Sezione V; decisione 12 dicembre 1959, n. 1018; Pres. Macchia P., Est. Trotta; Guarino (Avv.Tesauro, Sica) c. Comune di RutinoSource: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 5 (1960), pp. 103/104-105/106Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174952 .
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103 PARTE TERZA 104
che sarebbe stata più esatta : « condusse per proprio conto ».
Il secondo motivo appare, pertanto, infondato.
Il terzo motivo è inconferente, perchè, come risulta
dalla disamina del primo motivo, l'accenno alla figura di
prestanome del Guelfo, assunta dal Mandrile, appare, nelle
premesse dell'impugnato provvedimento elemento non
direttamente determinante.
Va disatteso1 anche il quarto motivo, col quale l'impu
gnata determinazione della Giunta viene censurata di
eccesso di potere per disparità di trattamento.
Il provvedimento della Giunta prov. amm. di Torino
in data 3 luglio 1956, col quale fu respinto il ricorso di terzi
avverso una licenza concessa al profugo Caluso, afferma
un principio (non potersi negare al profugo che abbia otte
nuto la riattivazione della licenza la facoltà riconosciuta
agli altri commercianti, di dare in gestione e di cedere
l'esercizio a terzi) al quale la controversia ora in esame
non attiene, come si è visto nella disamina del primo motivo.
Manca pertanto uno dei presupposti essenziali per poter
configurare l'ipotesi di disparità di trattamento.
Le considerazioni esposte in sede di disamina del primo motivo valgono anche per il quinto motivo. Qui occorre
soggiungere che, nei confronti dell'impugnato provvedi mento, appaiono inconferenti le deduzioni del ricorrente, intese a sostenere che l'art. 28 legge 4 marzo 1952 n. 137
non pone alcun limite all'attività consentita al profugo
dopo che egli abbia ottenuto la licenza di esercizio e che
pertanto competono a questi tutte le facoltà che ha qual siasi commerciante, compresa quella di cedere l'esercizio, realizzando l'avviamento.
Con l'impugnato provvedimento la Giunta prov. amm. di
Torino non ha negato tali facoltà e non le ha neppure poste in discussione.
Come si è rilevato nella disamina delle premesse del
provvedimento, l'accoglimento del ricorso del commer
ciante Baldi contro la concessione della licenza al Mandrile è motivato sulla sostanziale contemporaneità della detta
licenza e della stipulazione del compromesso Guelfo-Man
drile, contemporaneità dimostrante il reale scopo che il Mandrile si propose di conseguire utilizzando la sua qua lità di profugo. Tale scopo, alla conferma della cui sussi stenza appare intesa la menzione, nelle premesse del prov vedimento, delle successive circostanze, tra le quali la
cessione dell'esercizio al Saccomanni, la Giunta ha ritenuto non conforme alle finalità dell'art. 28 legge del 1952.
Determinante dell'impugnato provvedimento non è stata una supposta volontà della Giunta di impedire al Mandrile di realizzare, con la vendita dell'esercizio, il suo « avviamento » (è appena il caso di rilevare che non è age vole pensare quale avviamento potesse essersi formato nei tre giorni corsi tra l'apertura dell'esercizio e la stipulazione del compromesso di vendita, entrambe avvenute molti
giorni prima che il Mandrile fosse in possesso del docu
mento-licenza), ma la constatazione dell'insussistenza della volontà del Mandrile di riprendere in Torino l'attività commerciale esplicata nel territorio di provenienza e della
certezza, invece, della volontà di non riprendere l'attività stessa.
E poiché esclusiva finalità del citato art. 28 è quella di rendere possibile la ripresa, nel comune ove il profugo intenda fissare la propria residenza, dell'attività che egli esplicava nel territorio di provenienza, la sussistenza di una volontà diversa da quella di riprendere tale attività esclude la sussistenza del necessario presupposto per l'ap plicazione, nei confronti del profugo, del beneficio previsto dallo stesso articolo.
Anche il quinto motivo è, pertanto, infondato. Per questi motivi, respinge, ecc.
CONSIGLIO DI STATO.
Sezione V ; decisione 12 dicembre 1959, n. 1018 ; Pres.
Macchia P., Est. Trotta ; Guarino (Avv. Tesauro,
Sica) c. Comune di Eutino.
Impiegato degli enti locali — Assenza — Dimissione
di ufficio — Diffida specifica.
Se l'impiegato comunale abbia risposto all'intimazione di
inviare « le proprie discolpe » in merito all'assenza dal
servizio, è illegittimo il provvedimento che dichiara la sua
dimissione di ufficio senza una previa diffida specifica che elimini ogni incertezza in ordine alla qualificazione dell'assenza. (1)
La Sezione, ecc. — Il ricorso si ravvisa fondato.
Con l'impugnata deliberazione del 18 giugno 1953 il
Comune di Rutino giustifica la dimissione d'ufficio del
l'applicato di segreteria Guarino Antonio, motivando che
al termine dell'aspettativa di giorni trenta concessa per motivi di famiglia, il predetto continuò a rimanere assente
dal servizio, arrecando così intralcio ai normali lavori di
ufficio e ponendosi in tal modo nella condizione di subire
le conseguenze sancite dall'art. 254 del t. u. legge com. e
prov. 3 marzo 1934 n. 383.
Detta deliberazione non rispecchia, però, una situazione
conforme alle risultanze in atti, essendo innanzitutto pa cifico, come ha posto in rilievo la stessa Giunta prov. amm., con l'impugnata decisione, che le assenze dall'ufficio de]
Guarino ebbero inizio, consenziente l'Amministrazione, con
una licenza di giorni 15, chiesta ed ottenuta verso la fine dell'anno 1952.
Poiché alla scadenza il Guarino non ebbe a riprendere servizio, il Sindaco, con nota del 4 dicembre 1952, n. 3029,
portò a conoscenza dell'interessato che la Giunta muni
cipale aveva deliberato di considerarlo, dalla data di comu
nicazione, in aspettativa per motivi di famiglia, con riserva di esame a tempo debito della sua posizione. Poiché alla
scadenza (4 gennaio 1953) il predetto continuò a rimanere
assente, seguì la lettera 27 gennaio 1953, con la quale si
comunicò, con la stessa riserva, che sempre per motivi di
famiglia l'aspettativa era stata con deliberazione della Giunta prorogata fino al 4 maggio 1953. Adducendosi che a tale ultima deliberazione non poteva darsi esecuzione
per mancata ratifica da parte della Prefettura di Salerno, con nota 19 febbraio 1953 si diffidò il Guarino a produrre entro il termine di 10 giorni dalla data di comunicazione «le proprie discolpe per non avere al termine della prima aspettativa (4 gennaio 1953) ripreso servizio, con espressa intesa che non ottemperandovi » sarebbe stato considerato
dimissionario d'ufficio. Prima della scadenza del termine fissato il Guarino fece pervenire al Comune le proprie de
duzioni, opponendo che il mancato rientro in servizio era dovuto al comportamento dell'Amministrazione, la quale, mentre da un lato aveva ritenuto di porre in aspettativa il Guarino per motivi di famiglia, dall'altro aveva preso la
riserva, mai sciolta, di esaminare la sua posizione in rela zione alle assenze fatte. Non interessa qui stabilire quale valore giustificativo possa attribuirsi a dette deduzioni.
(1) Sulla giustificabilità dell'assenza dell'impiegato dal ser vizio, v. Sez. V 1° febbraio 1958, n. 11, Foro it., Rep. 1958, voce
Impiegato dello Stato, n. 246 ; 11 gennaio 1952, n. 28, id., Rep. 1952, voce Impiegato gov. e pubbl., n. 494. In dottrina, Dei.
Prete, Presupposti delle dimissioni di ufficio e sindacato di legit timità, in Annali sem. giur., Bari, 1948, IX, 97.
Circa i requisiti della diffida ed i casi nei quali essa non è necessaria v. Oons. giust. amm. sic. 2 febbraio 1959, n. 43, Dir. pubbl., 1959, 98 ; Oons. Stato, Sez. IV, 22 ottobre 1958, n. 697, Foro it., Rep. 1958, voce Impiegato com., n. 241 ; Sez. V 19 aprile 1958, n. 243, ibid., n. 240 ; 1° febbraio 1958, n. 11, cit. ; Sez. VI 30 maggio 1956, n. 367, id., Rep. 1956, voce Impiegato gov. e pubbl., n. 326 ; Sez. V 29 aprile 1950, n. 532, id., Rep. 1950, voce cit., n. 99. In dottrina, v. Soprano, Il comportamento del
l'impiegato nelle dimissioni dichiarate di ufficio, in Rass. pubbl., 1952, I, 3.
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105 GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 106
potendo anche ammettersi che la riserva fatta dall'Ammi
nistrazione non autorizzava per nulla l'impiegato a non
riprendere servizio al termine dell'aspettativa concessa.
Ne se ciò poteva costituire legittimo motivo per proce dere contro il Guarino in via disciplinare, non autorizzava
il Comune a deliberare senz'altro la dimissione d'ufficio
nei sensi previsti dall'art. 234 t. u. legge comunale e pro vinciale sopra citata, a tale provvedimento potendosi addi
venire, anche senza previa diffida, soltanto quando, in modo
non equivoco, si accerti che l'impiegato volontariamente
ed ingiustificatamente intenda non più prestare servizio, sottraendosi così, in via permanente ed integrale, agli ob
blighi derivanti dal rapporto di impiego. L'atto del 19 febbraio 1953 rappresenta in effetti la
contestazione di un addebito, che avrebbe potuto trovare
la sua conclusione in un provvedimento di carattere disci
plinare, seguendo la prescritta procedura in materia. Nella
fattispecie, invece, dato il comportamento palesemente
equivoco dell'Amministrazione, la quale, mediante gli atti
da essa stessa posti in essere, aveva lasciato intravedere
di non volere, a causa delle assenze fatte, risolvere il rap
porto d'impiego del Guarino, sanandone la posizione attra
verso le aspettative concesse, la diffida doveva ritenersi
indispensabile al duplice scopo di eliminare ogni incertezza
in ordine alla qualificazione delle assenze, e di acquisire la prova sicura che il Guarino, inizialmente assente senza
espresso dissenso dell'Amministrazione, non intendesse in
effetti più riprendere servizio.
Tale intimazione è invece mancata, richiedendosi al
contrario che entro il termine di 10 giorni dalla comuni
cazione il Guarino inviasse « le proprie discolpe con espressa intesa che non ottemperandovi » sarebbe stato considerato
dimissionario. E poiché il Guarino entro il termine fissato
ottemperò all'invito, non solo cadeva la condizione alla
quale la dimissione d'ufficio era stata subordinata, ma
si acquisivano elementi, dai quali non era affatto possibile dedurre che fosse chiara e ferma intenzione dell'interessato
di volontariamente sottrarsi ai doveri derivanti dal rap
porto d'impiego. Dalla situazione, che almeno in parte era stata deter
minata dal proprio comportamento, l'Amministrazione ha
così tratto una conclusione incongrua, disponendo le dimis
sioni d'ufficio per le quali mancavano i presupposti, costi
tuiti, come più sopra si è visto, da assenze inequivocabil mentre arbitrarie.
Per questi motivi, accoglie, ecc.
CONSIGLIO DI STATO.
Sezione IY ; decisione 2 dicembre 1959, n. 1173; Pres. C.
Bozzi P., Est. Granito ; Comune di Reggio Emilia (Avv.
Werner) c. Alto commissariato igiene e sanità pub blica (Avv. dello Stato Carafa), Morelli, Palazzi.
Farm acia — Esercizio fai'inaci'utico — Concessione — Natura — Farmacie comunali (L. 9 giugno 1947 n.
530, modificazioni al t. u. della legge com. e prov. 3
marzo 1934 n. 383, art. 27). Farmacia — Divieto di alienazione -—• Trasferimento
«Iella titolarità dell'esercizio — Estensione (E. d.
27 luglio 1934 n. 1265, t. u. delle leggi sanitarie, art. 112).
La concessione dell'esercizio di una farmacia è per sua natura
personale e non è trasferibile se non nei casi e nei modi
dalla legge espressamente previsti ; a tale intrasferibilità non ha apportato deroga in favore dei comuni Vart. 27
della legge 9 giugno 1947 n. 530. (1)
(1) Nel senso che la così detta autorizzazione all'apertura di farmacie rientra nella categoria delle concessioni ammini
strative, v. Cass. 24 agosto 1948, n. 1548 (ricordata nel testo), Foro it., 1949, I, 244 ; App. Firenze 24 gennaio 1952, id., Rep.
1952, voce Farmacia, n. 45 e, per riferimenti, v. anche Cons.
Stato, Sez. IV, 4 dicembre 1951, n. 902, id., 1952, III, 1.
Il Foro Italiano — Volume LXXX1II — Parte III-9.
Nei casi in cui sussiste il divieto di trasferire l'esercizio di
una farmacia, il divieto si estende anche al trasferimento della titolarità dell'azienda farmaceutica, e la nullità del
negozio, in violazione del divieto, si riferisce, conseguen
tamente, all'uno e all'altro trasferimento. (2)
La Sezione, ecc. — Il ricorso è infondato.
L'art. 27 legge 9 giugno 1947 n. 530 ha ripristinato la
facoltà dei comuni di « assumere l'impianto e l'esercizio di
farmacie », facoltà già riconosciuta dalla legge 22 maggio 1913 n. 468 e dal t. u. 15 ottobre 1925 n. 2578 sulla muni
cipalizzazione dei pubblici servizi e che il decreto legge 15 marzo 1934 n. 463 aveva soppresso, in omaggio al nuovo
indirizzo legislativo, secondo cui l'esercizio di farmacie
aperte al pubblico doveva essere riservato ai farmacisti
professionisti (persone fisiche) e precluso agli enti morali,
pubblici e privati (vedi art. 165 e 114 t. u. leggi sanitarie
1934 n. 1265), ma non ha affatto abrogato o modificato il
principio generale introdotto con la legge del 1913 e con
fermato dal t.u. del 1934 (art. 112, 1° comma) ; che attri
buisce alle « autorizzazioni farmaceutiche carattere stret
tamente personale », vietandone la cessione per atto tra
vivi o il trasferimento mortis causa. È questo un principio
dell'attuale ordinamento giuridico delle farmacie : che,
riconoscendo all'attività farmaceutica carattere di pubblico
servizio statale, ne consente l'esercizio, in condizioni di
monopolio, solo a chi ne abbia avuto dallo Stato formale
« concessione » (impropriamente denominata « autorizza
zione » nei testi legislativi) (vedi Cass.24 agosto 1948, n. 154,
Foro it., 1949, I, 244) : concessione amministrativa, per sua
natura, personale e non trasmissibile, se non nei casi e nei
modi dalla legge espressamente previsti. Com'è noto, il precetto della « non trasferibilità » dello
esercizio farmaceutico venne sancito dalla legge del 1913
e ribadito dal t. u. del 1934 per tutte le farmacie, comprese
quelle gestite dai comuni o dà altri enti o società, e comprese
altresì le farmacie di diritto transitorio, quando fosse venuto
a scadere il periodo della loro temporanea commerciabilità
(concessa dalla legge del 1913, all'atto della statizzazione
del servizio, per non gravare l'Erario con la corresponsione
di onerose indennità e dar modo agli interessati di realiz
zare ugualmente il valore della loro azienda, mediante la
alienazione di essa ovvero con la gestione, diretta o indiretta,
protratta per un periodo di tempo di 20 o 30 anni sufficiente
ad ammortizzare il capitale investito) ; doveva, quindi,
trovare applicazione anche quando la titolarità della c. d.
autorizzazione farmaceutica fosse stata riconosciuta a un
privato non farmacista od a un ente morale.
Trattasi, cioè, di un divieto che (contrariamente a quanto
suppone il ricorrente) non aveva e non ha alcuna connessione
con l'altro principio, sancito per la prima volta con la legge
del 1934 e parzialmente derogato con la legge del 1947, se
condo cui la vendita al pubblico di medicinali è riservata ai
farmacisti professionisti e preclusa alle persone giuridiche ;
e che non può, quindi, ritenersi caducato per effetto della
limitazione ora ad esso apportata a favore dei comuni.
A sostegno della sua tesi il ricorrente invoca un argo mento puramente letterale : si richiama al disposto del 2°
comma dell'art. 27, il quale prescrive che « l'autorizzazione
farmaceutica (ai comuni) sarà data, in quanto occorra, in
deroga alle limitazioni stabilite dall'art. 104 all'art. 118
t. u. 27 luglio 1934 n. 1265 delle leggi sanitarie » ; e ne deduce
che tra le norme cui è consentito derogare in favore dei
comuni è. senza dubbio, compresa anche quella dell'art. 112,
(2) Nel senso della prima parte della massima, v. Cass. 9 ago
sto 1956, n. 3105, Foro it., Rep. 1956, voce Farmacia, il. 58. Sulla
nullità del trasferimento della concessione, cfr. Cass. 30 gennaio
1951 n. 251 (ricordata nel testo), id., 1951, I, 561, nella motiva
zione. In relazione a situazioni di regime transitorio, vedi Cass.
10 gennaio 1955, n. 12, id., 1955, I, 487 ; Trib. Bologna 17 maggio
1957, id., 1958, I, 489. Sull'art. 27 della legge n. 530 del 1957, vedi, per riferimenti,
Cons. Stato, Sez. IV, 11 agosto 1950, id., Rep. 1950, voce cit.,
n. 30 ; 29 luglio 1955, n. 530, id., Rep. 1955, voce cit., nn. 39-42 ;
18 dicembre 1953, n. 1041, id., 1954, III, 119.
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