sezione lavoro; sentenza 4 giugno 2002, n. 8110; Pres. Sciarelli, Est. Mammone, P.M. Matera(concl. parz. diff.); Trentin e altri (Avv. Paladin) c. Inps (Avv. Morielli, Todaro, Cantarini,Tadris). Cassa Trib. Treviso 19 ottobre 1998Source: Il Foro Italiano, Vol. 125, No. 10 (OTTOBRE 2002), pp. 2661/2662-2671/2672Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23196837 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
zione, la quale, dunque, segnerà il momento unitario di tratta
zione delle singole contestazioni, che mirano alla variazione
dello stato passivo, salva soltanto la possibilità di separazione
prevista dal 2° comma dell'art. 99. Sicché, pur potendo per cia
scuno degli opponenti variare il dies a quo del termine per l'op
posizione, in relazione alla data della comunicazione ricevuta
dal curatore — avuto riguardo alla dichiarazione d'illegittimità costituzionale del 1° comma dell'art. 98, di cui alla sentenza 22
aprile 1986, n. 102 della Corte costituzionale — l'udienza di
comparizione servirà a rendere uniformi i tempi di trattazione e
decisione, cui parteciperanno concorsualmente tutti i creditori
opponenti; risultato che sarebbe impedito dall'eventuale proro
ga che fosse concessa dal giudice, la quale, potendo incidere sui
tempi che debbono intercorrere tra costituzione ed udienza di
comparizione, al punto da determinarne lo slittamento in avanti, finirebbe per alterare il meccanismo della concorsualità, crean
do distonie suscettibili di proliferazione di procedimenti separati e non più confluenti in unica decisione in modo unitario, in
contrasto con il disposto dell'art. 99, cpv., 1. fall., che l'eccezio
nale ipotesi della separazione rimette alla valutazione esclusiva
del giudice, peraltro, nel solo caso che delle opposizioni alcune
siano mature ed altre no.
Al di là, dunque, delle generali definizioni processualcivili stiche è in re ipsa la perentorietà del termine di cui si tratta —
sulla quale pressoché concorde è la dottrina, mentre mancano
specifici precedenti di questa corte — a nulla giovando in senso
contrario la circostanza che al termine perentorio facciano
espresso riferimento gli art. 100, 101 e 102 1. fall., argomento da
cui una dottrina minoritaria ricava l'opposta conclusione, nel
segno della riaffermazione nel sistema fallimentare della vigen za generale dell'art. 152 e dell'art. 154 c.p.c., all'insegna del
brocardo ubi lex voluit dixit.
Tale argomento, inteso a valorizzare i principi processualci vilistici, sui quali fanno leva le ricorrenti nei loro mezzi di gra vame, non può essere condiviso, proprio perché trascura la spe ciale ratio più sopra identificata del procedimento di opposizio ne a stato passivo, della quale non partecipano i procedimenti di
impugnazione e di revocazione dei crediti ammessi e di insinua
zione tardiva, che, pur essendo idonei a modificare il risultato
dello stato passivo verificato, non ne costituiscono una proie
zione, tendendo i primi due ad una sua revisione, ma nel senso
di escludere crediti dal passivo e quindi in melius per la massa
dei creditori, ed il secondo ad una dilatazione delle passività, ma non attraverso la revisione di provvedimenti giudiziali, che
mancano, essendo l'insinuazione successiva al decreto di ese
cutività dello stato passivo e cioè alla chiusura della verifica or
dinaria, coincisa con lo scioglimento dell'adunanza dei credito
ri.
Sicché, se l'opposizione riapre la fase della verifica, rispetto alle esclusioni e alle ammissioni con riserva di pretese credito
rie, alla presenza di tutti gli opponenti e del curatore, ripristi nando il principio di concorsualità, che resterebbe vanificato da
una trattazione separata delle opposizioni, l'impugnazione e la
revocazione dei crediti ammessi non comportano quella riaper
tura, perché non mirano ad insinuazioni aggiuntive, in danno dei
creditori già ammessi al passivo, ma al contrario all'eliminazio
ne di alcune passività; per cui la perentorietà dei termini previ sta dagli art. 100 e 102 è frutto di una scelta del legislatore e
non di un'intrinseca esigenza del sistema, che non applica, neanche nel giudizio di impugnazione ex art. 100 1. fall., più dell'altro affine all'opposizione allo stato passivo, la regola della cumulatività sin dall'inizio, favorendo l'unitarietà dei pro
cedimenti, persino con quello sulle opposizioni, solo in seguito, nelle fasi dell'istruzione e della decisione, con l'effetto che
mentre la mancanza di espressa previsione del carattere perento rio negli art. 100 e 102 non avrebbe consentito l'automatica de
cadenza, divenendo quel termine suscettibile di proroga in
quanto ordinatorio, analoga assenza nell'art. 98 non produce il
medesimo effetto.
Ragioni diverse militano nella comparazione del testo di tale
articolo con quello dell'art. 1011. fall., per il quale, non essendo
in discussione una precedente verifica e non essendo censurato
un provvedimento del giudice delegato, alla cui emanazione ab
bia contribuito l'adunanza dei creditori, non è invocabile l'esi
genza della cumulatività, sicché anche in questo la perentorietà del termine risulta concepita dal legislatore in chiave accelerato
ria, secondo le caratteristiche del procedimento fallimentare e
Il Foro Italiano — 2002.
dei suoi subprocedimenti, in relazione all'esigenza che esso ab
bia sollecito corso, con l'effetto che, ove fosse mancata la sua
specificazione, il termine sarebbe rimasto aperto, quanto nelle
altre ipotesi, alla possibilità della proroga. Le considerazioni svolte giovano alla rilevabilità di ufficio
dell'inosservanza del termine previsto dall'art. 98, 2° comma, ultima parte, 1. fall., essa investendo un interesse di ordine pro cessuale che trascende quello dei singoli, in quanto tutela non
solo la sollecita, ma anche coordinata ed unitaria trattazione
delle opposizioni, secondo lo schema della verifica ordinaria, che affida all'adunanza dei creditori e non al singolo la valuta
zione di ciascuna pretesa; con l'effetto di sottrarre la materia
alla disponibilità delle parti, curatore e creditore inosservante
del termine concesso.
Né può rilevare l'assunto che, comunque, nella specie l'inter
vallo temporale tra notifica del ricorso e del decreto del giudice
delegato, a termine già scaduto, e udienza di comparizione fosse
tanto ampio da consentire la rituale costituzione del curatore, atteso che la conseguenza della riconosciuta perentorietà è la
decadenza, senza alcuna possibilità di valutazione della concreta
incidenza dell'inosservanza sull'effettività degli specifici inte
ressi protetti.
Quanto, infine, al terzo motivo di censura, al pari degli altri
infondato, è sicuramente gratuita la doglianza relativa al vizio
motivazionale, avendo la sentenza impugnata sulla dedotta cau
sa di forza maggiore, legata al ritardo della cancelleria di rila
sciare le copie da notificare, fornito puntuali ragioni del contra
rio convincimento, affermando che dal 22 novembre 1995 in cui
il difensore del Banco Ambrosiano Veneto aveva preso visione
del decreto, vi erano ancora venti giorni per ottenere il rilascio
delle copie da notificare.
Ma infondata è anche la denunzia di violazione di legge, pro
spettata senza alcuna indicazione delle norme violate e in realtà
introdotta al fine di conseguire il riesame dei fatti che hanno
condotto al giudizio della corte di merito di insussistenza di sif
fatta causa di forza maggiore, insindacabile in sede di legitti mità.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 4 giugno
2002, n. 8110; Pres. Sciarelli, Est. Mammone, P.M. Matera
(conci, parz. diff.); Trentin e altri (Avv. Paladin) c. Inps
(Avv. Morielli, Todaro, Cantarini, Tadris). Cassa Trib.
Treviso 19 ottobre 1998.
Lavoro (rapporto di) — Dipendenti di imprese assoggettate
a procedure concorsuali — Danno per mancata attuazione
di direttiva Cee — Prescrizione — Decorrenza (Cod. civ., art. 2935; d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, attuazione della diret
tiva 80/987/Cee, in materia di tutela dei lavoratori subordinati
in caso di insolvenza del datore di lavoro, art. 2).
Ai fini del riconoscimento ai dipendenti di impresa sottoposta a
procedura concorsuale dell'indennità per il danno derivante
dalla mancata attuazione della direttiva 80/987/Cee, prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, il termi
ne di prescrizione del diritto decorre dal momento dell'en
trata in vigore del detto d.leg. n. 80 del 1992. (1)
(1-2) Le pronunce in epigrafe segnalano una netta divergenza di
opinioni, all'interno della sezione lavoro della Corte di cassazione, sul
punto della definizione del momento dal quale decorre il termine di
prescrizione del diritto all'indennità dovuta dall'Inps, ai sensi dell'art.
2, 7° comma, d.leg. n. 80 del 1992, ai lavoratori pregiudicati dalla tar
diva trasposizione nel nostro ordinamento della direttiva 80/987/Cee. Atteso che la richiamata disposizione prevede espressamente che l'a
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2663 PARTE PRIMA 2664
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 9 aprile 2001, n. 5249; Pres. Annunziata, Est. Prestipino, P.M. Nar
di (conci, conf.); Pederzoli e altri (Avv. Andreoni, Piccinini) c. Inps (Avv. Todaro, Morielli, Cantarini, Tadris). Con
ferma Trib. Bologna 20 novembre 1997.
Lavoro (rapporto di) — Dipendenti di imprese assoggettate
a procedure concorsuali — Danno per mancata attuazione
di direttiva Cee — Prescrizione — Decorrenza (Cod. civ., art. 2935; d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, art. 2).
Ai fini de! riconoscimento ai dipendenti di impresa sottoposta a
procedura concorsuale dell'indennità per il danno derivante
dalla mancata attuazione della direttiva 80/987/Cee, prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, il termi
ne di prescrizione del diritto decorre dalla data di dichiara
zione di fallimento dell'impresa, ancorché antecedente al
l'entrata in vigore del detto d.leg. n. 80 del 1992. (2)
I
Svolgimento del processo. — Con separati ricorsi al Pretore
di Treviso depositati in data 20 febbraio 1993 Trentin Lisiana ed
altri venti ricorrenti esponevano di aver lavorato alle dipendenze di varie ditte, tutte dichiarate fallite prima del 29 febbraio 1992, di essere rimasti creditori di vari importi a titolo di retribuzioni
arretrate e di essere stati ammessi per tali titoli al passivo delle
relative procedure concorsuali. Rilevando che lo Stato italiano
zione per la corresponsione dell'indennità «va promossa entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (termine di deca denza relativo all'azione in giudizio), è controverso se l'insorgere del
presupposto del diritto (nella specie, la dichiarazione di fallimento del
l'impresa) in epoca anteriore all'approvazione del provvedimento di
legge determini, o meno, il decorso del termine di prescrizione, con
conseguente, eventuale estinzione ante tempus della situazione giuridi ca soggettiva.
Nella prima massima, la Suprema corte accoglie un'impostazione di netto favore per i ricorrenti e, smentendo le due pronunce di merito —
che avevano accertato l'avvenuta prescrizione quinquennale del diritto
all'indennità, facendo decorrere il dies a quo a partire dalla data di fal limento dell'impresa — statuisce che, nella misura in cui «il legislatore ha definito in maniera autonoma il regime risarcitorio, contemperando il diritto al risarcimento con le esigenze di certezza rivendicati va e di definizione finanziaria del sistema, regolando l'esperimento delle azio ni con la previsione di un termine di decadenza di un anno (. . .) appare coerente far decorrere la prescrizione dal momento stesso in cui il di ritto al risarcimento viene riconosciuto e cioè dall'entrata in vigore del decreto n. 80 del 1992, in applicazione del principio desumibile dal l'art. 2935 c.c., per il quale la prescrizione comincia a decorrere dal
giorno in cui il diritto può essere fatto valere». La corte richiama, a so
stegno della propria tesi, reiterate affermazioni della Corte di giustizia riguardo alla necessità che gli Stati membri adottino misure in materia di risarcimento del danno tali da rendere non eccessivamente diffìcile il riconoscimento dello stesso (con specifico riferimento alla fattispecie in
questione, v. Corte giust. 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani, in Foro it., 1998, IV, 215, con nota di G. Ricci; 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich, id., 1992, IV, 145, cui adde Corte
giust. 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmott, id., 1993, IV, 324, con nota di Dillich).
Tale orientamento risulta però tutt'altro che pacifico nella giurispru denza di legittimità. Ancora di recente, la Cassazione ha infatti soste nuto l'assunto opposto (cfr. la seconda massima in epigrafe). Dando ri lievo centrale al fatto che l'azione tendente ad ottenere l'indennizzo, ora esercitata nei confronti dell'Inps, poteva essere promossa già prima dell'entrata in vigore del d.leg. n. 80 del 1992 nei confronti del governo italiano, la Suprema corte ha concluso che, dal punto di vista sostan
ziale, il danno fosse certamente già configurabile all'epoca in cui si è manifestata l'insolvenza del datore di lavoro, ancorché la direttiva co munitaria non avesse trovato attuazione, decorrendo dunque da quel momento il relativo termine di prescrizione quinquennale (nello stesso
senso, cfr. Cass. 22 luglio 1999, n. 7922, id.. Rep. 1999, voce Lavoro
(rapporto), n. 1367). La disciplina del d.leg. n. 80 del 1992 ha ingenerato complessi pro
blemi interpretativi: v., per tutti, Cass. 4 giugno 1999, n. 5524, 9 feb braio 1999, n. 1106, e 6 giugno 1998, n. 5591, id., 1999, I, 3248, con nota di O. Ricci, cui si rinvia per ampi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali.
Il Foro Italiano — 2002.
aveva dato esecuzione alla direttiva comunitaria 80/987, sulla
tutela dei lavoratori dipendenti di datori in condizione d'insol
venza, solo con il d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, convenivano in
giudizio l'Inps e la presidenza del consiglio dei ministri per es
sere risarciti del danno subito a seguito della mancata attuazione
di detta direttiva.
Costituitisi in giudizio i convenuti, il pretore, riunite le cause,
con sentenza non definitiva del 23 marzo 1995 dichiarava il di
fetto di legittimazione passiva della presidenza del consiglio dei
ministri e dichiarava che era l'Inps il soggetto tenuto a corri
spondere l'indennità per il danno derivato dalla mancata attua
zione della direttiva, prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg.
80/92, da liquidarsi in separata sede. Con successiva sentenza
del 2 aprile 1998, lo stesso pretore determinava detta indennità e
condannava l'Inps al pagamento in favore di quei ricorrenti che
non erano stati soddisfatti in sede concorsuale.
Proponeva appello l'Inps lamentando l'errata fissazione del
momento iniziale della decorrenza della prescrizione quinquen
nale, l'erronea indicazione della data di decorrenza degli inte
ressi e della rivalutazione, la violazione dell'art. 2, 4° comma, a
proposito di non cumulabilità degli acconti ricevuti dal datore di
lavoro con l'indennità dovuta.
Costituitisi gli appellati in secondo grado, il tribunale con
sentenza del 19 ottobre 1998 accoglieva l'appello. Il giudice di
merito qualificava come aquiliana la responsabilità dello Stato
per la mancata ottemperanza all'obbligo comunitario. La viola
zione del diritto dei lavoratori italiani ad essere tutelati dalle
pubbliche istituzioni per il pagamento delle retribuzioni non
corrisposte dai datori di lavoro insolventi si era concretata nel
momento in cui, spirato il termine del 23 ottobre 1983 fissato
agli Stati membri dalla direttiva 80/987 per dare esecuzione alle
proprie disposizioni, lo Stato italiano non aveva adempiuto al
l'obbligo comunitario. I lavoratori interessati avrebbero potuto
esperire l'azione risarcitoria fin dal momento dell'insorgenza dell'illecito e, comunque, dal momento dell'insolvenza del da
tore. Conseguentemente, la prescrizione quinquennale del loro
diritto decorreva dalla sentenza dichiarativa del fallimento del
loro datore, in cui era stata formalmente accertata detta insol
venza. Essendo le sentenze dichiarative tutte antecedenti al
1987 e non essendo stata la prescrizione interrotta prima della
data di deposito dei ricorsi introduttivi (20 febbraio 1993), il di ritto fatto valere in giudizio dagli appellati era da ritenere pre scritto.
Ritenuti assorbiti gli altri motivi, il tribunale rigettava le do
mande.
Avverso questa sentenza propongono ricorso Trentin Lisiana
e gli altri lavoratori indicati in epigrafe. L'Inps resiste con con
troricorso.
Motivi della decisione. — I ricorrenti con il primo motivo de
ducono violazione dell'art. 2 d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80 e
della direttiva 80/987, nonché carenza di motivazione. Sosten
gono i ricorrenti che il diritto al risarcimento sarebbe nato alla
data dell'entrata in vigore del decreto legislativo e che, pertanto, i termini previsti dal diritto nazionale per agire in giudizio co
minciano a decorrere solo dal momento in cui i singoli lavorato
ri furono posti in grado di aver cognizione del proprio diritto, e
cioè dalla data suddetta (o, al limite, dal 19 novembre 1991, data della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità euro
pee, Foro it., 1992, IV, 145, che riconobbe il diritto di un citta
dino italiano ad essere risarcito dallo Stato per l'inattuazione
della direttiva 80/987). In ogni caso il danno dei lavoratori non poteva ritenersi rea
lizzato prima della chiusura del fallimento, in quanto solo a quel momento avrebbe potuto realizzarsi l'essenziale condizione del
mancato pagamento del credito di lavoro. La prescrizione avrebbe potuto, pertanto, decorrere solo dal momento di tale
chiusura.
Con il secondo motivo sono ulteriormente dedotte violazione
di norme di diritto e carenza di motivazione. Avrebbe errato il
tribunale a qualificare come illecito extracontrattuale la respon sabilità dello Stato italiano per l'inattuazione della direttiva
80/987, in ciò male interpretando la giurisprudenza della Corte
di cassazione sul punto. La prestazione richiesta dagli attori
aveva, invece, carattere indennitario e non risarcitorio ed era,
pertanto, soggetta a prescrizione decennale e non quinquennale. Con il terzo motivo è dedotta violazione dell'art. 2935 c.c. e
carenza di motivazione. Deduce parte ricorrente che per alcuni
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
degli attori la data del fallimento del datore di lavoro era inter
venuta in data compresa nel quinquennio antecedente al depo sito del ricorso introduttivo, e precisamente: Andreetto: senten
za 19 maggio 1988; Mattiuzzi: sentenza 24 aprile 1989; Bordi
gnon: sentenza 6 novembre 1989; Donnarumma: sentenza 28
giugno 1990; Camerin: sentenza 16 maggio 1991; Dal Zotto:
sentenza 29 aprile 1991; De Marco: sentenza 29 aprile 1991; Armellin: sentenza 3 luglio 1991.
Conseguentemente, proprio in forza del principio enunziato
dal giudice di merito, erroneamente sarebbe stato ritenuto ormai
decorso il termine di prescrizione alla data del deposito del ri
corso introduttivo (20 febbraio 1993). Il ricorso è fondato.
Preliminarmente deve procedersi ad un rapido inquadramento della problematica oggetto della controversia.
La direttiva del consiglio della Cee del 20 ottobre 1980 n.
80/987, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di tutela dei lavoratori subordinati in
caso d'insolvenza del datore di lavoro, prevede che gli Stati
membri adottino misure legislative affinché appositi organismi
pubblici assicurino il pagamento dei crediti dei lavoratori su
bordinati maturati prima dell'accertamento dell'insolvenza del
datore, relativamente ad un periodo di tempo prefissato. Nel
l'ordinamento italiano l'attuazione della direttiva è avvenuta
con il d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, il quale ha previsto che il
fondo di garanzia di cui alla 1. 29 maggio 1982 n. 297, sia tenuto
a pagare i crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del rap
porto rientranti nei dodici mesi anteriori allo stato d'insolvenza, in misura non eccedente il triplo del trattamento straordinario di
integrazione salariale mensile, al netto delle trattenute previden ziali (art. 1-2).
L'attuazione della direttiva nell'ordinamento interno è stata
frutto di un travagliato iter giuridico ed istituzionale. Come no
to, l'art. 11 della direttiva prevedeva che gli Stati membri della
Comunità dessero esecuzione alle sue disposizioni «entro tren
tasei mesi a decorrere dalla sua notifica», ovvero, entro la data
del 23 ottobre 1983. Lo Stato italiano, tuttavia, non procedette a
detta esecuzione e fu, ai sensi degli art. 169 e 171 (vecchia nu
merazione) del trattato di Roma, sottoposto dalla commissione
europea alla procedura di accertamento dell'inottemperanza, conclusasi con la sentenza della Corte di giustizia del 2 febbraio
1989 (ibid., 22) che riconosceva che lo Stato aveva mancato al
l'obbligo di esecuzione.
A seguito di questo accertamento alcuni lavoratori che si rite
nevano potenzialmente lesi dalla (perdurante) inattuazione della
direttiva, convennero in giudizio lo Stato italiano dinanzi al
giudice nazionale per ottenere il risarcimento dei danni a loro
derivati. Investita in sede di pronunzia pregiudiziale dallo stesso
giudice nazionale, la Corte di giustizia affermò l'esistenza del
principio comunitario della responsabilità dello Stato per i danni
causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad esso
imputabili (derivante dall'art. 5 del trattato, per il quale gli Stati
membri sono tenuti ad adottare tutte le misure idonee ad assicu
rare nell'ordinamento interno l'esecuzione degli obblighi co
munitari) (sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e
C-9/90, Francovich, cit.). Pertanto, il d.leg. n. 80 del 1992, all'art. 2, prevede che, no
nostante l'intervento del fondo di garanzia possa essere richie
sto solo nel caso che le procedure di cui all'art. 1 (concordato
preventivo, amministrazione straordinaria, liquidazione coatta o
fallimento) siano intervenute dopo l'entrata in vigore del de
creto stesso (6° comma), è, tuttavia, ammessa un'indennità «per il danno derivante dalla mancata attuazione della direttiva
80/987», da liquidarsi secondo le misure e le modalità dei pre cedenti 1°, 2° e 4° comma (7° comma). Tale forma di risarci
mento doveva essere proposta entro un anno dall'entrata in vi
gore del decreto.
Tanto premesso, e passando all'esame del primo motivo di ri
corso, deve rilevarsi che, nel caso di specie, l'originaria richie
sta di risarcimento è stata ricondotta nell'ambito dell'indennità
riconosciuta dalla norma appena indicata. Pur essendo l'azione
esercitata entro l'anno, si discute se il diritto si sia prescritto e,
in particolare, di quale sia il momento dal quale inizia il decorso
della prescrizione. Al riguardo deve rilevarsi che la Corte di giustizia, con la già
richiamata sentenza 19 novembre 1991, ha formulato il princi
pio per cui dalla violazione degli art. 5 e 189 del trattato istituti
vo della Comunità europea — in forza dei quali gli Stati membri
li. Foro Italiano — 2002.
sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o
particolare atte ad assicurare l'esecuzione dei doveri derivanti
dal diritto comunitario — discende l'obbligo dello Stato ina
dempiente di risarcire il danno subito dai singoli cui l'attuazio
ne della direttiva avrebbe attribuito diritti dal contenuto chiara
mente individuabile sulla base della direttiva medesima, sempre che sussista il nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a
carico dello Stato ed il pregiudizio subito, deve essere applicato tenendo conto che è nell'ambito del diritto nazionale che devo
no essere individuate le regole e le condizioni, formali e sostan
ziali, per ottenere il risarcimento.
La Corte di cassazione, muovendosi in questa impostazione, ha cercato di inquadrare nell'ambito delle categorie giuridiche conosciute dall'ordinamento nazionale la natura del diritto al ri
sarcimento del lavoratore colpito dall'inattuazione della diretti
va. Una recente pronunzia ritiene che l'indennizzo dovuto al la
voratore subordinato ai sensi dell'art. 2, 7° comma, d.leg. n. 80
del 1992, trova fondamento nella responsabilità aquiliana degli Stati membri della Comunità europea per omesso recepimento nel diritto interno delle norme contenute in una direttiva comu
nitaria (Cass. 9 aprile 2001, n. 5249, che segue). Un'altra pro
nunzia, invece, ritiene debba escludersi che dall'ordinamento
comunitario possa farsi derivare, nell'ordinamento italiano, il
diritto soggettivo del singolo all'esercizio del potere legislativo — che è libero nei fini e sottratto a qualsiasi sindacato giurisdi zionale —, e che possa comunque qualificarsi in termini di ille
cito da imputare allo Stato-persona, ai sensi dell'art. 2043 c.c., una determinata conformazione dello Stato-ordinamento, la
pretesa del singolo di ottenere il risarcimento del danno subito
per la mancata attuazione di una direttiva comunitaria deve es
sere qualificata come richiesta di indennizzo delle diminuzioni
patrimoniali subite in conseguenza dell'esercizio di un potere non sindacabile dalla giurisdizione. Ne consegue che l'inden
nizzo «per il danno derivante dalla mancata attuazione della di
rettiva Cee 80/987» non ha la natura giuridica del risarcimento
conseguente ad una fattispecie di responsabilità (Cass. 11 otto
bre 1995, n. 10617, id., 1996, I, 503). A questa pronunzia è in
qualche modo ricollegabile quella che considera l'indennizzo un
credito di lavoro a carattere risarcitorio, a prescindere dalla ri
conducibilità della fattispecie nella generale previsione dell'art.
2043 c.c. (Cass. 22 luglio 1999, n. 7922, id., Rep. 1999, voce Lavoro (rapporto), n. 1367).
Le sentenze n. 7922 del 1999 e n. 5249 del 2001, si pronun
ziano, inoltre, sul punto della prescrizione (oggetto specifico della presente controversia) e ritengono che il termine per la
prescrizione del relativo diritto al risarcimento abbia durata
quinquennale e decorra dalla data in cui si è manifestata l'insol
venza del datore di lavoro ed è venuta in essere la pretesa risar
citoria, non rilevando che tale data sia anteriore all'entrata in
vigore del citato d.leg. n. 80 del 1992, dovendo la stessa essere
solamente successiva alla scadenza del termine in cui lo Stato
avrebbe dovuto adeguare il proprio ordinamento alle prescrizio ni comunitarie.
Il collegio ritiene, tuttavia, non soddisfacente la costruzione
appena riferita in punto di regime di prescrizione del diritto. In
fatti, la Corte di giustizia, nell'affermare che è nell'ambito del
diritto nazionale che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato dal mancato adempimento alla direttiva, af
ferma che «le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle
diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei
danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguar dano analoghi reclami di natura interna e non possono essere
congegnate in modo da rendere eccessivamente difficile o prati camente impossibile ottenere il risarcimento» (cfr. la già men
zionata sentenza 19 novembre 1991). Inoltre, la stessa Corte di
giustizia ha affermato che, sulla base del diritto comunitario,
non è consentito ad uno Stato membro di opporre al privato le
norme nazionali di procedura relative ai termini di ricorso fino a
quando gli stessi non abbiano trasposto correttamente le norme
della direttiva di cui il detto privato lamenta l'inattuazione
(sentenza 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmot, id., 1993, IV,
324). L'assetto della pretesa risarcitoria del lavoratore cui perviene
la giurisprudenza sopra riferita (e con essa la pronunzia di me
rito impugnata, che decide nello stesso senso), con la posizione assunta in punto di prescrizione, non è conforme ai principi co
munitari appena indicati. Infatti, il diritto alla tutela patrimo niale del lavoratore, mentre durante il periodo intercorso tra la
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2667 PARTE PRIMA 2668
scadenza del termine di adempimento posto allo Stato (23 otto
bre 1983) e la data di entrata in vigore del d.leg. n. 80 del 1992
(28 febbraio 1992) non poteva avere soddisfazione per l'inat
tuazione dello strumento di tutela comunitario (non predisposto dal legislatore nazionale), successivamente all'entrata in vigore della disciplina di attuazione e della norma che consente il ri
sarcimento per la ritardata attuazione, sarebbe comunque limi
tato dal decorso della prescrizione, che opera a prescindere dal
l'esistenza di una concreta possibilità di tutela. La conseguenza
pratica che ne deriva è che il risarcimento previsto dall'art. 2, 7°
comma, sarebbe possibile non per tutti i lavoratori colpiti dal
ritardato recepimento della direttiva, ma solamente per quelli
per i quali lo stato d'insolvenza è maturato in un periodo tempo rale compreso nel quinquennio antecedente all'entrata in vigore del decreto n. 80 del 1992.
11 legislatore ha, invece, definito in maniera autonoma il re
gime risarcitorio, contemperando il diritto al risarcimento (rec
tius, indennizzo per il danno derivante dalla mancata attuazione
della direttiva) con le esigenze di certezza rivendicativa e di de
finizione finanziaria del sistema, regolando l'esperimento delle
azioni con la previsione di un termine di decadenza di un anno
(art. 2, 7° comma, ultima parte). In questo quadro, pertanto, ap
pare coerente far decorrere la prescrizione dal momento stesso
in cui il diritto al risarcimento viene riconosciuto, e cioè dal
l'entrata in vigore del ripetuto decreto n. 80 del 1992, in appli cazione del principio desumibile dall'art. 2935 c.c., per il quale «la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto
può essere fatto valere».
Tale impostazione non collide con la consolidata giurispru denza di legittimità, per la quale la disposizione dell'art. 2935
c.c. ha riguardo alla possibilità legale dell'esercizio del diritto e
non all'impossibilità di fatto (cfr., tra le tante, Cass. 19 novem
bre 1999, n. 12825, id., Rep. 1999, voce Prescrizione e deca
denza, n. 32; 7 maggio 1996, n. 4235, id., Rep. 1996, voce cit., n. 21; 12 marzo 1994, n. 2429, id., Rep. 1994, voce cit., n. 12). Nel caso di specie quella particolare forma di risarcimento co
stituita dall'indennità prevista dall'art. 2, 7° comma, del decreto
n. 80 del 1992 non avrebbe potuto essere richiesta prima del
l'entrata in vigore della norma, il che rappresentava una giuridi ca impossibilità di far valere il diritto, nei limiti in cui la norma di legge ne consente la soddisfazione.
Conseguentemente, deve essere accolto il primo motivo di ri
corso e, dichiarati assorbiti gli altri, l'impugnata sentenza deve
essere cassata. Il giudice di rinvio indicato in dispositivo si at
terrà al seguente principio di diritto: «Ai fini del riconoscimento
dell'indennità per il danno derivante dalla mancata attuazione
della direttiva 80/987 prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27
gennaio 1992 n. 80, il termine iniziale della prescrizione del di
ritto del lavoratore va fissato al momento dell'entrata in vigore del detto decreto n. 80 del 1992».
II
Svolgimento del processo. — Con ricorso del 18 gennaio
1993 Ines Pederzoli, Luisa Arnoffì, Ida Barillani, Graziella Ver
zieri, Leonardo Ballini, Roberto Biondi e Silvana Berozzi con
venivano davanti al Pretore del lavoro di Bologna l'Istituto na
zionale della previdenza sociale e il governo della repubblica italiana e chiedevano che i convenuti fossero condannati a corri
spondere loro l'indennità prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80 per avere essi prestato attività di lavoro
subordinato alle dipendenze di un'impresa dichiarata fallita il 12 dicembre 1984 e per non avere ottenuto il pagamento delle
retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro.
Entrambi i convenuti si costituivano in giudizio, contestando
la fondatezza delle pretese avversarie e, in particolare, eccepen do, il governo della repubblica italiana, il proprio difetto di le
gittimazione passiva e l'Inps la prescrizione del diritto fatto va lere dai ricorrenti.
Con sentenza del 7 marzo 1996 il pretore rigettava il ricorso.
Questa decisione, impugnata dai lavoratori solamente nei confronti dell'Inps, veniva confermata dal Tribunale di Bologna con sentenza del 20 novembre 1997.
Il tribunale osservava che dal giorno della dichiarazione di
fallimento dell'impresa datrice di lavoro dei lavoratori appel lanti (12 dicembre 1984) a quello di proposizione del ricorso era
Il Foro Italiano — 2002.
trascorso un termine superiore ai cinque anni, con la conseguen za che si era ormai maturata la prescrizione eccepita dall'Inps, dato che, dovendosi applicare l'art. 2948, n. 4, c.c. e pur stabi
lendo l'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80 che la
normativa dettata dai commi precedenti si applica anche alle
situazioni pregresse, tuttavia tale applicazione non può com
prendere quelle fattispecie in relazione alle quali sono interve
nuti eventi tali da determinarne l'estinzione.
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassa
zione, ad eccezione di Silvana Berozzi, tutti i lavoratori sopra indicati, che hanno dedotto tre distinti e complessi motivi poi illustrati da memoria.
L'Inps ha depositato la procura speciale alla lite.
Motivi della decisione. — Va preliminarmente dichiarata l'i
nammissibilità del ricorso proposto dalla Pederzoli, dato che
non risulta che quest'ultima abbia rilasciato al difensore la pro cura speciale prevista dall'art. 365 c.p.c.
Con tutti e tre i motivi dell'impugnazione, che per ragioni di
connessione vanno congiuntamente esaminati, i ricorrenti de
nunciano i vizi di violazione e falsa applicazione degli art. 2
d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, 2946, 2947, 2948 c.c. nonché di
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti de
cisivi della controversia, in relazione all'art. 360, 1° comma, nn.
3 e 5, c.p.c. e sostengono che il tribunale avrebbe errato nel ri
tenere la fondatezza dell'eccezione di prescrizione dedotta dal
l'Inps. A sostegno di tale censura i ricorrenti deducono, in via
gradata, i seguenti argomenti: a) al contrario di quanto è stato
ritenuto dal giudice di appello, il termine di prescrizione del di
ritto all'indennità, che può essere fatto valere nei confronti del
l'ente previdenziale a norma del 7° comma del suddetto art. 2
d.leg. n. 80 del 1992 — e che è, per ciò solo, del tutto diverso
dal diritto che può essere preteso dai lavoratori nei confronti del
governo italiano o del datore di lavoro o degli organi della pro cedura fallimentare — decorre non già dal giorno della dichia
razione di fallimento dell'impresa datrice di lavoro, bensì dalla
data di efficacia del d.leg. n. 80 del 1992, considerato che sola
mente da quest'ultima data è possibile, per i lavoratori, pro muovere il giudizio contro l'Inps allo scopo di ottenere il risar
cimento dei danni causati dalla dichiarazione di fallimento del
datore di lavoro e posto che il tribunale, non accorgendosi della
evidente contraddizione con la tesi poi seguita, ha più volte af
fermato che la responsabilità dell'Inps è sorta con la 1. dele
ga 29 dicembre 1990 n. 428 e con l'entrata in vigore della legge
delegata; b) a voler prendere come punto di riferimento la pro cedura fallimentare, si dovrebbe affermare che il termine decor
re dal giorno della chiusura del fallimento dell'imprenditore -
datore di lavoro (non ancora verificatasi, nel caso in esame, al
l'epoca della proposizione del ricorso davanti al Pretore di Bo
logna), quando il credito viene ad esistenza in conseguenza del
danno determinatosi nei confronti dei lavoratori, essendo possi bile solo da quel momento acquisire la certezza del mancato pa gamento; c) che, a ritenere che il termine decorra dalla data in cui è reso esecutivo lo stato passivo nel fallimento, si dovrebbe
affermare che lo stesso deve rimanere sospeso durante tutto il
corso del procedimento fallimentare; d) che, infine, se si vuole
aderire alla tesi sostenuta dal tribunale, si deve applicare, in
mancanza di norme particolari o speciali, la disposizione gene rale contenuta nel suddetto art. 2946 c.c. e affermare che il ter mine è di dieci anni e non di cinque.
Tutte queste censure sono prive di fondamento. (Omissis) V. - L'art. 1 e i primi sei commi dell'art. 2 d.leg. n. 80 del
1992 regolano una fattispecie del tutto diversa da quella con
templata dal 7° comma del medesimo art. 2, perché, pur essendo
tutte le disposizioni contenute nell'uno e nell'altro articolo ispi rate alla medesima ratio — la tutela che deve essere accordata
ai lavoratori dipendenti da un'impresa in stato d'insolvenza —
il primo gruppo di norme riguarda le prestazioni c.d. a regime (i crediti derivanti dalle procedure «intervenute successivamente
all'entrata in vigore del presente decreto»), mentre la disposi zione contenuta nel 7° comma disciplina l'indennizzo, avente funzione risarcitoria, che lo Stato italiano è tenuto a pagare per essere rimasto inadempiente agli obblighi posti a suo carico dalla direttiva comunitaria.
Non può trarre in inganno, al fine di ritenere il contrario, la
norma (pure inserita nel suddetto 7° comma) che stabilisce che,
per la determinazione dell'indennità, «trovano applicazione i
termini, le misure e le modalità di cui al 1°, 2° e 4° comma», dal
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
momento che con tale norma il legislatore ha proprio voluto
adattare alla materia presa in considerazione parte di una disci
plina dettata in una materia avente diversa natura (cfr., del resto, la sentenza della Corte costituzionale 16 giugno 1993, n. 285, Foro it., 1994,1, 392, in motivazione, nella quale si sottolinea la
«diversità di natura» dell'indennità rispetto alle prestazioni ero
gate nel sistema a regime, con la precisazione che il richiamo al
1°, 2° e 4° comma «ha soltanto la funzione di indicare il para metro per la determinazione dell'indennità, la quale spetta a ti
tolo di risarcimento del danno»). Pertanto, a fronte della duplice scelta che si poneva per rea
lizzare la tutela delle posizioni giuridiche pregresse (in quanto venute in essere prima dell'entrata in vigore del decreto legisla tivo) — e per evitare, come occorre aggiungere, una nuova pro nuncia di inadempienza dello Stato italiano in sede comunitaria — il legislatore, anziché rendere retroattive le disposizioni det
tate per l'avvenire, ha optato per un'altra soluzione e ha prefe rito emanare per quelle posizioni un'apposita disciplina, anche
se il risultato conseguito deve considerarsi analogo a quello che
si sarebbe potuto ottenere mediante la scelta della prima delle
due opzioni. VI. - Tenuto conto di questi rilievi, per la decisione della pre
sente controversia — che ha per oggetto il pagamento dell'in
dennità e non delle prestazioni a regime — non possono essere
utilizzati, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, né le
regole poste dal 1° al 7° comma dell'art. 2 non espressamente richiamate né i principi di diritto elaborati da questa corte (cfr., in particolare, Cass. 21 ottobre 1995, n. 10968, id., Rep. 1996, voce Lavoro (rapporto), n. 1649, indicata nel ricorso per cassa
zione) nella contigua materia regolata dall'art. 2 1. 29 maggio 1982 n. 297 e relativa al pagamento, da parte del fondo di ga ranzia costituito presso l'inps, del trattamento di fine rapporto ai
lavoratori dipendenti da imprese insolventi (proprio perché, se
non altro, dal 7° comma non è richiamato il 3° comma, il quale, a sua volta, rinvia, per la relativa diretta applicazione, a molte
delle disposizioni contenute nel precedente testo di legge). VII. - L'azione per ottenere l'indennità, che, a norma del 7°
comma dell'art. 2 d.leg. n. 80 del 1992, deve essere esercitata
contro l'inps, è omogenea a quella che, pur con diverse moda
lità di esercizio, prima dell'entrata in vigore del decreto legisla tivo poteva essere promossa contro il governo della repubblica italiana e che era diretta conseguenza dell'inerzia posta in esse
re dallo Stato in ordine alla (immediata) attuazione della diretti
va comunitaria. Non possono trarsi argomenti di sostanziale di
stinzione, infatti, fra le due azioni dalla diversità dei soggetti
passivi dell'una e dell'altra in base alle seguenti ragioni. Va richiamato quanto è stato detto sopra, quando è stato af
fermato che con la norma di cui a! 7° comma dell'art. 2 d.leg. n.
80 del 1992 il legislatore ha predisposto all'interno dell'ordi namento, ricorrendone le condizioni, un sistema per permettere ai lavoratori di conseguire quell'indennizzo (rectius, risarci
mento) — per il danno subito dalla mancata attuazione della di
rettiva — che già i medesimi lavoratori potevano ottenere me
diante l'esercizio di un'azione la cui legittimità è stata proprio riconosciuta dalla Corte di giustizia Cee con la sentenza Fran
covich, id., 1992, IV, 145 (e che, per conseguenza, ben poteva essere espletata anche prima dell'emanazione della norma inter
na di attuazione della direttiva). L'identità del risultato, ancor
ché attuato attraverso la predisposizione di un meccanismo di
verso, dimostra l'omogeneità fra le due azioni, essendo quella
proposta contro l'inps, dopo l'entrata in vigore del d.leg. n. 80
del 1992, diretta derivazione da quella che, in epoca precedente,
già poteva essere esercitata, sempre davanti al giudice italiano,
per il conseguimento di una medesima tutela (eventualmente attraverso l'intervento della Corte di giustizia Cee, come poi è
avvenuto); con la conseguenza che non può farsi questione per il fatto che, ora, il soggetto passivo dell'azione è l'istituto pre videnziale e non già, direttamente, lo Stato italiano, posto che
questa formale distinzione altro non è che l'effetto della dispo sizione contenuta nell'art. 4 del medesimo decreto legislativo del 1992 — secondo cui il fondo di garanzia istituito presso
l'inps ha l'obbligo di provvedere a tutti «gli oneri derivanti dal
l'applicazione degli art. 1, 2 e 3», senza esclusione dell'obbli
gazione relativa all'indennità prevista dal 7° comma — e consi
derato altresì che, come è stato asserito dalla Corte costituzio
nale nella sentenza n. 285 del 1993, sopra indicata, il legislatore ha voluto porre l'obbligazione avente per oggetto l'indennità
li. Foro Italiano — 2002.
non in capo allo Stato-persona, «ma a uno degli enti pubblici in
cui si articola l'apparato dell'amministrazione indiretta statale»:
quello stesso ente, come è utile aggiungere, che è stato desi
gnato quale «organismo di garanzia» per assicurare, a norma
dell'art. 4 della direttiva comunitaria, il pagamento dei crediti
non soddisfatti dal datore di lavoro ai soggetti legittimati. D'altra parte, come occorre pure sottolineare, fermo restando
il riferimento ad eventi venuti in essere in epoca precedente al
l'entrata in vigore del decreto legislativo, sotto il profilo sostan
ziale il diritto avente per oggetto l'indennità, che, ai sensi del 7°
comma dell'art. 2, deve essere (formalmente) fatto valere contro
l'Inps, non ha contenuto diverso da quella situazione giuridica
soggettiva, sopra delineata, che, riguardo a quei medesimi
eventi, anche in precedenza riceveva adeguata tutela qualora la
domanda di risarcimento del danno fosse stata proposta diretta
mente nei confronti del governo italiano. Sebbene il diritto in
questione trovi ora fondamento, per le modalità del suo eserci
zio e del suo soddisfacimento, nella norma emanata nell'ordi
namento giuridico interno, tuttavia in precedenza, in capo a co
loro che si trovavano nelle condizioni richieste, era già esisten
te, per effetto dell'entrata in vigore della direttiva comunitaria e
della mancata attuazione della medesima, una posizione giuridi ca del singolo, di analogo contenuto e di identica natura, già immediatamente tutelabile.
Vili. - Nel caso in esame, come è pacifico in causa, i lavora
tori attuali ricorrenti erano dipendenti di un'impresa della quale era stato dichiarato il fallimento il 12 dicembre 1984, quando era già scaduto il termine assegnato allo Stato italiano (e a tutti
gli altri Stati dell'unione) per attuare la direttiva comunitaria di
cui si discute (3 ottobre 1983). Ne deriva che fin d'allora in ca
po ai medesimi lavoratori era sorta quella situazione giuridica di
cui si è sopra parlato e della quale era possibile l'esercizio (v., in proposito, per un utile riferimento, la sentenza della Corte di
giustizia Cee del 10 luglio 1997, causa C-373/95, Maso ed altri
c. Inps e Repubblica italiana, id., 1998, IV, 213), dato che, a
ben vedere, la sopra rilevata omogeneità fra l'azione ora eser
citata contro l'Inps e quella che, prima, poteva essere promossa contro il governo italiano si risolve in una vera e propria identi
tà. Rilievi, codesti, che assumono importanza fondamentale ai
fini della decisione che deve essere emessa e che sono suffi
cienti a confutare immediatamente una delle tesi sostenute dai
ricorrenti, dato che il danno in capo a costoro è sorto all'epoca in cui si è manifestata l'insolvenza del loro datore di lavoro,
quando la direttiva comunitaria non aveva avuto ancora attua
zione, e non già al momento della chiusura del fallimento del
suddetto datore di lavoro.
IX. - Il 5° comma, primo periodo, dell'art. 2 d.leg. n. 80 del
1992 stabilisce che il diritto avente per oggetto le prestazioni c.d. a regime si prescrive nel termine di un anno. Viceversa, il
7° comma, ultimo periodo, del medesimo articolo dispone che
l'azione per ottenere l'indennità della quale qui si discute deve
essere «promossa entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Quest'ultima norma, come è pacifico,
pone un termine di decadenza.
L'espressa previsione della decadenza, tuttavia, trattandosi di
un diritto disponibile e in mancanza di un'apposita disposizione di legge che ponga una diversa disciplina (arg. a contrario ex
art. 2934, 2° comma, c.c.), non impedisce la prescrizione di tale
diritto in caso di mancato esercizio nel termine stabilito dalla
legge. Su questo rilievo concordano i ricorrenti, i quali, nell'impu
gnare la sentenza emessa dal Tribunale di Bologna, non hanno
negato che il diritto da essi fatto valere, oltre ad essere, in
astratto, soggetto a decadenza, è anche passibile di prescrizione. Punti di contestazione da parte dei medesimi ricorrenti, riguardo alla pronuncia resa dal giudice di appello, sono, al contrario —
come risulta dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi
del ricorso — l'individuazione del dies a quo nonché la durata
del termine necessario affinché il diritto, alla scadenza, sia con
siderato estinto per prescrizione. Ora, riguardo al primo punto di contestazione, dopo quanto è
stato sopra esposto non occorre spendere molte parole per con
futare le diverse soluzioni alternativamente prospettate nel ri
corso per cassazione.
Posto che il diritto all'indennità fatto valere dai ricorrenti nei
confronti dell'Inps altro non è che la pregressa posizione giuri dica soggettiva già esistente in capo ai medesimi ricorrenti nei
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PARTE PRIMA 2672
confronti dello Stato italiano e posto, quindi, che la relativa
pretesa risarcitoria è certamente venuta in essere in epoca non
successiva al 12 dicembre 1984 (quando è stato dichiarato il
fallimento del datore di lavoro e quando era già scaduto il ter
mine per l'attuazione della direttiva del consiglio Cee 80/987;
v., al riguardo, Corte giust. 10 luglio 1997, causa C-373/95, Ma
so ed altri c. Inps e Repubblica italiana, già indicata), si deve
ritenere che il termine di prescrizione, ai sensi dell'art. 2935
c.c., abbia avuto inizio, quanto meno, nel giorno sopra precisato ( 12 dicembre 1984). (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 29 mag
gio 2002, n. 7852; Pres. Senese, Est. Dell'Anno, P.M. Fede
li (conci, diff.); Coltelli (Avv. Cecchinelli) c. Inail (Avv.
Catania, De Ferra). Cassa Trib. La Spezia 11 dicembre
1998.
Infortuni sul lavoro e malattie professionali — Coltivatore
diretto — Fondo rustico coltivato per l'autoconsumo —
Rendita per malattia professionale agricola (D.p.r. 30 giu
gno 1965 n. 1124, t.u. delle disposizioni per l'assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie pro fessionali, art. 205, 206, 207).
Ha diritto alla rendita per malattia professionale agricola chi
svolge attività di coltivazione di un fondo agricolo, i cui pro dotti siano destinati al consumo della propria famiglia e non al mercato. ( 1 )
(1) Contrasto giurisprudenziale su qualifiche agricole, produzio ne per l'autoconsumo e rendite per malattie professionali.
I. - I giudici del merito avevano escluso che potesse beneficiare di rendita per malattia professionale agricola la coltivatrice di un fondo
agricolo, i cui prodotti erano destinati al consumo della propria fami
glia e non al mercato, non configurandosi in tale ipotesi un'attività di carattere imprenditoriale costituente il presupposto necessario per il di ritto all'assicurazione di invalidità.
La sentenza riportata ha richiamato in particolare Cass., sez. un., 1° settembre 1999, n. 616/SU, Foro it., 1999,1, 3508, con nota di D. Bel lantuono, secondo cui ai fini dell'applicabilità dell'assicurazione per invalidità e vecchiaia, la qualità di coltivatore diretto deve essere de sunta dal combinato disposto degli art. 2 1. 26 ottobre 1957 n. 1047 e 2 e 9 1. 9 gennaio 1963 n. 9, con la conseguenza che, per il suo ricono scimento, non è richiesto il carattere imprenditoriale dell'attività, con la destinazione dei prodotti del fondo, anche solo in parte, al mercato, es sendo sufficiente, invece, che il reddito prodotto, con il connotato della
prevalenza, sia destinato direttamente al sostentamento proprio del col tivatore e della sua famiglia.
In senso favorevole alla ricorrente, è stata richiamata in motivazione anche Cass. 28 maggio 1997, n. 4724, id., Rep. 1997, voce Infortuni sul
lavoro, n. 96, e Giusi, civ., 1997, I, 2768: ha ritenuto questa sentenza che presupposto obbligatorio contro gli infortuni sul lavoro è l'abitua lità dell'attività agricola esercitata dal coltivatore diretto, non necessa riamente la professionalità, con la conseguenza che l'obbligo assicura tivo sussiste anche nei confronti di chi, pur prevalentemente impiegato in altri settori, si applichi nel residuo tempo in maniera non sporadica a lavorazioni agricole anche se relative non ad un'azienda in senso tecni co (quale proiezione patrimoniale dell'impresa) attesa la non necessaria
professionalità dell'attività esercitata, bensì soltanto ad un fundus in structs. E sostanzialmente conforme, è stata pure richiamata Cass. 27
gennaio 1981, n. 632, Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 363; ma v. an che Cass. 6 luglio 1998, n. 6566, id., 1998, I, 3575.
A conclusione diametralmente opposta è pervenuta altra giurispru denza, secondo cui, ai fini della tutela contro gli infortuni sul lavoro in
agricoltura, è richiesto l'esercizio professionale, da parte dei soggetti indicati nell'art. 205 d.p.r. 1124/65, di un'attività economica diretta alla coltivazione del fondo o altra di quelle indicate nell'art. 2135 c.c., espressamente richiamato dal successivo art. 206 stesso d.p.r. 1124/65
Il Foro Italiano — 2002.
Svolgimento del processo. — Con la sentenza sopra indicata,
confermativa di quella di primo grado, si è escluso che Coltelli
Annunziata potesse godere di rendita per malattia professionale
agricola svolgendo la stessa attività di coltivazione di un fondo
agricolo i cui prodotti erano destinati al consumo della propria
famiglia e non al mercato, non configurandosi quindi un'attività
di carattere imprenditoriale costituente il presupposto necessario
per il diritto alla assicurazione di invalidità.
per l'individuazione della nozione di azienda agricola, conseguendone che non è sufficiente l'attività di coltivazione del proprio fondo, anche svolta in modo abituale, al solo scopo di destinare i prodotti al proprio diretto consumo e non al mercato (Cass. 4 luglio 2001, n. 9040, id.,
Rep. 2001, voce cit., n. 115; 3 novembre 1992, n. 11915, id., Rep. 1994, voce Previdenza sociale, n. 258, e 28 gennaio 1984, n. 703, id.,
Rep. 1986, voce Infortuni sul lavoro, n. 216).
II. - La sentenza riportata ha preliminarmente osservato che il d.p.r. 1124/65 mentre tutela determinate categorie di lavoratori la cui attività è considerata la più esposta al rischio e quindi più pericolosa, per l'a
gricoltura ha esteso l'operatività del decreto all'intero settore, presu mendo quindi la sussistenza del requisito della pericolosità in tutte le attività agricole.
Secondo questa ottica, è stato richiamato l'art. 205 d.p.r. 1124/65 che indica come destinatari della protezione i soggetti che prestano la loro
opera nelle aziende — agricole o forestali —, e che l'articolo imme
diatamente successivo individua in quelle «esercenti un'attività diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all'allevamento degli ani mali ed attività connesse ai sensi dell'art. 2135 c.c.». E tali soggetti preferiti, è stato affermato, vanno individuati secondo i criteri e le mo dalità della 1. 26 ottobre 1957 n. 1047 e successive modificazioni e in
tegrazioni, sottolineando che la «abitualità» nella coltivazione dei fondi rustici o nell'allevamento o nel governo del bestiame è stata sostituita, dal 2° comma dell'art. 2 1. 9 gennaio 1963 n. 9, dall'esercizio dell'atti vità «in modo esclusivo o almeno prevalente». E si è di conseguenza ritenuto che, anche se le norme richiamate delle 1. 1047/57 e 9/63 per l'invalidità e vecchiaia non fanno esplicito riferimento alle norme per le malattie professionali, tuttavia il riferimento deve ritenersi implicito, considerato che Corte cost. 4 febbraio 2000, n. 26 (id.. Rep. 2000, voce
cit., nn. 143-145; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2000, 172, con nota di A.
Fontana, e Riv. giur. lav., 2000, li, 551, con nota di A. Mazziotti), do
po avere ribadito il principio che l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro realizzava un rapporto fondato su una logica di tipo assicurativo
piuttosto che di tipo pienamente solidaristico, aveva escluso che potes se qualificarsi irragionevole, in considerazione della peculiarità del la voro agricolo, la scelta della sostituzione del criterio della abitualità, già operante secondo la normativa previgente, con quello della esclusi vità o prevalenza.
III. - Per la comprensione del contrasto di giurisprudenza nell'ambito della sezione lavoro della Suprema corte, appare opportuno ricordare
quanto ritenuto da Cass. 9040/01, cit., che ha richiamato le seguenti norme: l'art. 205 d.p.r. 1124/65, come modificato con l'art. 10 1. 9 di cembre 1977 n. 903, dispone che si intendono assicurati contro gli in fortuni sul lavoro in agricoltura «i proprietari, mezzadri, affittuari, loro
coniuge e figli, anche naturali o adottivi, che prestano opera manuale abituale nelle rispettive aziende». E l'art. 206 d.p.r. cit., come sostituito dall'art. 1 1. 20 novembre 1986 n. 778, considera «aziende agricole o
forestali, ai fini del presente titolo, quelle esercenti un'attività diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all'allevamento degli ani mali ed attività connesse, ai sensi dell'art. 2135 c.c.». E l'art. 207 con sidera «lavori agricoli, ai fini del presente titolo, tutti i lavori inerenti alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all'allevamento degli ani mali ed attività connesse, ossia quelle che rientrano nell'attività del
l'imprenditore agricolo, a norma dell'art. 2135 c.c., anche se i lavori sono eseguiti con l'impiego di macchine mosse da agente inanimato, ovvero non direttamente dalla persona che ne usa ed anche se essi non siano eseguiti per conto e nell'interesse dell'azienda conduttrice del fondo».
Per via delle norme richiamate, Cass. 9040/01 ha ritenuto che per l'assoggettamento alla tutela infortunistica dei proprietari, mezzadri, ecc. è richiesto, con la titolarità dell'impresa, l'esercizio professionale di una certa attività economica atteso che tale «esercizio professionale» rientra sicuramente nella previsione di cui all'art. 2135 c.c., per il quale è imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività con nesse.
Cass. 9040/01, è bene ricordarlo, aveva escluso il diritto al paga mento della rendita per l'inabilità permanente residuata ad un infortu nio sul lavoro, per una donna che svolgeva attività non avente carattere
professionale, trattandosi di modesta produzione agricola, su un fondo dell'estensione di 2700 mq, destinata al consumo familiare.
La sentenza riportata, a Cass. 9040/01 ha opposto che «la stessa let
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