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sezione lavoro; sentenza 26 luglio 2000, n. 9826; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Giacalone...

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sezione lavoro; sentenza 26 luglio 2000, n. 9826; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Giacalone (concl. diff.); Brocco (Avv. Cossu) c. Soc. Gesa (Avv. Ciotti). Cassa senza rinvio Trib. Latina 26 marzo 1996 Source: Il Foro Italiano, Vol. 124, No. 3 (MARZO 2001), pp. 999/1000-1003/1004 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23196483 . Accessed: 28/06/2014 08:25 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.220.202.52 on Sat, 28 Jun 2014 08:25:16 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione lavoro; sentenza 26 luglio 2000, n. 9826; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Giacalone(concl. diff.); Brocco (Avv. Cossu) c. Soc. Gesa (Avv. Ciotti). Cassa senza rinvio Trib. Latina 26marzo 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 124, No. 3 (MARZO 2001), pp. 999/1000-1003/1004Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23196483 .

Accessed: 28/06/2014 08:25

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999 PARTE PRIMA 1000

no introdotto successivamente, essendo al contrario prevista la

sola liquidazione della quota sociale per il caso di cessazione

della qualità di socio (art. 15). Non è risultato neppure provato che, in concreto, la coopera

tiva abbia corrisposto ad altri soci lavoratori il trattamento di fi

ne rapporto, il che rende insufficiente, al fine di ritenere la de

benza del suddetto emolumento, la circostanza che la cooperati va abbia versato i contributi previdenziali ed operato l'accanto

namento per t.f.r., come risultante dai modelli 01/M allegati al

ricorso monitorio, atteso che, come rilevato dalla difesa del

l'opponente, le società cooperative sono tenute per legge, al fine

di assicurare la tutela previdenziale e assicurativa, al versa

mento dei contributi previdenziali all'Inps e dei premi assicura

tivi all'Inail, anche in favore dei soci lavoratori, il che, tuttavia,

non comporta di per sé, in assenza di espressa previsione di leg

ge o negoziale, il riconoscimento del diritto alla percezione del

trattamento di fine rapporto, istituto di carattere retributivo.

Gli accantonamenti eventualmente operati, come apparente mente risultanti dai modelli 01/M, dovranno pertanto essere re

stituiti, il che tuttavia esula dal presente giudizio. La circostanza che, di fatto, il Santoro fosse remunerato per la

sua opera in modo analogo ad un lavoratore subordinato, come

risulta dalle buste paga prodotte, se depone nel senso dell'assi

milazione della posizione del socio lavoratore a quella del lavo

ratore subordinato, agli effetti del principio della proporzione tra remunerazione e quantità e qualità del lavoro prestato ex art.

36 Cost., non vale di per sé ad estendere nei suoi confronti il di

verso ed autonomo istituto del trattamento di fine rapporto. Né la spettanza di tale emolumento, caratteristico del rapporto

di lavoro subordinato, può farsi derivare dall'art. 24 1. 196/97, che ha esteso alle società cooperative l'istituto del fondo di ga ranzia per il trattamento di fine rapporto e per il pagamento dei

crediti non soddisfatti a causa dell'insolvenza del datore di la

voro anche ai soci lavoratori, in quanto la legge in questione, mentre ha esteso la garanzia del credito, non ha espressamente statuito in ordine all'estensione automatica di tale istituto, ossia

sul credito, dovendosi pertanto ritenere che la questione vada ri

solta caso per caso, ossia valutando se le parti abbiano espres samente pattuito in tal senso o se comunque tale istituto sia stato

in concreto riconosciuto in tutti i casi di cessazione del rapporto sociale, prova che nel caso in esame non è stata raggiunta.

Sul punto è di recente intervenuta la Corte costituzionale, la

quale, a proposito della questione di legittimità costituzionale

relativa all'art. 2751 bis c.c., nella parte in cui non prevede tra i

crediti aventi privilegio generale sui beni mobili del debitore il credito del socio di cooperativa di produzione e lavoro, ha pre cisato come «... l'estensione al lavoro cooperativo di taluni

aspetti della disciplina del lavoro subordinato, rinvenendo la sua

ratio nella tutela della persona del lavoratore, non possa legitti mare l'affermazione di un processo, ormai compiuto, di detipiz zazione del contratto di lavoro, che resta, dunque, distinto da

altri contratti coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle par ti. Né in contrario varrebbe richiamarsi, come fa il rimettente, alla disciplina in tema di fondo di garanzia, che l'art. 24 1.

196/97 dichiara applicabile ai crediti dei soci delle cooperative di lavoro e la cui ratio, di natura assistenziale, è solo quella di

garantire al socio, nell'ipotesi di insolvenza della società o co

munque di insufficienza del patrimonio sociale, il pagamento del compenso per l'attività lavorativa svolta in conformità alle

previsioni del contratto sociale» (sent. 451/98, ibid., 1094): tali

affermazioni confermano la tesi secondo cui la questione della

spettanza del trattamento di fine rapporto va risolta nel senso

della necessità che le parti abbiano inteso introdurre nei patti sociali o abbiano di fatto, nell'atteggiarsi concreto del rapporto, inteso pattuire la spettanza di tale emolumento.

Deve pertanto escludersi, nel caso in esame, la fondatezza

della domanda, mentre tutte le altre questioni devono ritenersi

assorbite, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo oppo sto.

Il Foro Italiano — 2001.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 26 luglio

2000, n. 9826; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Giacalo

ne (conci, diff.); Brocco (Avv. Cossu) c. Soc. Gesa (Avv.

Ciotti). Cassa senza rinvio Trib. Latina 26 marzo 1996.

Appello civile — Proposizione di un secondo atto di appello

— Ammissibilità — Limiti (Cod. proc. civ., art. 325, 326, 358, 387).

Finché non intervenga la declaratoria d'inammissibilità del

l'appello per invalidità della procura alle liti, un secondo

appello è proponibile, ma nel termine breve, che, nel caso di

mancata notifica della sentenza impugnata, decorre dalla

data di notifica del primo atto d'appello. (1)

(1) La fattispecie odierna offriva l'occasione per meditare sulla cor

rettezza di quell'orientamento giurisprudenziale che ricollega la decor

renza del termine breve per impugnare alla notificazione di un'impu

gnazione (poi dichiarata) inammissibile (orientamento riaffermato, sia

pure in obiter, anche dalle sezioni unite nella recente decisione 29 gen naio 2000. n. 16/SU, Foro it., 2000, I, 1606, con note di G. Balena, C.M. Barone e A. Proto Pisani, e poi da altre successive decisioni: v.

Cass. 21 luglio 2000, n. 9569, id., Mass., 883; 18 aprile 2000, n. 5011,

ibid., 477). Merita ricordare che le critiche a tale orientamento — fondato su

quella che la decisione in epigrafe definisce «solida interpretazione estensiva del combinato disposto degli art. 325 e 326 c.p.c.» — si erano

appuntate proprio sull'equipollenza fra notificazione della sentenza e

proposizione di un'impugnazione viziata (su cui, v., per tutti, N. Ra

soio, Sentenza non notificata e appello sottoscritto da procuratore esercente «extra districtum»: sul termine di riproposizione dell'impu

gnazione viziata, nota a Cass., sez. lav., 23 gennaio 1998, n. 643, id.,

1998, I, 2942 ss.), equipollenza che il giudice di secondo grado aveva

contestato alla luce della particolare fattispecie concreta. Nel caso de

quo infatti — a quanto pare — il mandato al difensore era stato rila

sciato per conto di una società di capitali da un anonimo firmatario, autore di un segno grafico illeggibile, senza indicazione della qualità o

della carica ricoperta all'interno della società asseritamente rappresen tata: secondo il ragionamento della sentenza impugnata così come ri

portata dalla Suprema corte, l'incertezza assoluta sull'identità del con

ferente la procura alle liti, precludendo il collegamento del [primo] ri

corso in appello con la società che l'ignoto firmatario assumeva di rap presentare, impediva anche di ricollegare al deposito dello stesso atto

«la piena conoscenza legale della sentenza impugnata da parte della so cietà che ha ritualmente proposto il secondo ricorso».

Nonostante la cassazione senza rinvio, nella motivazione della sen tenza in epigrafe non si rinviene alcuna specifica argomentazione volta

a confutare direttamente questo assunto, nient'affatto privo di coerenza

logica con riferimento al particolare vizio di rappresentanza tecnica ri corrente nel caso di specie. In effetti, se lo «scarabocchio» illeggibile, unito al difetto di qualsivoglia indicazione della carica rivestita, non consente — secondo la valutazione del giudice di merito — in alcun modo di ritenere che la società asseritamente rappresentata abbia inteso conferire la procura alle liti al difensore per quel giudizio d'impugna zione (e quindi deve escludersi l'esistenza di un'attività riferibile alla

parte soccombente: sul punto, v., da ultimo, per richiami, la nota a

Cass., sez. lav., 1° luglio 2000, n. 8838, id., 2001,1, 180), come può poi sostenersi che il medesimo «scarabocchio» valga a fondare una (pre sunzione di) conoscenza della sentenza impugnata in capo alla stessa società?

Sull'invalidità per illeggibilità della firma, cfr. Trib. Roma 4 feb braio 2000, id., 2000,1, 2042.

Merita altresì di essere segnalato come, con la sent. 16 giugno 2000, n. 8241 (id., Mass., 749), la prima sezione abbia ritenuto manifesta mente infondata la questione di costituzionalità del 1° comma dell'art. 326 c.p.c., in riferimento agli art. 3 e 24 Cost, e «con riguardo alla pre sunta disparità di trattamento in rapporto alla situazione disciplinata dal

2° comma, atteso che i due commi del suddetto articolo regolamentano situazioni affatto differenti (riferendosi l'uno agli effetti della notifica zione della sentenza e l'altro agli effetti della notificazione dell'impu gnazione) e che, peraltro, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, la notificazione dell'impugnazione non è equiparabile alla notificazione della sentenza, dovendosi ricollegare tale effetto non già alla conoscenza di quest'ultima comunque acquisita ma al compimento di quell'attività acceleratoria e sollecitatoria espressamente individuata dal 1° comma dell'art. 326 cit. nella notificazione della sentenza», con ciò aderendo alla diversa ricostruzione che ricollega l'abbreviazione del termine di impugnazione al rituale esercizio di un potere riservato alla parte (per indicazioni, v. Rasoio, op. cit., nonché G. Impagnatiello,

Proposizione di impugnazione inammissibile, conoscenza della senten

za e decorrenza del termine breve per impugnare, nota a Cass., sez.

lav., 7 settembre 1993, n. 9393, id., 1994, I, 438 ss., ricordata anche dalla sentenza in epigrafe).

Continua dunque il contrasto all'interno della giurisprudenza della

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Svolgimento del processo. — La sig. Teresa Brocco, dipen dente — in qualità di cassiera — della Gesa s.r.l., con lettera del 19 settembre 1991 fu licenziata per superamento del periodo di

comporto, essendo risultata assente dal lavoro dal 19 dicembre 1990 a causa di malattia tubercolare.

Ritenendo il licenziamento illegittimo, con ricorso del 30 ot tobre 1993, la Brocco convenne in giudizio, dinanzi il Pretore di Latina - sezione distaccata di Gaeta, la società recedente, per sentire adottare le seguenti statuizioni: illegittimità del recesso, ordine di reintegra di essa ricorrente nel posto di lavoro e con

danna della convenuta al pagamento delle retribuzioni nel frat

tempo maturate.

Resistente la Gesa, con sentenza in data 30 maggio 1994 (Fo ro it., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 1575) il pretore a dìto accolse integralmente le domande della lavoratrice.

Contro tale decisione propose appello la società soccombente, cui resistette la Brocco, la quale, in via preliminare, eccepì la

nullità assoluta della procura alle liti e la conseguente inammis sibilità del ricorso in appello, poiché interposto dalla Gesa s.r.l. in persona del legale rappresentante senza indicazione né del

nome, né della carica ricoperta nella società ed in virtù di procu ra a margine conferita con firma illeggibile «anch'essa senza

indicazione né del nome, né della carica ricoperta dal firmatario

ignoto, con conseguente incertezza assoluta sull'identità e sui

poteri della persona che aveva conferito il mandato».

Con ricorso, depositato il 20 ottobre 1994, dopo che il tribu

nale — in sede di udienza di discussione sull'istanza di inibito

ria — aveva dichiarato l'inammissibilità di detta istanza, rile vata la nullità della procura per mancanza di indicazione del le

gale rappresentante della società appellante, la Gesa propose nuovo appello avverso la medesima sentenza.

La lavoratrice, costituitasi anche nel secondo giudizio, eccepì,

pregiudizialmente, la preclusione, l'inammissibilità e l'impro cedibilità del secondo gravame, perché tardivo.

Con sentenza del 21 febbraio 1996 {id., Rep. 1997, voce cit., n. 1737), il Tribunale di Latina, riuniti gli appelli, dichiarò l'i nammissibilità —

per invalidità della procura — di quello pro

posto con ricorso depositato il 5 settembre 1994 e, in accogli mento di quello proposto dalla Gesa con ricorso il 20 ottobre

1994, rigettò la domanda della lavoratrice.

Contro la sentenza d'appello, Teresa Brocco ha proposto ri

corso per cassazione con due motivi.

Resiste, con controricorso, la Gesa s.r.l.

Motivi della decisione. — Va premesso che il Tribunale di

Latina ha disatteso l'eccezione di tardività del (secondo) ricorso

in appello, depositato dalla Gesa il 20 ottobre 1994, oltre il ter

mine, cioè, di trenta giorni dalla data (5 settembre 1994) di de

posito del primo ricorso in appello, e dopo la dichiarazione, in

data 12 ottobre 1994, della sua inammissibilità, sul rilievo che:

«se l'incertezza assoluta sulla identità del soggetto che ha con

ferito nel primo ricorso la procura impedisce di ricollegare l'atto alla società che l'ignoto firmatario assumeva di rappre sentare, allo stesso modo non può ricavarsi, dal deposito del ri

corso in appello dichiarato inammissibile per invalidità della

procura, la piena conoscenza legale della sentenza impugnata, da parte della società che ha ritualmente proposto il secondo ri corso ma alla quale non è possibile imputare la proposizione del

primo». Tale affermazione è criticata dalla ricorrente che, con il primo

motivo, nel denunciare la violazione dell'art. 326 c.p.c., sostie

ne che il termine breve per proporre l'impugnazione — ai sensi

di detto articolo — decorre non già da quando la parte abbia

personalmente (nel caso di società, il suo legale rappresentante) avuto effettiva conoscenza della sentenza, bensì dalla data in cui

la sentenza è stata notificata al suo procuratore costituito in giu dizio, dalla data, cioè, in cui quest'ultimo (e non la parte da lui

rappresentata) ha avuto legale conoscenza della sentenza.

La censura è fondata.

La tesi della ricorrente è contestata dalla società resistente, secondo cui «l'incertezza assoluta sull'identità del soggetto che

ha conferito nel primo ricorso [in appello, n.d.r.] la procura im

pedisce di ricollegare l'atto alla società che l'ignoto firmatario

Suprema corte (ed anzi, all'interno anche della stessa prima sezione, dalla quale sono state rese le decisioni 9569/00 e 5011/00, cit., di segno opposto), in attesa di un intervento chiarificatore delle sezioni unite, da

tempo auspicato (v., sul punto, Rascio, op. cit.). [M. Iozzo]

Il Foro Italiano — 2001.

assumeva di rappresentare», di guisa che «allo stesso modo non

può ricavarsi, dal deposito del ricorso in appello dichiarato inammissibile per invalidità della procura, la piena conoscenza

legale della sentenza impugnata, da parte della società che ha

ritualmente proposto il secondo ricorso, ma alla quale non è im

putabile la proposizione del primo. Sotto tale profilo, in mancanza della notifica della sentenza

pretorile, non essendo, pertanto, decorso per la società il termi ne breve per l'impugnazione, il ricorso depositato in data 20 ottobre 1994 deve ritenersi tempestivo».

Sennonché il motivo del ricorso fa riferimento a quell'indi rizzo, espresso sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, che

prende le mosse dall'interpretazione dell'art. 387 c.p.c. (il quale stabilisce che «il ricorso dichiarato inammissibile o improcedi bile non può essere riproposto, anche se non è scaduto il termine

fissato dalla legge») e in base al quale si sostiene che la norma

trova applicazione solo nel caso di pronuncia d'inammissibilità

o d'improcedibilità del ricorso, atteso che la riproposizione del

l'atto non è preclusa se venga eseguita prima di tale pronuncia e

sempre che, naturalmente, non sia ancora decorso il termine per una sua valida rinnovazione. Nello stesso tempo, però, riguardo alla scadenza del termine, si afferma che, nell'ipotesi in cui la

sentenza non sia notificata al soccombente, il dies a quo resta

fissato in quello della notifica della prima impugnazione, la

quale fornisce la piena prova della conoscenza legale della deci

sione (v. Cass. 2300/86, id., Rep. 1986, voce Cassazione civile, n. 97; 4666/87, id., Rep. 1987, voce cit., n. 99; 8328/91, id., Rep. 1991, voce cit., n. 41; 5022/90, id., Rep. 1990, voce Impu

gnazioni civili, n. 96; 9393/93, id., 1994, I, 438), tenuto conto «del generale principio, tratto dal 2° comma dell'art. 326 c.p.c., secondo cui la notificazione dell'impugnazione equivale, agli effetti della scienza legale, alla notificazione della sentenza»

(Cass., sez. un., 3111/82, id., 1982,1, 2210). Tutti questi principi possono e debbono essere riferiti — co

me marcato da questa corte (cfr. Cass. 9393/93, cit.) — anche

all'atto d'appello, considerato che, in caso d'inammissibilità o

di improcedibilità di tale atto, il legislatore ha dettato nell'art.

358 c.p.c. una disciplina «in tutto e per tutto uguale a quelle ri

servate dal suddetto art. 387 al ricorso per cassazione».

Dottrina e giurisprudenza, peraltro, hanno da tempo esteso al

l'appello (e, più in generale, a tutti i mezzi d'impugnazione: cfr.

Cass. 10177/94, id., Rep. 1994, voce cit., n. 37) i risultati inter pretativi elaborati per il ricorso per cassazione, poiché, per un

verso, la proposizione dell'atto d'appello non ancora dichiarato

inammissibile o improcedibile non ne preclude la riproposizione allorché non sia ancora decorso il termine per una sua valida

rinnovazione e, per un altro verso, il termine breve per la rinno

vazione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile, non

ancora dichiarata tale, nell'ipotesi in cui la sentenza non sia

stata notificata, decorre dalla data di notificazione della prima

impugnazione (Cass., sez. un., 3111/82, cit.; 4666/87, cit.;

9393/93, cit.; 10177/94, cit.). La regola da ultimo enunciata — nonostante qualche critica

contraria espressa in dottrina — si fonda su una (solida) inter

pretazione estensiva del combinato disposto degli art. 325 e 326

c.p.c., essendo basata sul più generale principio — costante mente evidenziato dalla giurisprudenza su richiamata (cfr. anche

Cass. 11176/93, id., Rep. 1993, voce cit., n. 29) — che la notifi

cazione dell'impugnazione equivale —

agli effetti della scienza

legale — alla notificazione della sentenza impugnata, cosicché

la regola in questione deve applicarsi nel caso in cui la parte soccombente proponga

— contro la sentenza di primo grado

(non notificata) — una prima impugnazione davanti al giudice

d'appello, che, sebbene dichiarata inammissibile, è tuttavia ido

nea a far decorrere, nei confronti dello stesso notificante, il ter

mine breve per proporre una nuova impugnazione anche se la

sentenza impugnata non sia stata, appunto, notificata, dovendosi

escludere, in tale ipotesi, l'applicabilità dell'art. 327 c.p.c. Nel caso in esame, risulta già dalla narrativa della sentenza

impugnata che la Gesa s.r.l., con atto depositato il 5 settembre

1994, aveva impugnato la sentenza del pretore davanti al Tribu

nale di Latina, chiedendo altresì la sospensione della «esecuto

rietà» della decisione di primo grado. Ne deriva che il (secondo) atto d'appello, depositato in data

20 ottobre 1994, è stato proposto oltre il termine di trenta giorni dal deposito del primo atto d'appello

— dichiarato inammissi

bile in data 12 ottobre 1994 —, ossia oltre il termine «breve» di

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1003 PARTE PRIMA 1004

trenta giorni decorrente dalla data di notificazione della prima

impugnazione. Ha errato, quindi, il tribunale a non dichiarare l'inammissibi

lità del ricorso in appello proposto dall'attuale resistente con

atto depositato il 20 ottobre 1994.

L'accoglimento del primo motivo del ricorso, in quanto as

sorbente, rende superfluo l'esame del secondo motivo, con cui

la ricorrente denuncia la violazione dell'art. 9 1. 14 dicembre

1970 n. 1088, atteso che, nonostante il mancato decorso del pe riodo di comporto, il giudice d'appello ha ritenuto legittimo il

licenziamento per non avere la lavoratrice comunicato e docu

mentato alla datrice la sussistenza della particolare fattispecie, invocata soltanto dopo la proposizione del ricorso introduttivo

del giudizio. In accoglimento del primo motivo del ricorso, la sentenza im

pugnata va, dunque, cassata, ma senza rinvio, a norma dell'art.

382, ultimo comma, c.p.c., poiché il tribunale laziale, che l'ha

emessa, non poteva pronunciare sul merito di una impugnazione inammissibile (Cass. 12141/95, id., Rep. 1995, voce cit., n. 57; 5272/96, id., Rep. 1996, voce Cassazione civile, n. 221, ed al tre).

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 14 giu gno 2000, n. 8094; Pres. Sensale, Est. Morelli, P.M. Gam

bardella (conci, conf.); Soc. Impresa Caldart (Avv. Navar

Ra) c. Anas. Cassa App. Roma 17 novembre 1997.

Opere pubbliche — Appalto — Lavori in variante — Au mento superiore ad un quinto — Contratto nuovo ed au

tonomo (L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, legge sui lavori

pubblici, art. 344; d.p.r. 16 luglio 1962 n. 1063, approvazione del capitolato generale d'appalto per le opere di competenza del ministero dei lavori pubblici, art. 13, 14).

Qualora l'amministrazione appaltante, in variante dell'opera

appaltata, richieda lavori diversi da quelli considerati in

contratto per un importo superiore di oltre un quinto a quello stabilito, l'accordo fra le parti per l'esecuzione di tale va

riante deve qualificarsi come un nuovo ed autonomo con

tratto modificativo del precedente, l'importo dei cui lavori

non si assomma a quello originario ai fini del computo del

sesto quinto per cui v'è diritto a compenso per l'appalta tore. (1)

(1) La decisione in epigrafe definisce gli esatti contorni dell'istituto del c.d. quinto d'obbligo disciplinato dall'art. 11 r.d. 18 novembre 1923 n. 2440 e dall'art. 120 r.d. 23 maggio 1924 n. 827 (ai sensi di tali

disposizioni, ove in corso di esecuzione di un contratto occorra un au mento o una diminuzione dei lavori, opere o forniture, l'appaltatore è

obbligato ad assoggettarvisi fino a concorrenza del quinto del prezzo di

appalto alle stesse condizioni del contratto, mentre oltre tale limite ha diritto alla risoluzione del contratto stesso; v. altresì art. 344 1. 20 mar zo 1865 n. 2248, all. F).

Con l'importante precisazione consistente nella negazione che l'im

porto di nuovi lavori eccedenti il quinto si sommi a quello originario ai fini del computo del sesto quinto (per la disciplina attuale, la quale pe raltro si occupa soltanto degli importi rientranti nel quinto d'obbligo, v.

infra), viene in sostanza confermato l'orientamento della giurispruden za secondo cui, mentre i lavori aggiuntivi compresi entro il quinto del

prezzo d'appalto non generano un nuovo distinto rapporto, ma sono

semplicemente un fatto aggiuntivo dell'originario contratto (v. Corte

conti, sez. contr., 20 aprile 1999, n. 22, Foro it., Rep. 1999, voce Con tratti della p.a., n. 158; Coli. arb. Roma 1° marzo 1996, ibid., voce

Il Foro Italiano — 2001.

Motivi della decisione. — Sussiste la violazione degli art.

344 1. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, e 14 d.p.r. 16 luglio 1962 n. 1063, denunciata con l'unico motivo dell'odierno ricorso.

Questa corte ha già, infatti, in più occasioni affermato (tra l'altro per inferirne la tassabilità, ai fini dell'imposta di registro, dell'accordo relativo all'esecuzione di «varianti» con l'aliquota stabilita dalla legge in vigore al tempo della sua registrazione e

non con quella applicabile con riferimento all'originario con

tratto) che, in tema di appalto pubblico, e in applicazione delle

su riferite disposizioni, qualora l'amministrazione appaltante ri

Opere pubbliche, n. 750; Corte conti, sez. contr., 12 gennaio 1989, n.

2061, id., Rep. 1990, voce cit., n. 439, tale ultima decisione, nello sta

tuire che il c.d. quinto d'obbligo è la potestà dell'amministrazione di

richiedere prestazioni oltre il limite quantitativo dedotto in contratto, ma entro il limite del quinto, ha precisato che l'istituto riguarda le

maggiori prestazioni richieste senza che intervenga un apposito atto ne

goziale e non anche i maggiori lavori, contemplati in una perizia di va

riante, che abbiano formato oggetto di un atto aggiuntivo approvato con

provvedimento specifico), nei casi in cui si superi la soglia del quinto si

configura un autonomo rapporto contrattuale (v. Cons. Stato, sez. Ili, 13 febbraio 1979, n. 31/79, id., Rep. 1981, voce Contratti della p.a., n.

82, secondo cui, ad eccezione delle ipotesi di variazioni quantitative entro il quinto o di variazioni qualitative per cause previste nel con tratto principale, i lavori addizionali devono formare oggetto di nuova

procedura contrattuale), sicché l'atto di sottomissione va qualificato come nuovo ed autonomo contratto, modificativo del precedente (v. Coli. arb. 24 marzo 1988, id., Rep. 1990, voce Opere pubbliche, n.

242, secondo cui si tratterebbe di un negozio bilaterale, col quale com mittente ed appaltatore concordano lavori complementari o propedeuti ci a quelli previsti dal progetto in totale autonomia rispetto al rapporto obbligatorio originario; nel caso di variazioni in aumento o in diminu zione non eccedenti il quinto d'obbligo, l'atto di sottomissione è invece

qualificato come un negozio unilaterale che si inserisce nell'ambito del contratto originario, del quale diviene parte integrante; nel senso che le variazioni dell'originario progetto di esecuzione che superino il c.d. se sto quinto obbligano il privato appaltatore solo a seguito di una sua nuova manifestazione di volontà distinta, pur se connessa con quella del precedente contratto, v. Corte conti, sez. contr., 8 febbraio 1995, n.

19, id., Rep. 1995, voce cit., n. 166; per l'autonomia dell'atto di sotto

missione, v. anche Coli. arb. 26 gennaio 1993, ibid., n. 397; Cons,

giust. amm. sic. 1° luglio 1993, n. 248, id., Rep. 1993, voce cit., n.

518). L'autonomia dell'atto aggiuntivo è poi confermata dalle seguenti de

cisioni, le quali riconoscono che si deve fare riferimento alla data di

stipula del medesimo, sia per quanto concerne il periodo di decorrenza della revisione dei prezzi, sia per quanto concerne i prezzi correnti a cui fare riferimento: sul punto, Commiss. min. ricorsi prezzi opere pubbli che 23 settembre 1997, id., Rep. 1999, voce cit., n. 749; 16 luglio 1996, ibid., n. 613; Cons, giust. amm. sic. 1° luglio 1993, n. 248, cit.; Com miss. min. ricorsi prezzi opere pubbliche 12 maggio 1992, id., Rep. 1996, voce cit., n. 399; 26 novembre 1991, id., Rep. 1995, voce cit., n.

481; Tar Lombardia, sez. I, 12 maggio 1989, n. 202, id., Rep. 1989, vo ce cit., n. 379; Commiss. min. ricorsi prezzi opere pubbliche 6 dicem bre 1988, id., Rep. 1991, voce cit., n. 561; 8 novembre 1983, id.. Rep. 1985, voce cit., n. 301; 14 dicembre 1982, id., Rep. 1984, voce cit., n.

320; 8 giugno 1982, ibid., n. 325; 15 dicembre 1981, id., Rep. 1983, voce cit., n. 370. In senso contrario all'autonomia dell'atto aggiuntivo, cfr. Tar Abruzzo, sez. L'Aquila, 27 giugno 1979, n. 304, id., Rep. 1981, voce cit., n. 314, secondo cui il contratto mediante il quale venga affidata l'esecuzione di varianti eccedenti il sesto quinto non costitui sce un nuovo rapporto d'appalto, bensì si inserisce nell'originario rap porto come un mero atto aggiuntivo, con la conseguenza che anche per i lavori assentiti con quell'atto la revisione prezzi deve avere decorren za dalla data dell'offerta presentata per il contratto principale.

La giurisprudenza si è pure occupata di questioni più specifiche, de limitando ad esempio il novero dei contratti assoggettati alla disciplina (v. Corte conti, sez. contr., 20 aprile 1999, n. 22, cit., la quale ha in

particolare precisato che all'epoca dell'emanazione della normativa so

pra citata (r.d. 18 novembre 1923 n. 2440 e r.d. 23 maggio 1924 n. 827) nella dizione «forniture» si facevano rientrare anche i «servizi»; Cons.

Stato, sez. Ili, 12 gennaio 1993, n. 1790, id., Rep. 1994, voce Contratti della p.a., n. 76, ha invece escluso l'applicabilità dell'istituto al c.d. contratto aperto il quale, in quanto caratterizzato dalla omogeneità delle

prestazioni di riparazione e di manutenzione e dalla loro ripetitività, contiene la predeterminazione di un limite massimo della spesa occor

rente, che non può essere superato, con la conseguenza che l'ammini strazione per ulteriori o sopravvenute necessità deve provvedere o con atto aggiuntivo o coij un nuovo contratto; v. altresì Cons, giust. amm.

sic., sez. consult., 27 maggio 1987, n. 155/87, id., Rep. 1989, voce cit., n. 166, che ribadisce l'applicabilità della disciplina anche alle forniture,

specificando peraltro che essa permette solo di variare la prestazione entro il quinto del prezzo pattuito, ma non può consentire la conclusio

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