sezione lavoro; sentenza 25 ottobre 1985, n. 5271; Pres. Franceschelli, Est. Angarano, P. M.Pandolfelli (concl. diff.); Pino G. e altri (Avv. S. Arena) c. Pino D. e altri. Cassa Trib. Messina 5marzo 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 9 (SETTEMBRE 1986), pp. 2253/2254-2255/2256Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180660 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
genitore di particolari modalità, nell'esercizio della potestà può
prescindere da ogni comportamento colpevole del medesimo, essendo sufficiente (ma necessaria nel contempo) una sua condot
ta oggettivamente pregiudizievole per gli interessi del minore.
Ora, l'accertamento dei presupposti soggettivi ed oggettivi per dichiarare la decadenza del genitore dalla titolarità della patria
potestà, per privarlo del diritto soggettivo di curare, educare ed
istruire il figlio, va effettuato dal giudice nel contraddittorio, sia
pure abbreviato ed informale, fra il genitore medesimo da un lato
ed il soggetto (l'altro genitore, il parente o il p.m.) che ha
assunto l'iniziativa del procedimento e il p.m. in ogni caso
dall'altro. Ricorre l'elemento della lite, che è dato soprattutto dalla controversia circa la conservazione in capo al genitore o la
sottrazione al medesimo del diritto soggettivo di curare, educare
ed istruire il minore ed è noto come sia sufficiente a caratterizza
re in senso sostanziale come sentenza un provvedimento giudizia rio adottato a chiusura di un procedimento camerale e nella
forma del decreto quando esso decide in ordine ad un diritto
soggettivo. Il legislatore, come talvolta adotta il procedimento contenzioso
per un processo sostanzialmente volontario al fine di predisporre una rigorosa garanzia per l'accertamento dei presupposti voluti
dalla legge per la produzione dell'effetto connesso al procedimen to (tale è, ad es., il processo di interdizione e di inabilitazione), cosi altre volte utilizza, per esigenza di speditezza in relazione
alla natura dell'interesse da tutelare (nella specie l'interesse del
minore a ricevere l'istruzione, l'educazione, ecc.), lo schema del
procedimento volontario per la risoluzione di una controversia,
senza che ciò, tuttavia, impedisca l'applicabilità della garanzia
giurisdizionale di cui all'art. Ill Cost, dato che a tale riguardo occorre aver riferimento al contenuto sostanziale del provvedi mento giudiziario e non alla sua forma esteriore (altrimenti si
porrebbe il problema della legittimità costituzionale della scelta
da parte del legislatore ordinario del rito camerale). Va precisato che il codice prevede, non la revoca del provve
dimento di decadenza come, invece, per il provvedimento di cui
all'art. 333 c.c. e per quelli, in genere, di chiusura dei procedi menti camerali (art. 742 c.p.c.), bensì la possibilità che il genitore decaduto dalla potestà vi sia « reintegrato ». Ricorre la figura della revoca allorché il provvedimento originario può essere
ritirato, con effetti ex tunc (salvo i diritti acquistati in buona
fede da terzi in forza di convenzione anteriore all'atto di revoca:
art. 742 c.p.c.), sulla base di una nuova valutazione della stessa
situazione pregressa e prescindendo, perciò, dal presupposto che
tale situazione abbia subito un mutamento.
La revocabilità di un dato provvedimento giudiziario integra la
chiara dimostrazione del carattere non contenzioso e non definiti
vo del medesimo e dimostra, perciò, che esso è inidoneo a
costituire giudicato (Cass. 18 novembre 1976, n. 4305, id., Rep.
1976, voce Cassazione civile, n. 15). La reintegrazione, contempla ta dall'art. 332 c.c., opera con effetto ex nunc, può aver luogo solo ove siano cessate le ragioni che avevano determinato la
decadenza, ossia solo ove sia mutata la situazione presa in
considerazione nel provvedimento di decadenza e sempreché il
riassoggettamento del minore alla potestà del genitore già dichiara
to decaduto non comporti per il minore medesimo alcun pericolo di pregiudizio. In sostanza, perché possa farsi luogo alla reinte
grazione è necessario un nuovo giudizio su di una realtà soprav venuta e tale da assicurare l'affidabilità del genitore a curare, istruire ed educare il minore, ad assolvere ai doveri inerenti alla
potestà con pieno soddisfacimento degli interessi materiali e
morali del minore. Pertanto la possibilità della reintegrazione nella potestà del genitore decaduto si concilia con la suscettibilità
del passaggio in giudicato del decreto di decadenza e del resto, una volta esaurite le impugnazioni, questo non può essere più rimesso o modificato e la sua vigenza può venir meno soltanto se
intervenga una modifica della situazione (originaria) di fatto che
lo aveva determinato.
Non solo, l'accertamento contenuto nel decreto sia quanto alla
commissione dei fatti ascritti al genitore sia quanto alla colpevo lezza e gravità dei medesimi sia, infine, quanto all'esigenza e alla
rilevante entità del pregiudizio del minore costituisce, sul piano
giuridico, una verità oggettiva intangibile. Il ricorso proposto va, pertanto, ritenuto ammissibile. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 25 ottobre
1985, n. 5271; Pres. Franceschelli, Est. Angarano, P. M.
Pandolfelli (conci, diff.); Pino G. e altri (Avv. S. Arena) c.
Pino D. e altri. Cassa Trib. Messina 5 marzo 1981.
Società — Società di fatto — Rappresentanza — Spendita del
nome dell'altro o degli altri soci — Necessità.
Se il rappresentante di una società di fatto non spende il nome dell'altro o degli altri soci, il negozio concluso spiega effetto solo nei confronti del rappresentante medesimo, ancorché esso
riguardi interessi o beni comuni. (1)
Motivi della decisione. — Con l'unico articolato motivo i
ricorrenti, denunziando, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli art. 100 c.p.c., 36 Cost., 2099, 752, 1295, 1298 c.c., nonché di contratto collettivo di lavoro e di tutte le norme, anche se non indicate espressamente, applicabili alla fattispecie, si dolgono anzitutto della omessa considerazione, da parte del tribunale, della circostanza che, ai sensi dell'art. 1298 c.c., le parti nelle quali l'obbligazione solidale si divide tra i
diversi debitori, si presumono uguali solo se non risulta diversa mente.
In proposito affermano i ricorrenti che, come già sostenuto
nell'atto d'appello anche in base a certificazione rilasciata dal
l'I.n.p.s. di Messina, l'obbligazione del Savace Natale, dante
causa, decorreva solo dal 20 giugno 1975, mentre in precedenza i
quattro lavoratori erano stati alle esclusive dipendenze del Cardia
Luigi, il quale li aveva assunti, retribuiti, licenziati in proprio e senza mai spendere il nome della società che pure risultava
esistente anche in quel periodo tra il Cardia ed il Savoca. Passando ad esaminare il criterio seguito per la liquidazione
delle spettanze, i ricorrenti si dolgono poi che i giudici dell'appel lo, pur criticando il pretore per la superficialità della motivazione
(1) La sentenza ribadisce il principio secondo cui « anche nel campo della rappresentanza sociale è necessaria la contemplatio domini, per cui se il rappresentante della società non ne spende il nome o, quando si tratti di società di fatto, non spende il nome dell'altro o degli altri soci, il negozio concluso spiega effetto solo nei confronti del rappresen tante, ancorché esso riguardi interessi e beni comuni ». Oltre alla sentenza menzionata nella motivazione, v. Cass. 7 dicembre 1977, n. 5308, Foro it., Rep. 1977, voce Società, n. 171; 4 marzo 1980, n. 1433, id., Rep. 1980, voce cit., n. 155; 5 maggio 1980, n. 2935, id., 1981, I, 2925, con osservazioni di Lovecchio; 11 giugno 1980, n. 3710, id., Rep. 1980, voce cit., n. 153; 15 dicembre 1980, n. 6497, ibid., n. 157; 7 febbraio 1984, n. 936, id., 1984, I, 1287, con nota di richiami. In senso contrario v. Cass. 28 settembre 1977, n. 4133, id., Rep. 1977, voce cit., n. 206, secondo cui « quando il soggetto abilitato ad agire in nome di una società, abbia compiuto, senza dichiarare la sua qualità di rappresentante, un atto che rientra nella sfera di attività della società stessa, sussiste una presunzione che l'atto sia stato compiuto nell'ambito di quella abilitazione, e quindi con efficacia nella sfera dei rapporti giuridici dell'ente ».
In posizione intermedia si colloca Cass. 12 novembre 1976, n. 4180, (id., 1976, I, 2805) che, pur accogliendo il principio della imprescindi bilità della contemplatio domini, ne limita la portata nei casi in cui il soggetto rappresentato sia una società di fatto con soci occulti. Il negozio concluso dal socio palese, senza spendere il nome degli altri soci — si sostiene — spiega ugualmente i suoi effetti nei confronti della collettività dei soci, sempre che « dal contesto dell'atto relativo al negozio concluso dal socio palese risulti chiara ed evidente la sua volontà di agire nell'interesse e nel nome della società ». Tutto ciò, va sottolineato, viene giustificato con il rilievo che trattasi « di società con soci occulti, i quali, appunto perché tali, non vogliono o non possono essere indicati ».
La giurisprudenza della Cassazione, inoltre, sempre in ordine al requisito della contemplatio domini, ha più volte enunciato il principio che, pur non essendo richiesta alcuna forma solenne, la spendita del nome del soggetto rappresentato deve essere espressa ed inequivoca, non potendo essere desunta implicitamente attraverso elementi presun tivi: v. sent. 6 luglio 1977, n. 2973, id., Rep. 1977, voce Rappresen tanza nei contratti, n. 5; 2 aprile 1977, n. 1248, ibid., n. 6; 21 gennaio 1978, n. 270, id., Rep. 1978, voce cit., n. 15; 25 gennaio 1978, n. 337, ibid., voce Mandato, n. 5; 6 novembre 1978, n. 5057, ibid., voce Rappresentanza nei contratti, n. 3; 6 dicembre 1978, n. 5777, ibid., voce Mandato, n. 7; 7 aprile 1979, n. 1999, id., Rep. 1979, voce Rappresentanza nei contratti, n. 4; 12 gennaio 1980, n. 287, id., Rep. 1980, voce Mandato, n. 2; 14 febbraio 1980, n. 1117, ibid., voce Rappresentanza nei contratti, n. 3. V. però, in materia societaria, Cass. 7 dicembre 1977, n. 5308, cit., che ha equiparato alla spendita esplicita del nome i c.d. comportamenti concludenti del socio, tali da « esteriorizzare l'ente e designarlo come soggetto del rapporto giuridico ».
Sui punti trattati, per i riferimenti di dottrina, si rinvia alla nota di richiami a Cass. 7 febbraio 1984, n. 936, cit.
Il Foro Italiano — 1986.
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2255 PARTE PRIMA 2256
circa la valutazione equitativa di quelle spettanze, abbiano con
fermato nel quantum la decisione di primo grado, trascurando di
considerare, con una sentenza incongrua e contraddittoria, che in
base alle risultanze istruttorie poteva essere censurata l'inadegua tezza della retribuzione del lavoro straordinario e non già la sua
mancata corresponsione, e che non si poteva parlare di mancanza
di elementi obiettivi di riferimento per una analitica determina
zione nonostante le parti avessero invocato ben due contratti
collettivi come termini di riferimento per la determinazione delle
competenze. Le proposte doglianze risultano sostanzialmente fondate, e,
conseguentemente, la proposta impugnazione deve essere accolta.
Il Tribunale di Messina, invero, ha liquidato frettolosamente la
questione relativa alla esclusione della responsabilità del Savoca
per il periodo anteriore al giugno 1975, trascurando di conside
rare le molteplici circostanze che avrebbero dovuto consigliare
quanto meno un maggiore approfondimento di detta questione.
Già il pretore nella sua sentenza aveva affermato che « dagli atti di causa emerge(va) che, ancor prima della società Savoca
Cardia, il Cardia aveva svolto da solo l'attività commerciale di
vendita all'ingrosso ».
Se poi si considera che, come ricordato dagli odierni ricorrenti
e come risulta documentalmente provato, sino al giugno 1975 fu
solo ed esclusivamente il Cardia a concludere i rapporti di lavoro
sempre in nome proprio, e chiedere l'avviamento, a versare i
contributi, a licenziare, e che mai le predette spese, in occasione
di tali incombenze, il nome della società o il nome dell'altro
socio, si sarebbe dovuto ritenere legittima l'esigenza di approfon dire le ragioni di tale comportamento del Cardia, il quale
potrebbe aver destinato gli operai da lui assunti ad attività che
nulla avevano a che fare con quella svolta dalla società di fatto
iscritta nel registro delle ditte nell'agosto del 1966.
Giova ricordare in proposito che è stato opportunamente affermato che « anche nel campo della rappresentanza sociale è
necessaria la contemplatio domini, per cui se il rappresentante della società non ne spende il nome o, quanto si tratti di società
di fatto, non spende il nome dell'altro o degli altri soci, il
negozio concluso spiega effetto solo nei confronti del rappresen
tante, ancorché esso riguardi interessi e beni comuni » (Cass. 24
febbraio 1975, n. 691, Foro it., 1976, I, 213).
Per le considerazioni innanzi esposte va ritenuto carente, ed
alquanto semplicistico il ragionamento dei giudici dell'appello, che hanno desunto la legittimazione passiva di entrambi i soci, anche per i controversi rapporti di lavoro svoltisi tra il 1966 ed il
1975, dalla sola circostanza che « la società » di fatto Savoca e
Cardia risulta(va) dal certificato della camera di commercio di
Messina essere stata iscritta nel registro delle ditte in data 19
agosto 1966 ».
Che poi la ravvisata carenza di motivazione non possa ritenersi
superata in base alle affermazioni relative al mancato scioglimen to della società ed al mancato trasferimento dell'azienda, appare evidente sol che si consideri che le lacune riscontrate nella
motivazione dell'impugnata sentenza prescindono del tutto dall'es
sersi verificati o meno quegli avvenimenti nella vita della società.
È appena il caso di evidenziare a questo punto che la
responsabilità del Savoca, e quindi dei suoi eredi, per i crediti
fatti valere dai lavoratori e risalenti al periodo 1966-1975, è
condizionata alla sussistenza della legittimazione passiva dello
stesso Savoca anche per le pretese relative all'anzidetto periodo. Infatti l'esclusione di una siffatta legittimazione, presupponendo l'accertamento della posizione del Cardia come unica controparte dei lavoratori, farebbe sorgere solo a carico del predetto l'obbli
gazione sinallagmatica del pagamento della giusta mercede, e ciò
in base alle regole generali ricavabili dall'art. 2094 c.c., e senza
bisogno di ricorrere al menzionato art. 1298 c.c.
La motivazione dell'impugnata sentenza, peraltro, è carente,
cosi come evidenziato in ricorso, anche in ordine all'effettuata
valutazione della liquidazione equitativa del quantum da parte del primo giudice: pertanto dalla constatazione di una « motiva
zione alquanto superficiale » data dal primo giudice alla « propria decisione », i giudici dell'appello non avrebbero dovuto riconosce
re la legittimità di quella valutazione in base solo all'affermazione
che « mancavano elementi obiettivi di riferimento per un'analitica
determinazione ».
Bene avrebbero fatto quei giudici, di fronte al ricorso all'art.
432 c.p.c. da parte del pretore che non aveva ritenuto altrimenti
possibile la determinazione della retribuzione, a non limitarsi a
dare atto della certezza del diritto dei lavoratori alla retribuzione
per almeno due ore al giorno di lavoro straordinario ed o
constatare l'insufficienza della retribuzione ex art. 36 Cost., ma a
dare contezza almeno del ragionamento attraverso cui erano giunti a ratificare il quantum. Senza dire che, anziché avvalorare la solu
zione pretorile della liquidazione equitativa, sarebbe stato opportu no fare riferimento proprio al contratto collettivo, da essi ritenuto non applicabile alla fattispecie perché riguardante ditte di altra
zona (peraltro assai vicina al messinese), per trarne indicazioni pa rametriche delle condizioni di mercato e degli equi corrispettivi da liquidare.
Non doveva essere ignorato, in definitiva, che « nel nuovo
processo del lavoro, nell'ambito del quale sono al giudice ricono
sciuti ampi poteri istruttori esercitabili anche di ufficio, le incer
tezze determinate dall'insufficienza degli elementi probatori, come
non possono giustificare l'automatico rigetto della domanda, cosi
neppure autorizzano l'immediato ricorso alla valutazione equitati va, che è consentita soltanto qualora il giudice medesimo assuma
con motivazione rigorosa di non avere obiettivamente alcuna
possibilità di colmare le rilevate lacune con l'esercizio dei
peculiari poteri conferitigli» (Cass. 14 aprile 1981, n. 2258, id.,
Rep. 1981, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 372), ed
ancora che essendo il ricorso alla liquidazione equitativa l'eserci
zio di un « potere discrezionale ma non arbitrario, il giudice è
tenuto a dare congrua ragione del processo logico attraverso cui
perviene alla liquidazione del quantum debeatur, indicando i
criteri assunti a base del procedimento» (Cass. 20 giugno 1981, n. 4052, ibid., n. 370).
Per le esposte considerazioni ed in accoglimento del proposto ricorso l'impugnata sentenza va dunque cassata e la causa va
rinviata per nuovo esame ed altro tribunale. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 15 ottobre 1985, n. 5052; Pres. Brancaccio, Est. Lipari, P. M. Fabi (conci, conf.); Toninelli (Avv. Dal Piaz, M. Gallo) c. Min. grazia e giustizia (Aw. dello Stato Cosentino) ed altri.
Conferma Cons. sup. magistratura, sez. disciplinare, 2 dicembre 1983.
Ordinamento giudiziario — Procedimenti disciplinari contro ma
gistrati — Trasferimento d'ufficio come sanzione accessoria —
« Ratio » dell'istituto — Condizioni e modalità di applicazione — Questione manifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 107, 108; r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511, guarentigie della
magistratura, art. 2, 21). Ordinamento giudiziario — Procedimenti disciplinari contro ma
gistrati — Esercizio della difesa da parte di avvocato libero
professionista — Esclusione — Questione manifestamente infon
data di costituzionalità (Cost., art. 3, 24; r.d.l. 31 maggio 1946
n. 511, art. 34).
Il trasferimento d'ufficio di un magistrato, ai sensi dell'art. 21, 6"
comma, r.d.l. ZI maggio 1946 n. 511, quando gli viene inflitta una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento trova la sua ratio nel presumibile scadimento di prestigio locale che si
accompagna a comportamenti del magistrato ritenuti meritevoli
quanto meno della sanzione disciplinare della censura ed il
fulcro dell'adozione del trasferimento non sta nella gravità dell'illecito, che ne costituisce semplicemente il presupposto, ma nello scadimento di prestigio del magistrato incolpato, in pre senza del quale si dovrebbe ugualmente pervenire al trasferi mento d'ufficio, ai sensi dell'art. 2 r.d.l. 511/46-, pertanto, è
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzio
nale dell'art. 21, 6° comma, r.d.l. 511/46, nella parte in cui
consente l'applicazione di una sanzione accessoria di notevole
gravità, come il trasferimento d'ufficio, anche a violazioni
disciplinari modeste per le quali sia stata irrogata solo la
censura, in riferimento agli art. 3, 107, 108 Cost, fi)
(1) In ordine al provvedimento di trasferimento d'ufficio come sai; zione accessoria, ex art. 21, 6° comma, r.d.l. 511/46, cfr. Cass. 28 ottobre 1983, n. 6377, Foro it., 1983, I, 2681, con nota di richiami e osservazioni di Pizzorusso, che ha affermato la competenza della sezione disciplinare, e non del consiglio, alla emanazione di tale provvedimento ed ha cassato la sentenza della sezione disciplinare che affermava la colpevolezza dell'imputato, nella parte in cui applicava la sanzione accessoria del trasferimento d'ufficio senza specificare se essa fosse irrogata in considerazione degli addebiti per i quali l'incolpato era stato ritenuto responsabile o di altri per i quali era stato invece assolto; Cass. 14 gennaio 1981, n. 308, id., 1981, I, 2361, con nota di richiami e osservazioni di Cantisani, secondo cui la sentenza della
Il Foro Italiano — 1986.
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