sezione tributaria; sentenza 3 aprile 2000, n. 3979; Pres. Cantillo, Est. Graziadei, P.M. Nardi(concl. diff.); Soc. Eptaconsors (Avv. Gallo, Salvini) c. Min. finanze. Cassa Comm. trib. reg.Lombardia 30 maggio 1997Source: Il Foro Italiano, Vol. 123, No. 5 (MAGGIO 2000), pp. 1459/1460-1463/1464Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23194745 .
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1459 PARTE PRIMA 1460
cazione dei centri di spesa; moltiplicazione connessa, tra l'altro,
allo sviluppo del decentramento ed all'istituzione delle regioni. Nel modificare la configurazione tradizionale delle competenze della Corte dei conti, precipuamente caratterizzate dal riscontro
preventivo di legittimità sugli atti delle amministrazioni dello
Stato, la legge sopra menzionata ha avuto il duplice fine di ri
durre l'area di detto controllo e di conferire primario rilievo, con riguardo a tutte le amministrazioni, al controllo sulla ge
stione, avente per oggetto non già i singoli atti, ma l'attività
amministrativa considerata nel suo concreto e complessivo svol
gimento. 6. - Nell'ambito di tale nuovo ordinamento si colloca anche
l'art. 3, 5° comma, 1. n. 20 del 1994, che contempla «nei con
fronti delle amministrazioni regionali», un controllo inteso a
rilevare «il perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle leggi di
principio e di programma», in vista del conclusivo adempimen
to, indicato nel 6° comma del medesimo articolo, di riferire,
almeno annualmente, ai consigli regionali sull'esito del control
lo stesso.
Chiamata a pronunziarsi sulla costituzionalità delle disposi zioni testé ricordate, questa corte ha avuto cura di definire pun tualmente i limiti della competenza assegnata alla Corte dei conti,
precisando che, al fine di escludere la lesione dell'autonomia
politico-legislativa costituzionalmente garantita alle regioni, la
norma di cui al 5° comma dell'art. 3 della legge deve essere
interpretata nel senso che, ai fini del controllo successivo sulla
gestione delle amministrazioni regionali, il raffronto fra obietti
vi e risultati debba operarsi essenzialmente alla luce delle leggi emanate dalla regione stessa (sentenza n. 29 del 1995 già citata).
7. - Nel caso all'esame la ricorrente, muovendo dal rilievo
che la censurata deliberazione del collegio regionale n. 1 del
1998 pone a fondamento del controllo da effettuare il rendicon
to della regione, ne trae la conclusione che la Corte dei conti
intenda procedere ad una verifica del documento contabile in
sé, tale da alterare — sia a ritenere che il riscontro si svolga
prima sia a ritenere che avvenga dopo l'approvazione del con
suntivo da parte del consiglio regionale — un procedimento,
quale quello legislativo, rientrante (dall'inizio alla fine) nell'e
sclusiva competenza della regione stessa.
Tale tesi non può essere, tuttavia, condivisa, non emergendo dall'esame di detta deliberazione, come pure degli altri atti im
pugnati, elementi idonei a dimostrare l'eventuale intendimento
della Corte dei conti di esorbitare dalle competenze ad essa as
segnate dalla 1. n. 20 del 1994. Invero la circostanza che il con
trollo prenda avvio dal rendiconto 1997 e si estenda alle serie
storiche degli anni precedenti non risulta elemento indicativo
di tale scopo, in quanto i consuntivi, nello svolgimento dei ri
scontri, vengono, in realtà, assunti semplicemente come stru
menti di analisi e comparazione rispetto alle leggi di principio e di programma. Depone, invero, in tal senso la stessa delibera
zione impugnata là dove, nel precisare che costituiranno ogget to di esame, oltre ai rendiconti, anche i corrispondenti bilanci
di previsione annuali e pluriennali, indica, quale fine dell'anali
si, quello di «verificare gli eventuali scostamenti rispetto ad essi
del conto finanziario e di raffrontare, con i programmi appro
vati, i risultati ottenuti». L'obiettivo finale si desume, poi, dal
la parte conclusiva della stessa deliberazione, là dove si precisa che dell'esito delle verifiche «il collegio riferirà al consiglio re
gionale della Puglia». Ad avvalorare ulteriormente le sopra espo ste conclusioni possono addursi i dati desumibili anche dagli altri atti impugnati, che concorrono a delineare, secondo le in
dicazioni dello stesso art. 3 1. n. 20 del 1994, il contesto orga nizzativo e procedimentale nel quale si colloca la funzione eser
citata, nel caso qui in esame, dalla Corte dei conti. Sotto questo
aspetto, a parte il richiamo che la già menzionata deliberazione
delle sezioni riunite 13 giugno 1997, n. 1 espressamente fa dei
«particolari limiti» previsti dall'art. 3, 4° e 5° comma, 1. n.
20 del 1994, in ordine al compimento demandato all'organo di controllo, assumono specifico significato gli elementi risul
tanti dalla deliberazione delle sezioni riunite 5 dicembre 1997, n. 1 (ibid., Ili, 179), ove si precisa (par. 2.3) che il compito di riscontro dei collegi sulle amministrazioni regionali è finaliz
zato alla redazione di un referto sull'esercizio 1997, «fondato»
sul rendiconto della regione e, quindi, come è lecito arguire, non tale da avere ad oggetto il rendiconto stesso.
8. - Così inteso, il programma di controllo sfugge a tutte
le censure formulate dalla ricorrente, giacché appare coerente
Il Foro Italiano — 2000.
con quella funzione di referto sull'amministrazione regionale che
la Corte dei conti è chiamata a svolgere verificando, così come
richiede l'art. 3, 5° comma, 1. n. 20 del 1994, «il perseguimento
degli obiettivi stabiliti» dalle leggi regionali di principio e di programma, in vista di relazioni che hanno per essenziale desti
natario il consiglio. E ciò tanto più ove si consideri che le con
notazioni collaborative, di cui la regione lamenta l'assenza, vanno
rinvenute, come già messo in evidenza dalla sentenza di questa corte n. 29 del 1995, nell'essenza stessa della funzione esercita
ta, che, lungi dall'atteggiarsi come «un potere statale che si con
trappone alle autonomie delle regioni», si risolve, invece, in un
compito «al servizio di esigenze pubbliche costituzionalmente
tutelate, e precisamente volto a garantire che ogni settore della
pubblica amministrazione risponda effettivamente al modello
ideale tracciato dall'art. 97 Cost.».
9. - D'altro canto, una volta definito l'ambito dei riscontri
che, nel caso di specie, sono da reputare di competenza della
Corte dei conti — ambito dal quale non v'è motivo di ritenere
che essa voglia discostarsi — non trova fondamento neppure
l'ipotesi che l'organo di controllo abbia voluto arbitrariamente
rifarsi ad un paradigma riconducibile a quello proprio dei giu dizi di parificazione, previsti, dagli art. 38-43 r.d. 12 luglio 1934
n. 1214, per il rendiconto generale dello Stato, e da altre dispo sizioni di legge, per il rendiconto di talune delle regioni a statu
to speciale. Detti giudizi, il cui oggetto è la verifica della legittimità e
regolarità della gestione finanziario-contabile, si svolgono, co
me è noto, nelle forme della giurisdizione contenziosa, sulla ba
se delle disposizioni processuali del r.d. n. 1214 del 1934 e del
r.d. n. 1038 del 1933, concludendosi con una vera e propria decisione. Tuttavia, le peculiarità formali e sostanziali di tali
giudizi non appaiono riscontrabili nel censurato procedimento di verifica predisposto dal collegio regionale di controllo, che,
nell'ambito di quanto previsto dall'art. 3, 5° e 6° comma, 1.
n. 20 del 1994, ha per oggetto le verifiche tipiche del c.d. con
trollo sulla gestione, con risultati destinati, infine, a confluire
nella relazione indirizzata all'organo consiliare regionale. Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara che spetta
allo Stato, e per esso alla Corte dei conti, collegio di controllo
per la regione Puglia, procedere, secondo i criteri e per le finali
tà indicati in motivazione, all'esame del rendiconto della regio ne stessa, relativo all'esercizio finanziario 1997.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione tributaria; sentenza 3 apri le 2000, n. 3979; Pres. Cantillo, Est. Graziadei, P.M. Nar
di (conci, diff.); Soc. Eptaconsors (Avv. Gallo, Salvini) c.
Min. finanze. Cassa Comm. trìb. reg. Lombardia 30 maggio 1997.
CORTE DI CASSAZIONE;
Redditi (imposte sui) — Acquisto e vendita di azioni — «Divi
dend washing» — Legittimità (Cod. civ., art. 1344; d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600, disposizioni comuni in materia di
accertamento delle imposte sui redditi, art. 37; d.p.r. 22 di
cembre 1986 n. 917, approvazione del testo unico delle impo ste sui redditi, art. 14).
L'acquirente di azioni da un fondo comune d'investimento, che,
successivamente all'incasso dei dividendi, rivende le azioni stes
se al medesimo fondo (c.d. dividend washing^, ha diritto a
far valere il credito d'imposta sugli stessi dividendi e le altre
detrazioni connesse all'operazione, a nulla rilevando il fatto
che, attraverso questa operazione, l'amministrazione finan ziaria ottenga un incasso inferiore a quello che le avrebbe
assicurato la persistenza dei titoli in capo all'originario inte
statario. (1)
(1) La Suprema corte si pronuncia, a quanto consta, per la prima volta sulla legittimità delle operazioni di dividend washing poste in esse
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Svolgimento del processo. — L'ufficio delle imposte dirette di Milano, con accertamento in rettifica della dichiarazione pre sentata ai fini dell'Irpeg e dell'IIor per l'esercizio 1990-1991 dal
la s.p.a. Eptaconsors, le ha contestato di aver stipulato acquisti e rivendite di titoli azionari del fondo comune d'investimento
Eptacapital, gestito dalla s.p.a. Eptafund (controllata dagli stessi
istituti di credito che controllavano la Eptaconsors), al solo sco
po di far figurare come propri i dividendi delle azioni, con eiu
sione del trattamento fiscale previsto quando i dividendi mede
simi siano percepiti da fondi d'investimento; su questa premes sa, e con riferimento all'art. 37, 3° comma, d.p.r. 29 settembre
1973 n. 600, ha escluso che la Eptaconsors potesse far valere
il credito d'imposta di cui all'art. 14, 1° comma, d.p.r. 22 di
cembre 1986 n. 917, portare in detrazione le ritenute d'acconto
effettuate dalle società emittenti, opporre come perdita la diffe
renza fra il maggior prezzo d'acquisto ed il minor prezzo di
rivendita dei titoli (rispettivamente al lordo ed al netto dei divi
dendi), ed ha reclamato il pagamento della somma di lire
694.266.000 per imposte evase e di lire 2.013.348.000 per san
zioni pecuniarie.
L'impugnazione del relativo avviso da parte della società è
stata respinta dalla Commissione tributaria di primo grado di
Milano.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha di
re prima del 10 novembre 1992. Con la 1. 5 novembre 1992 n. 429, entrata in vigore il 10 novembre dello stesso anno, è stato introdotto il comma 6 bis dell'art. 14 d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917, in base al quale ai soggetti che acquistano azioni o quote di partecipazione nel le società o enti indicati alle lett. a) e b) del 1° comma dell'art. 87
d.p.r. 917/86, da fondi comuni di investimento (1. 23 marzo 1983 n. 77 e successive modificazioni) o dalle società di investimento a capitale variabile (Sicav: d.leg. 25 gennaio 1992 n. 84), il credito d'imposta non
spetta limitatamente agli utili la cui distribuzione è stata deliberata an teriormente alla data della cessione. Anteriormente all'entrata in vigore della normativa citata, per beneficiare del credito d'imposta sui divi dendi che, altrimenti, si sarebbe perso, i fondi comuni d'investimento o le Sicav vendevano, prima della distribuzione degli stessi, i titoli azio nari ad un soggetto che avesse il diritto al relativo credito; dopo l'ac
quisizione del dividendo e del relativo credito, la cessionaria rivendeva allo stesso fondo o alla Sicav i titoli ad un prezzo più basso che teneva conto del dividendo incassato e dello stesso credito d'imposta.
Hanno ritenuto legittime le operazioni di dividend washing, sul rilie vo dell'inapplicabilità dell'art. 37 d.p.r. 600/73, ovvero dell'inapplica bilità dell'art. 6, 2° comma, d.p.r. 917/86: Comm. trib. prov. Milano 20 luglio 1999, Fisco, 1999, 12335, con nota di V. De Luca, e Bolletti no trib., 1999, 1395, con nota di C. Vecchio; 9 aprile 1999, Rass.
trib., 1999, 1465; 30 marzo 1998, Foro it., Rep. 1998, voce Tributi in genere, n. 803; Comm. trib. prov. Firenze 28 marzo 1998, Toscana
giur., 1998, 641; Comm. trib. prov. Bologna 27 marzo 1998, Foro it.,
Rep. 1998, voce cit., n. 804; Comm. trib. prov. Torino 29 gennaio 1998, ibid., n. 805.
Contra: Comm. trib. reg. Piemonte 25 gennaio 1999, Rass. trib., 1999, 853, per la quale «il dividend washing è contratto esclusivamente motivato al fine di elusione fiscale», che quindi «viola i principi del buon costume»; il che ne «implica la nullità», da cui «consegue il dirit to a chiunque di disconoscerne gli effetti»; Comm. trib. prov. Roma 16 ottobre 1998, Banca dati Corriere trib., 1999, 1212, per la quale l'ufficio può privare di efficacia ai sensi dell'art. 1417 c.c., in quanto simulata, l'operazione de qua, e a tale fine può avvalersi della prova presuntiva; Comm. trib. prov. Parma 20 luglio 1998, Foro it., Rep. 1998, voce cit., n. 802, che ritiene configurata la fattispecie della simu lazione per interposizione personale e dell'illiceità della causa, e, sul
piano più specificamente proprio della normativa tributaria, la sua ri conducibilità al dettato degli art. 37, 3° comma, d.p.r. 600/73 (che riguarda appunto la simulazione per interposizione) e 6, 2° comma,
d.p.r. 917/86; Comm. trib. prov. Cuneo 3 novembre 1997, ibid., n.
806, in cui si qualifica come fittizia la cessione di titoli in funzione
del recupero del credito d'imposta. Il Secit (servizio centrale degli ispettori tributari) con delibera n. 49
del 1993, in Notiziario fiscale, 1993, fase. 4, 64, dopo avere definito
il dividend washing come un negozio atipico «di scambio di reddito
a scopo di guadagno fiscale» e, pure riconoscendone la liceità e l'effica
cia sotto il profilo civilistico, ritiene che l'interposizione e sostituzione
restano prive di rilievo fiscale e sono disconoscibili dall'amministrazio
ne finanziaria, sul rilievo che in tali casi trova applicazione l'art. 6, 2° comma, d.p.r. 917/86, che codifica il principio della «insostituibilità del reddito» e l'art. 37, 3° comma, d.p.r. 600/73, che consente di im
putare ad un soggetto diverso i «redditi di cui appaiono titolari altri
soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi,
precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta
persona».
Il Foro Italiano — 2000.
satteso il gravame della contribuente, ritenendo corretta l'appli cazione del citato art. 37, e rilevando che le compravendite co stituivano negozi collegati rivolti a conseguire un risparmio fi
scale, erano prive di causa diversa dall'elusione degli obblighi tributari, implicavano una fittizia imputazione alla Eptaconsors di redditi altrui (cioè del fondo d'investimento).
La Eptaconsors, con ricorso notificato il 15 ottobre 1997, articolato in tre motivi connessi, ha chiesto la cassazione della sentenza della commissione regionale, addebitandole:
— di aver erroneamente applicato il predetto art. 37, 3° com
ma, riguardante il caso dell'interposizione fittizia nel possesso di redditi, in una fattispecie diversa, in cui vi erano stati effetti
vi trasferimenti e ritrasferimenti di azioni, e dunque poteva even
tualmente ipotizzarsi solo un'interposizione reale (primo motivo); — di aver violato gli art. 27, 1° comma, d.p.r. 29 settembre
1973 n. 600, 14, 1° comma, e 52 d.p.r. 22 dicembre 1986 n.
917, per aver ritenuto tassabili nei suoi confronti i dividendi
azionari in contraddizione con l'assunto del carattere fittizio delle
operazioni e con arbitraria applicazione del regime fiscale che
i dividendi medesimi avrebbero avuto soltanto se percepiti da
un fondo d'investimento (secondo motivo); — di aver violato l'art. 1344 c.c., con il ritenere la nullità
dei contratti per devianza della causa, vale a dire per causa di
retta ad aggirare norme imperative, trascurando che la frode
Sulla irrilevanza penale delle operazioni di dividend washing, v. Trib. Roma 25 marzo 1999, in questo fascicolo, II, 313.
La dottrina è concorde nel ritenere fiscalmente lecite le operazioni di dividend washing. In tal senso, v. P. Monarca, Operazioni di scam bio ed usufrutto su azioni, in Corriere trib., 1999, 3073, il quale rileva che «nel campo delle imposte dirette non vi è alcuna traccia di disposi zioni di legge che consentono all'amministrazione finanziaria di richia mare a tassazione redditi a seguito di una (ri)qualificazione di contratti
posti in essere dal contribuente»; G. Porcaro, Ancora in tema di «di vidend washing»: la nullità civilistica del contratto è sinonimo di inter
posizione?, in Riv. giur. trib., 1998, 1096, secondo il quale, in linea
generale, ove l'operazione posta in essere dal contribuente «sfrutti una
generica ed indeterminata imperfezione del sistema tributario, diventa
per contro tecnicamente difficile utilizzare l'art. 1344 c.c., venendo a mancare proprio una delle condizioni da tale articolo previste ai fini della declaratoria della nullità del contratto. Ebbene, nel caso di divi dend washing, appare tutt'altro che agevole individuare la norma impe rativa specificamente elusa; il primo cessionario (o l'usufruttuario), in
quanto titolari del diritto reale sull'azione e quindi 'legittimi' percettori dei dividendi, hanno diritto a vedersi attribuito il credito d'imposta. Più propriamente è il 'sistema' che risulterebbe aggirato, non la singola disposizione»; D. Stevanato, «.Dividend washing» e usufrutto su azio ni: riflessioni «a caldo» su sostituzione di redditi, simulazione ed elu sione tributaria, in Rass. trib., 1999, 1496; Id., «Dividend washing», nullità de! contratto per contrarietà al buon costume e «giustizialismo fiscale», ibid., 863, che, con riferimento alla tesi della nullità del con tratto stipulato a fini di elusione fiscale, ritiene che si tratta «di un'opi nione a dir poco stravagante e comunque storicamente confutabile, vi sto il dibattito che nell'ultimo decennio ha accompagnato l'introduzio
ne, nell'ordinamento tributario italiano, di una norma antielusiva
semi-generale (il previgente art. 10 1. 408/90 e l'attuale art. 37 bis d.p.r. 600/73). La tesi propugnata dalla commissione piemontese, nel postula re una valenza pregiuridica dell'elusione tributaria, come regola di con dotta antisociale (al di fuori quindi di ogni assetto di diritto positivo), comporta anche — a rigore — la perfetta superfluità di ogni clausola
espressa antielusiva, generale o specifica, giacché la materia sarebbe a
questo punto appannaggio della 'morale' sociale, esternata dalla collet
tività per bocca del giudice chiamato a dichiarare la nullità dei contratti a causa 'elusiva' e perciò contrari al buon costume»; D. D'Agostino G. D'Agostino, Brevi note in materia di operazioni di «dividend wa
shing», in Fisco, 1998, 10750, secondo i quali, «posto che l'art. 37
si applica ai soli casi di interposizione fittizia e non ha portata antielusi
va nell'operazione di acquisto e successiva rivendita di titoli azionari
posta in essere dal cessionario è agevole dimostrare come non sussista
no minimamente le condizioni per applicarlo, partendo dal presupposto che tale operazione costituisce, al limite ed a tutto concedere (e, ovvia
mente, previa adeguata dimostrazione da parte del fisco), una forma
di interposizione reale, dal momento che la cessione e la successiva re
trocessione dei titoli sono realmente volute dalle parti e non fittizie»
e che «l'art. 6, 2° comma, riguarda esclusivamente il soggetto cedente
(il fondo comune di investimento mobiliare), limitandosi a disporre che
il reddito da questo ricevuto in contropartita prende (nell'imponibile del cedente) il posto del reddito ceduto (. . .) potrebbe quindi essere
richiamato solo per ricondurre a tassazione in capo al fondo, quale utile da partecipazione, la plusvalenza da negoziazione realizzata in se
de di vendita dei titoli azionari in discorso».
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1463 PARTE PRIMA 1464
fiscale postula l'inosservanza di specifiche norme «antielusive», e non può discendere dal mero rilievo che un atto negoziale abbia evitato il verificarsi dei presupposti di una determinata
imposta o comportato un trattamento meno oneroso (terzo
motivo). L'amministrazione finanziaria ha replicato con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione. — Il ricorso è fondato, sulla scorta
e nei limiti delle considerazioni che seguono. La commissione regionale ha ricostruito la complessiva vicen
da negoziale ravvisando una pluralità di contratti collegati, po sti in essere per ottenere un risparmio fiscale; non ha quindi messo in dubbio l'effettività della cessione e della retrocessione
delle azioni, né il fatto che la Eptaconsors avesse realmente per
cepito gli utili distribuiti dalle società emittenti delle azioni, ed
ha prestato sostanziale adesione alla tesi dell'ufficio, secondo
cui quei contratti erano inefficaci e comunque non opponibili all'amministrazione finanziaria perché rispondevano alla comu
ne intenzione delle parti di godere di un regime di tassazione
dei redditi globalmente più favorevole (tenendo conto della rife
ribilità degli esborsi della Eptaconsors e della Eptafund all'uni
co «gruppo» che controllava entrambe). Contro queste premesse e questi rilievi di effettività dei tra
sferimenti, ancorché finalizzati all'indicato obiettivo, non può essere valorizzata la qualificazione come «fittizia» dell'imputa zione dei dividendi alla Eptaconsors, per inferirne che la com
missione regionale avrebbe ravvisato, se non altro in alternativa
al collegamento di compravendite reali, una simulazione delle
stesse, nel senso che i trasferimenti ed i ritrasferimenti sarebbe
ro stati mera veste esteriore, per la presenza di una controdi
chiarazione idonea ad escludere ogni effettivo passaggio; nella
radicale carenza di specificazioni sul punto, ed anzi a fronte
della esplicita affermazione di presupposti di segno opposto,
quella qualificazione, del resto riferita ai redditi e non agli atti
traslativi, resta sul piano dell'uso improprio del termine «fitti
zio», per corroborare un convincimento di predisposizione e con
nessione di contratti «veri» allo scopo di evadere in tutto od
in parte l'imposta sui dividendi.
Tale consistenza della sentenza impugnata e della ratio deci
dendi comporta l'erroneità dell'applicazione dell'art. 37, 3° com
ma, d.p.r. n. 600 del 1973 (aggiunto dall'art. 30 d.l. 2 marzo
1989 n. 69, convertito, con modificazioni, in 1. 27 aprile 1989
n. 154). Questa norma, stabilendo l'imputabilità al possessore effetti
vo dei redditi di cui «appaia» titolare altro soggetto in base
ad interposizione di persona, inequivocamente si occupa del ca
so dell'interposizione fittizia in senso proprio (non nel significa to adottato dalla commissione regionale), caratterizzata dalla
divaricazione fra situazione esteriore e situazione sostanziale,
rispettivamente riferibili all'interposto ed all'interponente, non
anche del caso dell'interposizione cosiddetta reale, quale quella accertata dalla sentenza impugnata, ove la forma e la sostanza
coincidono, e si può porre soltanto un problema di validità ed
efficacia dell'atto negoziale determinativo della variazione sog
gettiva nella titolarità del bene.
Sotto quest'ultimo profilo va ricordato che la nullità del con
tratto per devianza della causa, come quella ritenuta dalla com
missione regionale, in relazione al risultato conseguito in con
creto per il tramite dell'adozione di uno schema negoziale tipi
co, esige, ai sensi dell'art. 1344 c.c., la configurabilità in tale
risultato di violazione di norma imperativa. Detta evenienza, rispetto ai riflessi fiscali del rapporto con
trattuale, non è dunque identificabile nel mero «risparmio» (cui ha fatto riferimento la pronuncia impugnata), né può discende
re dal semplice rilievo che, senza la costituzione di quel rappor to, l'erario avrebbe ottenuto un maggiore incasso, ma presup
pone un quid pluris, cioè una disposizione di legge che vieti
il contratto quando esso (in sé lecito) implichi in concreto una
riduzione del prelievo impositivo.
Pertanto, a fronte di divergenti trattamenti fiscali, a seconda
del soggetto cui faccia capo un certo reddito, la frode alla legge ex art. 1344 c.c. non è ravvisabile per il solo fatto che un atto
negoziale (reale e non simulato) abbia spostato la titolarità del
bene al contribuente «favorito», occorrendo una norma che di
rettamente od indirettamente neghi la facoltà di trasmigrare con
Il Foro Italiano — 2000.
l'atto stesso dall'uno all'altro regime di tassazione; in difetto, si rimane nell'ambito della mera lacuna della disciplina tributa
ria, per non aver prefigurato la possibilità dei contribuenti di
optare per assetti privatistici fiscalmente proficui. Nella fattispecie in esame, quella del cosiddetto dividend wa
shing, caratterizzato dalla temporanea cessione di titoli azionari
dal gestore di un fondo d'investimento ad un terzo, per consen
tire a quest'ultimo di percepire i dividendi avvalendosi delle de
duzioni e dei crediti spettanti ai soggetti diversi dai fondi d'in
vestimento, non è individuabile nella normativa tributaria un
divieto del tipo sopra specificato; di tale carenza la difesa del
l'amministrazione dà sostanzialmente atto con il controricorso,
quando allega a conforto della legittimità della rettifica a carico
della Eptaconsors la simulazione delle compravendite delle azioni, e dunque, come si è detto, una situazione in fatto difforme
da quella acclarata in sede di merito (e del resto non dedotta
con l'avviso in contestazione). L'ammissibilità e la liceità di detta operazione, in assenza di
contraria previsione di legge, trovano sicura conferma nell'evo
luzione normativa successiva ai rapporti in discussione.
Il comma 6 bis dell'art. 14 d.p.r. n. 917 del 1986, aggiunto con effetto ex nunc dall'art. 7 bis d.l. 9 settembre 1992 n. 372
(convertito, con modificazioni, in 1. 5 novembre 1992 n. 429),
nega il credito d'imposta correlato alla distribuzione di utili azio
nari a chi acquisti i titoli da un fondo comune d'investimento
(dopo la delibera di distribuzione degli utili stessi).
Questa innovazione pone rimedio ai riflessi sfavorevoli per l'erario del diffondersi della prassi del dividend washing, e prov vede a colmare la menzionata lacuna, coordinando i due diversi
regimi impositivi con l'esclusione di uno dei vantaggi fiscali del
l'operazione (quello più consistente) e con la conseguenziale ac
centuazione del prelievo sui dividendi ove ineriscano ad azioni
in precedenza cedute da un fondo d'investimento ad altro
soggetto. La scelta del legislatore di elidere od attenuare la convenienza
fiscale dell'operazione riposa sull'evidente presupposto della li
ceità della medesima.
In conclusione, si deve affermare che, nella disciplina ante
riore alla citata integrazione dell'art. 14 d.p.r. n. 917 del 1986,
l'acquirente di azioni da un fondo comune d'investimento, il
quale effettivamente percepisca i dividendi e poi rivenda i titoli
al fondo stesso, può far valere il credito accordato da detta
norma in percentuale degli utili e le altre detrazioni connesse
all'operazione, indipendentemente dall'eventualità che l'opera zione medesima, in relazione al distinto trattamento fiscale cui
sono sottoposti i fondi d'investimento, si traduca in un incasso
per l'amministrazione finanziaria inferiore a quello che le avrebbe
assicurato la persistenza dei titoli in capo all'originario inte
statario.
Il principio esige, con l'accoglimento del ricorso e la cassa
zione della decisione della commissione regionale, la prosecu zione della causa in fase di rinvio, per il riscontro delle conse
guenze del principio stesso rispetto all'avviso impugnato.
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