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sezione lavoro; sentenza 6 dicembre 1984, n. 6448; Pres. Santilli, Est. Pontrandolfi, P. M. Caristo...

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sezione lavoro; sentenza 6 dicembre 1984, n. 6448; Pres. Santilli, Est. Pontrandolfi, P. M. Caristo (concl. conf.); Buggini ed altri (Avv. D'Aloisio) c. Soc. Alitalia (Avv. Marazza, Trodella). Cassa Trib. Roma 17 febbraio 1981 Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 9 (SETTEMBRE 1985), pp. 2341/2342-2345/2346 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23178006 . Accessed: 25/06/2014 10:51 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 194.29.185.251 on Wed, 25 Jun 2014 10:51:42 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione lavoro; sentenza 6 dicembre 1984, n. 6448; Pres. Santilli, Est. Pontrandolfi, P. M.Caristo (concl. conf.); Buggini ed altri (Avv. D'Aloisio) c. Soc. Alitalia (Avv. Marazza, Trodella).Cassa Trib. Roma 17 febbraio 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 9 (SETTEMBRE 1985), pp. 2341/2342-2345/2346Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178006 .

Accessed: 25/06/2014 10:51

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Riva: costui, nell'attribuire determinate somme di denaro alle tre

Anstalten (fiduciarie) affinché acquistassero in nome loro azioni

del cotonoficio e ne divenissero titolari1 di fronte ai terzi, conven

ne tuttavia, nei rapporti fatemi, che egli dovesse essere considerato

il reale proprietario delle azioni, il che si risolveva nel!'obbligo del

le tre società, intestatarie dei1 titoli acquistati, dii limitarsi a fungere da prestanome nel godimento dei diritti e nella sopportazione dei

rischi inerenti a tali azioni, a lui riservati. L'espressione « nego zio fiduciario » utilizzata dalla corte d'appello anche a proposito di tale momento del rapporto, si deve condividere a patto di apportarvi alcune precisazioni (art. 384 c.p.c.). Non si tratta

del negozio fiduciario nella sua configurazione normale, la quale si ha quando il fiduciante aliena un diritto per uno scopo ulteriore che l'acquirente fiduciario si obbliga a realizzare, ritra

sferendo il diritto stesso al fiduciante o al terzo. Neppure si tratta

di quella particolare fiducia (c.d. « statica ») in cui non vi è

trasferimento d'i proprietà, ma assunzione di impegni fiduciari da

parte di colui che è già proprietario (Cass. 21 novembre 1975, n.

3911, id., Rep. 1975, voce Falso (querela), in. 8; 7 agosto 1982, n. 4438, id., Rep. 1982, voce Contratto in genere, tu 67).

Invero, tradizionalmente, nei negozi fiduciari si riscontra una

eccedenza o sproporzione fra negozio stipulato a scopo pratico, in quanto il fiduciario riceve una posizione giuridica più ampia

rispetto ai limiti obbligatori ohe lo vincolano alla realizzazione di

un determinato scopo.

È noto che un'autorevole dottrina individua la fiducia nel

convincimento delle parti di sottrarre il risultato pratico pro

grammato all'intervento del diritto, che peraltro si attua ugual mente o nel senso di privare di effetti giuridici l'intento pratico, ovvero nel senso di disciplinarlo con altri istituti che vi sovrap

pongono. Tale discrepanza tra il piano empirico e quello legale non

esiste, nel caso di regolamentazione legale del rapporto, quale è

quella che si ha nell'intestazione di titoli azionari a società fiduciarie

(1. 23 novembre 1939 n. 1966); società che amministra beni per con to terzi non in virtù di un semplice mandato, ma attraverso la

gestione fiduciaria di beni conferiti da terzi (r.d.l. 26 ottobre 1933 n. 1598, richiamato dall'art. 6 1. n. 1966/39). Invero, il proprium del rapporto consiste nell'intestazione di titoli appartenenti effet

tivamente ad altri proprietari (art. 1 r.d. 29 marzo 1942 n. 239) e

pertanto, come la dottrina non ha mancato di porre in rilievo, si

supera il carattere meramente obbligatorio del patto fiduciario. A

prescindere da una più completa determinazione della sfera

soggettiva dei terzi verso i quali può ritenersi rilevante la

proprietà effettiva dei titoli intestati alla società fiduciaria, è certo che nei confronti del fisco rileva la proprietà effettiva, per cui la

proprietà dell'intestataria formale può, in un certo senso, conside rarsi « apparente » (anche se non fittizia, perché effettivamente

voluta). Si ha una perfetta corrispondenza fra accordi pattizi fra

fiduciante e fiduciario, da un lato, e disciplina legislativa dal

punto di vista tributario, dall'altro: in entrambi gli aspetti, rileva la proprietà effettiva del fiduciante, mentre quella del fiduciario è una posizione che, lungi dall'esaurirsi nella mera intestazione, si estrinseca in obblighi di gestione e di garanzia degli effettivi titolari (il capitale sociale del fiduciario è destinato a garanzia degli effettivi titolari, come risulta dall'art. 3 1. del 1939 e dall'art.

3 r.d. 22 aprile 1940 n. 531). E, pertanto, il fenomeno non può assimilarsi alla simulazione, pur se la legge usa una terminologia che sembra tratta da tale istituto, attraverso la controposizione fra l'effettività di una proprietà e la esteriorità di una intestazio ne a soggetti diversi. Il termine « prestanome » usato dalla sentenza impugnata va inteso -nel quadro dell'intestazione fiducia

ria, e cioè nel senso che l'accordo fra Giulio Riva e le tre società

straniere, acquirenti delle azioni, comportava fin dall'inizio una limitazione del diritto di proprietà degli acquirenti, in quanto tale diritto apparteneva al mandante Riva senza necessità di un successivo ritrasferimento a lui. L'intento empirico del Riva è

stato individuato dalla sentenza impugnata nello scopo di interdi

re ai terzi la conoscibilità dell'effettiva titolarità delle azioni e

cioè di creare una situazione di appartenenza apparente diversa

da quella effettiva. Tale accertamento di fatto giustifica l'uso

delle espressioni « prestanome » e « proprietà reale », che sembra

no fare riferimento all'ipotesi di simulazione, e cioè di divergenze fra la dichiarazione come va intesa fra le parti e la dichiarazione

quale appare all'esterno. Peraltro, la sentenza impugnata ha avuto

cura di precisare che è stato utilizzato uno schema negoziale

previsto dalle norme straniere, in forza delle quali una società

svizzera accetta l'incarico da una persona fisica o giuridica straniera di intestare a proprio nome e con capitale fornito dalla

Il Foro Italiano — 1985.

persona stessa azioni che restano di proprietà reale del mandan

te, a cui spettano tutti i proventi delle medesime, mentre la

società svizzera non deve sopportare alcun onere. Tale schema ha

l'effetto di creare sul bene esistente in Italia (art. 22 disp. prel.

c.c.) un regime di proprietà quale è quello che risulta dalle

norme interne sulle società fiduciarie. Le suddette norme risolvo

no in via legislativa (almeno nei rapporti con la p.a., che ha

diritto di conoscere i patti interni fra le parti) il problema dell'efficacia dei suddetti patti interni, in quanto il « voluto » fra

le parti utilizza uno schema normativo corrispondente all'intento

empirico. Si può dire che l'eccedenza del mezzo usato (intesta

zione, anziché mero mandato ad amministrare) non rileva, perché essa è ridotta immediatamente, senza passare attraverso l'adem

pimento di un obbligo ulteriore di « ritrasferimento », al livello di

una proprietà puramente « apparente » (cfr. Cass. 19 marzo 1980,

n. 1838, id., 1981, I, 843) in quanto il fìduciante, fin dall'inizio,

conserva la proprietà « effettiva ». Al di là di ogni indagine di

carattere generale sui rapporti fra simulazione e fiducia, nell'ipo tesi specifica che è oggetto di causa, si tratta semplicemente di

prender atto del trattamento legislativo delle « società fiduciarie »

corrispondente alla configurazione di fatto dei rapporti accertata

dalla sentenza impugnata. Val la pena di sottolineare che è

sufficiente identificare detto trattamento, nei rapporti con l'am

ministrazione finanziaria, nel senso che si è detto, di modo che

non appare necessario diffondersi su altri schemi strettamente

privatistici (interposizione reale, come affermato da Cass. 29

novembre 1983, n. 7152, id., Rep. 1983, voce Società, n. 388, e

negato dalla sentenza impugnata; mandato senza rappresentanza,

pure negato dalla sentenza impugnata, sulla scorta di Cass. 19

marzo 1960, n. 1261, id., Rep. 1960, voce Mandato, ti. 25). I

punti suddetti della motivazione della sentenza impugnata non

erano essenziali ai fini della decisione finale in ordine alla

proprietà effettiva, nei confronti dell'amministrazione, e pertanto la critica mossa dal ricorrente non ha rilevanza.

Nella seconda parte del motivo, il ricorrente si limita a

valutare in modo diverso, rispetto alla sentenza impugnata, le risultanze probatorie, sviluppando censure inammissibili in questa sede. Invero, l'affermazione che la finalità di occultamento fiscale

potrebbe raggiungersi anche con l'intestazione reale dei beni a terzi -non elimina, neppure nella prospettiva del ricorrente, l'altra

possibilità, incensurabilmente ritenuta dai giudici del merito sulla

base di un ragionamento logicamente impeccabile. L'appartenenza delle azioni al defunto non è stata ritenuta « presunta », ma

reale, con l'utilizzazione di risultanze probatorie acquisite in un

processo penale svoltosi anche nei confronti del ricorrente, da cui

è stata ritenuta provata l'esistenza di documenti risalenti al de

cuius, che attestavano tale appartenenza: anche sotto questo

aspetto, si rientra nell'ambito dei poteri di apprezzamento del

giudice del merito, correttamente esercitati. Infine, la contestazio

ne dei requisiti della prova presuntiva è priva di effettiva

motivazione, risolvendosi in una mera asserzione. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 6 dicembre

1984, n. 6448; Pres. Santilli, Est. Pontrandolfi, P. M. Caristo (conci, conf.); Buggini ed altri (Avv. D'Aloisio) c.

Soc. Alitalia (Avv. Marazza, Trodella). Cassa Trib. Roma 17 febbraio 1981.

Lavoro (rapporto) — Promozione a categoria o classe superiore

per decorso di tempo — Lavoratrici madri — Periodo di asten

sione obbligatoria — Computabilità nell'anzianità di servizio

(L. 30 dicembre 1971 n. 1204, tutela delle lavoratrici madri, art. 4, 5, 6; 1. 9 dicembre 1977 n. 903, parità di trattamento

tra uomini e donne in materia di lavoro, art. 3).

Ai fini del passaggio a categoria superiore per semplice decorso di un

determinato periodo di servizio nella categoria inferiore, con

trattualmente stabilito, le dipendenti hanno diritto a veder

computato nella complessiva anzianità di servizio il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità. (1)

(1) In senso conforme (oltre alla coeva Cass. n. 6449/84) v. Cass. 9 settembre 1981, n. 5061, Foro it., Rep. 1981, voce Lavoro (rapporto), n. 586.

Mentre il periodo di astensione obbligatoria prevista dalla 1. 1204/71 è normalmente considerato nell'anzianità di servizio ex art. 6 (Pera, Diritto del lavoro, Padova, 1984, 662), vi è contrasto in ordine alla

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2343 PARTE PRIMA 2344

Motivi della decisione. — Col primo motivo di annullamento, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 6 L 30

dicembre 1971 n. 1204 e degli art. 1362 ss. c.c., sulle regole

interpretative dei contratti, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., le

ricorrenti deducono che il tribunale non ha tenuto conto del

fatto che l'art. 6 1. n. 1204 cit., affermando che i periodi di

astensione obbligatoria dal lavoro per maternità devono essere

computati -nell'anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi

quelli relativi alla 13a mensilità (o gratifica natalizia) e alle ferie, ha inteso indubbiamente assicurare alla lavoratrice, per il periodo di assenza obbligatoria, ogni effetto potenzialmente derivante dallo svolgimento nel tempo del rapporto. Peraltro, nella ricerca della volontà delle parti, il tribunale non ha compreso che, con

la norma del contratto collettivo sull'inquadramento, applicabile al rapporto di lavoro, le parti intesero riconoscere al tempo di attestazione un indice o valore convenzionale di acquisizione di

esperienza o di autonomia, indipendentemente da un effettivo mutamento della qualità delle prestazioni, necessariamente condi zionato dalle modalità di svolgimento delle stesse.

Nella specie, secondo le ricorrenti, mentre manca nella norma contrattuale in oggetto un qualsiasi indice di riferimento alla

prestazione effettiva di lavoro e, cioè, un indice di esclusione dei

periodi di interruzione di essa per cause previste dall'ordinamen to, la previsione della norma identifica, invece, il mero dato

temporale del periodo di attestazione, come requisito necessario e sufficiente per la promozione nella categoria o classe superiore. In

sostanza, le parti contraenti intesero attribuire al tempo trascorso nella posizione di lavoro riconosciuta un significato espressivo di

esperienza od autonomia acquisita, con valore convenzionale assoluto.

Col secondo motivo di annullamento, denunciando contraddit torietà di motivazione in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c., nonché erronea interpretazione della 1. 9 dicembre 1977 n. 903, con riferimento alla I. n. 1204/71, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., le ricorrenti deducono che il tribunale, con motivazione peraltro contraddittoria, ha sostenuto il carattere innovativo dell'art. 3, 2°

comma, 1. n. 903/77 (sulla parità di trattamento tra uomini e

donne in materia di lavoro), laddove è stabilito che «le assenze dal lavoro, previste dagli art. 4 e 5 1. 30 dicembre 1971 n. 1204, sono considerate, ai fini della progressione nella carriera, come

attività lavorativa »; onde — sempre secondo il tribunale —

l'inefficacia retroattiva della nuova normativa, rispetto alla dispo sizione contenuta nell'art. 6 1. n. 1204/71, comporterebbe l'illegit timità dell'interpretazione effettuata dal giudice di primo grado.

In contrario — rilevano le ricorrenti — l'art. 6 1. n. 1204/71

già prevedeva il computo nell'anzianità di servizio a tutti gli effetti dei periodi di astensione obbligatoria per maternità e, d'altra parte, non esisteva una clausola contrattuale (o una

volontà negoziale) che attribuisse alla sommatoria dei giorni « lavorativi », convenzionalmente previsti in cinque anni di attivi

tà, la chiave della promozione nella categoria superiore; mentre

risultava chiaramente il valore convenzionale attribuito dalle parti al decorso del tempo (« si conviene che acquisiscano ») nella

disciplina collettiva.

Col terzo motivo di annullamento, denunciando violazione

dell'art. 3 Cost., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., le ricorrenti

deducono che l'attribuzione alle assenze per maternità di conse

guenze diverse da quelle attribuite alle assenze per malattia (che secondo la previsione contrattuale possono superare il massimo di

astensione dal lavoro concesso alla lavoratrice madre) crea illegit tima disparità di trattamento e penalizza la situazione della

lavoratrice madre.

computabilità del periodo di astensione facoltativa, previsto dall'art. 7 della stessa legge, a fronte di istituti di origine contrattuale. In senso favorevole alla computabilità v. Pret. Bologna 24 aprile 1982, Foro it.,

Rep. 1983, voce cit., n. 1593, e Pret. Bologna 16 dicembre 1981, ibid., n.

1595, che, in caso di astensione facoltativa, ritengono inefficace e nulla una clausola del contratto collettivo che escluda la possibilità di com

putare i periodi di assenza volontaria ai fini dell'automatica progressione di carriera. In senso contrario, per la piena legittimità di tale clau

sola, v. Trib. Bologna 17 febbraio 1983, ibid., n. 1592 e Trib.

Bologna 24 marzo 1982, ibid., n. 1594, secondo cui l'art. 7, 3"

comma, 1. 1204/71, che prevede il computo della assenza facoltativa nell'anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità, si applica ai soli istituti di origine legale, e non a quelli contrattuali. In dottrina, sul problema, Scarponi, Assenze

facoltative per maternità e progressione di carriera, in Giur. it., 1983, I, 2, 433, che aderisce alla giurisprudenza della Pretura di Bologna, cit., favorevole alla computabilità del periodo di astensione facoltati va.

Il Foro Italiano — 1985.

Il ricorso, nei tre motivi prospettati che, per la loro stretta

connessione, possono essere esaminati congiuntamente, è fondato.

Non può, anzitutto, condividersi l'affermazione di carattere

generale del tribunale secondo cui l'art. 6 1. n. 1204/71 (sulla tutela delle lavoratrici madri), applicabile alla fattispecie, il quale

prevede che « i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro ai

sensi degli art. 4 e 5 della... legge (stessa) devono essere

computati nell'anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi

quelli relativi alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia e alle

ferie », non si discosta, nella sua formulazione, da quella conte

nuta nell'art. 2110, 3° comma, c.c., che assicura al lavoratore il

computo del periodo di assenza dal lavoro, oltre che nei casi di

malattia e di infortunio, anche in quelli di gravidanza e di

puerperio, nella anzianità di servizio ai fini della determinazione

della relativa indennità. Questa corte, in controversia analoga alla

presente, ha avuto a rilevare che, assicurando già l'art. 2110 c.c.,

il computo del periodo di assenza obbligatoria per maternità

nell'anzianità di servizio, « è certo che nessun significato sarebbe

attribuibile alla locuzione — a tutti gli effetti — contenuta nel

cit. art. 6 1. 1971 se non si fosse voluto attribuire alla

lavoratrice madre, obbligata ad assentarsi dal lavoro, un tratta

mento economico e normativo più favorevole rispetto a quello

previsto per l'assenza in caso di malattia » (Cass. 9 settembre

1981, n. 5861, Foro it., Rep. 1981, voce Lavoro (rapporto), n.

586). Da ciò la conseguenza, tratta nella suindicata decisione di

questa corte, che, stante la tutela più ampia derivante per la

lavoratrice madre 'dell'art. 6 1. o. 1204/71 rispetto a quella fornita

dall'art. 2110, c.c., possono rendersi «computabili i periodi di

astensione obbligatoria a tutti gli effetti legali e contrattuali legati alla permanenza del rapporto di lavoro e, quindi, anche ai fini

del passaggio alla categoria o classe superiore, ove l'acquisizione di questa sia collegata, secondo la disciplina collettiva, alla

semplice durata della prestazione lavorativa ».

Del resto, nella suddetta decisione, questa corte rilevava che lo

stesso contratto collettivo applicabile al rapporto dei dipendenti da imprese di trasporto aereo a partecipazione statale, con

disposizione più ampia dell'art. 2110, c.c., nel disciplinare la

sospensione del lavoro in genere (art. 10, n. 2), espressamente prevedeva ohe le « sospensioni di lavoro, le assenze per malattia e infortunio non » interrompevano « la anzianità a tutti gli effetti del contratto collettivo », onde -non sembrava potersi dubitare che dal collegamento della normativa legale (art. 6 1. n. 1204/71) con

quella contrattuale derivasse l'effetto di attribuire anche alla lavoratrice madre quelle posizioni di lavoro (da intendersi quale complesso di diritti ed aspettative che definiscono la situazione

giuridica del lavoratore nell'impresa) legato alla prestazione di

servizio protratta nel tempo, quali contrattualmente previste. Naturalmente, diviene determinante, ai predetti fini, stabilire

quale sia la concreta disciplina collettiva in materia di promozio ne nella categoria o classe superiore, potendo le parti collettive

riferirsi a requisiti anche diversi dalla mera permanenza del

lavoratore in una determinata posizione di lavoro e, cioè, a

requisiti diversi dalla mera anzianità di servizio. Ma deve, in

effetti, ritenersi che la norma del contratto collettivo sulle promo zioni, applicabile ai rapporti di lavoro de quibus (c.c,n.l. 31

maggio 1972), come già la clausola di cui al punto 9, lett. e), del

precedente accordo collettivo 10 luglio 1970, assicuri al lavoratore

la promozione per effetto del semplice trascorrere di un determi

nato periodo di tempo in una delle posizioni lavorative spe cificamente indicate (tra le quali quelle rivestite dalle ricorrenti), con la conseguenza che anche il periodo di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità, che, come già detto, va computato nella

anzianità di servizio « a tutti gli effetti », ai sensi dell'art. 6 1. n.

1204/71 e, del resto, anche ai sensi dell'art. 10, n. 2, dello stesso

suddetto contratto collettivo, diventa utile e va computato nel

l'anzianità di servizio ai fini del passaggio di categoria o classe

della lavoratrice madre.

Il tribunale ha interpretato diversamente la norma del contratto

collettivo sulle promozioni, che qui interessa, ma, pur dovendosi

considerare che l'interpretazione dei contratti collettivi postcorpo

rativi, non aventi efficacia erga omnes, è censurabile in sede di

legittimità esclusivamente per violazione dei canoni di ermeneuti

ca contrattuale o per vizi di motivazione, nella specie appaiono fondate le censure mosse dalla ricorrente all'interpretazione data

alla suddetta norma dal tribunale sotto il profilo della violazione

del canone interpretativo della comune intenzione dei contraenti

(art. 1362 c.c.); e ciò tanto più in quanto il tribunale è partito da

una troppa ristretta e, comunque, erronea interpretazione dell'art.

6 1. n. 1204/71, che ha finito con l'influenzare l'intera decisione.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Ove si consideri la testuale formulazione della norma del

contratto collettivo del 1972 in materia di progressione nella

carriera (« per le posizioni sottoesemplificate vengono indicati i

tempi necessari, trascorsi i quali, in riconoscimento dell'esperienza

e/o della completa autonomia di esecuzione che si conviene gli interessati abbiano acquisito nel corso del relativo servizio, al

dipendente verrà attribuita la categoria...» superiore) e della

corrispondente, meno involuta e analoga norma del precedente accordo collettivo del 1970 (« per le posizioni per le quali sia

prevista la collocazione in due successive categorie o classi,

l'assegnazione della categoria o classe superiore avverrà non oltre

il periodo di tempo indicato per le posizioni, poiché nel corso di

tale periodo si intende che l'interessato raggiunga una completa autonomia di svolgimento delle relative mansioni »), appare chia

ramente in contrasto con il canone interpretativo della comune

intenzione delle parti, resa evidente, del resto, dalle inequivoche

espressioni letterali usate dalle parti stesse, l'opinione del tribuna le secondo cui, ai fini del passaggio alla categoria o classe

superiore, si dovrebbe tener conto di un effettivo e continuativo

espletamento delle mansioni nel periodo di .tempo previsto dal

contratto collettivo per la singola posizione, tale da consentire il

raggiungimento di una completa autonomia nella loro esplicazio ne, e si dovrebbero detrarre da tale periodo le assenze dal lavoro, come quelle obbligatorie per maternità, salvo che si tratti di

assenze per eventi normalmente inerenti al rapporto, quali i

riposi settimanali, le festività e le ferie. Se le parti hanno convenuto, con aprioristica determinazione,

che il tempo trascorso in una determinata posizione lavorativa sia

indice di acquisita esperienza e/o di completa autonomia di

esecuzione delle mansioni ai fini della progressione nella superio re categoria o classe, ciò significa che il conseguimento della

promozione è ricollegato semplicemente alla durata del servizio

per un determinato periodo di tempo; e tale interpretazione della norma collettiva in esame, conforme, peraltro, alla evidente inten zione dei contraenti, è già stata condivisa da questa Suprema corte nella menzionata decisione n. 5061/81.

In altri termini, giova ribadirlo, se è vero che le parti collettive hanno posto come criterio idoneo per la progressione nella catego ria o classe superiore il raggiungimento di una esperienza o di una

completa autonomia di svolgimento delle mansioni da parte del

dipendente, è anche vero che esse hanno attribuito al tempo trascorso dal dipendente stesso nella posizione di lavoro ricono sciuta un valore convenzionale e predeterminato di presunzione assoluta circa il raggiungimento di detta esperienza o autonomia, non derogabile in base ad una valutazione concreta da farsi di volta in volta su elementi diversi dal semplice decorso del tempo.

A questo punto devesi anche chiarire la vera portata dell'art. 3, 2° comma, 1. 9 dicembre 1977 n. 903 (sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), che stabilisce espressa mente: « le assenze dal lavoro, previste dagli art. 4 e 5 1. 30

dicembre 1971 n. 1204» (ipotesi di astensioni obbligatorie dal

lavoro per maternità) « sono considerate, ai fini della progressione nella carriera, come attività lavorativa, quando i contratti colletti

vi non richiedano a tale scopo particclari requisiti ».

Dall'asserito carattere innovativo di tale norma rispetto all'art.

6 1. n. 1204/71 la sentenza impugnata ha tratto spunto per avvalorare l'interpretazione restrittiva di questo ultimo, mentre le

ricorrenti sostengono che l'art. 3, 2° comma, 1. n. 903/77 non

avrebbe carattere innovativo rispetto alla precedente legislazione

e, in particolare, all'art. 6 1. n. 1204/71 e alla stessa disciplina contrattuale.

L'assunto delle ricorrenti coglie abbastanza nel segno, anche se

non può negarsi il carattere innovativo della citata norma di

legge del 1977, ma in senso ben diverso da quello sostenuto

nell'impugnata sentenza.

Infatti, l'art. 6 1. n. 1204/71, che stabiliva il computo dei

periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità nel

l'anzianità di servizio « a tutti gli effetti », non garantiva, di per

sé, il computo di tali periodi nel servizio ai fini del passaggio della lavoratrice alla categoria o classe superiore ove l'acquisizio

ne di questa non fosse stata specificamente collegata dalla disci

plina collettiva, come nella fattispecie, alla semplice durata delia

posizione lavorativa rivestita (e, cioè, alla anzianità di servizio

nella posizione), dato che tale acquisizione poteva essere collegata a requisiti parzialmente o totalmente diversi, come, ad es., al

merito misto all'anzianità, al solo merito, al possesso di titoli, al

superamento di esami, ecc.

L'art. 3, 2° comma, 1. n. 903/77, invece, sia pure allo scopo di

meglio tutelare il principio di parità di trattamento tra uomini e

donne, ha elevato a criterio legale generalizzato ciò che, in

Il Foro Italiano — 1985.

precedenza, costituiva, nell'ambito della ratio dell'art. 6 1. n.

1204/71 (sulla tutela delle lavoratrici madri), l'effetto di una

eventuale specifica previsione della disciplina collettiva in materia di progressione nella carriera per semplice anzianità di servizio, ed ha stabilito la parific zione, di regola, all'attività lavorativa (e,

quindi, il computo dell'anzianità di servizio) dei periodi di

astensione obbligatoria dal lavoro per maternità ai fini della

progressione, pur facendo salve eventuali diverse disposizioni dei

contratti collettivi quando, per la progressione nella carriera, siano richiesti particolari requisiti (diversi dalla mera anzianità di

servizio). In sostanza, con la nuova normativa legale, rispetto alla

precedente normativa, il contratto collettivo si è trasformato da

diretta fonte costitutiva del diritto alla promozione in causa

eventualmente limitativa del diritto stesso che trae la sua fonte, di regola, dalla legge.

Entro questi limiti va inteso il carattere innovativo dell'art. 3, 2° comma, 1. n. 903/77; ma tale carattere non offre nessun

elemento argomentativo a favore della tesi sostenuta nell'impu

gnata sentenza (e condivisa dalla società resistente), dal momento

che, essendo la ridetta norma di legge inapplicabile alla fattispe cie perché successiva ai fatti di causa, il buon diritto delle

ricorrenti trovava già diretta tutela nella suindicata disposizione del contratto collettivo, pienamente recettiva dalla ratio dell'art. 6

1. n. 1204/71, applicabile alla fattispecie. Le suesposte considerazioni assorbono i profili di incostituzio

nalità accennati nel terzo motivo. Pertanto, il ricorso va accolto e

l'impugnata sentenza va cassata, con rinvio della causa ad altro

giudice d'appello, che si designa nel Tribunale di Viterbo, sezione

lavoro, il quale, nel procedere a nuovo esame, si atterrà ai

principi di diritto e alle considerazioni come sopra enuncia

ti. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 22 no

vembre 1984, n. 6017; Pres. Sandulli, Est. Di Salvo, P. M.

Ferraiuolo (conci, conf.); Cassa per il Mezzogiorno (Avv. dello Stato Conti) c. Soc. S.i.a.c.a. (Avv. Marinangeli, Pi

ras). Cassa App. Roma 1" marzo 1982.

Opere pubbliche — Cassa per il Mezzogiorno — Affidamento

in concessione — Convenzione — Capitolato generale di appalto

per le opere pubbliche — Inapplicabilità (L. 10 agosto 1950 m.

646, istituzione della Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell'Italia meridionale (Cassa per il Mezzogiorno), art.

8; d.p.r. 16 luglio 1962 n. 1063, approvazione del capitolato generale d'appalto per le opere di competenza del ministero dei

lavori pubblici; 1. 6 ottobre 1971 n. 853, finanziamento della

Cassa per il Mezzogiorno per il quinquennio 1971-1975 e

modifiche e integrazioni al t.u. delle leggi sugli interventi nel

Mezzogiorno, art. 3).

In caso di affidamento in concessione dell'esecuzione di opere pubbliche di competenza della Cassa per il Mezzogiorno, alla convenzione stipulata tra le parti, che acceda alla concessione

amministrativa, non sono applicabili le norme del capitolato generale di appalto per le opere pubbliche. (1)

(1) La sentenza affronta 11 problema dell'assoggettamento della esecuzione delle opere di competenza della Cassa per il Mezzogiorno alle norme fissate in materia dal capitolato generale d'appalto per le opere pubbliche (d.p.r. 16 luglio 1962 n. 1063), applicabile alle opere di competenza della cassa in forza dell'art. 8 1. 10 agosto 1950 n. 646, nel quale il legislatore indica i possibili sistemi, per così dire operativi della cassa e cioè, l'appalto, l'affidamento, la concessione. Ora, mentre è del tutto pacifico che il capitolato generale d'appalto oo.pp. costi tuisca la disciplina applicabile qualora la cassa proceda con il sistema degli appalti, non altrettanto può dirsi nel caso dell'aflidamento-con cessione (istituti che la sentenza su riprodotta tende ad equiparare sui piano effettuale), proprio con riferimento all'ult. comma dell'art. 8 1. 646/50, il quale impone l'osservanza delle norme del capitolato stesso solo in quanto applicabili al tipo di sistema prescelto per l'esecuzione delle opere di sua competenza. Con riferimento all'argo mento specifico dell'esecuzione di opere di competenza della cassa, cCr. M. Mazzone, I sistemi di esecuzione delle opere pubbliche e la Cassa

per il Mezzogiorno, Roma, 1978. Nella nostra fattispecie, secondo la sentenza in epigrafe, si è in

presenza di una concessione-affidamento, cui accede la convenzione (o, per meglio dire, due convenzioni: una c.d. « quadro » e l'altra « attuativa »), stipulata tra la cassa e la società resistente ai sensi dell'art. 3, 4° comma, 1. 6 ottobre 1971 n. 853 (oggi sostituita dall'art. 8 1. 183/76 e dall'art. 138, 4° comma, t.u. approvato con d.p.r. 6 marzo 1978 n. 218), secondo il quale la cassa può provvedere

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