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Sezione lavoro; sentenza 29 aprile 1981, n. 2637; Pres. Buffoni, Est. Panzarani, P. M. MorozzoDella Rocca (concl. conf.); Arditi (Avv. Ghera, Codacci Pisanelli, Simi) c. Soc. Intercontinentaleassicurazioni (Avv. Scognamiglio). Conferma Trib. Roma 20 settembre 1977Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 6 (GIUGNO 1981), pp. 1557/1558-1561/1562Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23173139 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 29 aprile
1981, n. 2637; Pres. Buffoni, Est. Panzarani, P. M. Mo
rozzo Della Rocca (conci, conf.); Arditi (Avv. Ghera, Co
dacci Pisanelli, Simi) c. Soc. Intercontinentale assicurazioni
(Avv. Scognamiglio). Conferma Trib. Roma 20 settembre 1977.
Lavoro (rapporto) — Dirigenti — Identificazione della cate
goria — Spettanza (Cod. civ., art. 2095). Lavoro (rapporto) — Dirigenti — Disciplina limitativa dei li
cenziamenti — Inapplicabilità — Questione manifestamente
infondata di costituzionalità (Cost., art. 3; cod. civ., art. 2095;
legge 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti individuali, art. 10).
Lavoro (rapporto) — Dirigenti — Licenziamento per giusta cau
sa — Conversione in licenziamento « ad nutum » — Ammis
sibilità — Condizioni (Cod. civ., art. 1424, 2118, 2119; legge 15 luglio 1966 n. 604, art. 10).
La identificazione dei requisiti di appartenenza alla categoria dei dirigenti spetta esclusivamente alla contrattazione colletti
va, non esistendo una nozione legale di tale categoria. (1) È manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 Cost., la que
stione di costituzionalità dell'art. 10 legge 15 luglio 1956 n.
604 nella parte in cui esclude i dirigenti dall'ambito di appli cazione della legge stessa. (2)
La conversione del licenziamento intimato al dirigente per giusta causa in licenziamento ad nutum è ammissibile, purché sia
accertata la volontà del datore di lavoro di procedere egual mente al licenziamento anche in assenza della giusta causa. (3)
La Corte, ecc. — Con il primo motivo il ricorrente denun
zia i vizi di violazione e falsa applicazione dell'art. 3 Cost., de
gli art. 10 e 12 legge 15 luglio 1966 n. 604 e dell'art. 2095 cod.
civ. in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civile.
Lamentando che la sentenza impugnata abbia ritenuto che
l'art. 10 legge n. 604 del 1966 escluderebbe dalla tutela contro i li
cenziamenti illegittimi tutti i lavoratori qualificati come dirigenti a prescindere dalla natura delle mansioni da loro effettivamente
esercitate, il ricorrente argomenta, che nell'interpretare il rinvio
contenuto nell'art. 2095 cod. civ. la sentenza stessa non ha tenuto
conto che esso concerneva i contratti collettivi corporativi aventi
natura di fonte del diritto oggettivo a differenza di quelli di di
ritto comune rimessi alla discrezionalità dell'autonomia collettiva
che può fissare a suo arbitrio i requisiti soggettivi di apparte nenza alla categoria dirigenziale, per cui la stessa autonomia non
può intaccare gli effetti disposti dalla legge per ciò che concerne
la definizione di tale categoria. Osservato pertanto che di essa
esiste una nozione legale e non contrattuale qual'è stata precisata
dalla giurisprudenza, il ricorrente deduce quindi che il lavora
tore deve essere inquadrato nella categoria legale corrispondente alle mansioni effettivamente svolte, dato che l'ordinamento giu
ridico vieta che il prestatore subisca qualsiasi pregiudizio a cau
sa di un formale inquadramento convenzionale che non tenga
conto dei compiti in concreto da lui espletati, il che — in parti
colare — va ribadito in relazione alle norme di protezione con
tro il licenziamento illegittimo, nel mentre va altresì considerato
che l'art. 12 della stessa legge n. 604 del 1966 e l'art. 40 dello
statuto dei lavoratori prevedono la salvezza soltanto dei contratti
collettivi più favorevoli ai lavoratori. Considerato quindi che il
primo giudice aveva accertato che esso ricorrente non svolgeva
mansioni rientranti nell'ambito dei compiti dirigenziali indivi
duati dall'elaborazione giurisprudenziale e che il tribunale non
ha riformato tale punto ritenuto superfluo, il ricorrente afferma
che l'erroneità di tale premessa comporta la necessità che sia a
lui riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Con il secondo motivo il ricorrente addebita ancora alla sen
tenza impugnata i vizi di violazione e di falsa applicazione delle
(1-2) Sul problema della identificazione della categoria dirigenziale, con particolare riferimento alla legislazione sui licenziamenti indi
viduali, cfr. Cass. 21 marzo 1980, n. 1922, Foro it., 1981, I, 832, con nota di Vallebona, ed ivi richiami di giurisprudenza e dottrina, anche sulla relativa questione di legittimità costituzionale.
Trib. Roma 20 settembre 1977, ora confermata, e la sentenza di
primo grado 14 luglio 1976 del Pretore di Roma sono riportate in
Foro it., 1977, I, 2775; di conseguenza si omette la esposizione in
fatto contenuta nella qui riportata sentenza.
(3) Sul problema della convertibilità del licenziamento disciplinare in licenziamento ad nutum, nel caso di un lavoratore addetto ad
una unità produttiva con meno di sedici dipendenti, cfr., in senso
negativo, Trib. Roma 12 luglio 1980, Foro it., 1980, 1, 3094. Sul
diverso problema della conversione del licenziamento per giusta
causa in licenziamento per giustificato motivo, cfr. Cass. 27 otto
bre 1972, n. 2800, id., 1974, I, 88.
norme dell'art. 10 legge 15 luglio 1966 n. 604 e dell'art. 2095
cod. civ. in relazione all'art. 3 Cost.
Deduce al riguardo che, ove non siano accolte le censure svol te nel precedente motivo, deve da parte di esso ricorrente solle varsi eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 10 legge n. 604 del 1966 se interpretato nel senso che nella sua sfera di
operatività siano esclusi i licenziamenti dei lavoratori conven zionalmente inquadrati come dirigenti, ma svolgenti in realtà mansioni impiegatizie, per cui vi sarebbe contrasto con l'art. 3 Cost, stante la difformità di trattamento in relazione al posto di
lavoro, avendo invece la Corte costituzionale con la sentenza 6
luglio 1972, n. 121 (Foro it., 1972, I, 2730) dichiarato che la dif ferenza di trattamento tra impiegati e dirigenti è giustificata dalle
particolari caratteristiche della categoria di questi ultimi, la quale trova riscontro nella definizione data dalla giurisprudenza, defi nizione che non può riguardare la posizione di esso ricorrente che ha sostanzialmente svolto mansioni impiegatizie cosi come de finitivamente accertato dal primo giudice.
Con il terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli art. 2118 e 2119 cod. civ. in relazione al l'art. 360 cod. proc. civile.
Con tale mezzo viene censurato l'operato del tribunale per ave
re, pur ammettendo l'insussistenza di una giusta causa di risolu zione del contratto, convertito il licenziamento in tronco a lui intimato in licenziamento ordinario con preavviso in servizio, laddove, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cas
sazione, la sostituzione del preavviso lavorato con la suddetta indennità può avvenire soltanto con il consenso della parte non
recedente, per cui nella fattispecie il tribunale stesso avrebbe do vuto dichiarare l'obbligo della società di riammetterlo in servizio.
Esclusa quindi la possibilità, almeno limitatamente al periodo di preavviso, della conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento ordinario ad nutum, il ricorrente assume poi che il tribunale avrebbe dovuto condannare la società a rinno vare la manifestazione della propria volontà intesa alla risolu zione del rapporto, si da metterlo in condizioni di esercitare il diritto alla prosecuzione dell'attività lavorativa. Osserva quindi, che, producendo la prosecuzione dell'attività in periodo di preav viso effetti ulteriori sia economici che normativi sul trattamento del lavoratore in conseguenza anzitutto dell'entrata in vigore di
nuovi contratti collettivi, tali effetti si erano verificati nel suo caso in conseguenza dell'applicabilità di nuovo contratto colletti vo del 2 dicembre 1975 intervenuto durante il preavviso e con
tenente (art. 29, 2° comma) una forma di tutela in caso di licen
ziamento del dirigente e, in particolare, il riconoscimento del suo
diritto ad un'indennità supplementare, oltre alla tutela sindacale
introdotta in relazione al licenziamento immotivato.
Con il quarto motivo il ricorrente denunzia ulteriormente la
violazione degli art. 2118 e 2119 cod. civ. con riferimento al
l'art. 360, n. 3, cod. proc. civile.
Deduce al riguardo che, a seguito dell'entrata in vigore della
legge 15 luglio 1966 n. 604 e della legge 20 maggio 1970 n. 300
che hanno introdotto il principio della stabilità del rapporto di
lavoro, la conversione del licenziamento per giusta causa in li
cenziamento ad nutum deve ritenersi esclusa, per cui il relativo
negozio è ormai di natura causale.
Con il quarto motivo, infine, si lamenta che il tribunale abbia immctivatamente escluso la natura ingiuriosa del licenziamento
sebbene questo fosse stato disposto con modalità idonea ad inge nerare sospetti sulla sua integrità professionale e morale in rela
zione alle mancanze addebitategli. Tutto ciò richiamato, si osserva come i primi due motivi del
ricorso — che, essendo fra loro strettamente connessi, debbono
essere congiuntamente esaminati — siano privi di fondamento.
Il ricorrente deduce invero l'esistenza nell'ordinamento giuridico di una nozione legale della qualifica di dirigente che non trova
in esso affatto riscontro, laddove erroneo è l'assunto secondo cui
la norma di cui all'art. 2095 cod. civ. poteva essere solo riferita
al sistema dell'abrogato regime corporativo. Invero la copiosa ela
borazione dottrinale e giurisprudenziale sull'argomento ha chia
ramente individuato — in relazione al fondamentale precetto del
l'art. 39 Cost, ed al riscontro con la realtà sociale ed ai fattori
che in essa operano — la sfera di competenza delle associazioni
sindacali fra cui, nell'esercizio da parte di esse del primario po tere giuridico della contrattazione collettiva, va annoverata quel
la della determinazione delle qualifiche e delle mansioni dei la
voratori, il che trova del resto specifica corrispondenza, oltre che
nel suddetto art. 2095 cod. civ. nel dato testuale di cui all'art.
2071. 2° comma, dello stesso codice.
Sulla tematica possono peraltro essere richiamate le recenti sen
tenze di questa Suprema corte del 12 febbraio 1980, nn. 995 e
996 (id., Mass., 186) nelle quali pur delineandosi sul piano dei
Il Foro Italiano — 1981 — Parte I-100.
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1559 PARTE PRIMA 1560
principi la figura del dirigente nell'impresa come di colui che in
essa è investito delle funzioni di determinazione e di promozione della « politica economica aziendale » (sicché detta figura dovreb
be trovare riscontro solo in imprese di adeguate dimensioni ed
essere la relativa qualifica attribuita solo ad un ristrettissimo
numero di tali soggetti) è stato tuttavia ribadito — con riferi
mento peraltro a specifici precedenti di questa stessa Suprema corte — che, ove esista la contrattazione collettiva (il che esone
ra dal ricorso ai criteri, per il vero di assai relativa utilità, di
cui al r. d. 1. 13 novembre 1924 n. 1825; cfr. l'art. 25 disp. att.
cod. civ.), è in ogni caso esclusivamente ad essa che deve essere
fatto riferimento ai fini della concreta individuazione dei dati di
appartenenza alle singole categorie ivi compresa quella dirigen ziale. Pertanto il problema si riduce, in definitiva, a quello del
l'interpretazione delle clausole dell'autonomia collettiva, il che — ove essa sia di diritto comune — istituzionalmente compete al giudice di merito (sulla tematica della prevalenza della con
trattazione collettiva ai fini dell'individuazione delle mansioni e
delle qualifiche, cfr. ancora Cass. 11 gennaio 1980, n. 258, id.,
Mass., 53).
Posta dunque in subiecta materia tale primaria competenza dell'autonomia collettiva, che peraltro si giustifica con la speci fica esperienza delle associazioni sindacali per quanto concerne i
settori produttivi e la relativa organizzazione aziendale (cfr. per es. Cass. 13 maggio 1977, n. 1921, id., Rep. 1977, voce Lavoro
(rapporto), n. 315), rimane assorbita ogni altra considerazione
svolta nel ricorso. Peraltro la decisione 6 luglio 1972, n. 121 della
Corte costituzionale sulla legittimità dell'art. 10 legge 15 luglio 1966 n. 604 escludente l'operatività delle proprie disposizioni nei
riguardi dei dirigenti, cioè enunciando la loro applicabilità ai soli prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio « ai sensi dell'art. 2095 cod. civ. », richiamo questo indubbiamente significativo in relazione a quanto si è sopra ar
gomentato, non può essere in alcun caso interpretata a prescin dere dalla fonte tipica costituita dalla contrattazione collettiva che dal suddetto art. 2095 è espressamente richiamata, laddove il trattamento differenziato dei dirigenti, come la stessa Corte
costituzionale ha precisato, si giustifica con la diversa posizione ed i diversi diritti, attribuiti a coloro ai quali tale qualifica sia
riconosciuta (cfr. ancora Cass. 21 marzo 1980, n. 1922, id., 1981,
I, 832).
Si osserva ancora come dal ricorrente non siano poi elevate
specifiche censure circa i criteri seguiti dal giudice di merito nel
l'applicazione della contrattazione collettiva che lo riguarda, per cui neppure sotto un tale profilo la decisione impugnata può es
sere assoggettata a sindacato di legittimità. Si deve quindi, nell'ordine logico, esaminare il quarto motivo
con il quale si lamenta che il giudice d'appello abbia ritenuto
la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento
ad nutum, il che nella sentenza impugnata è stato enunciato con
il richiamo a precedenti giurisprudenziali di questa Suprema cor
te ed al criterio generale di conservazione dei negozi giuridici. Il problema, risolto costantemente in senso positivo da tale giu risprudenza (per es., fra le altre, nelle sentenze 18 febbraio 1961, n. 364, id., Rep. 1961, voce Lavoro (rapporto), n. 412, e 24 mag
gio 1968, n. 1590, id., 1968, I, 3021, nonché incidentalmente in
quella 6 giugno 1978, n. 2828, id., Rep. 1978, voce cit., n. 1202; sulla conversione del licenziamento per giusta causa in licenzia
mento per giustificato motivo v. la sentenza 27 ottobre 1973, n.
2800, id., 1974, I, 88), presenta indubbiamente profili di delica
tezza e ciò, non tanto in relazione alla disciplina di cui alla legge 15 luglio 1966 n. 604 ed allo statuto dei lavoratori che non sono
applicabili al licenziamento di chi rivesta la qualifica di dirigente (salvo il caso di provvedimenti di carattere discriminatorio a nor
ma degli art. 4 della legge e 15 dello statuto: cfr. Cass. 17 agosto 1977, n. 3781, id., 1978, I, 110), quanto piuttosto con riguardo ai
più generali principi giuridici. Infatti il licenziamento in tronco è
un negozio unilaterale nel quale la causa giuridica (risoluzione del
contratto di lavoro) è, per dettato di legge, specificamente conno
tata da una situazione oggettiva che rende impossibile, secondo
la formula di cui all'art. 2119 cod. civ., la prosecuzione ancorché
provvisoria del rapporto. Su tale elemento qualificatore della cau
sa del licenziamento (ipotesi, pertanto, in cui l'esercizio di un
potere giuridico, è correlato alla considerazione di specifiche ra
gioni, cosi come avviene ogniqualvolta l'ordinamento dà rilevan
za positiva ovvero negativa ai motivi dell'atto ai quali, invece,
per lo più rimangono ad esso indifferenti) è pertanto necessaria
mente proiettata la volontà del datore di lavoro che lo pone in
essere, volontà che a sua volta nel momento generatore è stata
determinata dalla rappresentazione della situazione oggettiva ri
conducibile alla previsione del suddetto art. 2119 cod. civile. Da
ciò consegue che, una volta accertata l'insussistenza nei riguardi
di un dipendente licenziato in tronco di una tale situazione og
gettiva ai fini dell'applicabilità della disposizione sulla conversio
ne del negozio giuridico nullo (e cioè, nella specie, di un nego zio che rivela la deficienza del requisito causale) di cui all'art.
1424 cod. civ. — il che è concettualmente senz'altro possibile —
è indispensabile che positivamente risulti che il datore di lavoro
avrebbe comunque egualmente proceduto al licenziamento di
quel dipendente anche a prescindere dal fatto da lui ritenuto
come integrante la giusta causa.
Invero la suddetta disposizione sulla conversione c. d. « sostan
ziale » non opera un diretto ed automatico intervento sul ne
gozio giuridico, come nelle tipiche ipotesi di « conservazione »
ricordate anche dal tribunale (intervento che è, nel contempo, eliminativo di alcuni elementi e di salvaguardia di altri), ma —
pur obbedendo ad una medesima esigenza (che trova del resto
un suo parallelo nel canone interpretativo di cui all'art. 1367
cod. civ.) — impone al giudice un'indagine sulla volontà della
parte onde sia accertato, tenuto conto dello scopo perseguito, che
essa avrebbe egualmente voluto il negozio e cioè — quanto al li
cenziamento in tronco — che il datore di lavoro lo avrebbe
egualmente intimato pur nell'assenza del fatto che era stato da
lui valutato come integrante una giusta causa. Ed invero, pur con
siderando che all'impostazione « volontaristica » della conver
sione del negozio giuridico nullo quale emerge dalla formulazione dell'art. 1424 cod. civ. ne è stata in dottrina contrapposta una
«oggettiva» (sulla c. d. conversione «formale»: cfr. per es. le
ipotesi di cui agli art. 607 e 2701 cod. civ.), allorquando però la
nullità del negozio è determinata proprio dalla carenza di ele
menti specifici che debbono necessariamente essere oggetto della
rappresentazione volitiva, com'è per l'appunto, il fatto integrativo della giusta causa del licenziamento in tronco, non è possibile in
tal caso non considerare espressamente l'intento dell'autore del
negozio, anche se nella relativa indagine il giudice può even tualmente altresì avvalersi di dati presuntivi — purché aventi i
requisiti di cui all'art. 2729, 1° comma, cod. civ. — che siano
desumibili, in particolare, dal comportamento dello stesso autore
dell'atto, contestuale e successivo al suo compimento.
Peraltro un tale tipo di ricerca dell'intento pratico del datore di lavoro si rivela di particolare importanza proprio quando non sia applicabile la disciplina garantistica di cui alla legge 15 lu
glio 1966 n. 604 e dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori (ove si
tratti, pertanto, di dipendenti di aziende non aventi le caratte ristiche di cui all'art. 11, 1° comma, della prima legge e 35 dello
statuto, oltreché di dirigenti in base all'art. 10 della stessa legge),
quando cioè il licenziamento non rimanga vincolato (a parte la
giusta causa) alle specifiche ipotesi di giustificato motivo (art. 3
legge n. 604), ma possa essere intimato ad nutum.
D'altra parte l'inapplicabilità della suddetta disciplina esclude che nei riguardi del licenziamento dei dirigenti possa farsi ri chiamo a quei criteri il cui ambito di operatività è stato da tale
stessa disciplina chiaramente e rigorosamente delimitata. Conse
guentemente non possono avere ingresso nella presente causa quei rilievi che, per negare la conversione del licenziamento intima
togli, il ricorrente ha basato su tale disciplina erroneamente so stenendo anche nei propri riguardi il carattere c. d. «causale», del licenziamento. Peraltro il ricorrente medesimo non ha sollevato alcun'altra censura al criterio adottato dalla sentenza impugnata nel ritenere come avvenuta nella fattispecie la conversione del ne
gozio di licenziamento né al mancato espletamento da parte del
giudice d'appello — secondo quanto si è sopra illustrato — di una specifica indagine sull'elemento volitivo, laddove nella me moria non sono state mosse obiezioni sul piano concettuale: tale
punto, attinente alla concreta valutazione operata dal giudice
d'appello, non può pertanto essere oggetto di sindacato da parte di questa Suprema corte e il motivo, pur ribadendosi le precisa zioni sopra svolte, deve essere ritenuto infondato.
Parimenti infondato è il terzo motivo concernente l'efficacia reale del preavviso. Invero il giudice d'appello, nel riconoscere
il diritto dell'Arditi all'indennità di preavviso, non ha negato tale
pacifico principio (v. al riguardo, per es., Cass. 22 aprile 1977, n.
1523, id., Rep. 1977, voce cit., n. 913), ma non ha avuto la ne cessità di farne concreta applicazione ed infatti, mentre tale in dennità è stata calcolata sulla base di una retribuzione il cui ammontare — determinato nel giudizio di primo grado — non era stato oggetto di contestazione, il profilo del sopraggiungere, durante il periodo di preavviso ancorché non lavorato, di nuove norme collettive si presenta del tutto nuovo e non è pertanto esa minabile in questa sede (cfr., per es., Cass. 20 marzo 1975, n.
1058, id., Rep. 1975, voce Cassazione civile, n. 58). Il tribunale ha peraltro rilevato l'assenza di tempestiva domanda in relazione al prolungamento del preavviso per malattia.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Infondato è, infine, anche il quinto motivo attinente alla de dotta ingiuriosità del licenziamento. Va in proposito rilevato che il tribunale — come riferito nella parte narrativa della presente decisione — ha specificamente indicato le ragioni dell'esclusione di tale elemento, col che ha assolto l'obbligo di una congrua mo
tivazione in ordine ad un punto che di per sé non può che costi tuire oggetto di un tipico accertamento di fatto, come tale esu
lante dall'ambito del giudizio di legittimità ove al riguardo vi
sia, per l'appunto, adeguata motivazione (cfr., per es., Cass. 12
agosto 1969, n. 2975, id., Rep. 1969, voce Lavoro (rapporto), n.
658). Non va peraltro dimenticato che la prova in proposito in
combe al prestatore di lavoro (cfr., per es., Cass. 17 maggio 1971, n. 1451, id., Rep. 1971, voce cit., n. 691) e deve riflettere dei
comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con dolo o
colpa, di natura tale, specie per la pubblicità data al provvedi mento di licenziamento, da ripercuotersi in modo lesivo sull'onore
e decoro del lavoratore medesimo (cfr., per es., Cass. 22 ottobre
1976, n. 3792, id., Rep. 1976, voce cit., n. 833), il che nella fat
tispecie — tenuto conto della riservatezza con cui la società re
sistente aveva agito — è stato esattamente escluso dal giudice
d'appello. In base alle suesposte ragioni il ricorso deve essere pertanto
respinto. (Omissis) Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 29 aprile
1981, n. 2630; Pres. A. Alibrandi, Est. Tondo, P. M. Gazzara
(conci, conf.); Bonucci (Avv. P. Pugliese, Orienti, Mingione)
c. Soc. Esso italiana (Avv. Zanchini, Mensi). Conferma App. Firenze 30 aprile 1976.
Lavoro (rapporto) — Gestione di impianto di distribuzione di
carburante — Natura del rapporto — Lavoro subordinato o
autonomo — Esclusione — Competenza del giudice del lavoro — Insussistenza '(Cod. civ., art. 2094, 2222; cod. proc. civ.,
art. 409). Idrocarburi — Gestione di impianto di distribuzione di car
burante — Comodato gratuito — Termine di durata mi
nima novennale — Inserzione automatica — Esclusione (Cod.
civ., art. 1339; d. 1. 26 ottobre 1970 n. 745, provvedimenti straordinari per la ripresa economica, art. 16; legge 18 di
cembre 1970 n. 1034, conversione in legge, con modificazioni,
del d.l. 26 ottobre 1970 n. 745; d. pres. 27 ottobre 1971 n.
1269, norme per l'esecuzione dell'art. 16 d. l. 26 ottobre 1970
n. 745, convertito in legge, con modificazioni, con la legge 18 dicembre 1970 n. 1034, riguardante la disciplina dei di
stributori automatici di carburante per autotrazione, art.
18, 19). Locazione — Locazione di bene aziendale — Assoggettamento
al regime vincolistico — Esclusione (Cod. civ., art. 1571,
2555).
Il rapporto intercorrente tra concessionario e gestore di un im
pianto per la distribuzione di carburante non è di lavoro
autonomo o subordinato, e può iscriversi tra quelli previsti dall'art. 409, n. 3, cod. proc. civ. solo quando la prestazione del
gestore abbia carattere prevalentemente personale. (1) Il termine di durata minima novennale per i contratti di affida
mento in gestione di impianti per la distribuzione di carburan
te, previsto dall'art. 16 d.l. 26 ottobre 1970 n. 745, non è
suscettibile di inserzione automatica ai sensi dell'art. 1339 cod.
civile. (2) Il contratto di locazione avente ad oggetto un bene aziendale è
sottratto al regime vincolistico (nella specie, è stato ritenuto che
il contratto di locazione relativo ad un'officina — elemento
accessorio di un complesso aziendale concesso, per la parte
restante, in comodato gratuito, venuto poi meno per il recesso
del comodante — non fosse soggetto a proroga). (3)
(1-3) Sulla seconda parte della massima n. 1, cfr. in senso sostan
zialmente conforme Cass. 25 giugno 1980, n. 3996, nonché Trib. Roma
19 dicembre 1980, 7 giugno 1980, 19 maggio 1980, tutte in Foro it.,
1981, I, 802, con nota di R. Pardolesi, Potere contrattuale, autonomia
e subordinazione: note in margine ai (difficili) rapporti tra società
petrolifere e gestori di stazioni di servizio. Inedita, invece, la pronunzia del Tribunale di Roma in data 7 marzo 1981, Pres. CampennI, Est.
Millo, Soc. A.g.i.p. c. Di Leva, secondo cui «... il gestore impegnato con la propria personale attività nella conduzione dell'impianto ... si
inserisce nella organizzazione commerciale della società petrolifera e
collabora con questa in modo continuativo e coordinato con le esigenze di distribuzione dei prodotti della società stessa ».
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Con citazione notificata il 29 marzo 1934 la s.p.a. Esso italiana conveniva in
giudizio avanti al Tribunale di Montepulciano Quinto Raffaello Bonucci per sentirlo condannare al rilascio di una stazione di
servizio, posta lungo l'autostrada del Sole nell'area di servizio
Montepulciano Est ed affidatagli in gestione a titolo di comodato
La generalità dell'affermazione iniziale è, invece, apertamente con traddetta da Trib. Roma 19 dicembre 1980, cit. (come pure da Trib. Roma 7 marzo 1981, cit.: « il collaboratore rimane un autonomo prestatore di opera e non è un lavoratore subordinato, ma svolge un'attività che se da una parte realizza insieme l'interesse del gestore e quello della società petrolifera [vendita di prodotti], dall'altra si inserisce nel quadro programmato e coordinato della cosi detta ' commercializzazione ' dei prodotti e costituisce il supporto per l'espansione del mercato dell'impresa produttiva »); e non si può far a meno di osservare che l'armamentario argomentativo utilizzato dalla sezione lavoro riedita tralatiziamente taluni luoghi comuni,— collega mento funzionale tra un contratto di comodato ed uno di somministra zione, carattere (ineluttabilmente) imprenditivo dell'attività svolta dal comodatario gestore, natura di oneri modali (o, al massimo, di obblighi limitativi dell'uso, inidonei ad attribuire al negozio carattere oneroso) dei vincoli imposti a quest'ultimo — che la giurisprudenza di merito ha sottoposto, di recente, ad incisiva revisione critica.
Dove, però, l'iter della sentenza su riportata si fa più sconcertante è la sintetica trattazione del secondo motivo di ricorso. Vi si censurava la sentenza d'appello per non aver applicato, ad un contratto in corso all'atto dell'emanazione della normativa del '70, il termine minimo novennale ivi stabilito. La corte schiva ogni questione di ius superve niens col dire, semplicemente, che la previsione legislativa sulla durata del comodato non si presta all'inserzione automatica. E ciò per due motivi: innanzi tutto perché * trattasi di norma priva di carattere imperativo » (affermazione quanto meno apodittica, a fronte dell'ine
quivoco tenore letterale della legge — l'art. 19 d. pres. 1269/1971 recita: « Il [contratto per la gestione dell'impianto] deve avere una durata non inferiore a nove anni » — e del diffuso convincimento circa la volontà del legislatore di garantire un minimo di stabilità ad un rapporto contrassegnato da una marcata disparità di potere contrat tuale: cfr., per tutti, L. V. Moscarini, Mistificazione giuridica e interessi reali del lavoratore: un'ipotesi limite, in Tecniche giuridiche e
sviluppo della persona, a cura di N. Lipari, Bari, 1974, 481, 485); e
poi perché l'unica sanzione all'inosservanza della prescrizione normati va sarebbe costituita dalla decadenza dalla concessione, ex art. 18 del su menzionato d. pres. (quasi che la « sostituzione d'imperio » di clausole contrattuali potesse aver luogo nei soli casi in cui sia esplicitamente disposta dall'indice normativo contenente le determinazioni che devono
comunque rifluire in contratto: a voler seguire una logica siffatta, il
provvedimento amministrativo che fissi prezzi d'imperio non esiterebbe nell'automatica correzione di quelli, diversi, convenuti dalle parti, tanto
più che l'inottemperanza al calmiere è repressa sul piano penale ...). Nella circostanza, peraltro, la corte non fa che rieditare quanto già sostenuto da Cass. 6 febbraio 1978, n. 555, Foro it., Rep. 1978, voce Contratto in genere, n. 225, in extenso in Giust. civ., 1978, I, 901, con nota adesiva di È. Caputo, Sui criteri di determinazione del carattere
imperativo di una norma, in cui si sottolineava, tra l'altro, l'incongruità della continuazione ex lege del rapporto rispetto alla comminatoria della decadenza dalla concessione. In effetti, la distonia sussiste: il citato art. 18 chiama in causa l'« inosservanza degli obblighi imposti dall'art. 16» d. 1. 745/1970, obblighi che — sia detto per inciso —
vanno bene al di là della vicenda contrattuale tra concessionario e
gestore. Non par dubbio, tuttavia, che una parte della disposizione fosse indirizzata ad alleviare l'accentrata dipendenza economica dei
gasoline dealers (basti por mente alla previsione del diritto alle ferie); sf che il far di tutte le erbe un fascio, profittando di una formulazione
poco felice, finisce con l'alimentare il sospetto che sia tradita la vera mens legis. Non si deve dimenticare che, come ha efficacemente osservato Trib. Roma 7 giugno 1980, cit-, il gestore ha, « almeno
potenzialmente, un interesse vitale alla permanenza del rapporto », da cui deriva i mezzi di sostentamento; e tale interesse non è certo soddisfatto dalla « punizione » eventualmente irrogata alla società
petrolifera. Un rilievo, infine, in ordine alla terza massima. Avallando il
ragionamento dei giudici di merito, la Cassazione statuisce che il contratto di locazione (rectius, affitto) di un bene aziendale non può non seguire il regime del complesso cui funzionalmente pertiene: quanto basta per escludere, nel solco di un insegnamento consolidato,
l'operatività di qualsivoglia proroga. Senonché, chi parta da un concet to rigoroso di azienda stenterebbe a riconoscere, nella giustapposizione di impianto per l'erogazione ed officina, un complesso di beni (già) organizzati dall'imprenditore (anche se ormai la giurisprudenza non esita ad ammettere che non occorre un « avviamento », ma basta che
la produttività sia « conseguenza potenziale, prevista dalle parti »: cfr. Cass. 24 novembre 1980, n. 6243, Foro it., Mass., 1185; 11 giugno 1979, n. 3287, id.. Rep. 1979, voce Azienda, n. 14; 20 febbraio 1979, n. 1089, ibid., n. 10; 26 luglio 1978, n. 3754, id., Rep. 1978, voce cit., n. 12; 25 agosto 1977, n. 3861, id., Rep. 1977, voce cit., n. 12; assai di
recente, il principio è stato ribadito da Cass. 21 marzo 1981, n. 1660, Pres. Speziale, Est. Guerrieri, Soc. A.D.P. c. Soc. A.g.i.p., inedita, in
margine ad una controversia in cui il gestore della stazione invocava, senza fortuna, l'applicazione della legge 392/1978). C'è da riconoscere, comunque, che il ricorso alla nozione di « opificio » o « stabilimento »
(caldeggiato, ad es., da E. Romagnoli, Affitto. Disposizioni generali, in
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