., 836; 16 luglio 1984, n. 4153 e n. 4154, ibid., 840, 841; 11 ottobre 1984, n. 5068, inedita.

Da notare che in entrambi i giudizi di cui alle sentenze che si

riportano lo stesso p.m. ha condiviso il mutamento di indirizzo

interpretativo concludendo sempre in conformità alle contrastanti deci sioni della corte.

II

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 10 agosto 1983, n. 5344; Pres. Rubinacci, Est. De Martini, P.M. Pao

lucci (conci, conf.); I.n.p.s. i(Avv. Rainone Tripputi, Vario,

Ausenda) c. Madella (Avv. Mina). Conferma Trib. Brescia

30 giugno 1980.

Previdenza sociale — Pensione — Cumulo con la retribuzione —

Limite — Applicabilità alla sola quota eccedente il trattamento minimo (L. 30 aprile 1969 n. 153, art. 20).

Il limite massimo di centomila lire mensili entro il quale, a

norma dell'art. 20 l. 30 aprile 1969 n. 153, è possibile il

cumulo fra retribuzione e pensione, va applicato alla sola quota di pensione eccedente il trattamento minimo. (2)

Svolgimento del processo. — Con distinti ricorsi Cremaschi

Nerina e Meneghello Bruno chiedevano al Pretore di Mantova

affermarsi il loro diritto a percepire il trattamento pensionistico di vecchiaia, in pendenza del rapporto di lavoro, nella misura del

trattamento minimo, aumentata di lire 100.000, quale quota ecce

dente appunto il detto minimo, e non come diversamente conteg giato dall'I.n.p.s. in lire 100.000 comprensive del trattamento

minimo. Si costituiva l'I.n.p.s. che chiedeva il rigetto della do

manda. Il pretore, riuniti i ricorsi, accoglieva la domanda. Contro

questa sentenza proponeva appello l'I.n.p.s.; il tribunale confer

mava la sentenza di primo grado, ritenendo che l'art. 20 1. n.

153/69 intendesse rendere cumulabile con la retribuzione il 50 %

della pensione fino a concorrenza della retribuzione; quanto al

tetto di lire 100.000 questo si riferisce solo al 50 % della

pensione e non anche al trattamento minimo, comunque ga rantito.

Propone ricorso l'I.n.p.s.; hanno presentato controricorso i

resistenti.

Motivi della decisione. — Con l'unico mezzo di annullamento

l'I.n.p.s. si duole per la violazione del citato art. 20 1. n. 153/69

L'art. 20 1. 153/69 ha superato il vaglio di Corte cost. 19 febbraio 1976, n. 30, id., 1976, I, 903, con nota di richiami, e in Dir. lav., 1976, II, 131, con nota di Bellini, alla quale era stato denunciato per sospetta incostituzionalità nella parte in cui pone un divieto di cumulo fra pensione e retribuzione, ma senza alcun rilievo sotto il profilo dei termini di applicabilità del massimale di lire centomila esaminato dalla Cassazione nelle riportate decisioni.

In precedenza la prova di costituzionalità era stata superata anche dalle previgenti norme che delimitavano il cumulo, fatta eccezione per quelle (art. 5, lett. a e b, 1. 18 marzo 1968 n. 238 e art. 20, lett. a e b, d.p.r. 27 aprile 1968 n. 488) che, limitando la cumulabilità della retribuzione con la pensione di vecchiaia, sono state ritenute illegitti me: cfr. Corte cost. 22 dicembre 1969, n. 155, Foro it., 1970, I, 394, con nota di richiami, e in Riv. dir. lav., 1970, II, 26, con nota di Bellini; in Mass. giur. lav., 1970, II, 18, con nota di G. Conti; in Dir. lav., 1970, II, 134, con nota di Corrias; in Prev. soc., 1970, 407, con nota di D'Harmant Francois.

Nuova questione di costituzionalità dell'art. 20 1. 153/69, per violazione degli art. 1, 4, 35, 36 e 38 Cost., nella parte in cui circoscrive alla sola retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi il divieto di cumulo col trattamento pensionistico, è stata rimessa alla Corte costituzionale da Pret. Parma, ord. 4 aprile 1979, Foro it., Rep. 1980, voce cit., n. 429, mentre Cass. 12 marzo 1982, n. 1619, id., Rep. 1982, voce cit., n. 521, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma sotto il profilo già esaminato da Corte cost. 30/76, cit.

Pret. Torino 21 maggio 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 724, ha sollevato questione di legittimità, oltre che dell'art. 20 1. 153/69 cit., dell'art. 22 stessa legge, 23 1. 11 agosto 1972 n. 485, 10 1. 3 giugno 1975 n. 160, 16 1. 21 dicembre 1978 n. 843, nella parte in cui non equiparano il trattamento di integrazione salariale a carico della c.i.g. alla retribuzione ai fini del cumulo con la pensione.

Nel senso che le limitazioni al cumulo di cui all'art. 20 1. 153/69 riguardano anche le pensioni erogate dall'E.n.p.a.l.s., v. Cass. 16 giugno 1983, n. 4158, ibid., n. 404 (contra Pret. Roma 27 giugno 1980, ibid., n. 350); ed ancora, nel senso che esse riguardano le pensioni erogate dall'I.n.p.d.a.i., Cass. 14 dicembre 1983, n. 7380, ibid., n. 402.

Con riferimento al principio della intangibilità del trattamento minimo della pensione, che Cass. 4328/84 che si riporta ricava, con interpretazione ristretta alle specifiche fattispecie previste, dagli art. 10 1. 3 giugno 1975 n. 160, 16 1. 21 dicembre 1978 n. 843 e 14 bis, 3° comma, 1. 29 febbraio 1980 n. 33, va ricordato che nell'ipotesi di cumulo fra pensioni lo stesso principio risulta affermato da univoca giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. sent. 27 maggio 1982, n. 102, id., 1982, I, 1489, con nota di richiami e id., 1984, I, 42, con nota di D. Sorace, Note in tema di sentenze della Corte costituzionale che importano nuove o maggiori spese e art. 81 Cost., e 26 febbraio 1981, n. 34, id., 1981, I, 1502, con nota di richiami e osservazioni di V. Ferrari) ancora nemmeno esauritasi, stando a Cass., ord. 21 febbraio 1984, n. 101, id., 1984, I, 2554.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

che si riferisce al computo dell'importo della pensione determina

ta in base ai criteri del 1° comma dello stesso art. 20 e che

non può comunque superare l'importo di lire 100.000 per la parte cumulabile con la retribuzione.

Il ricorso è fondato e deve essere accolto.

La questione è già stata esaminata e decisa da questa corte con

le sentenze nn. 4035 (Foro it., Rep. 1983, voce Previdenza sociale, n. 558) e 5344 del 1983 (id., 1984, I, 2984), in conformità della

soluzione adottata nella sentenza impugnata e cioè con l'afferma

zione del principio che a norma dell'art. 20 1. n. 153/69, il tetto

di lire 100.000 mensili si applica alla quota di pensione che

eccede il trattamento minimo e non già all'intera pensione cumu

labile con la retribuzione.

Ma con successive decisioni la corte è pervenuta a diversa

soluzione, e, rimeditato il problema, la corte ritiene di non poter

seguire l'iniziale orientamento giurisprudenziale, e dover conferma

re la opposta tesi interpretativa sostenuta dall'I.n.p.s. L'art. 20 1. 30 aprile 1969 n. 153, che ha sostituito con effetto

dal 1° maggio 1969 l'art. 20 d.p.r. 27 aprile 1978 n. 488, ha

dettato rispetto a tale norma nuovi e più favorevoli criteri per

quanto riguarda il divieto di cumulo della pensione con la

retribuzione nei confronti dei pensionati che prestano attività

lavorative alle dipendenze di terzi, anticipando i principi enuncia

ti dalla Corte costituzionale con la sentenza 22 dicembre 1969, n.

155 (id., 1970, I, 394), e superando quindi, in tempo successivo, uno specifico vaglio di costituzionalità nella sentenza della stessa

corte 19 febbraio 1976, n. 30 (id., 1976, I, 903). Il citato art. 20 nella parte che interessa, stabilisce che « non

sono cumulabili, nella misura del 50 % del loro importo, con la

retribuzione lorda percepita in costanza di rapporto di lavoro

alle dipendenze di terzi e fino a concorrenza della retribuzione

stessa, le quote eccedenti i trattenimenti minimi delle pensioni di

vecchiaia e di invalidità liquidate a carico della assicurazione

generale obbligatoria... Non è altresì cumulabile la quota di

pensione eventualmente eccedente lire 100.000 mensili, risultante

dall'applicazione del disposto del presente comma».

L'art. 20, 1° comma, presuppone per la sua applicazione il

preventivo calcolo della pensione che spetterebbe al titolare, ove

questi non lavorasse, con una determinata retribuzione, alle

dipendenze di terzi, e, altresì', il calcolo del relativo trattamento

minimo nonché della quota di tale pensione eccedente il minimo

stesso. A seguito di tale calcolo la norma introduce una serie di

limitazioni alla cumulabilità della pensione; tali limitazioni sono

variamente commisurate sia alla entità della retribuzione che alla

entità della pensione. Vi è innanzi tutto il limite per il quale ciò

che eccede il trattamento minimo al 50 % non è cumulabile. Ma

questo stesso limite è a sua volta subordinato a due condizio

ni-limite: a) che ila retribuzione percepita sia pari o superiore al

50 % della parte di pensione eccedente il trattamento minimo di

pensione; b) che, applicata la norma, non risulti una parte di

pensione da cumulare eccedente lire 100.000 mensili. Per quanto attiene alla necessità che il 50 % della parte eccedente il tratta

mento minimo risulti pari o inferiore alla retribuzione percepita, si spiega evidentemente con la necessità avvertita dal legislatore di impedire che in costanza di rapporti di lavoro marginali, scarsamente retribuiti, questi potessero provocare la perdita della

cumulabilità di parte consistente della pensione. Si è in altri

termini tenuto conto di situazioni nelle quali la pensione costitui

va evidentemente la fonte principale di reddito. Ma, posto che la

retribuzione percepita fosse pari o superiore al 50 % della quota di pensione eccedente il trattamento minimo, si aveva un cumulo

parziale, pari alla metà della anzidetta quota eccedente il minimo

e che sommandosi al trattamento minimo determinava complessi vamente la pensione erogabile al pensionato che lavora.

La seconda parte della disposizione di legge in esame, che

integra e completa la prima, esige che il risultato di siffatta

operazione venga sottoposto a particolare verifica al fine di

accertare se la pensione in favore del pensionato che lavora, determinata secondo questi criteri, superi la somma di lire

100.000 mensili e, in tal caso, prevede un ulteriore divieto di

cumulo, il quale questa volta colpisce quella parte che eccede

tale indicato limite massimo complessivo.

Per intendere appieno il significato e la portata della norma in

questione, si deve ricordare che per effetto dell'art. 7 1. n. 153/69, a decorrere dal 1° gennaio di quell'anno, gli importi mensili dei

trattamenti minimi di pensione a carico dell'assicurazione generale dei lavoratori dipendenti previsti dall'art. 2 d.p.r. 27 aprile 1968

n. 488 erano stati elevati a lire 23.000 mensili, per i titolari di

età inferiore a 65 anni, e a lire 25.000 mensili, per i titolari che

avessero compiuto i 65 anni di età. Sicché l'anzidetto limite

massimo della pensione cumulabile con la retribuzione (lire

100.000 mensili) era in quel tempo pari a quattro volte l'importo

del trattamento minimo spettante agli ultrasessantacinquenni. La

stessa L n. 153/69, all'art. 19, prevedeva peraltro la c.d. pere

quazione automatica delle pensioni, i cui importi, ivi compresi i

trattamenti minimi, al netto delle quote di maggiorazioni per familiari a carico, con effetto dal 1° gennaio di ciascuno anno, erano aumentati in misura percentuale pari all'aumento percen tuale dell'indice del costo della vita calcolato dall'ISTAT ai fini del la scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell'industria.

Tenuto conto di ciò, nonché degli stessi livelli retributivi aia data della promulgazione della 1. n. 153, la soglia massima di cumulabilità complessiva, fissata come si è visto legislativamente nella misura di lire 100.000 mensili, non era in quel momento

priva di ragionevolezza. La diversa interpretazione della norma, secondo la quale la

soglia di lire 100.000 mensili andava computata relativamente a

quanto eccedeva il trattamento minimo, e che è stata posta a fondamento sia della sentenza impugnata sia dei due suindicati

precedenti di questo collegio, ha probabilmente tenuto conto di norme successive che peraltro avevano la loro ratio in una già intervenuta svalutazione della moneta, e, soprattutto, nella circo stanza che nel frattempo il trattamento minimo di pensione aveva

dapprima raggiunto e poi ampiamente superato la anzidetta soglia di lire 100.000. In tali successivi mutati rapporti quantitativi tra entità delle retribuzioni e dei trattamenti minimi, il legislatore, semplificando, ha inteso diversamente garantire che il contenimen to della cumulabilità non attingesse oltre i livelli ritenuti essen ziali per la sopravvivenza (trattamento minimo), e cosi introduce va legislativamente quel principio della « intangibilità » del detto trattamento minimo di pensione, chiaramente espresso dall'art. 10 1. 3 giugno 1975 (« Gli aumenti di pensione di cui al 3° e 4° comma del presente articolo non sono cumulabili con la retribu zione percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi. La trattenuta deve, comunque, fare salvo l'importo corrispondente al trattamento minimo di pensione ») e dai succes sivi art. 16 1. 21 dicembre 1978 n. 843 e 14, ult. comma, 1. 29 febbraio 1980 n. 33 che tale ultima formulazione sostanzialmente

ripetono. È invero appena il caso di sottolineare che, se effettivamente

l'art. 20 1. n. 153/69 dovesse interpretarsi nel senso che non si

accoglie, e cioè del computo di lire 100.000 mensili non sull'im

porto complessivo (trattamento minimo più 50 % della parte residua eccedente il trattamento minimo) ma soltanto sull'anzidet to 50 % della parte eccedente il trattamento minimo, non si

spiegherebbe la necessità di formulare le indicate norme successi ve degli anni 1975, 1978 e 1980 con la precisazione della

intangibilità del trattamento minimo, dal momento che secondo la interpretazione che si rifiuta, tale intangibilità già sarebbe stata introdotta nell'ordinamento proprio con la normativa di carattere

generale che introduceva i limiti di cumulabilità, e cioè con la più volte citata 1. n. 153/69 all'art. 20. E ciò vale anche con riferimento alla argomentazione posta a fondamento della contraria

interpretazione, secondo la quale il legislatore poteva esprimere l'individuazione di tale tetto massimo complessivo con una espres sione quale « l'importo complessivo della pensione cumulabile non può eccedere lire 100.000 mensili » o altra di analoga formulazione, atteso che, se la 1. n. 153 cit. avesse già introdotto la intangibilità del trattamento minimo, le norme successive in

luogo di una siffatta formulazione — da ritenersi in tal caso inutilmente ripetitiva — potevano limitarsi a richiamare l'art. 20

più volte citato, così come del resto proprio in dette norme avveniva in relazione all'art. 19 1. n. 153/69.

L'uso dell'avverbio « altresì » effettivamente si riferisce alla introduzione di un limite ulteriore, come si è visto, ma tale limite non riguarda soltanto la quota di pensione eccedente il trattamen to minimo e cumulabile al 50 %, bensì, come indicato dalla norma stessa, la quota « risultante dall'applicazione del presente comma ». Ben vero che in tal modo mentre nella prima parte dell'art. 20 la parola « quota » si riferisce a quanto eccedente il trattamento minimo, nella seconda parte si riferisce ad un impor to complessivo risultante dalla somma dell'importo pari al tratta mento minimo e del 50 % di quanto eccede detto trattamento minimo (e fino a concorrenza della retribuzione); ma non si tratta — come paventato dalla tesi interpretativa che non si segue — di attribuire significato diverso alla stessa parola nel medesimo contesto legislativo, atteso che in entrambi i casi la parola « quota » ha il significato di « parte »; si tratta bensì di parti diverse della pensione che il legislatore ha preso in considerazione nell'ambito di computi diversi da compiere sulla pensione per individuarne la parte cumulabile.

L'interpretazione ora accolta, ove pure occorresse, trova puntua le conferma nei lavori preparatori della 1. n. 153/69, i quali forniscono circa il testo dell'attuale art. 20 chiare ed univoche

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2987 PARTE PRIMA 2988

indicazioni. Al riguardo è sufficiente richiamare la relazione alla

camera dei deputati del ministro del lavoro e della previdenza sociale on. Brodolini, alla stregua della quale il disegno di legge, nel testo corrispondente a quello definitivamente approvato sub

art. 20, attua una disciplina del cumulo della pensione così

congegnata: « cumulo integrale fino all'importo dei trattamenti

minimi di categoria; cumulo nella misura del 50 % per la quota di pensione che supera i trattamenti minimi. In ogni caso, effettuate le suddette operazioni, il pensionato che lavora non può

percepire una quota di pensione superiore a lire 100.000 mensili ».

Il risultato interpretativo al quale si perviene in tal guisa, non

è inficiato dal rilievo che il limite massimo di lire 100.000, in

virtù dei successivi aumenti disposti per legge, è stato di fatto

superato — e con andamento di crescente ampiezza — nel corso

degli anni dall'importo dei trattamenti minimi, ma anzi spiega

appunto la ratio per la quale il legislatore successivamente

abbandonava il criterio di un tetto massimo numericamente

precostituito, individuando il limite minimo della cumulabilità

costituito in ogni caso dal detto trattamento minimo; un sistema

normativo che teneva evidentemente conto della iniquità della

predeterminazione di un tetto massimo pur nella accelerata mo

dificazione dei rapporti di valore dovuti alla svalutazione moneta

ria.

In conclusione il ricorso deve essere accolto con la cassazione

della impugnata sentenza ed il rinvio della causa ad altro giudice di appello per un nuovo esame alla stregua del seguente principio di diritto.

A norma dell'art. 20 1. 30 aprile 1969 n. 153 secondo cui « non

sono cumulabili nella misura del 50 % del loro importo, con la

retribuzione lorda percepita in costanza di rapporto di lavoro alle

dipendenze di terzi e fino a concorrenza della retribuzione stessa,

le quote eccedenti i trattamenti minimi delle pensioni di vecchiaia

e di invalidità » e « non è altresì' cumulabile la quota di pensione eventualmente eccedente lire 100.000 mensili risultante dall'appli cazione del presente comma », tale tetto di lire 100.000 si applica alla intera pensione da cumulare e non soltanto alla quota di

pensione che eccede il minimo; è fatto salvo in ogni caso il

principio della c.d. intangibilità del trattamento minimo di pen sione introdotto dagli art. 10 1. 3 giugno 1975 n. 160, 16 1. 21

dicembre 1978 n. 843, e 14 bis, 3° comma, 1. 29 febbraio 1980 n.

33 per le fattispecie alle quali dette norme sono applicabili. Il giudice del rinvio, che si designa nel Tribunale di Lodi, è

opportuno che provveda anche al regolamento delle spese di

questo giudizio.

II

Svolgimento del processo. — Con ricorso del 10 ottobre 1979,

Gino Madella esponeva al Pretore di Brescia che, essendo titolare

di pensione di vecchiaia dal 1976, esso era rimasto sin da allora

occupato presso terzi, ed a causa di ciò si era visto ridurre la

pensione percepita a sole lire 102.500 mensili, per un'erronea

interpretazione da parte dell'I.n.p.s. dell'art. 20 1. 30 aprile 1969

n. 153, inteso dall'istituto nel senso che, nell'ipotesi di cumulo di

trattamento pensionistico previdenziale con retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi, l'intero

trattamento suddetto dovesse limitarsi ad un massimo di lire

100.000 mensili; tanto esposto, chiedeva che, sulla base di una

esatta valutazione della portata dell'indicata norma, l'I.n.p.s. ve

nisse condannato al pagamento, oltre che del 50 % dell'eccedenza

della pensione sul trattamento minimo, anche dell'importo del

trattamento minimo stesso.

Accolta dal pretore la domanda dell'attore, a seguito di grava me dell'istituto convenuto, il Tribunale di Brescia, con la sentenza

ora impugnata per cassazione, respingeva l'appello, considerando

che una corretta interpretazione della disposizione in esame, nel

suo ultimo inciso del 1° comma, disponente che « non è altresì

cumulabile la quota di pensione eventualmente eccedente di lire

100.000, risultante dall'applicazione del presente comma », portava a ritenere che l'espressione « quota di pensione » non poteva che

riferirsi al 50 % della parte di pensione eccedente il trattamento

minimo, rimanendo sempre garantito quest'ultimo trattamento, ed

aggiungendosi quindi a questo il 50 %, nel confine di lire 100.000, della parte di pensione in eccesso rispetto al minimo stesso, onde

erronea appariva la pretesa dell'istituto di riferire il suddetto

confine al complesso costituito dalla somma del trattamento

minimo con il 50 % dell'eccedenza di pensione su questo.

L'I.n.p.s. ha proposto ricorso a questa corte, deducendo un

unico motivo di cassazione ed ha presentato memoria. L'intimato

ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione. — Con l'unico motivo del ricorso,

denunciando la sentenza impugnata per violazione e falsa appli

cazione dell'art. 20 1. 30 aprile 1969 n. 153 e dell'art. 12 disp. sulla legge in generale, l'I.n.p.s. sostiene l'erroneità dell'interpreta zione accolta dai giudici del merito, perché sarebbe contraddetta dalla formulazione letterale della norma (citato art. 20 1. n.

153/69) e sarebbe altresì contraria alla mens legis, quale risultate anche dai lavori preparatori. Deduce, in particolare, che la

disposizione si compone di due parti nelle quali sono previsti calcoli da effettuare in un ordine determinato, per l'esatta indivi duazione della quota di pensione non cumulabile con la retribu

zione; l'esatta individuazione di tale quota, si aggiunge, presup pone necessariamente la preventiva determinazione dell'importo della pensione spettante ove il titolare non lavori alle dipendenze di terzi e comporta, altrettanto necessariamente, la contestuale determinazione della quota di pensione cumulabile con la retribu

zione; se questo è stato l'iter logico seguito dal legislatore, non vi erano dubbi che la « quota di pensione risultante dall'applicazione del disposto del presente comma » altro non era che la quota eccedente lire 100.000 dell'importo di pensione che spetterebbe in base alla prima parte della norma in esame: importo questo comprensivo del minimo garantito e del 50 % della quota ecce dente il minimo stesso; la suddetta interpretazione troverebbe inoltre conferma nei criteri informativi di successive disposizioni di legge (come l'art. 16 1. n. 843/78) e nei principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze 22 dicembre 1969, n. 155 (Foro it., 1970, I, 394) e 19 febbraio 1976, n. 30 (id., 1976, I, 903).

Il ricorso non merita di essere atteso.

È opportuno trascrivere, nella parte che interessa, il testo dell'art. 20 1. n. 153/69: « Non sono cumulabili, nella misura del 50 % del loro importo, con la retribuzione lorda percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi e fino a concorrenza della retribuzione stessa, le quote eccedenti i tratta menti minimi delle pensioni di vecchiaia e di invalidità... Non è altresì' cumulabile la quota di pensione eventualmente eccedente lire 100.000 mensili risultante dall'applicazione del disposto del

presente comma ». La questione, che consiste nello stabilire se il « tetto » di lire

100.000 si applichi alla quota di pensione che eccede il minimo

oppure all'intera pensione, deve essere decisa conformemente alla soluzione adottata dai giudici del merito.

Appare decisivo il rilievo che oggetto della prima parte del comma in questione non sono i trattamenti minimi delle pensioni, della cui cumulabilità con la retribuzione non si discute, ma solo le quote di pensione che eccedono detti trattamenti minimi. Sono

appunto queste ultime quote che la norma dichiara cumulabili fino al 50 % del loro ammontare e fino a concorrenza della retribuzione lorda.

Non vi può quindi essere dubbio che la « quota di pensione eventualmente eccedente lire 100.000 mensili risultante dall'appli cazione del disposto del presente comma » è proprio la quota di

pensione che eccede i minimi: ciò è confermato dall'avverbio « altresì », il quale esprime proprio il concetto di un limite ulteriore rispetto a quelli fissati nella prima parte della norma, « nella misura del 50 % del loro importo » e « fino a concorrenza della retribuzione stessa »; limite ulteriore che non può avere un

oggetto diverso da quello preso in considerazione dalla prima parte della norma.

Per esprimere il concetto suggerito dall'I.n.p.s. sarebbe stato invero più congruo l'avverbio « comunque », e, soprattutto, il riferimento non alla « quota di pensione » ma alla « pensione », giacché il minimo ed il 50 % della quota eccedente il minimo (cioè l'oggetto del limite ipotizzato dall'ente previdenziale) non rappre sentano una quota della pensione spettante al pensionato che

lavora, bensì l'intera pensione a lui dovuta secondo i criteri della

prima parte della disposizione.

L'interpretazione proposta dall'Ln.p.s. presuppone, invece, che il termine « quota di pensione » sia stato usato nello stesso art. 20 con due significati profondamente diversi: nella prima parte stareb be ad indicare la quota di pensione eccedente i minimi, mentre, nella seconda, la parte della pensione cumulabile con la retribu

zione, la quale sarebbe una « quota » della pensione normale, cioè della pensione corrisposta al pensionato non lavoratore: una simile tesi, oltre ad essere contraddetta dalla presenza dell'avver bio « altresì » e dalla difficoltà di ammettere che una medesima

espressione assuma in seno alla stessa norma significati diversi, presuppone anche un uso improprio del termine « quota », il

quale sarebbe usato qui in luogo di « parte », senza un preciso ed

espresso riferimento all'intero, oioè alla pensione normale. Deve quindi condividersi l'interpretazione concordamente adotta

ta dai due giudici del merito, contro la quale non si rinvengono va lidi argomenti nelle decisioni della Corte costituzionale né nei prov vedimenti legislativi cui ha fatto riferimento il ricorrente.

Il ricorso deve pertanto essere respinto. (Omissis)

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