sezione lavoro; sentenza 26 luglio 2000, n. 9826; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Giacalone(concl. diff.); Brocco (Avv. Cossu) c. Soc. Gesa (Avv. Ciotti). Cassa senza rinvio Trib. Latina 26marzo 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 124, No. 3 (MARZO 2001), pp. 999/1000-1003/1004Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23196483 .
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999 PARTE PRIMA 1000
no introdotto successivamente, essendo al contrario prevista la
sola liquidazione della quota sociale per il caso di cessazione
della qualità di socio (art. 15). Non è risultato neppure provato che, in concreto, la coopera
tiva abbia corrisposto ad altri soci lavoratori il trattamento di fi
ne rapporto, il che rende insufficiente, al fine di ritenere la de
benza del suddetto emolumento, la circostanza che la cooperati va abbia versato i contributi previdenziali ed operato l'accanto
namento per t.f.r., come risultante dai modelli 01/M allegati al
ricorso monitorio, atteso che, come rilevato dalla difesa del
l'opponente, le società cooperative sono tenute per legge, al fine
di assicurare la tutela previdenziale e assicurativa, al versa
mento dei contributi previdenziali all'Inps e dei premi assicura
tivi all'Inail, anche in favore dei soci lavoratori, il che, tuttavia,
non comporta di per sé, in assenza di espressa previsione di leg
ge o negoziale, il riconoscimento del diritto alla percezione del
trattamento di fine rapporto, istituto di carattere retributivo.
Gli accantonamenti eventualmente operati, come apparente mente risultanti dai modelli 01/M, dovranno pertanto essere re
stituiti, il che tuttavia esula dal presente giudizio. La circostanza che, di fatto, il Santoro fosse remunerato per la
sua opera in modo analogo ad un lavoratore subordinato, come
risulta dalle buste paga prodotte, se depone nel senso dell'assi
milazione della posizione del socio lavoratore a quella del lavo
ratore subordinato, agli effetti del principio della proporzione tra remunerazione e quantità e qualità del lavoro prestato ex art.
36 Cost., non vale di per sé ad estendere nei suoi confronti il di
verso ed autonomo istituto del trattamento di fine rapporto. Né la spettanza di tale emolumento, caratteristico del rapporto
di lavoro subordinato, può farsi derivare dall'art. 24 1. 196/97, che ha esteso alle società cooperative l'istituto del fondo di ga ranzia per il trattamento di fine rapporto e per il pagamento dei
crediti non soddisfatti a causa dell'insolvenza del datore di la
voro anche ai soci lavoratori, in quanto la legge in questione, mentre ha esteso la garanzia del credito, non ha espressamente statuito in ordine all'estensione automatica di tale istituto, ossia
sul credito, dovendosi pertanto ritenere che la questione vada ri
solta caso per caso, ossia valutando se le parti abbiano espres samente pattuito in tal senso o se comunque tale istituto sia stato
in concreto riconosciuto in tutti i casi di cessazione del rapporto sociale, prova che nel caso in esame non è stata raggiunta.
Sul punto è di recente intervenuta la Corte costituzionale, la
quale, a proposito della questione di legittimità costituzionale
relativa all'art. 2751 bis c.c., nella parte in cui non prevede tra i
crediti aventi privilegio generale sui beni mobili del debitore il credito del socio di cooperativa di produzione e lavoro, ha pre cisato come «... l'estensione al lavoro cooperativo di taluni
aspetti della disciplina del lavoro subordinato, rinvenendo la sua
ratio nella tutela della persona del lavoratore, non possa legitti mare l'affermazione di un processo, ormai compiuto, di detipiz zazione del contratto di lavoro, che resta, dunque, distinto da
altri contratti coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle par ti. Né in contrario varrebbe richiamarsi, come fa il rimettente, alla disciplina in tema di fondo di garanzia, che l'art. 24 1.
196/97 dichiara applicabile ai crediti dei soci delle cooperative di lavoro e la cui ratio, di natura assistenziale, è solo quella di
garantire al socio, nell'ipotesi di insolvenza della società o co
munque di insufficienza del patrimonio sociale, il pagamento del compenso per l'attività lavorativa svolta in conformità alle
previsioni del contratto sociale» (sent. 451/98, ibid., 1094): tali
affermazioni confermano la tesi secondo cui la questione della
spettanza del trattamento di fine rapporto va risolta nel senso
della necessità che le parti abbiano inteso introdurre nei patti sociali o abbiano di fatto, nell'atteggiarsi concreto del rapporto, inteso pattuire la spettanza di tale emolumento.
Deve pertanto escludersi, nel caso in esame, la fondatezza
della domanda, mentre tutte le altre questioni devono ritenersi
assorbite, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo oppo sto.
Il Foro Italiano — 2001.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 26 luglio
2000, n. 9826; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Giacalo
ne (conci, diff.); Brocco (Avv. Cossu) c. Soc. Gesa (Avv.
Ciotti). Cassa senza rinvio Trib. Latina 26 marzo 1996.
Appello civile — Proposizione di un secondo atto di appello
— Ammissibilità — Limiti (Cod. proc. civ., art. 325, 326, 358, 387).
Finché non intervenga la declaratoria d'inammissibilità del
l'appello per invalidità della procura alle liti, un secondo
appello è proponibile, ma nel termine breve, che, nel caso di
mancata notifica della sentenza impugnata, decorre dalla
data di notifica del primo atto d'appello. (1)
(1) La fattispecie odierna offriva l'occasione per meditare sulla cor
rettezza di quell'orientamento giurisprudenziale che ricollega la decor
renza del termine breve per impugnare alla notificazione di un'impu
gnazione (poi dichiarata) inammissibile (orientamento riaffermato, sia
pure in obiter, anche dalle sezioni unite nella recente decisione 29 gen naio 2000. n. 16/SU, Foro it., 2000, I, 1606, con note di G. Balena, C.M. Barone e A. Proto Pisani, e poi da altre successive decisioni: v.
Cass. 21 luglio 2000, n. 9569, id., Mass., 883; 18 aprile 2000, n. 5011,
ibid., 477). Merita ricordare che le critiche a tale orientamento — fondato su
quella che la decisione in epigrafe definisce «solida interpretazione estensiva del combinato disposto degli art. 325 e 326 c.p.c.» — si erano
appuntate proprio sull'equipollenza fra notificazione della sentenza e
proposizione di un'impugnazione viziata (su cui, v., per tutti, N. Ra
soio, Sentenza non notificata e appello sottoscritto da procuratore esercente «extra districtum»: sul termine di riproposizione dell'impu
gnazione viziata, nota a Cass., sez. lav., 23 gennaio 1998, n. 643, id.,
1998, I, 2942 ss.), equipollenza che il giudice di secondo grado aveva
contestato alla luce della particolare fattispecie concreta. Nel caso de
quo infatti — a quanto pare — il mandato al difensore era stato rila
sciato per conto di una società di capitali da un anonimo firmatario, autore di un segno grafico illeggibile, senza indicazione della qualità o
della carica ricoperta all'interno della società asseritamente rappresen tata: secondo il ragionamento della sentenza impugnata così come ri
portata dalla Suprema corte, l'incertezza assoluta sull'identità del con
ferente la procura alle liti, precludendo il collegamento del [primo] ri
corso in appello con la società che l'ignoto firmatario assumeva di rap presentare, impediva anche di ricollegare al deposito dello stesso atto
«la piena conoscenza legale della sentenza impugnata da parte della so cietà che ha ritualmente proposto il secondo ricorso».
Nonostante la cassazione senza rinvio, nella motivazione della sen tenza in epigrafe non si rinviene alcuna specifica argomentazione volta
a confutare direttamente questo assunto, nient'affatto privo di coerenza
logica con riferimento al particolare vizio di rappresentanza tecnica ri corrente nel caso di specie. In effetti, se lo «scarabocchio» illeggibile, unito al difetto di qualsivoglia indicazione della carica rivestita, non consente — secondo la valutazione del giudice di merito — in alcun modo di ritenere che la società asseritamente rappresentata abbia inteso conferire la procura alle liti al difensore per quel giudizio d'impugna zione (e quindi deve escludersi l'esistenza di un'attività riferibile alla
parte soccombente: sul punto, v., da ultimo, per richiami, la nota a
Cass., sez. lav., 1° luglio 2000, n. 8838, id., 2001,1, 180), come può poi sostenersi che il medesimo «scarabocchio» valga a fondare una (pre sunzione di) conoscenza della sentenza impugnata in capo alla stessa società?
Sull'invalidità per illeggibilità della firma, cfr. Trib. Roma 4 feb braio 2000, id., 2000,1, 2042.
Merita altresì di essere segnalato come, con la sent. 16 giugno 2000, n. 8241 (id., Mass., 749), la prima sezione abbia ritenuto manifesta mente infondata la questione di costituzionalità del 1° comma dell'art. 326 c.p.c., in riferimento agli art. 3 e 24 Cost, e «con riguardo alla pre sunta disparità di trattamento in rapporto alla situazione disciplinata dal
2° comma, atteso che i due commi del suddetto articolo regolamentano situazioni affatto differenti (riferendosi l'uno agli effetti della notifica zione della sentenza e l'altro agli effetti della notificazione dell'impu gnazione) e che, peraltro, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, la notificazione dell'impugnazione non è equiparabile alla notificazione della sentenza, dovendosi ricollegare tale effetto non già alla conoscenza di quest'ultima comunque acquisita ma al compimento di quell'attività acceleratoria e sollecitatoria espressamente individuata dal 1° comma dell'art. 326 cit. nella notificazione della sentenza», con ciò aderendo alla diversa ricostruzione che ricollega l'abbreviazione del termine di impugnazione al rituale esercizio di un potere riservato alla parte (per indicazioni, v. Rasoio, op. cit., nonché G. Impagnatiello,
Proposizione di impugnazione inammissibile, conoscenza della senten
za e decorrenza del termine breve per impugnare, nota a Cass., sez.
lav., 7 settembre 1993, n. 9393, id., 1994, I, 438 ss., ricordata anche dalla sentenza in epigrafe).
Continua dunque il contrasto all'interno della giurisprudenza della
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Svolgimento del processo. — La sig. Teresa Brocco, dipen dente — in qualità di cassiera — della Gesa s.r.l., con lettera del 19 settembre 1991 fu licenziata per superamento del periodo di
comporto, essendo risultata assente dal lavoro dal 19 dicembre 1990 a causa di malattia tubercolare.
Ritenendo il licenziamento illegittimo, con ricorso del 30 ot tobre 1993, la Brocco convenne in giudizio, dinanzi il Pretore di Latina - sezione distaccata di Gaeta, la società recedente, per sentire adottare le seguenti statuizioni: illegittimità del recesso, ordine di reintegra di essa ricorrente nel posto di lavoro e con
danna della convenuta al pagamento delle retribuzioni nel frat
tempo maturate.
Resistente la Gesa, con sentenza in data 30 maggio 1994 (Fo ro it., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 1575) il pretore a dìto accolse integralmente le domande della lavoratrice.
Contro tale decisione propose appello la società soccombente, cui resistette la Brocco, la quale, in via preliminare, eccepì la
nullità assoluta della procura alle liti e la conseguente inammis sibilità del ricorso in appello, poiché interposto dalla Gesa s.r.l. in persona del legale rappresentante senza indicazione né del
nome, né della carica ricoperta nella società ed in virtù di procu ra a margine conferita con firma illeggibile «anch'essa senza
indicazione né del nome, né della carica ricoperta dal firmatario
ignoto, con conseguente incertezza assoluta sull'identità e sui
poteri della persona che aveva conferito il mandato».
Con ricorso, depositato il 20 ottobre 1994, dopo che il tribu
nale — in sede di udienza di discussione sull'istanza di inibito
ria — aveva dichiarato l'inammissibilità di detta istanza, rile vata la nullità della procura per mancanza di indicazione del le
gale rappresentante della società appellante, la Gesa propose nuovo appello avverso la medesima sentenza.
La lavoratrice, costituitasi anche nel secondo giudizio, eccepì,
pregiudizialmente, la preclusione, l'inammissibilità e l'impro cedibilità del secondo gravame, perché tardivo.
Con sentenza del 21 febbraio 1996 {id., Rep. 1997, voce cit., n. 1737), il Tribunale di Latina, riuniti gli appelli, dichiarò l'i nammissibilità —
per invalidità della procura — di quello pro
posto con ricorso depositato il 5 settembre 1994 e, in accogli mento di quello proposto dalla Gesa con ricorso il 20 ottobre
1994, rigettò la domanda della lavoratrice.
Contro la sentenza d'appello, Teresa Brocco ha proposto ri
corso per cassazione con due motivi.
Resiste, con controricorso, la Gesa s.r.l.
Motivi della decisione. — Va premesso che il Tribunale di
Latina ha disatteso l'eccezione di tardività del (secondo) ricorso
in appello, depositato dalla Gesa il 20 ottobre 1994, oltre il ter
mine, cioè, di trenta giorni dalla data (5 settembre 1994) di de
posito del primo ricorso in appello, e dopo la dichiarazione, in
data 12 ottobre 1994, della sua inammissibilità, sul rilievo che:
«se l'incertezza assoluta sulla identità del soggetto che ha con
ferito nel primo ricorso la procura impedisce di ricollegare l'atto alla società che l'ignoto firmatario assumeva di rappre sentare, allo stesso modo non può ricavarsi, dal deposito del ri
corso in appello dichiarato inammissibile per invalidità della
procura, la piena conoscenza legale della sentenza impugnata, da parte della società che ha ritualmente proposto il secondo ri corso ma alla quale non è possibile imputare la proposizione del
primo». Tale affermazione è criticata dalla ricorrente che, con il primo
motivo, nel denunciare la violazione dell'art. 326 c.p.c., sostie
ne che il termine breve per proporre l'impugnazione — ai sensi
di detto articolo — decorre non già da quando la parte abbia
personalmente (nel caso di società, il suo legale rappresentante) avuto effettiva conoscenza della sentenza, bensì dalla data in cui
la sentenza è stata notificata al suo procuratore costituito in giu dizio, dalla data, cioè, in cui quest'ultimo (e non la parte da lui
rappresentata) ha avuto legale conoscenza della sentenza.
La censura è fondata.
La tesi della ricorrente è contestata dalla società resistente, secondo cui «l'incertezza assoluta sull'identità del soggetto che
ha conferito nel primo ricorso [in appello, n.d.r.] la procura im
pedisce di ricollegare l'atto alla società che l'ignoto firmatario
Suprema corte (ed anzi, all'interno anche della stessa prima sezione, dalla quale sono state rese le decisioni 9569/00 e 5011/00, cit., di segno opposto), in attesa di un intervento chiarificatore delle sezioni unite, da
tempo auspicato (v., sul punto, Rascio, op. cit.). [M. Iozzo]
Il Foro Italiano — 2001.
assumeva di rappresentare», di guisa che «allo stesso modo non
può ricavarsi, dal deposito del ricorso in appello dichiarato inammissibile per invalidità della procura, la piena conoscenza
legale della sentenza impugnata, da parte della società che ha
ritualmente proposto il secondo ricorso, ma alla quale non è im
putabile la proposizione del primo. Sotto tale profilo, in mancanza della notifica della sentenza
pretorile, non essendo, pertanto, decorso per la società il termi ne breve per l'impugnazione, il ricorso depositato in data 20 ottobre 1994 deve ritenersi tempestivo».
Sennonché il motivo del ricorso fa riferimento a quell'indi rizzo, espresso sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, che
prende le mosse dall'interpretazione dell'art. 387 c.p.c. (il quale stabilisce che «il ricorso dichiarato inammissibile o improcedi bile non può essere riproposto, anche se non è scaduto il termine
fissato dalla legge») e in base al quale si sostiene che la norma
trova applicazione solo nel caso di pronuncia d'inammissibilità
o d'improcedibilità del ricorso, atteso che la riproposizione del
l'atto non è preclusa se venga eseguita prima di tale pronuncia e
sempre che, naturalmente, non sia ancora decorso il termine per una sua valida rinnovazione. Nello stesso tempo, però, riguardo alla scadenza del termine, si afferma che, nell'ipotesi in cui la
sentenza non sia notificata al soccombente, il dies a quo resta
fissato in quello della notifica della prima impugnazione, la
quale fornisce la piena prova della conoscenza legale della deci
sione (v. Cass. 2300/86, id., Rep. 1986, voce Cassazione civile, n. 97; 4666/87, id., Rep. 1987, voce cit., n. 99; 8328/91, id., Rep. 1991, voce cit., n. 41; 5022/90, id., Rep. 1990, voce Impu
gnazioni civili, n. 96; 9393/93, id., 1994, I, 438), tenuto conto «del generale principio, tratto dal 2° comma dell'art. 326 c.p.c., secondo cui la notificazione dell'impugnazione equivale, agli effetti della scienza legale, alla notificazione della sentenza»
(Cass., sez. un., 3111/82, id., 1982,1, 2210). Tutti questi principi possono e debbono essere riferiti — co
me marcato da questa corte (cfr. Cass. 9393/93, cit.) — anche
all'atto d'appello, considerato che, in caso d'inammissibilità o
di improcedibilità di tale atto, il legislatore ha dettato nell'art.
358 c.p.c. una disciplina «in tutto e per tutto uguale a quelle ri
servate dal suddetto art. 387 al ricorso per cassazione».
Dottrina e giurisprudenza, peraltro, hanno da tempo esteso al
l'appello (e, più in generale, a tutti i mezzi d'impugnazione: cfr.
Cass. 10177/94, id., Rep. 1994, voce cit., n. 37) i risultati inter pretativi elaborati per il ricorso per cassazione, poiché, per un
verso, la proposizione dell'atto d'appello non ancora dichiarato
inammissibile o improcedibile non ne preclude la riproposizione allorché non sia ancora decorso il termine per una sua valida
rinnovazione e, per un altro verso, il termine breve per la rinno
vazione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile, non
ancora dichiarata tale, nell'ipotesi in cui la sentenza non sia
stata notificata, decorre dalla data di notificazione della prima
impugnazione (Cass., sez. un., 3111/82, cit.; 4666/87, cit.;
9393/93, cit.; 10177/94, cit.). La regola da ultimo enunciata — nonostante qualche critica
contraria espressa in dottrina — si fonda su una (solida) inter
pretazione estensiva del combinato disposto degli art. 325 e 326
c.p.c., essendo basata sul più generale principio — costante mente evidenziato dalla giurisprudenza su richiamata (cfr. anche
Cass. 11176/93, id., Rep. 1993, voce cit., n. 29) — che la notifi
cazione dell'impugnazione equivale —
agli effetti della scienza
legale — alla notificazione della sentenza impugnata, cosicché
la regola in questione deve applicarsi nel caso in cui la parte soccombente proponga
— contro la sentenza di primo grado
(non notificata) — una prima impugnazione davanti al giudice
d'appello, che, sebbene dichiarata inammissibile, è tuttavia ido
nea a far decorrere, nei confronti dello stesso notificante, il ter
mine breve per proporre una nuova impugnazione anche se la
sentenza impugnata non sia stata, appunto, notificata, dovendosi
escludere, in tale ipotesi, l'applicabilità dell'art. 327 c.p.c. Nel caso in esame, risulta già dalla narrativa della sentenza
impugnata che la Gesa s.r.l., con atto depositato il 5 settembre
1994, aveva impugnato la sentenza del pretore davanti al Tribu
nale di Latina, chiedendo altresì la sospensione della «esecuto
rietà» della decisione di primo grado. Ne deriva che il (secondo) atto d'appello, depositato in data
20 ottobre 1994, è stato proposto oltre il termine di trenta giorni dal deposito del primo atto d'appello
— dichiarato inammissi
bile in data 12 ottobre 1994 —, ossia oltre il termine «breve» di
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1003 PARTE PRIMA 1004
trenta giorni decorrente dalla data di notificazione della prima
impugnazione. Ha errato, quindi, il tribunale a non dichiarare l'inammissibi
lità del ricorso in appello proposto dall'attuale resistente con
atto depositato il 20 ottobre 1994.
L'accoglimento del primo motivo del ricorso, in quanto as
sorbente, rende superfluo l'esame del secondo motivo, con cui
la ricorrente denuncia la violazione dell'art. 9 1. 14 dicembre
1970 n. 1088, atteso che, nonostante il mancato decorso del pe riodo di comporto, il giudice d'appello ha ritenuto legittimo il
licenziamento per non avere la lavoratrice comunicato e docu
mentato alla datrice la sussistenza della particolare fattispecie, invocata soltanto dopo la proposizione del ricorso introduttivo
del giudizio. In accoglimento del primo motivo del ricorso, la sentenza im
pugnata va, dunque, cassata, ma senza rinvio, a norma dell'art.
382, ultimo comma, c.p.c., poiché il tribunale laziale, che l'ha
emessa, non poteva pronunciare sul merito di una impugnazione inammissibile (Cass. 12141/95, id., Rep. 1995, voce cit., n. 57; 5272/96, id., Rep. 1996, voce Cassazione civile, n. 221, ed al tre).
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 14 giu gno 2000, n. 8094; Pres. Sensale, Est. Morelli, P.M. Gam
bardella (conci, conf.); Soc. Impresa Caldart (Avv. Navar
Ra) c. Anas. Cassa App. Roma 17 novembre 1997.
Opere pubbliche — Appalto — Lavori in variante — Au mento superiore ad un quinto — Contratto nuovo ed au
tonomo (L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, legge sui lavori
pubblici, art. 344; d.p.r. 16 luglio 1962 n. 1063, approvazione del capitolato generale d'appalto per le opere di competenza del ministero dei lavori pubblici, art. 13, 14).
Qualora l'amministrazione appaltante, in variante dell'opera
appaltata, richieda lavori diversi da quelli considerati in
contratto per un importo superiore di oltre un quinto a quello stabilito, l'accordo fra le parti per l'esecuzione di tale va
riante deve qualificarsi come un nuovo ed autonomo con
tratto modificativo del precedente, l'importo dei cui lavori
non si assomma a quello originario ai fini del computo del
sesto quinto per cui v'è diritto a compenso per l'appalta tore. (1)
(1) La decisione in epigrafe definisce gli esatti contorni dell'istituto del c.d. quinto d'obbligo disciplinato dall'art. 11 r.d. 18 novembre 1923 n. 2440 e dall'art. 120 r.d. 23 maggio 1924 n. 827 (ai sensi di tali
disposizioni, ove in corso di esecuzione di un contratto occorra un au mento o una diminuzione dei lavori, opere o forniture, l'appaltatore è
obbligato ad assoggettarvisi fino a concorrenza del quinto del prezzo di
appalto alle stesse condizioni del contratto, mentre oltre tale limite ha diritto alla risoluzione del contratto stesso; v. altresì art. 344 1. 20 mar zo 1865 n. 2248, all. F).
Con l'importante precisazione consistente nella negazione che l'im
porto di nuovi lavori eccedenti il quinto si sommi a quello originario ai fini del computo del sesto quinto (per la disciplina attuale, la quale pe raltro si occupa soltanto degli importi rientranti nel quinto d'obbligo, v.
infra), viene in sostanza confermato l'orientamento della giurispruden za secondo cui, mentre i lavori aggiuntivi compresi entro il quinto del
prezzo d'appalto non generano un nuovo distinto rapporto, ma sono
semplicemente un fatto aggiuntivo dell'originario contratto (v. Corte
conti, sez. contr., 20 aprile 1999, n. 22, Foro it., Rep. 1999, voce Con tratti della p.a., n. 158; Coli. arb. Roma 1° marzo 1996, ibid., voce
Il Foro Italiano — 2001.
Motivi della decisione. — Sussiste la violazione degli art.
344 1. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, e 14 d.p.r. 16 luglio 1962 n. 1063, denunciata con l'unico motivo dell'odierno ricorso.
Questa corte ha già, infatti, in più occasioni affermato (tra l'altro per inferirne la tassabilità, ai fini dell'imposta di registro, dell'accordo relativo all'esecuzione di «varianti» con l'aliquota stabilita dalla legge in vigore al tempo della sua registrazione e
non con quella applicabile con riferimento all'originario con
tratto) che, in tema di appalto pubblico, e in applicazione delle
su riferite disposizioni, qualora l'amministrazione appaltante ri
Opere pubbliche, n. 750; Corte conti, sez. contr., 12 gennaio 1989, n.
2061, id., Rep. 1990, voce cit., n. 439, tale ultima decisione, nello sta
tuire che il c.d. quinto d'obbligo è la potestà dell'amministrazione di
richiedere prestazioni oltre il limite quantitativo dedotto in contratto, ma entro il limite del quinto, ha precisato che l'istituto riguarda le
maggiori prestazioni richieste senza che intervenga un apposito atto ne
goziale e non anche i maggiori lavori, contemplati in una perizia di va
riante, che abbiano formato oggetto di un atto aggiuntivo approvato con
provvedimento specifico), nei casi in cui si superi la soglia del quinto si
configura un autonomo rapporto contrattuale (v. Cons. Stato, sez. Ili, 13 febbraio 1979, n. 31/79, id., Rep. 1981, voce Contratti della p.a., n.
82, secondo cui, ad eccezione delle ipotesi di variazioni quantitative entro il quinto o di variazioni qualitative per cause previste nel con tratto principale, i lavori addizionali devono formare oggetto di nuova
procedura contrattuale), sicché l'atto di sottomissione va qualificato come nuovo ed autonomo contratto, modificativo del precedente (v. Coli. arb. 24 marzo 1988, id., Rep. 1990, voce Opere pubbliche, n.
242, secondo cui si tratterebbe di un negozio bilaterale, col quale com mittente ed appaltatore concordano lavori complementari o propedeuti ci a quelli previsti dal progetto in totale autonomia rispetto al rapporto obbligatorio originario; nel caso di variazioni in aumento o in diminu zione non eccedenti il quinto d'obbligo, l'atto di sottomissione è invece
qualificato come un negozio unilaterale che si inserisce nell'ambito del contratto originario, del quale diviene parte integrante; nel senso che le variazioni dell'originario progetto di esecuzione che superino il c.d. se sto quinto obbligano il privato appaltatore solo a seguito di una sua nuova manifestazione di volontà distinta, pur se connessa con quella del precedente contratto, v. Corte conti, sez. contr., 8 febbraio 1995, n.
19, id., Rep. 1995, voce cit., n. 166; per l'autonomia dell'atto di sotto
missione, v. anche Coli. arb. 26 gennaio 1993, ibid., n. 397; Cons,
giust. amm. sic. 1° luglio 1993, n. 248, id., Rep. 1993, voce cit., n.
518). L'autonomia dell'atto aggiuntivo è poi confermata dalle seguenti de
cisioni, le quali riconoscono che si deve fare riferimento alla data di
stipula del medesimo, sia per quanto concerne il periodo di decorrenza della revisione dei prezzi, sia per quanto concerne i prezzi correnti a cui fare riferimento: sul punto, Commiss. min. ricorsi prezzi opere pubbli che 23 settembre 1997, id., Rep. 1999, voce cit., n. 749; 16 luglio 1996, ibid., n. 613; Cons, giust. amm. sic. 1° luglio 1993, n. 248, cit.; Com miss. min. ricorsi prezzi opere pubbliche 12 maggio 1992, id., Rep. 1996, voce cit., n. 399; 26 novembre 1991, id., Rep. 1995, voce cit., n.
481; Tar Lombardia, sez. I, 12 maggio 1989, n. 202, id., Rep. 1989, vo ce cit., n. 379; Commiss. min. ricorsi prezzi opere pubbliche 6 dicem bre 1988, id., Rep. 1991, voce cit., n. 561; 8 novembre 1983, id.. Rep. 1985, voce cit., n. 301; 14 dicembre 1982, id., Rep. 1984, voce cit., n.
320; 8 giugno 1982, ibid., n. 325; 15 dicembre 1981, id., Rep. 1983, voce cit., n. 370. In senso contrario all'autonomia dell'atto aggiuntivo, cfr. Tar Abruzzo, sez. L'Aquila, 27 giugno 1979, n. 304, id., Rep. 1981, voce cit., n. 314, secondo cui il contratto mediante il quale venga affidata l'esecuzione di varianti eccedenti il sesto quinto non costitui sce un nuovo rapporto d'appalto, bensì si inserisce nell'originario rap porto come un mero atto aggiuntivo, con la conseguenza che anche per i lavori assentiti con quell'atto la revisione prezzi deve avere decorren za dalla data dell'offerta presentata per il contratto principale.
La giurisprudenza si è pure occupata di questioni più specifiche, de limitando ad esempio il novero dei contratti assoggettati alla disciplina (v. Corte conti, sez. contr., 20 aprile 1999, n. 22, cit., la quale ha in
particolare precisato che all'epoca dell'emanazione della normativa so
pra citata (r.d. 18 novembre 1923 n. 2440 e r.d. 23 maggio 1924 n. 827) nella dizione «forniture» si facevano rientrare anche i «servizi»; Cons.
Stato, sez. Ili, 12 gennaio 1993, n. 1790, id., Rep. 1994, voce Contratti della p.a., n. 76, ha invece escluso l'applicabilità dell'istituto al c.d. contratto aperto il quale, in quanto caratterizzato dalla omogeneità delle
prestazioni di riparazione e di manutenzione e dalla loro ripetitività, contiene la predeterminazione di un limite massimo della spesa occor
rente, che non può essere superato, con la conseguenza che l'ammini strazione per ulteriori o sopravvenute necessità deve provvedere o con atto aggiuntivo o coij un nuovo contratto; v. altresì Cons, giust. amm.
sic., sez. consult., 27 maggio 1987, n. 155/87, id., Rep. 1989, voce cit., n. 166, che ribadisce l'applicabilità della disciplina anche alle forniture,
specificando peraltro che essa permette solo di variare la prestazione entro il quinto del prezzo pattuito, ma non può consentire la conclusio
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