sezione lavoro; sentenza 6 novembre 1986, n. 6534; Pres. Menichino, Est. Nardino, P.M. Tridico(concl. conf.); Soc. I.g.i. (Avv. Guardascione, Valdina) c. Pollacci (Avv. Visconti, Montuschi).Conferma Trib. Perugia 19 settembre 1983Source: Il Foro Italiano, Vol. 110, No. 4 (APRILE 1987), pp. 1167/1168-1169/1170Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179899 .
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1167 PARTE PRIMA 1168
Tale distinzione indusse la giurisprudenza di questa corte a di
stinguere fra tre tipi di concessione in materia di miniere cave
e torbiere (art. 820 e 826 c.c.), anche dopo l'entrata in vigore del r.d. 29 luglio 1927 n. 1443: teso a disciplinare la ricerca e
la coltivazione delle miniere.
Il primo tipo comprendeva le concessioni o i negozi il cui og
getto si riferisse al giacimento minerario nella sua complessa stra
tificazione intesa in unità di superficie e di volume; il secondo
tipo: al prodotto dell'estrazione ragguagliato a peso o a misura; il terzo tipo: al godimento temporaneo della cosa secondo la sua
destinazione.
L'accertamento di una delle tre qualificazioni giuridiche con
sentiva al giudice di stabilire nel caso concreto l'applicazione del
l'uno o dell'altro tasso di imposta riferibili rispettivamente all'art.
1 o all'art. 2 della tariffa ali. A t.u. 3269/23.
La situazione, riguardante soprattutto la esegesi giurispruden
ziale, non subì mutazioni di sorta, né v'era ragione perché ne
subisse, con l'entrata in vigore del decreto suindicato n. 1443/27.
Con esso — come espressamente previsto dall'art. 1 — si provvi de a regolare la ricerca e la coltivazione di sostanze minerali e
delle energie del sottosuolo, industrialmente utilizzabili, sotto qual siasi forma o condizione fisica. L'art. 2 distinse le lavorazioni
indicate all'art. 1 in due categorie, denominandole: miniere e ca
ve. Assegnò, con indicazione specifica dei nominativi, minerali,
metalli, pietre preziose, sostanze radioattive, ecc. alle miniere; al
tri materiali, partitamente indicati nonché quelli industrialmente
utilizzabili e non compresi nella prima categoria, alle cave. L'art.
14 sancì' espressamente che le miniere non potevano essere colti
vate se non da chi avesse avuto regolare concessione governativa, in tale modo ribadendo il concetto implicito dell'appartenenza di esse al patrimonio indisponibile dello Stato. Gli art. 22 e 23
attribuiscono la qualificazione giuridica di immobili alle miniere
ed alle pertinenze nonché quella di mobili ai materiali estratti, alle provviste ed agli arredi. Quanto alle cave, l'art. 45 sancì che
esse fossero lasciate nella disponibilità del proprietario del suolo,
purché da lui coltivate e condotte ad un sufficiente sviluppo. Con l'entrata in vigore della nuova legge di registro n. 634/72
l'art. 1 della tariffa ali. A accanto agli atti traslativi a titolo one
roso della proprietà di beni immobili, agli atti traslativi o costitu
tivi di diritti reali immobiliari di godimento, compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi, ha posto le «concessioni di miniere»
senz'altra aggiunta, modificando le espressioni del precedente e
corrispondente articolo della soppressa legge di registro (r.d.
3269/23). Di fronte a siffatta mutazione di enunciati v'è chi ha ritenuto
— come la resistente soc. Grassetto — che la novella legislativa avesse inteso immutare radicalmente l'ambito di applicazione del
tasso d'imposta di cui all'art. 1, riservandolo alle «concessioni di miniere», intese strido sensu quali concessioni governative af
ferenti alla prima categoria, come distinte dall'art. 2 r.d. 29 lu
glio 1927 n. 1443. In tale modo, i negozi giuridici riguardanti le cave non potrebbero che rientrare nella disciplina tariffaria del
l'art. 2 t.u. n. 634/72.
La tesi non può essere condivisa se si rifletta che ai sensi del l'art. 19 t.u. 634/72 gli atti sottoposti a registrazione vanno inter
pretati — ai fini dell'applicazione delle imposte — secondo la
loro intrinseca natura e gli effetti giuridici che da essi derivino. Da ciò la riflessione che la validità della triplice distinzione
giurisprudenziale fra le coltivazioni minerarie (traslazione o costi
tuzione di un diritto reale immobiliare — vendita di cose future — locazione) si attaglia anche alla disposizione dell'intero 10 com
ma dell'art. 1 tariffa ali. A t.u 634/72, considerando che l'enun
ciato: «concessioni di miniere» ha una funzione chiarificatrice
quanto alle coltivazioni minerarie ma non certo riduttiva rispetto ai negozi giuridici aventi ad oggetto la traslazione o la costituzio
ne di un diritto reale immobiliare sulle cave o sulle torbiere. Del resto il termine «concessioni di miniere» usato dalla legge
tributaria, se interpretato stricto sensu (cioè secondo i significati tecnici del r.d. 1443/27) circa la distinzione fra miniere e cave, darebbe luogo ad un'evidente disparità di trattamento nell'ipotesi di concessione di cave da parte dello Stato: sia che gli apparten
gano in proprietà e sia che ne abbia la disponibilità dopo averle sottratte al proprietario che ne trascuri la coltivazione.
La parola «miniera», nella sua lata accezione, sta ad indicare un giacimento di minerali o di sostanze costituenti ricchezza per l'umanità e contenute nelle viscere della terra. Ad essa lo stesso
legislatore del 1927 si riferisce, come si rileva dalla intestazione
Il Foro Italiano — 1987.
della legge, disciplinando la ricerca e la coltivazione delle minie
re, attribuibili anche alle cave e alle torbiere.
Da quanto sopra esposto deriva che il diritto di sfruttamento
di una cava oggetto di negoziazione tra privati — come nella
presente fattispecie — può costituire, sia per l'oggetto della pre stazione e sia per la comune intenzione dei contraenti, un atto
traslativo o costitutivo di un diritto reale immobiliare di godi mento e come tale rientrante nell'ambito dell'art. 1 della tariffa
ali. A del t.u. 634/72. In ogni altro caso in cui la negoziazione
riguarda il trasferimento di mobili o la costituzione di diritti reali
su di essi ovvero diritti obbligatori di godimento anche se su im
mobili, essa va compresa nell'ambito del successivo art. 2.
A questa specificazione di concetti non si è riportata espressa mente la decisione impugnata, ma dalla succinta motivazione è
dato comprendere che il contratto fra i Giaretta e l'impresa Gras
setto non consentiva — per il contenuto e gli effetti del contratto
stesso — di ritenere che essi avessero voluto trasferire un diritto
immobiliare o costituire un diritto reale immobiliare.
Contro siffatta decisione l'amministrazione ricorrente — con
il motivo in esame — ha apposto una sola argomentazione (di carattere giuridico) consistente nell'affermazione che la conces
sione di cave, sia pure di Contenuto limitato, costituisce sempre il trasferimento di diritti reali immobiliari.
Ciò, per quanto innanzi chiarito, non risponde al vero; sicché
il ricorso, nei limiti della sua formulazione, è insufficiente ed ini
doneo a contrastare l'assunto del giudice tributario e, pertanto, va rigettato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 6 novembre
1986, n. 6534; Pres. Menichino, Est. Nardino, P.M. Tridico
(conci, conf.); Soc. i.g.i. (Avv. Guardascione, Valdina) c.
Pollacci (Avv. Visconti, Montuschi). Conferma Trib. Perugia 19 settembre 1983.
Lavoro (rapporto) — Dirigente — Diritto all'indennità supple mentare — Termine di decadenza — Inesistenza (L. 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti individuali, art. 6, 10).
L'azione giudiziaria del dirigente d'azienda, diretta ad impugnare il licenziamento e ad ottenere la condanna del datore di lavoro
al pagamento dell'indennità supplementare, è soggetta al solo
normale termine di prescrizione, non a termini di decadenza. (1)
Motivi della decisione. — Con il primo mezzo di annullamento la società ricorrente denunzia «violazione della 1. 15 luglio 1966
n. 604 (art. 6 e 10) e degli art. 1362 ss. c.c. in ordine alla corretta
interpretazione del c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali 13 aprile 1981 (in particolare della clausola 22)» nonché «manca to esame di punto decisivo prospettato»; ed assume che il tribu
nale, «tralasciando gli argomenti dibattuti dalle parti» in ordine al termine per la proposizione del ricorso giudiziario, ha ritenuto
applicabile alla fattispecie quello di 60 giorni previsto dall'art. 6 1. n. 604 del 1966, senza considerare che questa disciplina, per il disposto dell'art. 10 della stessa legge, non si applica ai dirigen ti. In realtà «la tutela prevista dalla disciplina collettiva applicata è l'unica cui il dirigente può far ricorso in caso di recesso ingiu stificato e non è certo destinata a subire adattamenti in relazione
alla sede (giudiziaria o arbitrale) ove essa viene perseguita». Con il secondo motivo di impugnazione si addebita al giudice
di appello il «mancato esame di punto decisivo, travisamento del
(1) Non si rinvengono precedenti in termini. Nella giurisprudenza di merito cfr., per l'inapplicabilità del termine di decadenza previsto per la procedura arbitrale e per l'operatività del solo termine quinquennale di prescrizione (art. 2948, n. 5, c.c.), Pret. Roma 16 luglio 1982, Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro (rapporto), n. 2422, e in Giust. civ., 1983, I, 1889, con nota di F. Sclafani, L'ingiustificato licenziamento del diri
gente industriale. In tema di licenziamento di dirigente cfr., da ultimo, Cass. 16 dicem
bre 1986, n. 7574, Foro it., 1987, I, 391, con nota di richiami.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
le risultanze, contraddittorietà della motivazione (art. 360, n. 5,
c.p.c.)» in base al rilievo che non sarebbero stati adeguamenti considerati i «vistosissimi segni» del totale disimpegno del Poi
lacci, emergenti dalle lettere inviate dal medesimo all'amministra tore delegato e dalle dichiarazioni da lui rese al pretore nel corso del procedimento di urgenza, oltre che dal ricorso introduttivo del giudizio. Il tribunale avrebbe, ad avviso del ricorrente, equi vocato «tra contestazione del preteso ridimensionamento e ina
dempimento vero e proprio» ed avrebbe risolto «questo punto nodale della controversia con proclamazioni assiomatiche prive di aderenza alle risultanze processuali», senza farsi carico di esa minare con rigorosa attenzione gli elementi messi in luce dalla
parte appellante e di procedere ad una «corretta focalizzazione
dell'inadempimento». Con il terzo motivo, denunziando «violazione dell'art. 2697 c.c.,
degli art. 5 e 10 1. 15 luglio 1966 n. 604 e degli art. 244 e 245
c.p.c.», nonché «difetto di esame e di motivazione in ordine a
punto decisivo (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.)», la società ricorrente censura la declaratoria di inammissibilità della prova testimoniale
per asserita genericità dei capitoli e rileva come nella fattispecie
l'inadempimento del Pollacci si fosse concretato non già in un
«comportamento omissivo episodico e ricorrente», individuabile
attraverso fatti specifici, bensì' in un atteggiamento di «totale,
generale, protratto e assoluto disimpegno». L'omesso esame di tale presupposto — prosegue la I.g.i. — appare ancora più evi
dente ove si abbia riguardo al ruolo di direttore generale del Pol
lacci, «che non implicava certo stimoli o censure episodiche o
puntuali commissioni di lavoro da parte di superiori gerarchici e che anzi si identificava proprio nella elaborazione delle strategie e nella conduzione delle iniziative cui, nei settori assegnati, diri
genti, impiegati e maestranze dovevano attenersi».
Le censure innanzi riassunte, che per la loro connessione van
no congiuntamente esaminate, non appaiono meritevoli di acco
glimento.
Quanto alla prima va rilevato che la ricorrente più non conte sta che, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato dei dirigenti di aziende industriali, il ricorso al col
legio arbitrale previsto dall'art. 22 del c.c.n.l. 13 aprile 1981 co stituisce strumento alternativo, e non esclusivo, di tutela del
dirigente licenziato, dovendosi ritenere automaticamente inserita nella clausola compromissoria la facoltà di ricorrere all'autorità
giudiziaria, pur se non espressamente prevista (v., da ultimo, Cass. 12 marzo 1985, n. 1948, Foro it., Rep. 1985, voce Lavoro (rap
porto), n. 2605; 24 marzo 1982, n. 1869, id., 1982, I, 1415); so
stiene tuttavia la I.g.i. che il termine di decadenza per la
proposizione dell'azione giudiziaria, in mancanza di diversa di
sposizione legislativa o contrattuale, sarebbe quello di trenta giorni
previsto dalla citata norma collettiva per adire il collegio arbitrale
e addebita al tribunale di avere erroneamente ritenuto applicabile il più ampio termine di sessanta giorni di cui all'art. 6 1. 15 luglio 1966 n. 604.
Osserva la corte che il giudice d'appello è indubbiamente in
corso in errore per avere omesso di considerare che, secondo il
costante insegnamento della giurisprudenza, la disciplina sui li
cenziamenti individuali dettata dalla predetta legge non si applica al contratto di lavoro dei dirigenti (argom. ex art. 10 1. cit.; v.
Cass. 26 luglio 1983, n. 5147, id., Rep. 1983, voce cit., n. 2406; 4 maggio 1983, n. 3062, ibid., n. 1102; 1° aprile 1983, n. 2363, ibid., n. 2404). Né il termine di cui all'art. 6 può ritenersi estensi
bile ad ipotesi non contemplate dalla legge, «atteso che le norme
che stabiliscono decadenze sono per loro natura di stretta inter
pretazione» (Cass. 20 luglio 1984, n. 4260, id., Rep. 1984, voce
cit., n. 992). L'errore non ha, tuttavia, alcuna incidenza sul di
spositivo della decisione impugnata, che è conforme al diritto e
deve pertanto rimanere fermo, mentre va corretta la motivazione
a norma dell'art. 384 c.p.c. Il fatto che né la legge né il contratto collettivo di categoria
prevedano alcun termine per l'impugnativa del licenziamento da
vanti all'autorità giudiziaria da parte del dirigente costituisce cer
tamente un'anomalia nel sistema, verosimilmente derivante dalla
intervenuta integrazione della disciplina collettiva con norme di
natura imperativa (art. 4 e 5 1. n. 533 del 1973); tale constatazio
ne, peraltro, non autorizza a ritenere che possa nella fattispecie trovare applicazione il termine previsto dal contratto collettivo
per dare inizio alla procedura arbitrale. Se, invero, si ammette
che il dirigente licenziato non è obbligato ad avvalersi di tale pro
cedura, ma può alternativamente ricorrere al giudice ai fini del
II Foro Italiano — 1987.
l'accertamento della ingiustificatezza del licenziamento e delle re
lative conseguenze di natura patrimoniale, è contraddittorio af
fermare che l'azione giudiziaria resti condizionata all'osservanza
di uno dei termini specificamente ed esclusivamente stabiliti per il procedimento davanti agli arbitri. Va al riguardo precisato che
detto procedimento si articola in varie fasi, per ciascuna delle
quali la normativa collettiva prevede un distinto termine: quello di cui al 4° comma del citato art. 22 (trenta giorni dal ricevimen
to della comunicazione scritta di licenziamento) riguarda l'inoltro
del ricorso del dirigente licenziato all'organizzazione territoriale
della F.n.d.a.i., la quale, nei trenta giorni successivi, investe della
controversia il collegio arbitrale con una propria istanza, tras
mettendogli il ricorso originale ed inviando contestualmente co
pia del ricorso stesso e della istanza «alla corrispondente organiz zazione territoriale imprenditoriale» (art. 19, 7° e 8° comma).
Seguono altri termini per la riunione del colleggio e per l'emis
sione del lodo (art. 19, 10° e 11° comma), con l'espressa previ sione che tutti i termini sopra indicati sono sospesi durante il
mese di agosto (art. 19, 12° comma). La diversità di rito fra il suddetto procedimento e quello rego
lato dagli art. 413 ss. c.p.c. per le controversie di lavoro è di
tale evidenza da non richiedere ulteriore dimostrazione; né il lodo
(comunemente ricompreso nella categoria dei negozi di accerta
mento) che conclude la procedura arbitrale è assimilabile, nei suoi
effetti sostanziali, all'accertamento giudiziale (v., in motivazione, Cass. n. 5147/83, cit.). Non ha, quindi, alcun fondamento giuri dico la pretesa di estrapolare dalla complessa disciplina contrat
tuale dell'arbitrato irrituale di cui al menzionato contratto collettivo
un'unica norma (quella che — come si è detto — prevede il ter
mine per l'inoltro del ricorso del dirigente alla propria organizza zione sindacale) per accreditare la tesi secondo cui il medesimo
termine andrebbe osservato, a pena di decadenza, anche quando il dirigente opti per l'esercizio dell'azione giudiziaria, avvalendosi
di disposizioni di legge che vietano, nelle controversie di lavoro, di pregiudicare tale facoltà anche quando è ammesso l'arbitrato.
Si deve, di conseguenza, affermare (in tal senso correggendosi la motivazione in diritto della impugnata sentenza) che non è sog
getta ad alcun termine di decadenza, e può essere quindi esercita
ta entro il normale termine di prescrizione del diritto controverso
(termine che, nella fattispecie, non era ancora decorso), l'azione
giudiziaria proposta dal dirigente di azienda industriale licenziato
al fine di ottenere l'accertamento relativo alla mancanza di giusti ficazione del licenziamento e la condanna del datore di lavoro
al pagamento dell'indennità supplementare delle spettanze con
trattuali di fine di lavoro prevista dall'art. 19 del c.c.n.l. di cate
goria 13 aprile 1981. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 6 novembre
1986, n. 6520; Pres. Chiavelli, Est. Buccarelli, P. M. De
Martini (conci, conf.); Soc. Cambiaghi (Aw. Calabrese, F.
Mancini) c. Lombardo. Cassa Trib. Milano 4 maggio 1984.
Lavoro (collocamento della mano d'opera) — Assunzioni obbli
gatorie — Minorati psichici — Disciplina applicabile (L. 2 aprile 1968 n. 482, disciplina generale delle assunzioni obbligatorie
presso le p.a. e le aziende private, art. 5).
La l. 482 del 1968 sulle assunzioni obbligatorie non si applica
agli invalidi affetti da minorazioni psichiche. (1)
(1) La sentenza si può leggere in Foro it., 1987, I, 52, con nota di richiami e in Dir. e pratica lavoro, 1987, 205, con osservazioni di M.
Ermellini; se ne riproduce la massima per pubblicare, sull'argomento del collocamento obbligatorio degli invalidi psichici, la nota di A. Ma nacorda.
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