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Sezione lavoro; sentenza 26 luglio 1983, n. 5141; Pres. Franceschelli, Est. Farinaro, P. M. Benanti...

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Sezione lavoro; sentenza 26 luglio 1983, n. 5141; Pres. Franceschelli, Est. Farinaro, P. M. Benanti (concl. conf.); Cozzi (Avv. Ventura, Siniscalco) c. Banca d'America e d'Italia (Avv. Urbani, Fabbri, Crisci). Conferma Trib. Salerno 13 aprile 1981 Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 10 (OTTOBRE 1983), pp. 2411/2412-2417/2418 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23175213 . Accessed: 28/06/2014 18:30 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 141.101.201.154 on Sat, 28 Jun 2014 18:30:18 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione lavoro; sentenza 26 luglio 1983, n. 5141; Pres. Franceschelli, Est. Farinaro, P. M.Benanti (concl. conf.); Cozzi (Avv. Ventura, Siniscalco) c. Banca d'America e d'Italia (Avv.Urbani, Fabbri, Crisci). Conferma Trib. Salerno 13 aprile 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 10 (OTTOBRE 1983), pp. 2411/2412-2417/2418Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175213 .

Accessed: 28/06/2014 18:30

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2411 PARTE PRIMA 2412

sciopero così come esso si presenta e viene esercitato dopo l'introduzione del codice di autoregolamentazione.

Sul punto la convenuta rileva che attribuirle l'interesse di

screditare l'autoregolamentazione equivarebbe a considerarla affet

ta da una forma di masochismo; evidentemente non si tratta di

questo. Senza voler fare alcun processo alle intenzioni, ma

rimanendo sul solido terreno dei fatti, si può registrare come la

compagnia abbia a suo tempo denunciato all'opinione pubblica le

agitazioni brevi e improvvise e abbia poi tenuto un comporta mento eccessivamente ostile e lesivo del diritto di sciopero nei

confronti dello sciopero autoregolamentato: una sorta di lotta su

due fronti che può avere l'effetto oggettivo di porre i lavoratori

di fronte ad una alternativa — in ogni caso perdente — tra

scioperi poco costosi per i lavoratori, ma suscettibili di alienargli

simpatie ed appoggio nell'opinione pubblica e scioperi autorego

lamentati, impraticabili per il loro esorbitante costo economico.

Con quali conseguenze per i lavoratori sindacalmente organiz zati ognuno può comprendere.

La condotta dell'Alitalia va pertanto dichiarata antisindacale.

La rimozione degli effetti di tale condotta va realizzata ordi

nando alla compagnia di restituire ai partecipanti agli scioperi del 26 e del 29 maggio 1981 la differenza tra l'importo della

trattenuta effettuata a loro carico (commisurata alla durata del

turno di avvicendamento) e il minor importo della retribuzione

relativa alle ore di effettiva astensione dal lavoro, oltre ad

interessi e rivalutazione su dette somme come per legge. L'ado zione di tale misura appare da sola sufficiente ad eliminare gli effetti deterrenti del comportamento dell'Alitalia ed a ripristinare una corretta dinamica di rapporti tra le parti in ordine all'eserci zio dello sciopero, senza che vi sia bisogno dell'emanazione di

specifici ordini de futuro o di assicurare alla presente decisione

particolari forme di pubblicità.

I

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 26 luglio

1983, n. 5141; Pres. Franceschelli, Est. Farinaro, P. M. Be

nanti (conci, conf.); Cozzi (Avv. Ventura, Siniscalco) c.

Banca d'America e d'Italia (Avv. Urbani, Fabbri, Crisci).

Conferma Trib. Salerno 13 aprile 1981.

Impugnazioni civili in genere — Riforma in appello di sentenza

dichiarativa della illegittimità del licenziamento — Inapplica bilità del regime di stabilità reale dello statuto — Passaggio in

giudicato della sentenza di riforma — Restituzione delle re tribuzioni percepite — Ammissibilità (Cod. proc. civ., art. 336; 1. 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti individuali, art. 8, 11; 1. 20 maggio 1970 n. 300, norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'at

tività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamen

to, art. 18, 35).

Il principio secondo cui, in ipotesi di licenziamento dichiarato illegittimo dal pretore, non sono ripetibili le retribuzioni che il

lavoratore, ove non sia stato reintegrato nel posto, ha diritto di

conseguire fino al passaggio in giudicato della sentenza d'appel lo di riforma, non si applica ai licenziamenti che ricadono sotto la sola disciplina prevista dalla l. 604 del 1966; pertanto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza d'appello di

riforma con cui sia stata dichiarata (la legittimità del licen ziamento e) l'inapplicabilità della disciplina c.d. di stabilità reale contenuta nell'art. 18 l. 300 del 1970, il lavoratore non

reintegrato è tenuto alla restituzione delle retribuzioni percepite sulla base della sentenza di primo grado. (1)

(1-3) Con le tre decisioni in epigrafe la sezione lavoro della Corte di cassazione si adegua, precisandoli, ai principi enunciati da Cass., sez. un., 15 marzo 1982, n. 1669, Foro it., 1982, I, 985 (e dalle coeve sez. un. 10 maggio 1982, nn. 2872, 2873, 2874, ibid., 1482), e da Cass. 4 marzo 1978, n. 1094, id., 1978, I, 560.

In particolare Cass. 5141/83, pur ribadendo la correttezza del principio secondo cui, in caso di riforma in appello della sentenza di primo grado dichiarativa della illegittimità del licenziamento, il lavora tore non reintegrato nel posto, di lavoro non solo non è tenuto a restituire la retribuzione medio tempore percepita ma ha altresì il diritto di continuare a percepirla fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma '(nello stesso senso sembra essere anche Cass. 1030/83, anche se parla già genericamente di « sentenza definitiva » e non di passaggio in giudicato della sentenza di riforma), precisa che tale principio — cioè quello della irrepetibilità delle retribuzioni — non può trovare applicazione quando sia passata in giudicato la sentenza d'appello di riforma con la quale sia stata negata l'applicabi lità della disciplina dell'art. 18 1. 300/70: e ciò sulla base del diverso

II

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 15 marzo

1983, n. 1905; Pres. Renda, Est. Patierno, P. M. La Valva

(conci, conf.); De Mori (Avv. Leon) c. Soc. Pirelli (Avv. Faz

zalari, Ardau, Ceriani). Cassa Trib. Milano 8 febbraio 1978.

Ili

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 7 febbraio

1983, n. 1030; Pres. A. Caleca, Est. Corsaro, P. M. Zema

(conci, conf.); De Luca (Avv. Muggia, Durante) c. Soc. La

Rinascente (Avv. Cassola, Savanco). Cassa Trib. Milano 23

ottobre 1978.

Impugnazioni civili in genere — Riforma in appello di sentenza

dichiarativa della illegittimità del licenziamento — Restituzio

ni delle retribuzioni percepite — Esclusione (Cod. proc. civ.,

art. 336; 1. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18).

In caso di riforma in appello della sentenza pretorile dichiarativa

della illegittimità del licenziamento, il lavoratore non reintegra to nel posto di lavoro non è tenuto alla restituzione delle

retribuzioni percepite in quanto l'attribuzione di dette somme

riveste una funzione, oltre che retributiva, sanzionatoria del

l'ordine di reintegrazione. (2)

IV

PRETURA DI CIRIÈ; ordinanza 30 novembre 1982; Giud. Ma

lagnino; Capriati c. Soc. Liquichimica Robassomero.

Impugnazioni civili in genere — Riforma in appello di sentenza

dichiarativa di illegittimità del licenziamento — Estromissio

ne del lavoratore reintegrato prima del passaggio in giudicato della sentenza di riforma — Legittimità (Cod. proc. civ., art.

336, 337; 1. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18).

A seguito della riforma in appello di sentenza pretorile dichiara

tiva della illegittimità del licenziamento, è legittima l'estromis

sione del lavoratore reintegrato in ottemperanza della sentenza

di primo grado, ancorché se effettuata prima del passaggio in

giudicato della sentenza di riforma. (3)

I

Svolgimento del processo. — Enrico Cozzi, dipendente della Banca d'America e d'Italia, addetto quale impiegato di 1* catego ria alla filiale di Pontecagnano, con ricorso al pretore di quest'ul tima città, in data 14 luglio 1978, impugnava il licenziamento in tronco intimatogli il 6 giugno 1978, imputandogli il fatto di aver

richiesto, con documentazione falsa, a nome della germana Con cetta Cozzi un prestito, accreditando, poi, a proprio nome il relativo ricavato.

Chiedeva l'annullamento del provvedimento disciplinare non

giustificato da giusta causa o giustificato motivo e comunque sproporzionato al fatto contestatogli, con la conseguente reinte

grazione del posto già occupato e danni ai sensi dell'art. 18 1. n 300 del 1970.

La convenuta affermava la legittimità del licenziamento intima to per giusta causa o comunque, in conversione, per giustificato motivo, stante la illiceità oggettiva dei fatti contestati e comun que la gravità dell'addebito; eccepiva l'inapplicabilità dell'art. 18

regime sostanziale di stabilità previsto volta a volta dall'art. 8 I. 604/66 e 18 1. 300/70. In generale sulla evoluzione della tutela specifica del rapporto di lavoro v., da ultimo, A. Proto Pisani, Brevi note in tema di tutela specifica e tutela risarcitoria, id., 1983, V, 127; Id., La tutela specifica del rapporto di lavoro, in Questione giustizia, 1983, 161.

Cass. 1905/83 e 1030/83 si pronunciano sulla sola questione della ripetibilità o no, in ipotesi di riforma in appello di sentenza pretorile dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento (ai sensi dell'art. 18 1. 300/70), delle retribuzioni corrisposte dal datore di lavoro il quale non abbia reintegrato il lavoratore nel posto; entrambe le decisioni si adeguano al principio della irrepetibilità enunciato originariamente da Cass. 1094/78, cit. e ribadito da Cass., sez. un., 1669/82, cit.; è solo da segnalare che mentre la motivazione di Cass. 1030/83 sembra presupporre che l'obbligo di versare le retribuzioni permanga fino al passaggio in giudicato della sentenza d'appello di riforma, la motiva zione di Cass. 1905/83 parla solo di irripetibilità « delle somme percepite dalla pronuncia di primo grado a quella di riforma».

Pret. Ciriè, infine, costituisce un ulteriore esempio di come la giurisprudenza di merito sta reagendo alla decisione delle sezioni unite sull'art. 336, 2° comma, c.p.c. (Cass. 1669/82, cit.), su cui v., in vario senso, Trib. Napoli 21 gennaio 1983, Trib. Firenze 13 gennaio 1983, Trib. Vicenza 12 novembre 1982, Pret. Roma 25 gennaio 1982, Foro it., 1983, I, 1018 e Trib. Roma 15 dicembre 1982, ibid., 1735, ed ivi ampie note di richiami.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

1. n. 300 del 1970 invocato, non superando gli addetti (soltanto

9) alla filiale di Pontecagnano il numero di 16.

L'adito pretore, accertati i fatti come contestati, con sentenza 13 luglio 1979, mitigando la gravità soggettiva dei fatti stessi,

accoglieva la domanda, annullando il licenziamento ed ordinando alla B.A.I. la immediata reintegra nel posto di lavoro del Cozzi.

Appellava la banca, lamentando la erroneità della decisione

quanto alla valutazione della gravità dei fatti, pur accertati come

intensamente in conflitto con il dovere di collaborazione e quan to alla ritenuta applicabilità dell'art. 18 1. n. 300 del 1970; chiedeva il rigetto della domanda, con la restituzione di quanto sborsato ed il Tribunale di Salerno, con sentenza 13 gennaio 13 aprile 1981, accoglieva il gravame; ed in riforma della

impugnata sentenza rigettava la domanda del Cozzi, ordinando a

questi di restituire alla B.A.I. « tutte le somme percepite » per effetto della sentenza del pretore.

Osservava, in ordine al primo motivo, premessi i criteri di valutazione della « giusta causa », i doveri particolari di discipli na, dignità e moralità dei dipendenti da aziende di credito e finanziarie e quelli derivanti al Cozzi per la sua funzione di

impiegato di 1" categoria addetto alla segreteria che sia i fatti in

sé, sia il modo attraverso i quali furono posti in essere (una serie di falsi), sia la quantità del relativo dolo deponevano a favore della gravità dell'attentato al rapporto di fiducia, che risultava oggettivamente scosso ed in ordine al secondo motivo che la reale autonomia della filiale di Pontecagnano, quale centro

indipendente di propulsione di « credito », salvi i controlli genera li propri del sistema, faceva della stessa, con i suoi 9 dipendenti, una unità produttiva vera e propria, nonostante la denominazione

impropria di « filiale ». Ricorre per cassazione il Cozzi con tre motivi di annullamento.

Resiste la s.p.a. B.A.I. con rituale controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, affidato ad un sol motivo.

Motivi della decisione. — I due ricorsi vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.

Col primo motivo del principale, denunciandosi violazione dell'art. 2119 c.c., nonché omesso esame di fatto decisivo, si lamenta che il tribunale, « dopo di aver negato rilevanza alla situazione di marasma » esistente nell'agenzia di Pontecagnano, abbia erroneamente omesso di valutare il fatto che il comporta mento censurato fu suggerito al ricorrente dal direttore dell'agen zia.

11 motivo non è fondato. In realtà, incensurati i criteri giuridi ci adottati per la valutazione soggettiva ed oggettiva della gravità dei fatti nel loro complesso e quelli relativi alla proporzionalità tra la gravità dei fatti stessi e la misura disciplinare decisa, si censura soltanto l'omesso esame della circostanza (peraltro emer sa solo dall'interrogatorio del ricorrente, come evidenzia il tribu

nale) secondo cui sarebbe stato il direttore della filiale ad indurre il Cozzi al « falso ». E tale censura, a parte il dubbio sulla certezza del « fatto » posto a suo fondamento e la indimo strata decisività dello stesso, non sembra colga nel segno, avendo il tribunale, come si è visto, rilevato la circostanza difensiva come tale (sia pure nella parte espositiva della vicenda processua le) e l'ha ritenuta poco rilevante, unitamente a quelle valorizzate invece dal pretore, quali l'ambiente malsano ed infido della filiale di Pontecagnano, la mancanza di danno per la banca ed altre,

per attenuare la gravità del comportamento del Cozzi. Ha polarizzato la dimostrazione della decisione assunta sulla

pregnante intensità del dolo, che aveva ispirato qualificandolo il

comportamento del ricorrente, sulla posizione di preminenza di

questi nell'organico della filiale e quindi sul maggior dovere di

disciplina, dignità e moralità che gli derivava.

D'altronde, poiché il giudice di merito non è obbligato a

discutere tutti i singoli elementi probatori, potendo scegliere quelli a lui ritenuti, anche implicitamente, più attendibili al fine di

orientare la giusta decisione, il mancato esame di uno o di alcuni

di essi, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronun cia non costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo, come previsto dall'art. 360, n. 5, c.p.c., occorrendo per questo che la risultanza processuale non esaminata sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia

probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento del

giudice è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (v. Cass. 16 marzo 1981, n. 1459, Foro it., Rep. 1981,

voce Cassazione civile, n. 124). Col secondo motivo, denunciandosi violazione dell'art. 35 1. 20

maggio 1970 n. 300, nonché insufficiente motivazione, si lamenta

che il tribunale abbia affermato che l'agenzia di Pontecagnano

sarebbe da considerarsi dipendenza autonoma e ciò sulla base di

generiche argomentazioni, senza aver proceduto al concreto esa

me dell'organizzazione aziendale.

Il motivo non è fondato. In realtà, a parte la genericità della

critica, deve rilevarsi che il tribunale, in trasparente riferimento

alla nozione di « unità produttiva », quale articolazione endoco

munale autonoma della impresa industriale o commerciale (sede

unica, stabilimento, filiale, ufficio, reparto) che occupi più di

quindici dipendenti, ha analizzato la composizione organica della « agenzia » di Pontecagnano diretta da un funzionario-direttore, con otto dipendenti, abilitata all'esercizio autonomo dell'attività

di intermediazione nel campo del credito in tutti i settori

(concessione di « fidi » e crediti fino a 5 milioni, apertura di

conti correnti, emissione di assegni circolari, accettazione di

depositi, sconto ed incassi di cambiali e proprio portafoglio, ecc.) ed indipendente dalla sede di Salerno, salvi i controlli necessari

per il coordinamento dell'attività produttiva. E tale motivazione, che individua nell'articolazione di Ponte

cagnano un centro di propulsione autonomo dell'immagine terri

toriale della impresa creditizia banca d'America e d'Italia, con

adeguato stabile organico di nove addetti, sfugge alla censura

mossale, in ordine al mancato esame in concreto dell'organizza zione aziendale, ove si consideri che l'elemento dell'autonomia è

stato individuato indagando sui rapporti tra l'agenzia di Ponte

cagnano e la sede di Salerno, che nell'organizzazione aziendale si

pone come l'anello più contiguo alla prima organica articolazione. Ne ha tratta la conseguenza dell'inapplicabilità dell'art. 18 1. n.

300/70, negando, cosi', il regime c.d. di stabilità reale al rapporto,

disciplinato, invece, soltanto da quello « obbligatorio » e discipli nato ai fini del licenziamento dalla 1. n. 604/66 ed in particolare dell'art. 8.

Col terzo motivo, denunciandosi violazione dell'art. 336 c.p.c., anche in riferimento a quanto previsto dall'art. 18 1. n. 300/70 si

deduce, a prescindere dalla soluzione dei due precedenti motivi, la erroneità dell'affermazione del tribunale, secondo cui la resti

tuzione della somma versata dal datore, a seguito della ordinata

reintegrazione, al lavoratore, doveva essere disposta, in quanto il

pretore, per inesistenza (nella specie) della tutela reale, non

avrebbe potuto ordinare la reintegra; mentre, in realtà, si sog

giunge, il diritto del ricorrente alla conservazione definitiva di

quanto ricevuto, quale prezzo della mancata reintegrazione effet

tiva, derivava sotto il profilo processuale dalla persistente efficacia

della pronuncia pretorile ex art. 336, cpv., c.p.c. e sotto quello sostanziale dalla ratio dell'art. 18, 2° e 3° comma, 1. n. 300/70, che garantisce la tutela del posto in caso di licenziamento in

contestazione fino alla definizione irrevocabile della vicenda pro cessuale.

Il motivo non è fondato. Invero, il punto debole della tesi del

ricorrente risiede nell'improprio riferimento alla più recente linea

giurisprudenziale di questa Suprema corte circa la complessa

problematica della incidenza della sentenza (di appello) di rifor

ma su quella del giudice del lavoro, che abbia ordinato la

reintegra del lavoratore nel posto (v. sent. n. 1094/78, id., 1978,

I, 560; nn. 2348 e 4563/80, id., 1980, I, 911 e 2421, e n. 1669/

82, id., 1982, I, 985), secondo cui in caso di mancato inserimento

effettivo nell'impresa, a seguito dell'ordine del pretore, il lavora

tore non è tenuto a restituire la retribuzione medio tempore,

percepita ed ha, altresì, il diritto di conseguirla fino al passaggio in giudicato della riforma. E questa giurisprudenza è infatti

fondata sul presupposto, dato per pacifico, dell'assoggettamento del rapporto di lavoro in essa esaminato al regime c.d. di

stabilità reale ex art. 18 1. n. 300/70 e tale da legittimare il

differimento, in caso di licenziamento dichiarato nullo od i

neffìcace, con sentenza provvisoriamente esecutiva, la irreversibile

inoperatività di esso fino al definitivo accertamento della sua

legittimità, mentre, nella specie, tale determinante presupposto era

ed è in discussione, con l'eventualità che possa radicalmente

venire a mancare definitivamente, con riflessi risolutivi ex tunc

sul regime processuale di conservazione medio tempore degli effetti dipendenti dall'esecuzione provvisoria della sentenza di

primo grado, rafforzati e stabilizzati dallo speciale regime sostan

ziale del rapporto di lavoro, supposto dotato di stabilità reale.

E cioè sul fondamento che nel primo caso l'illegittimità del

licenziamento pur interrompendo la continuazione della presta

zione non interrompe il rapporto (art. 18 suddetto) mentre nel

secondo l'obbligo di « riassunzione » postula che il licenziamento,

anche se illegittimo, resta pur sempre efficace e può determinare

la risoluzione del rapporto (art. 8 1. n. 604/66). E tale riflessione resiste alla verifica anche se condotta alla

stregua dello stesso schema, che non si intende porre in discus

sione, elaborato dalle sentenze sopra richiamate ed in particolare dalla sentenza delle sez. un. n. 1669/82, schema che non disco

nosce, secondo il modello classico, alla sentenza di riforma effetti

immediati sulle statuizioni della sentenza riformata immediata

mente investite dall'appello, ai sensi del 1° comma dell'art. 336

Il Foro Italiano — 1985 — Parte I-155.

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2415 PARTE PRIMA 2416

c.p.c., efletti c.d. espansivi interni ed espansivi diretti, compresa,

quindi, la clausola di provvisoria esecuzione, non essendo gli efletti stessi subordinati al giudicato formale e perciò sufficienti a

bloccare (ulteriori) atti esecutivi che non siano già stati prodotti, essendo venuto meno il titolo; disconosce, invece, riflessi sugli effetti c.d. espansivi esterni dipendenti (già prodotti) da « atti o

provvedimenti », che pur dipendenti dalla sentenza riformata, ma

esterni alla sentenza appellata in quanto prodotti dall'attività

esecutiva, sopravvivono alla riforma fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma (2° comma dell'art. 336 c.p.c.).

Conferisce tale qualifica alla ricostituita « fattualità » del rap

porto di lavoro, con l'atto del datore dell'effettivo inserimento del

lavoratore nel posto o della sola « monetizzazione » del rifiuto

all'ordine incoercibile di ripristino reale, considerando l'atto stes

so come unitario definitivo adempimento, medio tempore, del

l'obbligo e giustifica la persistenza della reintegrazione e la sua

definitiva « stabilizzazione », secondo la legge del contratto, col

richiamo di profili sostanziali propri del rapporto di lavoro, ove

fornito, ai sensi dell'art. 18 dello statuto, di stabilità reale.

Orbene, applicando tale schema alla soggetta fattispecie essen

do stati rigettati il primo ed il secondo motivo di ricorso relativi

rispettivamente alla incongruità del provvedimento espansivo ed

alla propugnata applicabilità dell'art. 18 dello statuto, appare chiaro che il verificatosi passaggio in giudicato della sentenza di

riforma, contenente anche la anticipata (ammissibile v. sent. n.

1669/82) condanna alla restituzione delle somme percepite dal

lavoratore, determina non solo la caducazione degli effetti pura mente processuali, instauratisi transitoriamente, come disciplinati dall'art. 336, cpv., c.p.c., essendosi verificata la condizione riso

lutiva appunto del passaggio in giudicato della sentenza di

riforma, ma anche la caducazione della, medio tempore, « stabi

lizzazione », già sostenuta dalla natura del rapporto sostanziale

supposto come dotato di stabilità reale, ma risultato, invece,

definitivamente di natura obbligatoria, e tale, quindi, da non

essere stato, mai, suscettibile, in caso di licenziamento dichiarato

nullo od inefficace, di tutela reale, ai sensi dell'art. 18 dello

statuto, ma soltanto soggetto a quella prevista dall'art. 8 1. n.

604/66, che non avrebbe comportato la reintegrazione reale.

Non contrasta tale risultato la giurisprudenza di questa Supre ma corte secondo cui il diritto del lavoratore a trattenere le

retribuzioni medio tempore percepite ex art. 18, 2" comma, dello

statuto, deriva dalla lex contractus ripristinata dalla sentenza di

primo grado e dalla concorrente natura sanzionatoria delle dazio

ni per la inesecuzione dell'obbligo di effettiva reintegrazione nel

posto, in quanto, come si è visto, la diversa qualificazione

giuridica del rapporto ad opera della sentenza di riforma passata in giudicato, che è la unica fonte di disciplina del caso concreto, si sostituisce radicalmente ex tunc alla sentenza di primo grado,

distruggendone ogni effetto.

Lo stesso risultato si fa apprezzare sul piano della coerenza

pratica ove si consideri che, a tutto concedere nella valutazione

di merito delle mancanze, i giudici di merito, accertata comunque

l'inapplicabilità dell'art. 18, 3° comma, dello statuto (punto so stanzialmente non impugnato, stante la genericità e la debolezza

del relativo motivo), non avrebbero potuto che applicare l'art. 8 1.

n. 604/66 e nella migliore delle ipotesi, monetizzando il rifiuto

del datore di assumere il lavoratore, avrebbero potuto condanna

re il primo, a titolo di penale, a versare al secondo, al massimo, dodici mensilità dell'ultima retribuzione, e non (oltre la penale di 5 mensilità) le retribuzioni dovute in virtù del rapporto di lavoro

temporaneamente costituito (dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione o passaggio in giudicato della

sentenza di riforma). (Omissis)

II

Motivi della decisione. — (Omissis). Con il quarto motivo

infine il ricorrente denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300 in relazione agli art. 1206 ss.

c.c. e art. 360, n. 3, c.p.c. lamenta che erroneamente i giudici di

appello hanno ritenuto che la retribuzione dovuta in virtù del

rapporto di lavoro dalla data della sentenza fino a quella della

reintegrazione diventa non dovuta quando l'ordine di reintegra zione viene riformato da una successiva sentenza.

Il motivo è fondato. Questa corte non può che confermare la

propria giurisprudenza, secondo la quale, in caso di riforma della

sentenza pretorile di annullamento del licenziamento, il lavoratore

non reintegrato nel posto di lavoro non è tenuto alla restituzione

delle somme percepite dalla pronucia di primo grado a quella di

riforma, in quanto l'attribuzione di dette somme riveste una

funzione, oltre che retributiva, sanzionatoria dell'ordine di reinte

grazione (in proposito Cass. 4 marzo 1978, n. 1094, Foro it.,

1978, I, 560; 15 luglio 1980, n. 4574, id., Rep. 1980, voce

Impugnazioni civ., n. 146; 16 novembre 1981, n. 6090, id., Rep.

1982, voce Lavoro (rapporto), n. 2107).

L'esistenza di una ininterrotta uniformità di atteggiamento da

parte di questa corte nell'affrontare e risolvere la problematica

toglie infatti ogni pregio alle contrarie argomentazioni della

resistente che non adduce argomenti nuovi che possono indurre a

rimeditare la questione, poiché la soluzione adottata individua il

fondamento delle attribuzioni patrimoniali contemplate dall'art.

18 1. 20 maggio 1970 n. 300 nella esigenza che ha ispirato il

legislatore del 1970 di garantire la continuità ininterrotta del

rapporto di lavoro, che è punto fermo del regime della stabilità

reale, nel senso preciso che il licenziamento illegittimo, pur

interrompendo la continuazione della prestazione, non interrompe il rapporto inteso come relazione giuridica.

Dalla affermata continuità del rapporto deriva quindi non solo

il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del

danno subito, nel quale non può non comprendersi in primo

luogo la retribuzione, ma anche la inammissibilità della restitu zione delle retribuzioni, senza possibilità di distinguere l'ipotesi in cui la reintegrazione abbia avuto luogo da quella in cui il datore di lavoro abbia preferito non adempiere all'ordine del

giudice.

In conclusione deve essere accolto il quarto motivo del ricorso e devono essere rigettati gli altri e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata

per nuovo esame ad altro giudice che si designa nel Tribunale di Monza. (Omissis)

III

Motivi della decisione. — (Omissis). Con il secondo motivo, il

ricorrente lamenta la « violazione e falsa applicazione dell'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300 (art. 360, n. 3, c.p.c.) », per avere il

tribunale ordinato al De Luca di restituire alla società quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado, comprese le retribuzioni lucrate senza aver lavorato. E sostiene, richiaman dosi alla giurisprudenza di questa Corte suprema, che nel sistema della nuova legge (ultima parte, 2° comma, dell'art. 18 1. n. 300/ 70) l'annullamento del licenziamento intimato al lavoratore senza

giusta causa o giustificato motivo ripristina, giuridicamente, il

rapporto di lavoro quale esso era anteriormente al recesso opera to dal datore di lavoro, con la conseguenza che quest'ultimo è tenuto ad adempiere alle obbligazioni scaturenti dall'originario ed unico contratto di lavoro; e che, in caso di riforma della sentenza di annullamento del licenziamento, il lavoratore non

reintegrato malgrado l'ordine del giudice non deve restituire le retribuzioni percepite per la fase posteriore alla sentenza di

primo grado.

La censura è fondata. Quanto dedotto dal ricorrente trova conferma nei principi affermati da questa corte (v. Cass. 20

gennaio 1978, n. 262 e 4 marzo 1978, n. 1094, Foro it., 1978, I, 1486 e 560).

Deve ritenersi che per effetto della garanzia della stabilità del

posto di lavoro e del diritto del lavoratore a ricevere gli emolumenti connessi, sino alla sentenza definitiva, i diritti mede simi non possono subire, nello spirito della legge, interruzione alcuna.

Nel caso in esame, il tribunale non si uniformava ai principi sopra richiamati; ed attribuendo rilevanza decisiva al fatto che, per la mancata reintegrazione nel posto di lavoro, il De Luca aveva percepito le retribuzioni senza aver lavorato, non conside rava che l'obbligo di restituzione non poteva ricollegarsi ad « inadempienza » del lavoratore, sibbene solo al « rifiuto » del datore di lavoro di ricevere le prestazioni alle quali quello era tenuto

La Rinascente, infatti, non aveva ottemperato all'ordine del

giudice di reintegrare il De Luca nel suo posto di lavoro.

Dertanto, si deve rigettare il primo motivo di ricorso, siccome

infondato; va, invece, accolto il secondo motivo.

Per il nuovo esame, limitatamente al punto sopra indicato, si rinvia al Tribunale di Varese. (.Omissis)

IV

Punto focale della presente controversia è la valutazione e l'eventuale applicazione dei principi di diritto enunciati nella sentenza 15 marzo 1982, n. 1669 delle sezioni unite della Corte di cassazione (Foro it., 1982, I, 985).

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Page 5: Sezione lavoro; sentenza 26 luglio 1983, n. 5141; Pres. Franceschelli, Est. Farinaro, P. M. Benanti (concl. conf.); Cozzi (Avv. Ventura, Siniscalco) c. Banca d'America e d'Italia (Avv.

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Ritiene il giudicante — dopo attento e meditato esame delle

argomentazioni svolte dalla Suprema corte — che le conclusioni a cui essa perviene non possano essere condivise.

Premesso infatti che se sono pienamente condivisibili le moti

vazioni giuridiche addotte per delineare la funzione e la portata delle disposizioni contenute nell'art. 336 c.p.c., non appaiono tuttavia accettabili quelle poste a base per ritenere l'idoneità

dell'attività esecutiva compiuta a sorreggere l'ulteriore prosecu zione del rapporto giuridico.

La corte argomenta — cosi riportandosi alle sentenze del 1980 — che bisogna distinguere il momento del ripristino della fattua

lità del rapporto col suo ulteriore svolgimento; onde devesi

distinguere tra l'attività di esecuzione del provvedimento giudizia le reintegratorio ed il complesso delle successive prestazioni costituenti effetto del rapporto cosi concretamente ripristinato. E

poiché, nella fattispecie in esame, il momento esecutivo si costi

tuisce uno putido temporis con il compimento delle operazioni materiali e giuridiche a mezzo delle quali il lavoratore viene

nuovamente inserito nell'organizzazione dell'impresa e messo nel

la condizione di adempiere alle sue obbligazioni, il rapporto di

lavoro resta ormai ripristinato de iure e de facto e tutti i

successivi adempimenti costituiscono il nonnaie svolgimento del

rapporto ripristinato e trovano in esso la loro fonte giuridica; con l'ulteriore conseguenza che l'efficacia espansiva della riforma

della sentenza pretorile non può operare su questa fattispecie sostanziale, ai sensi dell'art. 336, cpv., c.p.c.

Siffatto assunto non può essere condiviso, perché muove — a

parere del giudicante — dall'erroneo presupposto che i successivi

adempimenti (tanto del datore di lavoro quanto del lavoratore)

conseguenti al ripristino del rapporto costituiscono il normale

svolgimento del rapporto giuridico medesimo e trovano in esso la

loro fonte giuridica. Infatti, è noto che il rapporto giuridico è

una relazione di vita riconosciuta dall'ordinamento giuridico, con

l'attribuzione di un diritto ad un soggetto, a cui corrisponde la

subordinazione di uno o più altri soggetti. Pertanto, diritto ed

obbligo sono gli elementi costitutivi del rapporto giuridico: come

due lati — è stato detto — di una stessa medaglia. Deriva

ulteriormente che i successivi adempimenti predetti, se apparen temente costituiscono il normale svolgimento del rapporto ripri

stinato, in realtà costituiscono il contenuto, l'essenza del rapporto medesimo. Quindi, essi non trovano la loro fonte giuridica nel

rapporto con cui s'identificano, bensì nel contratto (di lavoro), da

cui nasce il rapporto od i rapporti giuridici. Ed invero, l'inseri

mento del lavoratore nell'impresa (in forza del contratto) deter

mina una molteplice varietà di rapporti giuridici, se si tien conto

dei rapporti con gli altri componenti dell'unità di lavoro, con le

r.a.s., con l'intera comunità dell'ambiente di lavoro.

Non è perciò esatto quanto ritenuto dalla Suprema corte; in

realtà, le successive prestazioni del datore di lavoro — in quanto contenuto del rapporto giuridico intercorrente tra datore di lavo

ro e lavoratore — non possono essere distinte dall'effettiva

prestazione del lavoratore.

La quale anch'essa trova la sua fonte nel contratto di lavoro

ripristinato dalla sentenza pretorile di primo grado. Ed in effetti,

il comando di reintegra contenuto in quella sentenza non è altro

che la conseguenza dell'accertamento dell'attuale ed ininterrotta

persistenza del contratto di lavoro, da cui — giova ribadirlo —

scaturiscono le reciproche prestazioni dei soggetti interessati e,

quindi, il relativo rapporto giuridico. Ed in forza di tale contratto, quindi, il datore di lavoro

reintegra e conserva il posto di lavoro al lavoratore, ed adempie alle successive prestazioni; cosi come il lavoratore presta la sua

attività lavorativa in favore del datore di lavoro.

Le suesposte argomentazioni comportano che il rapporto giuri dico in esame deve essere necessariamente considerato nella sua

interezza e nel suo svolgersi giornaliero, senza che sia possibile scindere tra loro e temporizzare il nuovo inserimento nel posto

di lavoro, la conservazione del posto medesimo, la corresponsione delle retribuzioni e la prestazione dell'attività lavorativa da parte

del lavoratore.

Eppertanto, quando la successiva sentenza riformatrice di quel

la di primo grado accerta che il contratto di lavoro si è risolto,

conseguenzialmente deve risolversi il rapporto giuridico, che da

esso scaturisce e che per esso si protrae. A nulla rilevando che

questa sentenza sia priva di vis executiva (nel senso inteso dalla

corte), proprio perché essa accerta — contrariamente a quanto accertato in primo grado — che il contratto di lavoro si è risolto

e che, conseguenzialmente, è venuto meno il suo effetto, cioè il

rapporto giuridico. Non è, quindi, nella disposizione dell'art. 336, cpv., c.p.c. che

deve trovare la sua disciplina la fattispecie in esame, bensì in

quella di cui all'art. 337, 1° comma, c.p.c.

Né può essere condivisa l'argomentazione della corte, secondo

cui la conservazione degli effetti esecutivi della sentenza (provvi soriamente esecutiva) di primo grado possono essere travolti solo dal passaggio in giudicato della sentenza riformatrice, anche per « evitare che l'assetto degli interessi coinvolti nella lite possa modificarsi in dipendenza delle eventuali contrastanti pronunce susseguentisi nel corso della stessa procedura, sicché proprio questa divenga fonte d'incertezza e disordine sostanziali; e ciò in relazione a situazioni ed interessi, che, per apprezzamento norma tivo o per la valutazione fattane dal giudice, sono meritevoli d'immediata tutela, con l'eccezionale anticipazione della qualità esecutiva della sentenza, e rispetto ai quali, quindi, appare razionale la prevalenza accordata all'esigenza della stabilità di fronte a rischi derivanti dal temporaneo protrarsi di una decisio ne la cui ingiustizia è ancora dubbia ... ».

A prescindere dalla considerazione che fra tali righe sembra

leggersi una distinzione tra organi giudicanti più o meno qua lificati, a siffatte argomentazioni è agevole obiettare — alla luce dei principi dispositivi e sostitutivi dell'impugnazione — che la sentenza del giudice di secondo grado si sostituisce in toto a

quella del giudice di primo grado e che quindi — attesa la natura stessa della funzione giurisdizionale — non è dato ad un

organo giudicante aprioristicamente presumere un'ingiustizia della decisione di secondo grado, fintanto che essa non viene mutata da altra decisione contraria; ed inoltre, che intanto determinate situazioni ed interessi sono ritenuti meritevoli di immediata

tutela, in quanto il giudice di primo grado riconosce la loro

sussistenza, mentre, per contro, quando il giudice di secondo

grado ritiene la loro insussistenza, viene meno la ragion d'essere della tutela anticipata.

Infine, anche motivi di giustizia sostanziale suffragano l'assunto di questo pretore: la disattesa decisione della Suprema corte

svuota, nella fattispecie, la natura e la funzione del giudizio d'impugnazione, che è un rimedio contro la (ritenuta dalle parti) ingiustizia della sentenza di primo grado.

Attendere il passaggio in giudicato della sentenza riformatrice, significa vanificare la tutela giurisdizionale riconosciuta dallo stesso legislatore alla parte soccombente in primo grado, la quale, suo malgrado e nonostante il giudice di secondo grado abbia riconosciuto la fondatezza delle sue doglianze, dovrà continuare ad obbedire ad una statuizione riconosciuta ingiusta. In partico lar modo, se si tien conto — come afferma la stessa corte — che «... un diritto del datore alla restituzione delle retribuzioni

corrisposte in tale periodo non sussiste neppure dopo il passaggio in giudicato della riforma, perché allora opera in via analogica l'art. 2126 c.c. ».

Appare evidente, infatti, che tale assunto — logico corollario di quelli precedenti — pone il datore di lavoro in condizione d'inferiorità rispetto al lavoratore, il quale continuerà comunque a trarre vantaggio da una decisione giurisdizionale inizialmente a lui favorevole, ma ormai caducata, se pure non definitivamente.

Con conseguente sospetto di legittimazione costituzionale — co me già posto in rilievo dalla dottrina — del principio giuridico enunciato dalla corte, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost.

Pertanto, ritiene il giudicante — sulla base delle argomentazio ni svolle — che legittimamente la società resistente ha conferma to il licenziamento al ricorrente, in forza della sentenza del Tribunale di Torino in data 21 marzo 1982, che, in riforma della sentenza del Pretore di Ciriè, aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento intimato con lettera 23 aprile 1980.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 14 lu

glio 1983, n. 4838; Pres. Bologna, Est. Corda, P. M. Sgroi V.

(conci, conf.); Istituto autonomo per le case popolari di To

rino (Aw. Carusi, Griffa) c. Musso (Avv. Blangetti). Cassa

App. Torino 15 settembre 1980.

Edilizia popolare ed economica — Alloggi dell'edilizia residen

ziale pubblica — Trasferimento in proprietà — Domanda di

riscatto accettata dall'ente — Conseguenze (L. 8 agosto 1977 n.

513, provvedimenti urgenti per l'accelerazione dei programmi in

corso, finanziamento di un programma straordinario e canone mi

nimo dell'edilizia residenziale pubblica, art. 27; 1. 5 agosto 1978

n. 457, norme per l'edilizia residenziale, art. 52).

L'accettazione della domanda di riscatto avanzata dall'assegnata rio di un alloggio dell'edilizia economica e popolare, con la

contestuale comunicazione del prezzo di acquisto da parte dell'ente non è di per sé idonea a creare il vincolo contrattuale

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