sezione VI; decisione 5 marzo 1985, n. 82; Pres. Caianiello, Est. Berruti; Min. lavoro eprevidenza sociale, Ispettorato provinciale del lavoro di Novara (Avv. dello Stato Ferri) c. Soc.F.i.a.t. autoveicoli industriali (Avv. Comba, Sandulli, Contaldi). Conferma T.A.R. Piemonte 3giugno 1980, n. 414Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 9 (SETTEMBRE 1985), pp. 323/324-329/330Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178045 .
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PARTE TERZA
di udienza sorge dopo la ricezione dell'avviso di esecuzione dell'istruttoria », non potrebbe più assumersi in trattazione un
ricorso per dichiararne la perenzione, quando il giudizio sia
pendente per non essersi ancora adempiuti gli incombenti istrut
tori. E ciò anche nel caso in cui, proprio il lungo decorso del
tempo (come quello di sei anni trascorso nel presente giudizio) senza che il ricorso sia stato più coltivato dalle parti dopo la
pronunzia interlocutoria, farebbe ritenere verificata l'ipotesi del
l'abbandono.
Qualora dovesse confermarsi l'orientamento giurisprudenziale che sembrerebbe instaurato con l'inciso cui si è fatto riferimento,
sarebbe d'ora in poi impossibile, nei casi di perdurante inerzia
rispetto agli ordini istruttori, por fine alla pendenza a tempo indefinito di quelle categorie di ricorsi rimanendo frustrato lo
scopo che l'istituto della perenzione tende invece a realizzare.
Questa situazione di stallo produrrebbe immaginabili negative
conseguenze non solo sotto il profilo organizzativo (si pensi
all'illimitato intasamento degli archivi di segreteria) ma anche
sotto quello funzionale ove si consideri non solo che una contro
versia implicante pubblici interessi potrebbe essere riaperta in
ogni tempo ancorché sopita da decenni, ma che, talvolta, la
definizione di alcuni ricorsi è pregiudiziale rispetto alla definizio
ne di altri e quindi, ove, per l'inerzia delle parti, non fosse
possibile definire, con la declaratoria di perenzione, quello pre
giudiziale, rimarrebbe indefinitivamente sospesa anche la defini
zione di quelli pregiudicati dalla pendenza del primo. Attesa la delicatezza della questione e la circostanza che, sia
pure per obiter dictum, di essa risulta già un indirizzo dell'adu
nanza plenaria delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato,
si reputa opportuno deferirle la questione.
I
CONSIGLIO DI STATO; sezione VI; decisione 5 marzo 1985,
n. 82; Pres. Caianiello, Est. Berruti; Min. lavoro e previden za sociale, Ispettorato provinciale del lavoro di Novara (Avv.
dello Stato Ferri) c. .Soc. F.i.a.t. autoveicoli industriali (Avv.
Comba, Sandulli, Contaldi). Conferma T.A.R. Piemonte 3
giugno 198G, n. 414.
Giustizia amministrativa — Ispettorato del lavoro — Prescrizioni
alle imprese — Impugnabilità (D.p.r. 19 marzo 1955 n. 520,
riorganizzazione centrale e periferica del ministero del lavoro e
della previdenza sociale, art. 8, 9; d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547,
norme per la prevenzione degli infortuni, art. 401; d.p.r. 19
marzo 1956 n. 303, norme generali per l'igiene del lavoro, art.
3, 4, 20). Infortuni sul lavoro — Prevenzione — Prescrizioni dell'ispettora
to provinciale — Difetto di istruttoria — Fattispecie (D.p.r. 19
marzo 1955 n. 520, art. 10; d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, art. 401;
d.p.r. 19 marzo 1956 ti. 303, art. 18, 66).
Sono impugnabili col ricorso giurisdizionale amministrativo quegli atti a carattere provvedimentale, non meramente ricognitivi della omissione da parte dell'impresa di adempimenti prescritti dalla legge per la prevenzione degli infortuni, con i quali
l'ispettorato provinciale del lavoro costituisce a carico dell'im
presa stessa obblighi di condotta non specificamente determinati
dalla norma. (1) Sono illegittimi gli atti con i quali l'ispettorato provinciale del
lavoro prescrive ad una impresa l'adozione di misure per eliminare esalazioni nocive, e concentrazioni di fumi o di altri
elementi inquinanti, se queste siano state percepite solo sogget
tivamente, e non misurate, e riscontrate con gli indici ed i
valori limite predisposti, e siano mancati suggerimenti e criteri
per soluzioni e rimedi migliorativi rispetto agli impianti di
depurazione, areazione e schermatura già in esercizio. (2)
(1,3) I precedenti più direttamente rilevanti sono rappresentati dalla confermata sentenza del T.A.R. Piemonte 3 giugno 1980, n. 414 e da T.A.R. Lazio, sez. Ili, 24 marzo 1980, n. 258, Foro it., 1981, III, 533, con nota di richiami. In questo senso, tuttavia, mentre la decisione del
Consiglio di Stato in epigrafe si limita a confermare i principi codificati da T.A.R. Piemonte n. 414/80, affermando, in conclusione, la
giurisdizione del giudice amministrativo sui provvedimenti emanati
dagli ispettorati del lavoro d quali non si concretino nella mera indicazione dei comportamenti cui è tenuto l'imprenditore diffidato, ma si configurino, invece, come disposizioni e prescrizioni, con i caratteri
Il Foro Italiano — 1985.
II
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL PIE MONTE; sentenza 24 aprile 1985, n. 194; Pres. ed est. Barbieri; Soc. Manifatture lane di Carignano (Avv. Comba) c.
Regione Piemonte (Avv. Mittone), U.s.l. n. 1-23 Torino (Avv. Videtta).
Giustizia amministrativa — Ispettorato del lavoro — Diffide alle
imprese — Ricorso — Ammissibilità. Infortuni sul lavoro — Prescrizione dell'ispettorato provinciale —
Difetto di motivazione — Fattispecie (D.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, art. 377; d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, art. 4, 24).
Sussiste l'interesse a ricorrere dell'impresa contro la diffida con la quale l'ispettorato provinciale del lavoro l'ha richiamata all'osservanza di doveri finalizzati alla prevenzione degli infor tuni, già determinati dalla legge. (3)
È illegittima la diffida con la quale l'ispettorato provinciale del lavoro prescrive ad una impresa, presso la quale vengono svolte lavorazioni rumorose, l'adozione di sistemi di insonoriz zazione idonei ad abbassare la rumorosità ambientale non solo
fino al punto che essa verrebbe percepita dai lavoratori, con l'uso dei tappi auricolari, al di sotto della soglia degli 85 Dba indicata nella tabella ACGHI, ma anche già di per sé al di sotto di questa, con conseguente inutilità dei mezzi di protezio ne individuali, senza una valutazione dei costi, e quindi della
compatibilità economica di simile più radicale soluzione. (4)
dell'ordine, mediante cui si impone all'impresa di adottare determinate cautele, la sentenza del T.A.R. Piemonte qui riportata va oltre, e, sulla base di Corte cost. 12 luglio 1967, n. 105, id., 1967, I, 2493, ammette esplicitamente l'impugnabilità ex se dei meri atti di diffida, giudicati, evidentemente, già idonei ad incidere negativamente, di per se stessi, sulla sfera giuridica dei destinatari.
In questo quadro, la sentenza del T.A.R. Piemonte che si riporta non è solo in contrasto con la stessa precedente giurisprudenza del T.A.R. piemontese (cfr., infatti, l'appellata, e confermata, decisione di T.A.R. Piemonte n. 414/80), ma si palesa egualmente difforme rispetto all'orientamento più consolidato del Consiglio di Stato, anche nella sua veste di organo consultivo (cfr., a questo riguardo, Cons. Stato, sez. II, 10 maggio 1978, n. 884/77, Cons. Stato, 1980, I, 1754, cit. nella nota di richiami alle decisioni di T.A.R. Piemonte, n. 414/80 e T.A.R. Lazio, sez. III, n. 258/80, in uno con altri precedenti, ove si distingue, nel senso prima descritto, tra diffide, non impugnabili, e prescrizioni per le quali sussisterebbe, invece, l'interesse al ricorso).
In questa cornice, sia il problema della giurisdizione, sia quello dell'interesse al ricorso debbono essere, probabilmente, rimeditati, poi ché i più recenti sviluppi normativi (cfr. l'art. 27 d.p.r. n. 616/77 e gli art. 21 e 23 1. n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale) hanno, da un lato, trasferito le competenze statali in materia di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro alle regioni, mentre, d'altro lato, con un evidente sovrapporsi ed intrecciarsi di normative, hanno attribuito alle U.s.l. i compiti di prevenzione già propri dell'ispettorato del lavoro, prefigurando, per altro verso, l'istituzione dell'istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL).
In argomento, cfr. già Corte conti, sez. contr., 15 luglio 1983, n. 1359, id., Rep. 1984, voce Infortuni sul lavoro, n. 209, ove si precisano il ruolo delle U.s.l. e del suddetto ISPESL, ed i residui poteri statali; in dottrina, v., per tutti, M. Cicala, Sicurezza del lavoro e funzioni di polizia giudiziaria delle U.s.l., in Giust. pen., 1984, III, 115, e A. Salerno, La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, Padova, 1982.
(2,4) Le massime sono conformi all'orientamento prevalente per cui i provvedimenti dell'ispettorato del lavoro devono fondarsi su una base oggettiva, oggettivamente percepibile e misurabile, secondo quanto si addice a degli atti emanati nell'ambito di potestà discrezionali a carattere misto, per il fatto di doversi necessariamente rifare a parametri oggettivi, se non, persino, di tipo matematico, e per il ruolo che essi giocano di « integrare », sotto altro profilo, le stesse prescri zioni normative poste dal legislator^. Per un orientamento del tutto analogo a quello affermato nelle sentenze in epigrafe, cfr. già le cit. decisioni di T.A.R. Piemonte n. 414/80 e T.A.R. Lazio, sez. Ili, n. 258/80. Per il resto, la casistica giurisprudenziale è molto ricca e variegata, in connessione con la molteplicità delle formule organizzati ve praticate nei luoghi di lavoro e, soprattutto, a causa delle numerosissime attività produttive e lavorative in cui si pongono, concretamente, problemi di sicurezza e di prevenzione degli infortuni; il che induce la giurisprudenza, al cospetto di norme di legge indubbiamente generali, e persino generiche, ad aiiermare che l'ispet torato del lavoro ben può « integrare », ai sensi dell'art. 10 d.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, la disciplina legislativa per tutti gli aspetti non regolamentati, pur aggiungendosi che l'imposizione all'impresa di ulte riori cautele, quando, appunto, non siano espressamente previste dalia legge, deve essere rigorosamente motivata, con l'indicazione dei motivi per i quali le ragioni di sicurezza prescritte dalia normativa generale non possono essere ritenute sufficienti nel caso specifico (cosi Cons.
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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
I
Diritto. — Con il primo motivo d'appello la difesa dell'ammini
strazione censura la decisione di primo grado nella parte in cui è
stata ritenuta dal primo giudice l'impugnabilità in sede giurisdi zionale amministrativa delle disposizioni emanate dall'ispettorato del lavoro con riferimento all'applicazione, nella fattispecie in
esame, dell'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303.
Tale norma stabilisce che « nei lavori in cui si svolgono gas o
vapori irrespirabili o tossici od infiammabili ed in quelli nei quali si sviluppano odori o fumi di qualunque specie, il datore di
lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedire o a ridurre,
per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione ».
L'avvocatura dello Stato dissente dall'interpretazione enunciata
al riguardo a fondamento della ratio decidendi nella sentenza
impugnata, secondo la quale anche in questa materia l'attività di
vigilanza degli ispettorati del lavoro si esplicherebbe mediante
atti di polizia amministrativa, aventi contenuto discrezionale,
quanto all'emanazione dell'intimazione formale ovvero al loro
contenuto diretto a prevenire od a rimuovere fattori di rischio o
condizioni nocive di lavoro, in tutti i casi in cui non risultino
formulate speciali prescrizioni dal legislatore, in guisa da renderne
l'attuazione immediata, non subordinata alla determinazione di
modalità applicative e rimedi tecnici a discrezione degli organi
preposti alla sicurezza del lavoro.
Osserva l'avvocatura che alla stregua di tale interpretazione si
perverrebbe alla violazione del criterio fondamentale che presiede
all'impugnabilità davanti al giudice amministrativo degli atti di
vigilanza degli ispettori del lavoro, rendendosene incerta l'appli
cazione nei confronti delle cosi' dette diffide o prescrizioni, cui è
attribuita natura non provvedimentale amministrativa, ma di
rapporto all'autorità giudiziaria ordinaria circa le omissioni, da
parte degli imprenditori intimati, delle misure di prevenzione
stabilite dalla legge. Omissioni il cui accertamento si assume
costituisca oggetto di attività di polizia giudiziaria, escludendosi
che sulla relativa configurazione giuridica incidano le concrete
metodologie e modalità delle rilevazioni compiute con l'ausilio o
non di particolari procedimenti tecnici o di strumenti.
La censura va disattesa nei sensi di seguito chiariti.
Nella decisione impugnata, invero, non si disconosce sostan
zialmente il principio, desumibile dal sistema normativo in esame
(d.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, art. 8-9; d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547,
art. 401 ss.; d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, in applicazione della
delegazione di cui a 1. 12 febbraio 1955 n. 51, art. 3 e 4), che
assumono rilevanza quali atti di denunzia obbligatoria e rapporto di polizia giudiziaria, preordinati all'esercizio dell'azione penale a
carico dei trasgressori, ad iniziativa degli uffici giudiziari compe
tenti, gli atti (emanati ai sensi dell'art. 8 d.p.r. n. 520/55) di
accertamento della violazione di precetti recanti compiuta pre scrizione di comportamento cui i datori di lavoro sono tenuti, nei
propri stabilimenti e luoghi di lavoro, per la sicurezza dei
prestatori d'opera. Il che si verifica laddove la determinazione dell'obbligo di
condotta del datore di lavoro risulta avere lo stesso ambito
formale della fattispecie legale sanzionata come reato, e non
richieda l'ulteriore intervento dispositivo o attuativo dell'autorità
amministrativa di vigilanza. Con corretta applicazione dei criteri di riparto delle giurisdi
zioni rispettivamente spettanti all'autorità giudiziaria penale ed al
giudice amministrativo relativamente agli atti di tale categoria, si
afferma, pertanto, nella sentenza di primo grado esserne esclusa
l'impugnabilità sotto profili di legittimità amministrativa, posto che l'esame della loro fondatezza si risolverebbe nella valutazione
di mera notitia criminis, avente la sola funzione di atto prelimi nare al pronunciamento del giudizio penale, non implicante valutazioni discrezionali, ed esclusivamente dirette al magistero
penale. La cognizione del giudice amministrativo, nel quadro della
pienezza di tutela nei confronti degli atti e provvedimenti ammi
nistrativi (art. 113 Cost.), non può essere esclusa, invece, in tutte
le ipotesi nelle quali dalla legge è rimesso alla competente autorità amministrativa il potere di procedere a verifica tecni
co-discrezionale degli indici di rischio o pericolosità delle condi
zioni ambientali di lavoro, sia stabilendo la congruenza delle
Stato, sez. VI, 16 maggio 1983, n. 354, Foro it., 1983, voce Infortuni sul lavoro, nn. 229-231).
Per l'esame di una fattispecie concreta — l'affezione lamentata dal lavoratore è l'ipoacusia — cfr. Cass. 10 ottobre 1984, n. 5082, id., 1985, I, 814, con nota di richiami.
Il Foro Italiano — 1985.
concrete misure di prevenzione, ove già poste in atto dagli
imprenditori anche con riguardo a generiche indicazioni normati
ve, sia determinando i rimedi e gli accorgimenti dei quali si
palesi opportuna l'adozione. È evidente, infatti, che delle ipotesi testé accennate le disposizioni degli organi ispettivi hanno fun
zione (sotto il duplice aspetto della obiettiva considerazione della
circostanza cui è discrezionalmente subordinata l'esigenza dell'an
provideatur, nonché dell'effettivo contenuto determinativo e della
scelta dei rimedi alla insalubrità e pericolosità delle condizioni di
lavoro) di provvedimenti volti a costituire specificamente a carico
dei soggetti destinatari l'obbligo di condotta che, se da un lato è
suscettibile di valutazione sotto il profilo omissivo ai fini della
interpretazione di fattispecie penale (per la cui configurazione l'ordine dell'ispettorato del lavoro legalmente emanato costituisce
elemento di completamento del precetto penale « in bianco »),
incide, dall'altro, sostanzialmente, sulla sfera di iniziativa impren ditoriale, condizionandone l'esplicazione.
Dal che discende l'esigenza di tutela di posizioni soggettive a
fronte di provvedimenti limitativi aventi l'effetto di affievolire, nella cornice delle leggi a salvaguardia dell'interesse pubblico alla
prevenzione degli infortuni ed all'igiene del lavoro, la consistenza della manifestazione del diritto di impresa riguardanti l'assetto
organizzativo dell'ambiente della produzione, in conformità del
principio fondamentale dell'art. 41, 2° e 3° comma, Cost. Di tal
che, con riferimento alla natura di fonte provvedimentale degli obblighi imposti all'imprenditore (ed in quanto fonte extrapenale che, se legittima, integra la configurazione dell'illecito penale), deve ammettersi il sindacato sugli atti prescrittivi dell'ispettorato del lavoro nei modi e limiti previsti dall'ordinamento. Sindacato che assume chiara funzione pregiudiziale, pertanto, in ragione della necessità, posta dall'ordinamento, che le questioni sulla
legittimità degli atti implicanti discrezionalità di emanazione (nei sensi sopra accennati) siano definite, con l'efficacia propria del
giudicato, dal giudice amministrativo, secondo le disposizioni degli art. 20 e 21 c.p.p., salva la potestà del giudice penale, in difetto di esercizio del ricorso per annullamento da parte dell'in
teressato, di conoscerne ai soli effetti della disapplicazione, cosi come previsto dall'art. 4 1. 20 marzo 1865 n. 2248, ali. E.
A maggior chiarimento deve conclusivamente aggiungersi che la
giurisdizione amministrativa ha, nella materia in esame, ed in
conformità di un principio generale, la stessa area che espressa mente è accordata (art. 10 d.p.r. n. 520/55 e art. 66 d.p.r. n.
303/56) alla tutela giustiziale in via gerarchica in correlazione con la natura discrezionale degli interventi di polizia amministra
tiva per la prevenzione sul lavoro. Alla stregua dei principi enunciati, sul caso in esame deve
ritenersi, quindi, correttamente adito il giudice amministrativo, ai
fini del sindacato sugli atti impugnati, atteso che il contenuto
degli stessi non è strettamente ricognitivo della omissione di
adempimenti prescritti in via generale ed astratta da norme
aventi valore di legge, ma riposa sugli apprezzamenti enunciati
discrezionalmente in sede ispettiva, in correlazione alla scelta
delle modalità applicative dei rimedi tecnici da preordinare al
perseguimento dei fini genericamente individuati dal legislatore: salubrità dell'ambiente di lavorazioni nocive e pericolose per l'incolumità fisica degli addetti, nei sensi1 precisati dagli art. 18 ss.
d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303.
Ritenuta, conseguentemente la giurisdizione nella materia in
oggetto, quale risulta concretamente devoluta all'esame di questo
consiglio per effetto della proposizione dell'appello dell'ammini
strazione (e nei limiti, quindi, della parziale soccombenza da
questa subita a seguito della decisione di primo grado, che solo
in parte ha ravvisato ammissibili le domande prospettate con i
ricorsi riuniti della s.p.a. F.i.a.t.-autoveicoli industriali) devesi
procedere all'esame del secondo motivo d'impugnazione, attinente
al merito della controversia.
Con tale ulteriore censura l'avvocatura dello Stato ritiene
viziata per errore in iudicando la decisione in oggetto, nella parte in cui questa ha riconosciuto sussistere nei confronti degli atti
prescrittivi impugnati l'eccesso di potere dell'autorità amministra
tiva per insufficienza dell'istruttoria compiuta -nello stabilimento
della parte ricorrente, attuale appellata. Anche tale censura va ad avviso del collegio disattesa per le
seguenti considerazioni.
Deve ritenersi, invero, insufficiente l'acquisizione dei dati tecni
co-ambientali o riferibili al grado di idoneità degli impianti di
aerazione o depurazione o di - schermatura di radiazioni nocive,
qualora non siano nel contempo fornite agli imprenditori destina
tari delle prescrizioni gli opportuni suggerimenti ed i criteri per soluzioni e rimedi effettivamente migliorativi.
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PARTE TERZA
Il che comporta, in ispecie, che nei casi nei quali è dalla legge
imposta l'adozione di iniziative imprenditoriali atte ad impedire lo sviluppo e la diffusione di esalazioni e fumi nei locali delle
lavorazioni, « per quanto è possibile » o nei limiti posti con
analoga locuzione (art. 20 ss. d.p.r. n. 303/56 cit.), incombe agli
organi di vigilanza il dovere di esternare concretamente sulla
base di specifiche esperienze o raffronti, le osservazioni, in base
alla quali essi ritengano più opportuna o necessaria per l'igiene del lavoro la diversa realizzazione o la nuova introduzione di
impianti disponibili a tal fine: il riferimento a semplici dati
astrattamente rappresentati circa la pericolosità ambientale per effetto di esalazioni e radiazioni, è, d'altra parte, inidoneo a
giustificare l'intimazione di prescrizioni, onerosamente incidenti
sulla sfera di autorganizzazione aziendale, qualora in modo sicu
ramente attendibile ed occorrendo con l'ausilio di adeguata stru
mentazione, non sia accertato in sede ispettiva il grado di
tollerabilità, in considerazione della entità e concentrazione dei
fumi o di altri elementi inquinanti. Non può infatti, ritenersi
sufficiente al riguardo l'asserita percezione soggettiva della diffu
sione nell'ambiente di lavoro di siffatti elementi, ove non sia
suffragata da specifica misurazione e dal riscontro con gli indici e
valori limite all'uopo predisposti sul piano della medicina preven tiva del lavoro e della sicurezza sociale, in relazione all'efficienza
degli impianti già posti dall'imprenditore in esercizio.
Ciò posto e nei sensi chiariti la decisione di primo grado
merita, quindi, di essere confermata. (Omissis)
II
Diritto. — Preliminarmente è necessario individuare esattamen
te il contenuto del provvedimento impugnato alla luce delle
progressive modifiche apportate dall'U.s.l. al provvedimento origi
nario in parte di sua iniziativa ed in parte per effetto della
decisione presa dal presidente della giunta regionale su ricorso
della ricorrente. Questo allo scopo di stabilire innanzitutto se si
tratti veramente di una diffida o, come ha prospettato la difesa
dell'amministrazione in sede di discussione orale, di un semplice
invito a studiare il problema dell'insonorizzazione dei locali della
società ricorrente.
In data 29-30 marzo 1983 l'ispettore recatosi nei luoghi di
lavoro della ricorrente riteneva di accertare livelli di rumore assai
alti, ma non procedeva ad accertamenti tecnici; invitava invece la
ditta a documentare il livello di rumorosità dei locali (così
peraltro rimettendo all'interessato di provare ciò che era compito
dell'amministrazione accertare), facendo presente che il livello da
rispettare per 8 ore lavorative doveva intendersi di 85 Dba.
In data 27 gennaio 1984 lo stesso ispettore procedeva ad un
nuovo controllo, dopo che la società aveva documentato (come
esposto in fatto) che il rumore superava di poco gli 85 Dba, ma
scendeva al di sotto di questo limite se si teneva conto dell'uso
che i lavoratori facevano dei tappi auricolari. Invitava quindi la
ditta ad adottare idonei sistemi di insonorizzazione cosf da scen
dere sotto il livello di 85 Dba, disponendo in alternativa e nel
frattempo che si effettuassero turni di lavoro non superiori a tre
ore. Seguiva, in data 15 marzo 1984, formale diffida dell'U.s.l. a
presentare entro 120 giorni un piano per la riduzione del livello
sonoro entro limiti tali da non richiedere da parte dei lavoratori
l'uso di mezzi personali di protezione contro il rumore, con
l'indicazione dei tempi necessari per l'attuazione del piano, non
ché ad adottare nel frattempo i provvedimenti tecnici suggeriti
dall'ispettore nella visita del 27 gennaio 1984.
La società proponeva ricorso al presidente della giunta regio
nale, il quale lo accoglieva e sospendeva la diffida limitatamente
al termine di 120 giorni, ritenuto troppo esiguo. Con provvedimento in data 4 ottobre 1984, I'UjS.1. prolungava
il termine per la presentazione del piano di insonorizzazione al
31 ottobre 1984, disponendo che nel frattempo i lavoratori espo
sti al rumore usassero continuamente i mezzi personali di prote zione acustica.
Ritiene il collegio di dover osservare che in un sistema di con
trollo seriamente organizzato ed efficiente in primo luogo do
vrebbe essere l'amministrazione a svolgere in proprio gli accer
tamenti sulle condizioni in cui si svolge il lavoro, non sembrando
quantomeno corretto delegare tale accertamento (come è avvenu
to nel caso in esame) al datore di lavoro interessato a sostenere
la legittimità della situazione di fatto. In secondo luogo non
sembra che spetti all'amministrazione l'approvazione di even
tuali piani (nel caso: dii insonorizzazione) per la regolarizza zione dello stato dei luoghi, dal momento che all'amministra
zione interessa e può interessare solo il risultato, restando
Il Foro Italiano — 1985.
rimessa all'autonomia organizzativa dell'impresa la scelta dei mezzi per ricondurre l'ambiente nei limiti di legge.
Si tratta ora di valutare in concreto il comportamento tenuto dall'U.s.l. e dalla regione nel caso in esame alla luce delle
premesse suesposte. Sia pure per effetto di indagini che la ricorrente si è voluta
mente assunta di effettuare, è stata accertata l'esistenza di una rumorosità eccedente i livelli definiti dall'ACGIH, per 8 ore di lavoro (85 Dba), riconducibile sotto questi limiti mediante l'uso di cuffie acustiche. Questo dato di fatto è dunque ammesso da entrambe le parti.
Quanto alla diffida, sembra difficile accettare la tesi dell'ammi nistrazione e ritenere che tutto si sia ridotto ad un invito a studiare il problema del rumore. In verità l'amministrazione, sia
pure con l'uso di formule non approfonditamente meditate sul
piano giuridico, ha diffidato la ricorrente a predisporre un piano di insonorizzazione, esecutivo anche sotto il profilo temporale, tale da portare la rumorosità sotto gli 85 Dba senza bisogno di usare mezzi personali di protezione, fin d'ora mostrando di accettare i tempi necessari indicati dalla società per l'attuazione del piano stesso, salva naturalmente la persistente possibilità (fi ulteriori interventi per eventualmente ridurre questi tempi. Ritie ne dunque il tribunale che la diffida sia veramente tale, dovendo si ritenere il termine per l'adempimento coincidente (per ora) con i tempi indicati come necessari per l'attuazione del piano e dovendosi escludere che l'amministrazione pretendesse di control lare tale piano nel merito, bastando ad essa che il risultato fosse
quello da essa indicato. In altre parole, nella sostanza si è
ingiunto alla ricorrente di realizzare il piano nei tempi che essa indicherà in progetto, imponendo nel frattempo l'uso continuato di mezzi personali di protezione.
Esistendo, dunque, un risultato da raggiungere ed un termine
per l'esecuzione (sia pure rimesso, allo stato, alla valutazione
dell'impresa), esistono tutti gli elementi essenziali per una vera e
propria diffida. Prima di passare all'esame della fondatezza o
meno dei motivi di ricorso, va però affrontato il problema
dell'impugnabilità delle diffide davanti al giudice amministrativo,
argomento che questo stesso tribunale ha affrontato nella sentenza
3 giugno 1980, n. 414 (Foro it., 1981, III, 533), affermando che le
diffide, quali atti di accertamento ricognitivo di obblighi giuridici
preesistenti, sarebbero atti amministrativi privi di natura prowe
dimentale, contenenti un mero richiamo sollecitatorio all'osservan
za di un dovere già enunciato puntualmente dalla legge, rispetto
ai quali, quindi, non vi sarebbe interesse a ricorrere, non in
ragione di una pretesa natura processuale di tali atti, ma piutto sto per la carenza di un interesse sostanziale in capo al destinata
rio, che da essi non riceverebbe alcun pregiudizio. La questione merita un approfondimento che, re melius per
pensa, porta a conclusioni differenti.
Nella sentenza citata è ampiamente dimostrata la natura ammi
tiva e non processuale dell'attività che si conclude con la
diffida, nonché l'infondatezza della tesi volta ad affermare una
sorta di giurisdizione esclusiva del giudice penale, con cognizione incidentale estesa alla legittimità della diffida.
Si tratta, ora, di stabilire se la diffida sia veramente cosi
improduttiva di effetti da escludere la possibilità e l'utilità del
sindacato del giudice amministrativo su di essa.
In proposito sembra opportuno prendere l'avvio dalla sentenza
della Corte costituzionale 12 luglio 1967, n. 105 (id., 1967, I,
2493), che non ha ritenuto esista un contrasto fra il principio
dell'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ed il potere di
diffida, in quanto l'ordinamento può stabilire determinate condi
zioni per il promuovimento o la prosecuzione dell'azione penale, il cui esercizio non cessa per questo dal restare obbligatorio. Ne
deriva che in quelle situazioni nelle quali, come nel caso in
esame, si è in presenza solo di un reato di mero pericolo, in
situazioni cioè che sono le sole rispetto alle quali la diffida si
trova nella possibilità di adempiere alla funzione che le è tipica, essa (ed il conseguente inadempimento ad essa) si pongono come
condizioni per il promuovimento dell'azione penale e cioè come
vere e proprie condizioni di procedibilità. Solo cosi la diffida ha
un significato di rilievo giuridico e non si riduce ad un mutile
invito a rispettare la legge, che non giustificherebbe l'attribuzione
di un « potere » di diffida né il necessario preventivo conferimen
to della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria al titolare del
potere suddetto. Nell'interno della fattispecie condizionante l'eser
cizio dell'azione penale, la diffida non si pone però come atto
meramente processuale, bensì come esercizio di un potere ammi
nistrativo che deve essere obbligatoriamente esercitato nel rispetto di tutte le norme di legge. Come tale essa è quindi sindacabile
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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
dal giudice amministrativo, come discende dal fatto che la Corte
costituzionale, nella citata sentenza, ha avuto cura di precisare che l'esercizio della funzione ispettiva non è affatto senza limiti,
sottoposto com'è a limiti soggettivi ed oggettivi. Se a ciò si
aggiunge la riconosciuta necessità di cautela e di ragionevolezza nell'esercizio dei poteri ispettivi per la complessità e delicatezza
dei rapporti su cui essi sono chiamati ad incidere, vi è quanto basta per convincere che, proprio perché esistono ampi margini di discrezionalità nel concreto esercizio della funzione in esame,
non solo è consentito, ma si impone il controllo giurisdizionale amministrativo.
Dimostrato cosi l'interesse a ricorrere, si tratta allora di
vedere se sono fondati i motivi di ricorso prospettati dalla
ricorrente. Il primo motivo da prendere in considerazione riguarda
la legittimità dell'individuazione del limite massimo di rumo
rosità in 85 Dba per 8 ore di lavoro. È noto che la legge italiana
non fissa livelli precisi a questo proposito, limitandosi a prescrivere, con formula volutamente elastica, l'adozione dei provvedimenti
consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensità dei rumori dan
nosi ai lavoratori (art. 24 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303). Trattan
dosi di valutare la norma sotto il profilo amministrativo e non
penalistico, la genericità o — meglio — l'elasticità del criterio
seguito dal legislatore non crea particolari problemi a livello
normativo. I problemi si pongono, invece, a livello applicativo,
perché quando il precetto generale diventa una prescrizione concreta, proprio per la continua evoluzione della tecnica si
impone che l'amministrazione indichi i motivi per i quali ritiene
che vi sia una situazione di pericolo di danni che impone una
diminuzione della intensità dei rumori al di sotto di un certo
limite. Nel caso in esame, però, il limite di 85 Dba per 8 ore di
lavoro è chiaramente desunto dai valori di soglia stabiliti nella
nota tabella ACGIH che, seppure indicativa, è pur sempre il
risultato di indagini e ricerche largamente fatte proprie nelle
moderne società civili. Sembra corretto, quindi, conferire alla
tabella suddetta il valore di motivazione della scelta amministra
tiva in questione, anche per la preferenza che sembra bene
accordare a criteri di uso generale rispetto all'inevitabile alterna tiva di richiedere caso per caso specifiche motivazioni, che
facilmente porterebbero scompiglio, incertezza e disuguaglianza nel mondo del lavoro, sia dal punto di vista della tutela dei
lavoratori, sia da quello dell'interesse degli imprenditori. Il vero
problema da risolvere è allora quello posto dal primo motivo di ricorso: se il limite di 85 Dba debba essere rispettato con o senza l'ausilio di mezzi personali di protezione. Ai fini dalla
soluzione del problema si impone il coordinamento di tre norme:
l'art. 4 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, che impone ai datori di
lavoro di fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione e di
esigerne l'uso; l'art. 24 dello stesso d.p.r., che impone nelle
lavorazioni che producono rumori dannosi ai lavoratori l'adozione
dei provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensi
tà, e l'art. 377 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, che prevede l'obbligo di fornire mezzi personali di protezione quando manchino o
siano insufficienti i mezzi tecnici di protezione. Le due ipotizzabili interpretazioni estreme possono essere cosi
formulate: 1) l'imprenditore deve predisporre i mezzi tecnici di
protezione necessari per mantenere l'ambiente di lavoro al di sotto
(per quel che riguarda il caso in esame) degli 85 Dba per 8 ore di lavoro e, una volta raggiunto questo risultato, deve munire i dipen denti dei mezzi di protezione personali; 2) la rumorosità dell'am biente di lavoro deve essere valutata dal punto di vista soggettivo del singolo lavoratore e quindi tenendo conto degli effetti dell'uso di mezzi di protezione personali; solo se, nonostante ciò, permanga una rumorosità superiore ai limiti prescritti l'amministrazione può pretendere la predisposizione di mezzi tecnici di protezione. La
prima tesi è sostenuta dall'amministrazione; la seconda è sostenu
ta, come tesi principale, dalla ricorrente, la quale però, in
subordine, prospetta l'obbligo per l'amministrazione di motivare la propria scelta sub 1) tenendo conto anche delle conseguenze economiche di quanto chiede.
Nella loro assolutezza sia l'una che l'altra tesi non sem brano fondate. Non sembra corretto, infatti, che una volta
raggiunto un livello di rumorosità ritenuto conforme a leg ge si debba pretendere dai lavoratori anche l'uso di mez zi personali di protezione, in quanto quest'ultima pretesa difetterebbe del suo logico presupposto, costituito dall'esistenza di una situazione di rischio. D'altro canto, però, il complesso delle norme sulla prevenzione degli infortuni e sull'igiene dei luoghi di lavoro tende essenzialmente a realizzare un ambiente obiettiva mente sicuro e sano, nel quale sia ridotta al minimo la necessità
li. Foro Italiano — 1985.
di precauzioni soggettive, sempre facilmente eludibili o comunque meno sicure. I mezzi di protezione personale, quindi, si pongono come complementari alla realizzazione di una situazione di sicu
rezza e di igiene, ma in posizione subordinata rispetto ai mezzi
tecnici di protezione. Queste considerazioni portano inevitabilmente ad avallare la
tesi sostenuta dalla ricorrente in via subordinata. Questo vuol
dire che l'amministrazione, quando riscontra una situazione di
lavoro in cui i livelli di sicurezza e di igiene sono rispettati solo
mediante il ricorso a mezzi di protezione personale, ha titolo per
pretendere che si adottino tutti quegli accorgimenti tecnici che
possono assicurare definitivamente ed obiettivamente il rispetto delle norme di legge.
Prima di imboccare, però, questa strada, soprattutto in una
epoca come la nostra, nella quale a rigore si può ritenere che
qualsiasi risultato possa essere raggiunto con i sofisticati mezzi
che la tecnica pone a disposizione, è necessario che l'amministra
zione si ponga fra l'altro anche il problema dei costi di ciò che
chiede, e cioè della compatibilità economica fra le esigenze di
sicurezza e quelle della produzione. Questo non significa, ovvia
mente, fare riferimento alle capacità economiche della singola
impresa, quasicché le imprese più deboli possano per questo sacrificare impunemente la sicurezza dei propri dipendenti. Né
questo vuol dire che al posto di lavoro si possa sacrificare la
salute del lavoratore. Il tribunale intende dire soltanto che anche
il momento economico deve essere preso nella sua attenta e
giusta considerazione quando si opta, per una situazione di
assoluta sicurezza tecnica piuttosto che per una sicurezza legata anche a precauzioni soggettive. Aderendo in questo all'orienta mento manifestato dalla difesa della regione in sede di discussio
ne orale, il collegio ritiene che sia troppo astratto ed alla fine in
giusto affermare che il posto di lavoro deve essere sacrificato se non si può realizzare una sicurezza tecnica assoluta anche quan do una situazione di sicurezza sia raggiungibile con precauzioni personali.
Sia il diritto alla salute che il diritto al lavoro sono diritti
costituzionalmente garantiti ed è compito dell'interprete cosi come
dell'amministrazione curarne, nei limiti del possibile e del ragio nevole, un equo contemperamento prima che l'uno (e ci si riferisce ovviamente al lavoro) debba cedere all'altro (e cioè alla
salute). Ed è proprio questa esigenza di contemperamento che induce ad addossare all'amministrazione, in casi come quello in
esame, l'onere di darsi carico delle compatibilità sia tecniche che economiche prima di accedere alla tesi che comporta la rinuncia totale all'uso dei mezzi personali di protezione.
E si è detto rinuncia totale perché è chiaro che, una volta risanato l'ambiente di lavoro, viene meno il presupposto per chiedere l'uso di mezzi personali.
Ritiene dunque il collegio di dover accogliere il prospettato vizio di difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati, laddove si lamenta che la scelta dell'amministrazione sia stata
effettuata senza darsi carico della compatibilità fra la richiesta e
l'economicità della gestione (da valutarsi astraendo da eventuali
difficoltà di carattere soggettivo), nonché quello di contraddittorie
tà laddove si pretende che anche dopo il risanamento ambientale si usino mezzi personali di protezione. A quest'ultimo proposito il
collegio non può esimersi dal rilevare la contraddittorietà che
inficia la tesi difensiva delle amministrazioni costituite, laddove si afferma la pericolosità dei tappi auricolari e delle cuffie nel mentre se ne impone comunque l'uso. Nelle future scelte, quindi, sarà bene che si valuti meglio anche questo aspetto della questio ne, perché o il mezzo di tutela personale è valido e allora si può prescriverne l'uso e, se del caso, consentirlo o imporlo; oppure non lo è, o è addirittura esso stesso pericoloso, ed allora non si tratta di un mezzo di tutela.
Per le considerazioni suesposte, nelle quali restano assorbiti tutti gli altri motivi di ricorso, il ricorso va accolto, con conse
guente annullamento dei provvedimenti impugnati. (Omissis)
CONSIGLIO DI STATO; sezione IV; decisione 26 febbraio
1985, n. 63; Pres. De Roberto, Est. Lignani; Gianella (Avv. Dal Piaz, Biagini) c. Comune di Biella (Avv. Siniscalco, Guarino). Annulla T.A.R. Piemonte 31 gennaio 1984, n. 17.
Farmacia — Gestione comunale — Cessione a titolo oneroso —
Ricorso — Titolare di farmacia rurale — Proprietario di farmacia — Giurisdizione amministrativa — Sussistenza dell'in teresse.
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