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sezione lavoro; sentenza 4 giugno 2002, n. 8110; Pres. Sciarelli, Est. Mammone, P.M. Matera (concl....

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sezione lavoro; sentenza 4 giugno 2002, n. 8110; Pres. Sciarelli, Est. Mammone, P.M. Matera (concl. parz. diff.); Trentin e altri (Avv. Paladin) c. Inps (Avv. Morielli, Todaro, Cantarini, Tadris). Cassa Trib. Treviso 19 ottobre 1998 Source: Il Foro Italiano, Vol. 125, No. 10 (OTTOBRE 2002), pp. 2661/2662-2671/2672 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23196837 . Accessed: 28/06/2014 19:04 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.213.220.172 on Sat, 28 Jun 2014 19:04:34 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione lavoro; sentenza 4 giugno 2002, n. 8110; Pres. Sciarelli, Est. Mammone, P.M. Matera(concl. parz. diff.); Trentin e altri (Avv. Paladin) c. Inps (Avv. Morielli, Todaro, Cantarini,Tadris). Cassa Trib. Treviso 19 ottobre 1998Source: Il Foro Italiano, Vol. 125, No. 10 (OTTOBRE 2002), pp. 2661/2662-2671/2672Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23196837 .

Accessed: 28/06/2014 19:04

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

zione, la quale, dunque, segnerà il momento unitario di tratta

zione delle singole contestazioni, che mirano alla variazione

dello stato passivo, salva soltanto la possibilità di separazione

prevista dal 2° comma dell'art. 99. Sicché, pur potendo per cia

scuno degli opponenti variare il dies a quo del termine per l'op

posizione, in relazione alla data della comunicazione ricevuta

dal curatore — avuto riguardo alla dichiarazione d'illegittimità costituzionale del 1° comma dell'art. 98, di cui alla sentenza 22

aprile 1986, n. 102 della Corte costituzionale — l'udienza di

comparizione servirà a rendere uniformi i tempi di trattazione e

decisione, cui parteciperanno concorsualmente tutti i creditori

opponenti; risultato che sarebbe impedito dall'eventuale proro

ga che fosse concessa dal giudice, la quale, potendo incidere sui

tempi che debbono intercorrere tra costituzione ed udienza di

comparizione, al punto da determinarne lo slittamento in avanti, finirebbe per alterare il meccanismo della concorsualità, crean

do distonie suscettibili di proliferazione di procedimenti separati e non più confluenti in unica decisione in modo unitario, in

contrasto con il disposto dell'art. 99, cpv., 1. fall., che l'eccezio

nale ipotesi della separazione rimette alla valutazione esclusiva

del giudice, peraltro, nel solo caso che delle opposizioni alcune

siano mature ed altre no.

Al di là, dunque, delle generali definizioni processualcivili stiche è in re ipsa la perentorietà del termine di cui si tratta —

sulla quale pressoché concorde è la dottrina, mentre mancano

specifici precedenti di questa corte — a nulla giovando in senso

contrario la circostanza che al termine perentorio facciano

espresso riferimento gli art. 100, 101 e 102 1. fall., argomento da

cui una dottrina minoritaria ricava l'opposta conclusione, nel

segno della riaffermazione nel sistema fallimentare della vigen za generale dell'art. 152 e dell'art. 154 c.p.c., all'insegna del

brocardo ubi lex voluit dixit.

Tale argomento, inteso a valorizzare i principi processualci vilistici, sui quali fanno leva le ricorrenti nei loro mezzi di gra vame, non può essere condiviso, proprio perché trascura la spe ciale ratio più sopra identificata del procedimento di opposizio ne a stato passivo, della quale non partecipano i procedimenti di

impugnazione e di revocazione dei crediti ammessi e di insinua

zione tardiva, che, pur essendo idonei a modificare il risultato

dello stato passivo verificato, non ne costituiscono una proie

zione, tendendo i primi due ad una sua revisione, ma nel senso

di escludere crediti dal passivo e quindi in melius per la massa

dei creditori, ed il secondo ad una dilatazione delle passività, ma non attraverso la revisione di provvedimenti giudiziali, che

mancano, essendo l'insinuazione successiva al decreto di ese

cutività dello stato passivo e cioè alla chiusura della verifica or

dinaria, coincisa con lo scioglimento dell'adunanza dei credito

ri.

Sicché, se l'opposizione riapre la fase della verifica, rispetto alle esclusioni e alle ammissioni con riserva di pretese credito

rie, alla presenza di tutti gli opponenti e del curatore, ripristi nando il principio di concorsualità, che resterebbe vanificato da

una trattazione separata delle opposizioni, l'impugnazione e la

revocazione dei crediti ammessi non comportano quella riaper

tura, perché non mirano ad insinuazioni aggiuntive, in danno dei

creditori già ammessi al passivo, ma al contrario all'eliminazio

ne di alcune passività; per cui la perentorietà dei termini previ sta dagli art. 100 e 102 è frutto di una scelta del legislatore e

non di un'intrinseca esigenza del sistema, che non applica, neanche nel giudizio di impugnazione ex art. 100 1. fall., più dell'altro affine all'opposizione allo stato passivo, la regola della cumulatività sin dall'inizio, favorendo l'unitarietà dei pro

cedimenti, persino con quello sulle opposizioni, solo in seguito, nelle fasi dell'istruzione e della decisione, con l'effetto che

mentre la mancanza di espressa previsione del carattere perento rio negli art. 100 e 102 non avrebbe consentito l'automatica de

cadenza, divenendo quel termine suscettibile di proroga in

quanto ordinatorio, analoga assenza nell'art. 98 non produce il

medesimo effetto.

Ragioni diverse militano nella comparazione del testo di tale

articolo con quello dell'art. 1011. fall., per il quale, non essendo

in discussione una precedente verifica e non essendo censurato

un provvedimento del giudice delegato, alla cui emanazione ab

bia contribuito l'adunanza dei creditori, non è invocabile l'esi

genza della cumulatività, sicché anche in questo la perentorietà del termine risulta concepita dal legislatore in chiave accelerato

ria, secondo le caratteristiche del procedimento fallimentare e

Il Foro Italiano — 2002.

dei suoi subprocedimenti, in relazione all'esigenza che esso ab

bia sollecito corso, con l'effetto che, ove fosse mancata la sua

specificazione, il termine sarebbe rimasto aperto, quanto nelle

altre ipotesi, alla possibilità della proroga. Le considerazioni svolte giovano alla rilevabilità di ufficio

dell'inosservanza del termine previsto dall'art. 98, 2° comma, ultima parte, 1. fall., essa investendo un interesse di ordine pro cessuale che trascende quello dei singoli, in quanto tutela non

solo la sollecita, ma anche coordinata ed unitaria trattazione

delle opposizioni, secondo lo schema della verifica ordinaria, che affida all'adunanza dei creditori e non al singolo la valuta

zione di ciascuna pretesa; con l'effetto di sottrarre la materia

alla disponibilità delle parti, curatore e creditore inosservante

del termine concesso.

Né può rilevare l'assunto che, comunque, nella specie l'inter

vallo temporale tra notifica del ricorso e del decreto del giudice

delegato, a termine già scaduto, e udienza di comparizione fosse

tanto ampio da consentire la rituale costituzione del curatore, atteso che la conseguenza della riconosciuta perentorietà è la

decadenza, senza alcuna possibilità di valutazione della concreta

incidenza dell'inosservanza sull'effettività degli specifici inte

ressi protetti.

Quanto, infine, al terzo motivo di censura, al pari degli altri

infondato, è sicuramente gratuita la doglianza relativa al vizio

motivazionale, avendo la sentenza impugnata sulla dedotta cau

sa di forza maggiore, legata al ritardo della cancelleria di rila

sciare le copie da notificare, fornito puntuali ragioni del contra

rio convincimento, affermando che dal 22 novembre 1995 in cui

il difensore del Banco Ambrosiano Veneto aveva preso visione

del decreto, vi erano ancora venti giorni per ottenere il rilascio

delle copie da notificare.

Ma infondata è anche la denunzia di violazione di legge, pro

spettata senza alcuna indicazione delle norme violate e in realtà

introdotta al fine di conseguire il riesame dei fatti che hanno

condotto al giudizio della corte di merito di insussistenza di sif

fatta causa di forza maggiore, insindacabile in sede di legitti mità.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 4 giugno

2002, n. 8110; Pres. Sciarelli, Est. Mammone, P.M. Matera

(conci, parz. diff.); Trentin e altri (Avv. Paladin) c. Inps

(Avv. Morielli, Todaro, Cantarini, Tadris). Cassa Trib.

Treviso 19 ottobre 1998.

Lavoro (rapporto di) — Dipendenti di imprese assoggettate

a procedure concorsuali — Danno per mancata attuazione

di direttiva Cee — Prescrizione — Decorrenza (Cod. civ., art. 2935; d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, attuazione della diret

tiva 80/987/Cee, in materia di tutela dei lavoratori subordinati

in caso di insolvenza del datore di lavoro, art. 2).

Ai fini del riconoscimento ai dipendenti di impresa sottoposta a

procedura concorsuale dell'indennità per il danno derivante

dalla mancata attuazione della direttiva 80/987/Cee, prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, il termi

ne di prescrizione del diritto decorre dal momento dell'en

trata in vigore del detto d.leg. n. 80 del 1992. (1)

(1-2) Le pronunce in epigrafe segnalano una netta divergenza di

opinioni, all'interno della sezione lavoro della Corte di cassazione, sul

punto della definizione del momento dal quale decorre il termine di

prescrizione del diritto all'indennità dovuta dall'Inps, ai sensi dell'art.

2, 7° comma, d.leg. n. 80 del 1992, ai lavoratori pregiudicati dalla tar

diva trasposizione nel nostro ordinamento della direttiva 80/987/Cee. Atteso che la richiamata disposizione prevede espressamente che l'a

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2663 PARTE PRIMA 2664

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 9 aprile 2001, n. 5249; Pres. Annunziata, Est. Prestipino, P.M. Nar

di (conci, conf.); Pederzoli e altri (Avv. Andreoni, Piccinini) c. Inps (Avv. Todaro, Morielli, Cantarini, Tadris). Con

ferma Trib. Bologna 20 novembre 1997.

Lavoro (rapporto di) — Dipendenti di imprese assoggettate

a procedure concorsuali — Danno per mancata attuazione

di direttiva Cee — Prescrizione — Decorrenza (Cod. civ., art. 2935; d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, art. 2).

Ai fini de! riconoscimento ai dipendenti di impresa sottoposta a

procedura concorsuale dell'indennità per il danno derivante

dalla mancata attuazione della direttiva 80/987/Cee, prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, il termi

ne di prescrizione del diritto decorre dalla data di dichiara

zione di fallimento dell'impresa, ancorché antecedente al

l'entrata in vigore del detto d.leg. n. 80 del 1992. (2)

I

Svolgimento del processo. — Con separati ricorsi al Pretore

di Treviso depositati in data 20 febbraio 1993 Trentin Lisiana ed

altri venti ricorrenti esponevano di aver lavorato alle dipendenze di varie ditte, tutte dichiarate fallite prima del 29 febbraio 1992, di essere rimasti creditori di vari importi a titolo di retribuzioni

arretrate e di essere stati ammessi per tali titoli al passivo delle

relative procedure concorsuali. Rilevando che lo Stato italiano

zione per la corresponsione dell'indennità «va promossa entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (termine di deca denza relativo all'azione in giudizio), è controverso se l'insorgere del

presupposto del diritto (nella specie, la dichiarazione di fallimento del

l'impresa) in epoca anteriore all'approvazione del provvedimento di

legge determini, o meno, il decorso del termine di prescrizione, con

conseguente, eventuale estinzione ante tempus della situazione giuridi ca soggettiva.

Nella prima massima, la Suprema corte accoglie un'impostazione di netto favore per i ricorrenti e, smentendo le due pronunce di merito —

che avevano accertato l'avvenuta prescrizione quinquennale del diritto

all'indennità, facendo decorrere il dies a quo a partire dalla data di fal limento dell'impresa — statuisce che, nella misura in cui «il legislatore ha definito in maniera autonoma il regime risarcitorio, contemperando il diritto al risarcimento con le esigenze di certezza rivendicati va e di definizione finanziaria del sistema, regolando l'esperimento delle azio ni con la previsione di un termine di decadenza di un anno (. . .) appare coerente far decorrere la prescrizione dal momento stesso in cui il di ritto al risarcimento viene riconosciuto e cioè dall'entrata in vigore del decreto n. 80 del 1992, in applicazione del principio desumibile dal l'art. 2935 c.c., per il quale la prescrizione comincia a decorrere dal

giorno in cui il diritto può essere fatto valere». La corte richiama, a so

stegno della propria tesi, reiterate affermazioni della Corte di giustizia riguardo alla necessità che gli Stati membri adottino misure in materia di risarcimento del danno tali da rendere non eccessivamente diffìcile il riconoscimento dello stesso (con specifico riferimento alla fattispecie in

questione, v. Corte giust. 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani, in Foro it., 1998, IV, 215, con nota di G. Ricci; 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich, id., 1992, IV, 145, cui adde Corte

giust. 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmott, id., 1993, IV, 324, con nota di Dillich).

Tale orientamento risulta però tutt'altro che pacifico nella giurispru denza di legittimità. Ancora di recente, la Cassazione ha infatti soste nuto l'assunto opposto (cfr. la seconda massima in epigrafe). Dando ri lievo centrale al fatto che l'azione tendente ad ottenere l'indennizzo, ora esercitata nei confronti dell'Inps, poteva essere promossa già prima dell'entrata in vigore del d.leg. n. 80 del 1992 nei confronti del governo italiano, la Suprema corte ha concluso che, dal punto di vista sostan

ziale, il danno fosse certamente già configurabile all'epoca in cui si è manifestata l'insolvenza del datore di lavoro, ancorché la direttiva co munitaria non avesse trovato attuazione, decorrendo dunque da quel momento il relativo termine di prescrizione quinquennale (nello stesso

senso, cfr. Cass. 22 luglio 1999, n. 7922, id.. Rep. 1999, voce Lavoro

(rapporto), n. 1367). La disciplina del d.leg. n. 80 del 1992 ha ingenerato complessi pro

blemi interpretativi: v., per tutti, Cass. 4 giugno 1999, n. 5524, 9 feb braio 1999, n. 1106, e 6 giugno 1998, n. 5591, id., 1999, I, 3248, con nota di O. Ricci, cui si rinvia per ampi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali.

Il Foro Italiano — 2002.

aveva dato esecuzione alla direttiva comunitaria 80/987, sulla

tutela dei lavoratori dipendenti di datori in condizione d'insol

venza, solo con il d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, convenivano in

giudizio l'Inps e la presidenza del consiglio dei ministri per es

sere risarciti del danno subito a seguito della mancata attuazione

di detta direttiva.

Costituitisi in giudizio i convenuti, il pretore, riunite le cause,

con sentenza non definitiva del 23 marzo 1995 dichiarava il di

fetto di legittimazione passiva della presidenza del consiglio dei

ministri e dichiarava che era l'Inps il soggetto tenuto a corri

spondere l'indennità per il danno derivato dalla mancata attua

zione della direttiva, prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg.

80/92, da liquidarsi in separata sede. Con successiva sentenza

del 2 aprile 1998, lo stesso pretore determinava detta indennità e

condannava l'Inps al pagamento in favore di quei ricorrenti che

non erano stati soddisfatti in sede concorsuale.

Proponeva appello l'Inps lamentando l'errata fissazione del

momento iniziale della decorrenza della prescrizione quinquen

nale, l'erronea indicazione della data di decorrenza degli inte

ressi e della rivalutazione, la violazione dell'art. 2, 4° comma, a

proposito di non cumulabilità degli acconti ricevuti dal datore di

lavoro con l'indennità dovuta.

Costituitisi gli appellati in secondo grado, il tribunale con

sentenza del 19 ottobre 1998 accoglieva l'appello. Il giudice di

merito qualificava come aquiliana la responsabilità dello Stato

per la mancata ottemperanza all'obbligo comunitario. La viola

zione del diritto dei lavoratori italiani ad essere tutelati dalle

pubbliche istituzioni per il pagamento delle retribuzioni non

corrisposte dai datori di lavoro insolventi si era concretata nel

momento in cui, spirato il termine del 23 ottobre 1983 fissato

agli Stati membri dalla direttiva 80/987 per dare esecuzione alle

proprie disposizioni, lo Stato italiano non aveva adempiuto al

l'obbligo comunitario. I lavoratori interessati avrebbero potuto

esperire l'azione risarcitoria fin dal momento dell'insorgenza dell'illecito e, comunque, dal momento dell'insolvenza del da

tore. Conseguentemente, la prescrizione quinquennale del loro

diritto decorreva dalla sentenza dichiarativa del fallimento del

loro datore, in cui era stata formalmente accertata detta insol

venza. Essendo le sentenze dichiarative tutte antecedenti al

1987 e non essendo stata la prescrizione interrotta prima della

data di deposito dei ricorsi introduttivi (20 febbraio 1993), il di ritto fatto valere in giudizio dagli appellati era da ritenere pre scritto.

Ritenuti assorbiti gli altri motivi, il tribunale rigettava le do

mande.

Avverso questa sentenza propongono ricorso Trentin Lisiana

e gli altri lavoratori indicati in epigrafe. L'Inps resiste con con

troricorso.

Motivi della decisione. — I ricorrenti con il primo motivo de

ducono violazione dell'art. 2 d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80 e

della direttiva 80/987, nonché carenza di motivazione. Sosten

gono i ricorrenti che il diritto al risarcimento sarebbe nato alla

data dell'entrata in vigore del decreto legislativo e che, pertanto, i termini previsti dal diritto nazionale per agire in giudizio co

minciano a decorrere solo dal momento in cui i singoli lavorato

ri furono posti in grado di aver cognizione del proprio diritto, e

cioè dalla data suddetta (o, al limite, dal 19 novembre 1991, data della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità euro

pee, Foro it., 1992, IV, 145, che riconobbe il diritto di un citta

dino italiano ad essere risarcito dallo Stato per l'inattuazione

della direttiva 80/987). In ogni caso il danno dei lavoratori non poteva ritenersi rea

lizzato prima della chiusura del fallimento, in quanto solo a quel momento avrebbe potuto realizzarsi l'essenziale condizione del

mancato pagamento del credito di lavoro. La prescrizione avrebbe potuto, pertanto, decorrere solo dal momento di tale

chiusura.

Con il secondo motivo sono ulteriormente dedotte violazione

di norme di diritto e carenza di motivazione. Avrebbe errato il

tribunale a qualificare come illecito extracontrattuale la respon sabilità dello Stato italiano per l'inattuazione della direttiva

80/987, in ciò male interpretando la giurisprudenza della Corte

di cassazione sul punto. La prestazione richiesta dagli attori

aveva, invece, carattere indennitario e non risarcitorio ed era,

pertanto, soggetta a prescrizione decennale e non quinquennale. Con il terzo motivo è dedotta violazione dell'art. 2935 c.c. e

carenza di motivazione. Deduce parte ricorrente che per alcuni

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

degli attori la data del fallimento del datore di lavoro era inter

venuta in data compresa nel quinquennio antecedente al depo sito del ricorso introduttivo, e precisamente: Andreetto: senten

za 19 maggio 1988; Mattiuzzi: sentenza 24 aprile 1989; Bordi

gnon: sentenza 6 novembre 1989; Donnarumma: sentenza 28

giugno 1990; Camerin: sentenza 16 maggio 1991; Dal Zotto:

sentenza 29 aprile 1991; De Marco: sentenza 29 aprile 1991; Armellin: sentenza 3 luglio 1991.

Conseguentemente, proprio in forza del principio enunziato

dal giudice di merito, erroneamente sarebbe stato ritenuto ormai

decorso il termine di prescrizione alla data del deposito del ri

corso introduttivo (20 febbraio 1993). Il ricorso è fondato.

Preliminarmente deve procedersi ad un rapido inquadramento della problematica oggetto della controversia.

La direttiva del consiglio della Cee del 20 ottobre 1980 n.

80/987, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di tutela dei lavoratori subordinati in

caso d'insolvenza del datore di lavoro, prevede che gli Stati

membri adottino misure legislative affinché appositi organismi

pubblici assicurino il pagamento dei crediti dei lavoratori su

bordinati maturati prima dell'accertamento dell'insolvenza del

datore, relativamente ad un periodo di tempo prefissato. Nel

l'ordinamento italiano l'attuazione della direttiva è avvenuta

con il d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, il quale ha previsto che il

fondo di garanzia di cui alla 1. 29 maggio 1982 n. 297, sia tenuto

a pagare i crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del rap

porto rientranti nei dodici mesi anteriori allo stato d'insolvenza, in misura non eccedente il triplo del trattamento straordinario di

integrazione salariale mensile, al netto delle trattenute previden ziali (art. 1-2).

L'attuazione della direttiva nell'ordinamento interno è stata

frutto di un travagliato iter giuridico ed istituzionale. Come no

to, l'art. 11 della direttiva prevedeva che gli Stati membri della

Comunità dessero esecuzione alle sue disposizioni «entro tren

tasei mesi a decorrere dalla sua notifica», ovvero, entro la data

del 23 ottobre 1983. Lo Stato italiano, tuttavia, non procedette a

detta esecuzione e fu, ai sensi degli art. 169 e 171 (vecchia nu

merazione) del trattato di Roma, sottoposto dalla commissione

europea alla procedura di accertamento dell'inottemperanza, conclusasi con la sentenza della Corte di giustizia del 2 febbraio

1989 (ibid., 22) che riconosceva che lo Stato aveva mancato al

l'obbligo di esecuzione.

A seguito di questo accertamento alcuni lavoratori che si rite

nevano potenzialmente lesi dalla (perdurante) inattuazione della

direttiva, convennero in giudizio lo Stato italiano dinanzi al

giudice nazionale per ottenere il risarcimento dei danni a loro

derivati. Investita in sede di pronunzia pregiudiziale dallo stesso

giudice nazionale, la Corte di giustizia affermò l'esistenza del

principio comunitario della responsabilità dello Stato per i danni

causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad esso

imputabili (derivante dall'art. 5 del trattato, per il quale gli Stati

membri sono tenuti ad adottare tutte le misure idonee ad assicu

rare nell'ordinamento interno l'esecuzione degli obblighi co

munitari) (sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e

C-9/90, Francovich, cit.). Pertanto, il d.leg. n. 80 del 1992, all'art. 2, prevede che, no

nostante l'intervento del fondo di garanzia possa essere richie

sto solo nel caso che le procedure di cui all'art. 1 (concordato

preventivo, amministrazione straordinaria, liquidazione coatta o

fallimento) siano intervenute dopo l'entrata in vigore del de

creto stesso (6° comma), è, tuttavia, ammessa un'indennità «per il danno derivante dalla mancata attuazione della direttiva

80/987», da liquidarsi secondo le misure e le modalità dei pre cedenti 1°, 2° e 4° comma (7° comma). Tale forma di risarci

mento doveva essere proposta entro un anno dall'entrata in vi

gore del decreto.

Tanto premesso, e passando all'esame del primo motivo di ri

corso, deve rilevarsi che, nel caso di specie, l'originaria richie

sta di risarcimento è stata ricondotta nell'ambito dell'indennità

riconosciuta dalla norma appena indicata. Pur essendo l'azione

esercitata entro l'anno, si discute se il diritto si sia prescritto e,

in particolare, di quale sia il momento dal quale inizia il decorso

della prescrizione. Al riguardo deve rilevarsi che la Corte di giustizia, con la già

richiamata sentenza 19 novembre 1991, ha formulato il princi

pio per cui dalla violazione degli art. 5 e 189 del trattato istituti

vo della Comunità europea — in forza dei quali gli Stati membri

li. Foro Italiano — 2002.

sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o

particolare atte ad assicurare l'esecuzione dei doveri derivanti

dal diritto comunitario — discende l'obbligo dello Stato ina

dempiente di risarcire il danno subito dai singoli cui l'attuazio

ne della direttiva avrebbe attribuito diritti dal contenuto chiara

mente individuabile sulla base della direttiva medesima, sempre che sussista il nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a

carico dello Stato ed il pregiudizio subito, deve essere applicato tenendo conto che è nell'ambito del diritto nazionale che devo

no essere individuate le regole e le condizioni, formali e sostan

ziali, per ottenere il risarcimento.

La Corte di cassazione, muovendosi in questa impostazione, ha cercato di inquadrare nell'ambito delle categorie giuridiche conosciute dall'ordinamento nazionale la natura del diritto al ri

sarcimento del lavoratore colpito dall'inattuazione della diretti

va. Una recente pronunzia ritiene che l'indennizzo dovuto al la

voratore subordinato ai sensi dell'art. 2, 7° comma, d.leg. n. 80

del 1992, trova fondamento nella responsabilità aquiliana degli Stati membri della Comunità europea per omesso recepimento nel diritto interno delle norme contenute in una direttiva comu

nitaria (Cass. 9 aprile 2001, n. 5249, che segue). Un'altra pro

nunzia, invece, ritiene debba escludersi che dall'ordinamento

comunitario possa farsi derivare, nell'ordinamento italiano, il

diritto soggettivo del singolo all'esercizio del potere legislativo — che è libero nei fini e sottratto a qualsiasi sindacato giurisdi zionale —, e che possa comunque qualificarsi in termini di ille

cito da imputare allo Stato-persona, ai sensi dell'art. 2043 c.c., una determinata conformazione dello Stato-ordinamento, la

pretesa del singolo di ottenere il risarcimento del danno subito

per la mancata attuazione di una direttiva comunitaria deve es

sere qualificata come richiesta di indennizzo delle diminuzioni

patrimoniali subite in conseguenza dell'esercizio di un potere non sindacabile dalla giurisdizione. Ne consegue che l'inden

nizzo «per il danno derivante dalla mancata attuazione della di

rettiva Cee 80/987» non ha la natura giuridica del risarcimento

conseguente ad una fattispecie di responsabilità (Cass. 11 otto

bre 1995, n. 10617, id., 1996, I, 503). A questa pronunzia è in

qualche modo ricollegabile quella che considera l'indennizzo un

credito di lavoro a carattere risarcitorio, a prescindere dalla ri

conducibilità della fattispecie nella generale previsione dell'art.

2043 c.c. (Cass. 22 luglio 1999, n. 7922, id., Rep. 1999, voce Lavoro (rapporto), n. 1367).

Le sentenze n. 7922 del 1999 e n. 5249 del 2001, si pronun

ziano, inoltre, sul punto della prescrizione (oggetto specifico della presente controversia) e ritengono che il termine per la

prescrizione del relativo diritto al risarcimento abbia durata

quinquennale e decorra dalla data in cui si è manifestata l'insol

venza del datore di lavoro ed è venuta in essere la pretesa risar

citoria, non rilevando che tale data sia anteriore all'entrata in

vigore del citato d.leg. n. 80 del 1992, dovendo la stessa essere

solamente successiva alla scadenza del termine in cui lo Stato

avrebbe dovuto adeguare il proprio ordinamento alle prescrizio ni comunitarie.

Il collegio ritiene, tuttavia, non soddisfacente la costruzione

appena riferita in punto di regime di prescrizione del diritto. In

fatti, la Corte di giustizia, nell'affermare che è nell'ambito del

diritto nazionale che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato dal mancato adempimento alla direttiva, af

ferma che «le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle

diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei

danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguar dano analoghi reclami di natura interna e non possono essere

congegnate in modo da rendere eccessivamente difficile o prati camente impossibile ottenere il risarcimento» (cfr. la già men

zionata sentenza 19 novembre 1991). Inoltre, la stessa Corte di

giustizia ha affermato che, sulla base del diritto comunitario,

non è consentito ad uno Stato membro di opporre al privato le

norme nazionali di procedura relative ai termini di ricorso fino a

quando gli stessi non abbiano trasposto correttamente le norme

della direttiva di cui il detto privato lamenta l'inattuazione

(sentenza 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmot, id., 1993, IV,

324). L'assetto della pretesa risarcitoria del lavoratore cui perviene

la giurisprudenza sopra riferita (e con essa la pronunzia di me

rito impugnata, che decide nello stesso senso), con la posizione assunta in punto di prescrizione, non è conforme ai principi co

munitari appena indicati. Infatti, il diritto alla tutela patrimo niale del lavoratore, mentre durante il periodo intercorso tra la

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2667 PARTE PRIMA 2668

scadenza del termine di adempimento posto allo Stato (23 otto

bre 1983) e la data di entrata in vigore del d.leg. n. 80 del 1992

(28 febbraio 1992) non poteva avere soddisfazione per l'inat

tuazione dello strumento di tutela comunitario (non predisposto dal legislatore nazionale), successivamente all'entrata in vigore della disciplina di attuazione e della norma che consente il ri

sarcimento per la ritardata attuazione, sarebbe comunque limi

tato dal decorso della prescrizione, che opera a prescindere dal

l'esistenza di una concreta possibilità di tutela. La conseguenza

pratica che ne deriva è che il risarcimento previsto dall'art. 2, 7°

comma, sarebbe possibile non per tutti i lavoratori colpiti dal

ritardato recepimento della direttiva, ma solamente per quelli

per i quali lo stato d'insolvenza è maturato in un periodo tempo rale compreso nel quinquennio antecedente all'entrata in vigore del decreto n. 80 del 1992.

11 legislatore ha, invece, definito in maniera autonoma il re

gime risarcitorio, contemperando il diritto al risarcimento (rec

tius, indennizzo per il danno derivante dalla mancata attuazione

della direttiva) con le esigenze di certezza rivendicativa e di de

finizione finanziaria del sistema, regolando l'esperimento delle

azioni con la previsione di un termine di decadenza di un anno

(art. 2, 7° comma, ultima parte). In questo quadro, pertanto, ap

pare coerente far decorrere la prescrizione dal momento stesso

in cui il diritto al risarcimento viene riconosciuto, e cioè dal

l'entrata in vigore del ripetuto decreto n. 80 del 1992, in appli cazione del principio desumibile dall'art. 2935 c.c., per il quale «la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto

può essere fatto valere».

Tale impostazione non collide con la consolidata giurispru denza di legittimità, per la quale la disposizione dell'art. 2935

c.c. ha riguardo alla possibilità legale dell'esercizio del diritto e

non all'impossibilità di fatto (cfr., tra le tante, Cass. 19 novem

bre 1999, n. 12825, id., Rep. 1999, voce Prescrizione e deca

denza, n. 32; 7 maggio 1996, n. 4235, id., Rep. 1996, voce cit., n. 21; 12 marzo 1994, n. 2429, id., Rep. 1994, voce cit., n. 12). Nel caso di specie quella particolare forma di risarcimento co

stituita dall'indennità prevista dall'art. 2, 7° comma, del decreto

n. 80 del 1992 non avrebbe potuto essere richiesta prima del

l'entrata in vigore della norma, il che rappresentava una giuridi ca impossibilità di far valere il diritto, nei limiti in cui la norma di legge ne consente la soddisfazione.

Conseguentemente, deve essere accolto il primo motivo di ri

corso e, dichiarati assorbiti gli altri, l'impugnata sentenza deve

essere cassata. Il giudice di rinvio indicato in dispositivo si at

terrà al seguente principio di diritto: «Ai fini del riconoscimento

dell'indennità per il danno derivante dalla mancata attuazione

della direttiva 80/987 prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27

gennaio 1992 n. 80, il termine iniziale della prescrizione del di

ritto del lavoratore va fissato al momento dell'entrata in vigore del detto decreto n. 80 del 1992».

II

Svolgimento del processo. — Con ricorso del 18 gennaio

1993 Ines Pederzoli, Luisa Arnoffì, Ida Barillani, Graziella Ver

zieri, Leonardo Ballini, Roberto Biondi e Silvana Berozzi con

venivano davanti al Pretore del lavoro di Bologna l'Istituto na

zionale della previdenza sociale e il governo della repubblica italiana e chiedevano che i convenuti fossero condannati a corri

spondere loro l'indennità prevista dall'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80 per avere essi prestato attività di lavoro

subordinato alle dipendenze di un'impresa dichiarata fallita il 12 dicembre 1984 e per non avere ottenuto il pagamento delle

retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro.

Entrambi i convenuti si costituivano in giudizio, contestando

la fondatezza delle pretese avversarie e, in particolare, eccepen do, il governo della repubblica italiana, il proprio difetto di le

gittimazione passiva e l'Inps la prescrizione del diritto fatto va lere dai ricorrenti.

Con sentenza del 7 marzo 1996 il pretore rigettava il ricorso.

Questa decisione, impugnata dai lavoratori solamente nei confronti dell'Inps, veniva confermata dal Tribunale di Bologna con sentenza del 20 novembre 1997.

Il tribunale osservava che dal giorno della dichiarazione di

fallimento dell'impresa datrice di lavoro dei lavoratori appel lanti (12 dicembre 1984) a quello di proposizione del ricorso era

Il Foro Italiano — 2002.

trascorso un termine superiore ai cinque anni, con la conseguen za che si era ormai maturata la prescrizione eccepita dall'Inps, dato che, dovendosi applicare l'art. 2948, n. 4, c.c. e pur stabi

lendo l'art. 2, 7° comma, d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80 che la

normativa dettata dai commi precedenti si applica anche alle

situazioni pregresse, tuttavia tale applicazione non può com

prendere quelle fattispecie in relazione alle quali sono interve

nuti eventi tali da determinarne l'estinzione.

Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassa

zione, ad eccezione di Silvana Berozzi, tutti i lavoratori sopra indicati, che hanno dedotto tre distinti e complessi motivi poi illustrati da memoria.

L'Inps ha depositato la procura speciale alla lite.

Motivi della decisione. — Va preliminarmente dichiarata l'i

nammissibilità del ricorso proposto dalla Pederzoli, dato che

non risulta che quest'ultima abbia rilasciato al difensore la pro cura speciale prevista dall'art. 365 c.p.c.

Con tutti e tre i motivi dell'impugnazione, che per ragioni di

connessione vanno congiuntamente esaminati, i ricorrenti de

nunciano i vizi di violazione e falsa applicazione degli art. 2

d.leg. 27 gennaio 1992 n. 80, 2946, 2947, 2948 c.c. nonché di

omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti de

cisivi della controversia, in relazione all'art. 360, 1° comma, nn.

3 e 5, c.p.c. e sostengono che il tribunale avrebbe errato nel ri

tenere la fondatezza dell'eccezione di prescrizione dedotta dal

l'Inps. A sostegno di tale censura i ricorrenti deducono, in via

gradata, i seguenti argomenti: a) al contrario di quanto è stato

ritenuto dal giudice di appello, il termine di prescrizione del di

ritto all'indennità, che può essere fatto valere nei confronti del

l'ente previdenziale a norma del 7° comma del suddetto art. 2

d.leg. n. 80 del 1992 — e che è, per ciò solo, del tutto diverso

dal diritto che può essere preteso dai lavoratori nei confronti del

governo italiano o del datore di lavoro o degli organi della pro cedura fallimentare — decorre non già dal giorno della dichia

razione di fallimento dell'impresa datrice di lavoro, bensì dalla

data di efficacia del d.leg. n. 80 del 1992, considerato che sola

mente da quest'ultima data è possibile, per i lavoratori, pro muovere il giudizio contro l'Inps allo scopo di ottenere il risar

cimento dei danni causati dalla dichiarazione di fallimento del

datore di lavoro e posto che il tribunale, non accorgendosi della

evidente contraddizione con la tesi poi seguita, ha più volte af

fermato che la responsabilità dell'Inps è sorta con la 1. dele

ga 29 dicembre 1990 n. 428 e con l'entrata in vigore della legge

delegata; b) a voler prendere come punto di riferimento la pro cedura fallimentare, si dovrebbe affermare che il termine decor

re dal giorno della chiusura del fallimento dell'imprenditore -

datore di lavoro (non ancora verificatasi, nel caso in esame, al

l'epoca della proposizione del ricorso davanti al Pretore di Bo

logna), quando il credito viene ad esistenza in conseguenza del

danno determinatosi nei confronti dei lavoratori, essendo possi bile solo da quel momento acquisire la certezza del mancato pa gamento; c) che, a ritenere che il termine decorra dalla data in cui è reso esecutivo lo stato passivo nel fallimento, si dovrebbe

affermare che lo stesso deve rimanere sospeso durante tutto il

corso del procedimento fallimentare; d) che, infine, se si vuole

aderire alla tesi sostenuta dal tribunale, si deve applicare, in

mancanza di norme particolari o speciali, la disposizione gene rale contenuta nel suddetto art. 2946 c.c. e affermare che il ter mine è di dieci anni e non di cinque.

Tutte queste censure sono prive di fondamento. (Omissis) V. - L'art. 1 e i primi sei commi dell'art. 2 d.leg. n. 80 del

1992 regolano una fattispecie del tutto diversa da quella con

templata dal 7° comma del medesimo art. 2, perché, pur essendo

tutte le disposizioni contenute nell'uno e nell'altro articolo ispi rate alla medesima ratio — la tutela che deve essere accordata

ai lavoratori dipendenti da un'impresa in stato d'insolvenza —

il primo gruppo di norme riguarda le prestazioni c.d. a regime (i crediti derivanti dalle procedure «intervenute successivamente

all'entrata in vigore del presente decreto»), mentre la disposi zione contenuta nel 7° comma disciplina l'indennizzo, avente funzione risarcitoria, che lo Stato italiano è tenuto a pagare per essere rimasto inadempiente agli obblighi posti a suo carico dalla direttiva comunitaria.

Non può trarre in inganno, al fine di ritenere il contrario, la

norma (pure inserita nel suddetto 7° comma) che stabilisce che,

per la determinazione dell'indennità, «trovano applicazione i

termini, le misure e le modalità di cui al 1°, 2° e 4° comma», dal

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

momento che con tale norma il legislatore ha proprio voluto

adattare alla materia presa in considerazione parte di una disci

plina dettata in una materia avente diversa natura (cfr., del resto, la sentenza della Corte costituzionale 16 giugno 1993, n. 285, Foro it., 1994,1, 392, in motivazione, nella quale si sottolinea la

«diversità di natura» dell'indennità rispetto alle prestazioni ero

gate nel sistema a regime, con la precisazione che il richiamo al

1°, 2° e 4° comma «ha soltanto la funzione di indicare il para metro per la determinazione dell'indennità, la quale spetta a ti

tolo di risarcimento del danno»). Pertanto, a fronte della duplice scelta che si poneva per rea

lizzare la tutela delle posizioni giuridiche pregresse (in quanto venute in essere prima dell'entrata in vigore del decreto legisla tivo) — e per evitare, come occorre aggiungere, una nuova pro nuncia di inadempienza dello Stato italiano in sede comunitaria — il legislatore, anziché rendere retroattive le disposizioni det

tate per l'avvenire, ha optato per un'altra soluzione e ha prefe rito emanare per quelle posizioni un'apposita disciplina, anche

se il risultato conseguito deve considerarsi analogo a quello che

si sarebbe potuto ottenere mediante la scelta della prima delle

due opzioni. VI. - Tenuto conto di questi rilievi, per la decisione della pre

sente controversia — che ha per oggetto il pagamento dell'in

dennità e non delle prestazioni a regime — non possono essere

utilizzati, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, né le

regole poste dal 1° al 7° comma dell'art. 2 non espressamente richiamate né i principi di diritto elaborati da questa corte (cfr., in particolare, Cass. 21 ottobre 1995, n. 10968, id., Rep. 1996, voce Lavoro (rapporto), n. 1649, indicata nel ricorso per cassa

zione) nella contigua materia regolata dall'art. 2 1. 29 maggio 1982 n. 297 e relativa al pagamento, da parte del fondo di ga ranzia costituito presso l'inps, del trattamento di fine rapporto ai

lavoratori dipendenti da imprese insolventi (proprio perché, se

non altro, dal 7° comma non è richiamato il 3° comma, il quale, a sua volta, rinvia, per la relativa diretta applicazione, a molte

delle disposizioni contenute nel precedente testo di legge). VII. - L'azione per ottenere l'indennità, che, a norma del 7°

comma dell'art. 2 d.leg. n. 80 del 1992, deve essere esercitata

contro l'inps, è omogenea a quella che, pur con diverse moda

lità di esercizio, prima dell'entrata in vigore del decreto legisla tivo poteva essere promossa contro il governo della repubblica italiana e che era diretta conseguenza dell'inerzia posta in esse

re dallo Stato in ordine alla (immediata) attuazione della diretti

va comunitaria. Non possono trarsi argomenti di sostanziale di

stinzione, infatti, fra le due azioni dalla diversità dei soggetti

passivi dell'una e dell'altra in base alle seguenti ragioni. Va richiamato quanto è stato detto sopra, quando è stato af

fermato che con la norma di cui a! 7° comma dell'art. 2 d.leg. n.

80 del 1992 il legislatore ha predisposto all'interno dell'ordi namento, ricorrendone le condizioni, un sistema per permettere ai lavoratori di conseguire quell'indennizzo (rectius, risarci

mento) — per il danno subito dalla mancata attuazione della di

rettiva — che già i medesimi lavoratori potevano ottenere me

diante l'esercizio di un'azione la cui legittimità è stata proprio riconosciuta dalla Corte di giustizia Cee con la sentenza Fran

covich, id., 1992, IV, 145 (e che, per conseguenza, ben poteva essere espletata anche prima dell'emanazione della norma inter

na di attuazione della direttiva). L'identità del risultato, ancor

ché attuato attraverso la predisposizione di un meccanismo di

verso, dimostra l'omogeneità fra le due azioni, essendo quella

proposta contro l'inps, dopo l'entrata in vigore del d.leg. n. 80

del 1992, diretta derivazione da quella che, in epoca precedente,

già poteva essere esercitata, sempre davanti al giudice italiano,

per il conseguimento di una medesima tutela (eventualmente attraverso l'intervento della Corte di giustizia Cee, come poi è

avvenuto); con la conseguenza che non può farsi questione per il fatto che, ora, il soggetto passivo dell'azione è l'istituto pre videnziale e non già, direttamente, lo Stato italiano, posto che

questa formale distinzione altro non è che l'effetto della dispo sizione contenuta nell'art. 4 del medesimo decreto legislativo del 1992 — secondo cui il fondo di garanzia istituito presso

l'inps ha l'obbligo di provvedere a tutti «gli oneri derivanti dal

l'applicazione degli art. 1, 2 e 3», senza esclusione dell'obbli

gazione relativa all'indennità prevista dal 7° comma — e consi

derato altresì che, come è stato asserito dalla Corte costituzio

nale nella sentenza n. 285 del 1993, sopra indicata, il legislatore ha voluto porre l'obbligazione avente per oggetto l'indennità

li. Foro Italiano — 2002.

non in capo allo Stato-persona, «ma a uno degli enti pubblici in

cui si articola l'apparato dell'amministrazione indiretta statale»:

quello stesso ente, come è utile aggiungere, che è stato desi

gnato quale «organismo di garanzia» per assicurare, a norma

dell'art. 4 della direttiva comunitaria, il pagamento dei crediti

non soddisfatti dal datore di lavoro ai soggetti legittimati. D'altra parte, come occorre pure sottolineare, fermo restando

il riferimento ad eventi venuti in essere in epoca precedente al

l'entrata in vigore del decreto legislativo, sotto il profilo sostan

ziale il diritto avente per oggetto l'indennità, che, ai sensi del 7°

comma dell'art. 2, deve essere (formalmente) fatto valere contro

l'Inps, non ha contenuto diverso da quella situazione giuridica

soggettiva, sopra delineata, che, riguardo a quei medesimi

eventi, anche in precedenza riceveva adeguata tutela qualora la

domanda di risarcimento del danno fosse stata proposta diretta

mente nei confronti del governo italiano. Sebbene il diritto in

questione trovi ora fondamento, per le modalità del suo eserci

zio e del suo soddisfacimento, nella norma emanata nell'ordi

namento giuridico interno, tuttavia in precedenza, in capo a co

loro che si trovavano nelle condizioni richieste, era già esisten

te, per effetto dell'entrata in vigore della direttiva comunitaria e

della mancata attuazione della medesima, una posizione giuridi ca del singolo, di analogo contenuto e di identica natura, già immediatamente tutelabile.

Vili. - Nel caso in esame, come è pacifico in causa, i lavora

tori attuali ricorrenti erano dipendenti di un'impresa della quale era stato dichiarato il fallimento il 12 dicembre 1984, quando era già scaduto il termine assegnato allo Stato italiano (e a tutti

gli altri Stati dell'unione) per attuare la direttiva comunitaria di

cui si discute (3 ottobre 1983). Ne deriva che fin d'allora in ca

po ai medesimi lavoratori era sorta quella situazione giuridica di

cui si è sopra parlato e della quale era possibile l'esercizio (v., in proposito, per un utile riferimento, la sentenza della Corte di

giustizia Cee del 10 luglio 1997, causa C-373/95, Maso ed altri

c. Inps e Repubblica italiana, id., 1998, IV, 213), dato che, a

ben vedere, la sopra rilevata omogeneità fra l'azione ora eser

citata contro l'Inps e quella che, prima, poteva essere promossa contro il governo italiano si risolve in una vera e propria identi

tà. Rilievi, codesti, che assumono importanza fondamentale ai

fini della decisione che deve essere emessa e che sono suffi

cienti a confutare immediatamente una delle tesi sostenute dai

ricorrenti, dato che il danno in capo a costoro è sorto all'epoca in cui si è manifestata l'insolvenza del loro datore di lavoro,

quando la direttiva comunitaria non aveva avuto ancora attua

zione, e non già al momento della chiusura del fallimento del

suddetto datore di lavoro.

IX. - Il 5° comma, primo periodo, dell'art. 2 d.leg. n. 80 del

1992 stabilisce che il diritto avente per oggetto le prestazioni c.d. a regime si prescrive nel termine di un anno. Viceversa, il

7° comma, ultimo periodo, del medesimo articolo dispone che

l'azione per ottenere l'indennità della quale qui si discute deve

essere «promossa entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Quest'ultima norma, come è pacifico,

pone un termine di decadenza.

L'espressa previsione della decadenza, tuttavia, trattandosi di

un diritto disponibile e in mancanza di un'apposita disposizione di legge che ponga una diversa disciplina (arg. a contrario ex

art. 2934, 2° comma, c.c.), non impedisce la prescrizione di tale

diritto in caso di mancato esercizio nel termine stabilito dalla

legge. Su questo rilievo concordano i ricorrenti, i quali, nell'impu

gnare la sentenza emessa dal Tribunale di Bologna, non hanno

negato che il diritto da essi fatto valere, oltre ad essere, in

astratto, soggetto a decadenza, è anche passibile di prescrizione. Punti di contestazione da parte dei medesimi ricorrenti, riguardo alla pronuncia resa dal giudice di appello, sono, al contrario —

come risulta dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi

del ricorso — l'individuazione del dies a quo nonché la durata

del termine necessario affinché il diritto, alla scadenza, sia con

siderato estinto per prescrizione. Ora, riguardo al primo punto di contestazione, dopo quanto è

stato sopra esposto non occorre spendere molte parole per con

futare le diverse soluzioni alternativamente prospettate nel ri

corso per cassazione.

Posto che il diritto all'indennità fatto valere dai ricorrenti nei

confronti dell'Inps altro non è che la pregressa posizione giuri dica soggettiva già esistente in capo ai medesimi ricorrenti nei

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PARTE PRIMA 2672

confronti dello Stato italiano e posto, quindi, che la relativa

pretesa risarcitoria è certamente venuta in essere in epoca non

successiva al 12 dicembre 1984 (quando è stato dichiarato il

fallimento del datore di lavoro e quando era già scaduto il ter

mine per l'attuazione della direttiva del consiglio Cee 80/987;

v., al riguardo, Corte giust. 10 luglio 1997, causa C-373/95, Ma

so ed altri c. Inps e Repubblica italiana, già indicata), si deve

ritenere che il termine di prescrizione, ai sensi dell'art. 2935

c.c., abbia avuto inizio, quanto meno, nel giorno sopra precisato ( 12 dicembre 1984). (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 29 mag

gio 2002, n. 7852; Pres. Senese, Est. Dell'Anno, P.M. Fede

li (conci, diff.); Coltelli (Avv. Cecchinelli) c. Inail (Avv.

Catania, De Ferra). Cassa Trib. La Spezia 11 dicembre

1998.

Infortuni sul lavoro e malattie professionali — Coltivatore

diretto — Fondo rustico coltivato per l'autoconsumo —

Rendita per malattia professionale agricola (D.p.r. 30 giu

gno 1965 n. 1124, t.u. delle disposizioni per l'assicurazione

obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie pro fessionali, art. 205, 206, 207).

Ha diritto alla rendita per malattia professionale agricola chi

svolge attività di coltivazione di un fondo agricolo, i cui pro dotti siano destinati al consumo della propria famiglia e non al mercato. ( 1 )

(1) Contrasto giurisprudenziale su qualifiche agricole, produzio ne per l'autoconsumo e rendite per malattie professionali.

I. - I giudici del merito avevano escluso che potesse beneficiare di rendita per malattia professionale agricola la coltivatrice di un fondo

agricolo, i cui prodotti erano destinati al consumo della propria fami

glia e non al mercato, non configurandosi in tale ipotesi un'attività di carattere imprenditoriale costituente il presupposto necessario per il di ritto all'assicurazione di invalidità.

La sentenza riportata ha richiamato in particolare Cass., sez. un., 1° settembre 1999, n. 616/SU, Foro it., 1999,1, 3508, con nota di D. Bel lantuono, secondo cui ai fini dell'applicabilità dell'assicurazione per invalidità e vecchiaia, la qualità di coltivatore diretto deve essere de sunta dal combinato disposto degli art. 2 1. 26 ottobre 1957 n. 1047 e 2 e 9 1. 9 gennaio 1963 n. 9, con la conseguenza che, per il suo ricono scimento, non è richiesto il carattere imprenditoriale dell'attività, con la destinazione dei prodotti del fondo, anche solo in parte, al mercato, es sendo sufficiente, invece, che il reddito prodotto, con il connotato della

prevalenza, sia destinato direttamente al sostentamento proprio del col tivatore e della sua famiglia.

In senso favorevole alla ricorrente, è stata richiamata in motivazione anche Cass. 28 maggio 1997, n. 4724, id., Rep. 1997, voce Infortuni sul

lavoro, n. 96, e Giusi, civ., 1997, I, 2768: ha ritenuto questa sentenza che presupposto obbligatorio contro gli infortuni sul lavoro è l'abitua lità dell'attività agricola esercitata dal coltivatore diretto, non necessa riamente la professionalità, con la conseguenza che l'obbligo assicura tivo sussiste anche nei confronti di chi, pur prevalentemente impiegato in altri settori, si applichi nel residuo tempo in maniera non sporadica a lavorazioni agricole anche se relative non ad un'azienda in senso tecni co (quale proiezione patrimoniale dell'impresa) attesa la non necessaria

professionalità dell'attività esercitata, bensì soltanto ad un fundus in structs. E sostanzialmente conforme, è stata pure richiamata Cass. 27

gennaio 1981, n. 632, Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 363; ma v. an che Cass. 6 luglio 1998, n. 6566, id., 1998, I, 3575.

A conclusione diametralmente opposta è pervenuta altra giurispru denza, secondo cui, ai fini della tutela contro gli infortuni sul lavoro in

agricoltura, è richiesto l'esercizio professionale, da parte dei soggetti indicati nell'art. 205 d.p.r. 1124/65, di un'attività economica diretta alla coltivazione del fondo o altra di quelle indicate nell'art. 2135 c.c., espressamente richiamato dal successivo art. 206 stesso d.p.r. 1124/65

Il Foro Italiano — 2002.

Svolgimento del processo. — Con la sentenza sopra indicata,

confermativa di quella di primo grado, si è escluso che Coltelli

Annunziata potesse godere di rendita per malattia professionale

agricola svolgendo la stessa attività di coltivazione di un fondo

agricolo i cui prodotti erano destinati al consumo della propria

famiglia e non al mercato, non configurandosi quindi un'attività

di carattere imprenditoriale costituente il presupposto necessario

per il diritto alla assicurazione di invalidità.

per l'individuazione della nozione di azienda agricola, conseguendone che non è sufficiente l'attività di coltivazione del proprio fondo, anche svolta in modo abituale, al solo scopo di destinare i prodotti al proprio diretto consumo e non al mercato (Cass. 4 luglio 2001, n. 9040, id.,

Rep. 2001, voce cit., n. 115; 3 novembre 1992, n. 11915, id., Rep. 1994, voce Previdenza sociale, n. 258, e 28 gennaio 1984, n. 703, id.,

Rep. 1986, voce Infortuni sul lavoro, n. 216).

II. - La sentenza riportata ha preliminarmente osservato che il d.p.r. 1124/65 mentre tutela determinate categorie di lavoratori la cui attività è considerata la più esposta al rischio e quindi più pericolosa, per l'a

gricoltura ha esteso l'operatività del decreto all'intero settore, presu mendo quindi la sussistenza del requisito della pericolosità in tutte le attività agricole.

Secondo questa ottica, è stato richiamato l'art. 205 d.p.r. 1124/65 che indica come destinatari della protezione i soggetti che prestano la loro

opera nelle aziende — agricole o forestali —, e che l'articolo imme

diatamente successivo individua in quelle «esercenti un'attività diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all'allevamento degli ani mali ed attività connesse ai sensi dell'art. 2135 c.c.». E tali soggetti preferiti, è stato affermato, vanno individuati secondo i criteri e le mo dalità della 1. 26 ottobre 1957 n. 1047 e successive modificazioni e in

tegrazioni, sottolineando che la «abitualità» nella coltivazione dei fondi rustici o nell'allevamento o nel governo del bestiame è stata sostituita, dal 2° comma dell'art. 2 1. 9 gennaio 1963 n. 9, dall'esercizio dell'atti vità «in modo esclusivo o almeno prevalente». E si è di conseguenza ritenuto che, anche se le norme richiamate delle 1. 1047/57 e 9/63 per l'invalidità e vecchiaia non fanno esplicito riferimento alle norme per le malattie professionali, tuttavia il riferimento deve ritenersi implicito, considerato che Corte cost. 4 febbraio 2000, n. 26 (id.. Rep. 2000, voce

cit., nn. 143-145; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2000, 172, con nota di A.

Fontana, e Riv. giur. lav., 2000, li, 551, con nota di A. Mazziotti), do

po avere ribadito il principio che l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro realizzava un rapporto fondato su una logica di tipo assicurativo

piuttosto che di tipo pienamente solidaristico, aveva escluso che potes se qualificarsi irragionevole, in considerazione della peculiarità del la voro agricolo, la scelta della sostituzione del criterio della abitualità, già operante secondo la normativa previgente, con quello della esclusi vità o prevalenza.

III. - Per la comprensione del contrasto di giurisprudenza nell'ambito della sezione lavoro della Suprema corte, appare opportuno ricordare

quanto ritenuto da Cass. 9040/01, cit., che ha richiamato le seguenti norme: l'art. 205 d.p.r. 1124/65, come modificato con l'art. 10 1. 9 di cembre 1977 n. 903, dispone che si intendono assicurati contro gli in fortuni sul lavoro in agricoltura «i proprietari, mezzadri, affittuari, loro

coniuge e figli, anche naturali o adottivi, che prestano opera manuale abituale nelle rispettive aziende». E l'art. 206 d.p.r. cit., come sostituito dall'art. 1 1. 20 novembre 1986 n. 778, considera «aziende agricole o

forestali, ai fini del presente titolo, quelle esercenti un'attività diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all'allevamento degli ani mali ed attività connesse, ai sensi dell'art. 2135 c.c.». E l'art. 207 con sidera «lavori agricoli, ai fini del presente titolo, tutti i lavori inerenti alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all'allevamento degli ani mali ed attività connesse, ossia quelle che rientrano nell'attività del

l'imprenditore agricolo, a norma dell'art. 2135 c.c., anche se i lavori sono eseguiti con l'impiego di macchine mosse da agente inanimato, ovvero non direttamente dalla persona che ne usa ed anche se essi non siano eseguiti per conto e nell'interesse dell'azienda conduttrice del fondo».

Per via delle norme richiamate, Cass. 9040/01 ha ritenuto che per l'assoggettamento alla tutela infortunistica dei proprietari, mezzadri, ecc. è richiesto, con la titolarità dell'impresa, l'esercizio professionale di una certa attività economica atteso che tale «esercizio professionale» rientra sicuramente nella previsione di cui all'art. 2135 c.c., per il quale è imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività con nesse.

Cass. 9040/01, è bene ricordarlo, aveva escluso il diritto al paga mento della rendita per l'inabilità permanente residuata ad un infortu nio sul lavoro, per una donna che svolgeva attività non avente carattere

professionale, trattandosi di modesta produzione agricola, su un fondo dell'estensione di 2700 mq, destinata al consumo familiare.

La sentenza riportata, a Cass. 9040/01 ha opposto che «la stessa let

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