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sezione VI; decisione 5 marzo 1985, n. 82; Pres. Caianiello, Est. Berruti; Min. lavoro e previdenza...

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sezione VI; decisione 5 marzo 1985, n. 82; Pres. Caianiello, Est. Berruti; Min. lavoro e previdenza sociale, Ispettorato provinciale del lavoro di Novara (Avv. dello Stato Ferri) c. Soc. F.i.a.t. autoveicoli industriali (Avv. Comba, Sandulli, Contaldi). Conferma T.A.R. Piemonte 3 giugno 1980, n. 414 Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 9 (SETTEMBRE 1985), pp. 323/324-329/330 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23178045 . Accessed: 28/06/2014 09:57 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.220.202.52 on Sat, 28 Jun 2014 09:57:07 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione VI; decisione 5 marzo 1985, n. 82; Pres. Caianiello, Est. Berruti; Min. lavoro eprevidenza sociale, Ispettorato provinciale del lavoro di Novara (Avv. dello Stato Ferri) c. Soc.F.i.a.t. autoveicoli industriali (Avv. Comba, Sandulli, Contaldi). Conferma T.A.R. Piemonte 3giugno 1980, n. 414Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 9 (SETTEMBRE 1985), pp. 323/324-329/330Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178045 .

Accessed: 28/06/2014 09:57

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PARTE TERZA

di udienza sorge dopo la ricezione dell'avviso di esecuzione dell'istruttoria », non potrebbe più assumersi in trattazione un

ricorso per dichiararne la perenzione, quando il giudizio sia

pendente per non essersi ancora adempiuti gli incombenti istrut

tori. E ciò anche nel caso in cui, proprio il lungo decorso del

tempo (come quello di sei anni trascorso nel presente giudizio) senza che il ricorso sia stato più coltivato dalle parti dopo la

pronunzia interlocutoria, farebbe ritenere verificata l'ipotesi del

l'abbandono.

Qualora dovesse confermarsi l'orientamento giurisprudenziale che sembrerebbe instaurato con l'inciso cui si è fatto riferimento,

sarebbe d'ora in poi impossibile, nei casi di perdurante inerzia

rispetto agli ordini istruttori, por fine alla pendenza a tempo indefinito di quelle categorie di ricorsi rimanendo frustrato lo

scopo che l'istituto della perenzione tende invece a realizzare.

Questa situazione di stallo produrrebbe immaginabili negative

conseguenze non solo sotto il profilo organizzativo (si pensi

all'illimitato intasamento degli archivi di segreteria) ma anche

sotto quello funzionale ove si consideri non solo che una contro

versia implicante pubblici interessi potrebbe essere riaperta in

ogni tempo ancorché sopita da decenni, ma che, talvolta, la

definizione di alcuni ricorsi è pregiudiziale rispetto alla definizio

ne di altri e quindi, ove, per l'inerzia delle parti, non fosse

possibile definire, con la declaratoria di perenzione, quello pre

giudiziale, rimarrebbe indefinitivamente sospesa anche la defini

zione di quelli pregiudicati dalla pendenza del primo. Attesa la delicatezza della questione e la circostanza che, sia

pure per obiter dictum, di essa risulta già un indirizzo dell'adu

nanza plenaria delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato,

si reputa opportuno deferirle la questione.

I

CONSIGLIO DI STATO; sezione VI; decisione 5 marzo 1985,

n. 82; Pres. Caianiello, Est. Berruti; Min. lavoro e previden za sociale, Ispettorato provinciale del lavoro di Novara (Avv.

dello Stato Ferri) c. .Soc. F.i.a.t. autoveicoli industriali (Avv.

Comba, Sandulli, Contaldi). Conferma T.A.R. Piemonte 3

giugno 198G, n. 414.

Giustizia amministrativa — Ispettorato del lavoro — Prescrizioni

alle imprese — Impugnabilità (D.p.r. 19 marzo 1955 n. 520,

riorganizzazione centrale e periferica del ministero del lavoro e

della previdenza sociale, art. 8, 9; d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547,

norme per la prevenzione degli infortuni, art. 401; d.p.r. 19

marzo 1956 n. 303, norme generali per l'igiene del lavoro, art.

3, 4, 20). Infortuni sul lavoro — Prevenzione — Prescrizioni dell'ispettora

to provinciale — Difetto di istruttoria — Fattispecie (D.p.r. 19

marzo 1955 n. 520, art. 10; d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, art. 401;

d.p.r. 19 marzo 1956 ti. 303, art. 18, 66).

Sono impugnabili col ricorso giurisdizionale amministrativo quegli atti a carattere provvedimentale, non meramente ricognitivi della omissione da parte dell'impresa di adempimenti prescritti dalla legge per la prevenzione degli infortuni, con i quali

l'ispettorato provinciale del lavoro costituisce a carico dell'im

presa stessa obblighi di condotta non specificamente determinati

dalla norma. (1) Sono illegittimi gli atti con i quali l'ispettorato provinciale del

lavoro prescrive ad una impresa l'adozione di misure per eliminare esalazioni nocive, e concentrazioni di fumi o di altri

elementi inquinanti, se queste siano state percepite solo sogget

tivamente, e non misurate, e riscontrate con gli indici ed i

valori limite predisposti, e siano mancati suggerimenti e criteri

per soluzioni e rimedi migliorativi rispetto agli impianti di

depurazione, areazione e schermatura già in esercizio. (2)

(1,3) I precedenti più direttamente rilevanti sono rappresentati dalla confermata sentenza del T.A.R. Piemonte 3 giugno 1980, n. 414 e da T.A.R. Lazio, sez. Ili, 24 marzo 1980, n. 258, Foro it., 1981, III, 533, con nota di richiami. In questo senso, tuttavia, mentre la decisione del

Consiglio di Stato in epigrafe si limita a confermare i principi codificati da T.A.R. Piemonte n. 414/80, affermando, in conclusione, la

giurisdizione del giudice amministrativo sui provvedimenti emanati

dagli ispettorati del lavoro d quali non si concretino nella mera indicazione dei comportamenti cui è tenuto l'imprenditore diffidato, ma si configurino, invece, come disposizioni e prescrizioni, con i caratteri

Il Foro Italiano — 1985.

II

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL PIE MONTE; sentenza 24 aprile 1985, n. 194; Pres. ed est. Barbieri; Soc. Manifatture lane di Carignano (Avv. Comba) c.

Regione Piemonte (Avv. Mittone), U.s.l. n. 1-23 Torino (Avv. Videtta).

Giustizia amministrativa — Ispettorato del lavoro — Diffide alle

imprese — Ricorso — Ammissibilità. Infortuni sul lavoro — Prescrizione dell'ispettorato provinciale —

Difetto di motivazione — Fattispecie (D.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, art. 377; d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, art. 4, 24).

Sussiste l'interesse a ricorrere dell'impresa contro la diffida con la quale l'ispettorato provinciale del lavoro l'ha richiamata all'osservanza di doveri finalizzati alla prevenzione degli infor tuni, già determinati dalla legge. (3)

È illegittima la diffida con la quale l'ispettorato provinciale del lavoro prescrive ad una impresa, presso la quale vengono svolte lavorazioni rumorose, l'adozione di sistemi di insonoriz zazione idonei ad abbassare la rumorosità ambientale non solo

fino al punto che essa verrebbe percepita dai lavoratori, con l'uso dei tappi auricolari, al di sotto della soglia degli 85 Dba indicata nella tabella ACGHI, ma anche già di per sé al di sotto di questa, con conseguente inutilità dei mezzi di protezio ne individuali, senza una valutazione dei costi, e quindi della

compatibilità economica di simile più radicale soluzione. (4)

dell'ordine, mediante cui si impone all'impresa di adottare determinate cautele, la sentenza del T.A.R. Piemonte qui riportata va oltre, e, sulla base di Corte cost. 12 luglio 1967, n. 105, id., 1967, I, 2493, ammette esplicitamente l'impugnabilità ex se dei meri atti di diffida, giudicati, evidentemente, già idonei ad incidere negativamente, di per se stessi, sulla sfera giuridica dei destinatari.

In questo quadro, la sentenza del T.A.R. Piemonte che si riporta non è solo in contrasto con la stessa precedente giurisprudenza del T.A.R. piemontese (cfr., infatti, l'appellata, e confermata, decisione di T.A.R. Piemonte n. 414/80), ma si palesa egualmente difforme rispetto all'orientamento più consolidato del Consiglio di Stato, anche nella sua veste di organo consultivo (cfr., a questo riguardo, Cons. Stato, sez. II, 10 maggio 1978, n. 884/77, Cons. Stato, 1980, I, 1754, cit. nella nota di richiami alle decisioni di T.A.R. Piemonte, n. 414/80 e T.A.R. Lazio, sez. III, n. 258/80, in uno con altri precedenti, ove si distingue, nel senso prima descritto, tra diffide, non impugnabili, e prescrizioni per le quali sussisterebbe, invece, l'interesse al ricorso).

In questa cornice, sia il problema della giurisdizione, sia quello dell'interesse al ricorso debbono essere, probabilmente, rimeditati, poi ché i più recenti sviluppi normativi (cfr. l'art. 27 d.p.r. n. 616/77 e gli art. 21 e 23 1. n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale) hanno, da un lato, trasferito le competenze statali in materia di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro alle regioni, mentre, d'altro lato, con un evidente sovrapporsi ed intrecciarsi di normative, hanno attribuito alle U.s.l. i compiti di prevenzione già propri dell'ispettorato del lavoro, prefigurando, per altro verso, l'istituzione dell'istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL).

In argomento, cfr. già Corte conti, sez. contr., 15 luglio 1983, n. 1359, id., Rep. 1984, voce Infortuni sul lavoro, n. 209, ove si precisano il ruolo delle U.s.l. e del suddetto ISPESL, ed i residui poteri statali; in dottrina, v., per tutti, M. Cicala, Sicurezza del lavoro e funzioni di polizia giudiziaria delle U.s.l., in Giust. pen., 1984, III, 115, e A. Salerno, La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, Padova, 1982.

(2,4) Le massime sono conformi all'orientamento prevalente per cui i provvedimenti dell'ispettorato del lavoro devono fondarsi su una base oggettiva, oggettivamente percepibile e misurabile, secondo quanto si addice a degli atti emanati nell'ambito di potestà discrezionali a carattere misto, per il fatto di doversi necessariamente rifare a parametri oggettivi, se non, persino, di tipo matematico, e per il ruolo che essi giocano di « integrare », sotto altro profilo, le stesse prescri zioni normative poste dal legislator^. Per un orientamento del tutto analogo a quello affermato nelle sentenze in epigrafe, cfr. già le cit. decisioni di T.A.R. Piemonte n. 414/80 e T.A.R. Lazio, sez. Ili, n. 258/80. Per il resto, la casistica giurisprudenziale è molto ricca e variegata, in connessione con la molteplicità delle formule organizzati ve praticate nei luoghi di lavoro e, soprattutto, a causa delle numerosissime attività produttive e lavorative in cui si pongono, concretamente, problemi di sicurezza e di prevenzione degli infortuni; il che induce la giurisprudenza, al cospetto di norme di legge indubbiamente generali, e persino generiche, ad aiiermare che l'ispet torato del lavoro ben può « integrare », ai sensi dell'art. 10 d.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, la disciplina legislativa per tutti gli aspetti non regolamentati, pur aggiungendosi che l'imposizione all'impresa di ulte riori cautele, quando, appunto, non siano espressamente previste dalia legge, deve essere rigorosamente motivata, con l'indicazione dei motivi per i quali le ragioni di sicurezza prescritte dalia normativa generale non possono essere ritenute sufficienti nel caso specifico (cosi Cons.

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GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA

I

Diritto. — Con il primo motivo d'appello la difesa dell'ammini

strazione censura la decisione di primo grado nella parte in cui è

stata ritenuta dal primo giudice l'impugnabilità in sede giurisdi zionale amministrativa delle disposizioni emanate dall'ispettorato del lavoro con riferimento all'applicazione, nella fattispecie in

esame, dell'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303.

Tale norma stabilisce che « nei lavori in cui si svolgono gas o

vapori irrespirabili o tossici od infiammabili ed in quelli nei quali si sviluppano odori o fumi di qualunque specie, il datore di

lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedire o a ridurre,

per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione ».

L'avvocatura dello Stato dissente dall'interpretazione enunciata

al riguardo a fondamento della ratio decidendi nella sentenza

impugnata, secondo la quale anche in questa materia l'attività di

vigilanza degli ispettorati del lavoro si esplicherebbe mediante

atti di polizia amministrativa, aventi contenuto discrezionale,

quanto all'emanazione dell'intimazione formale ovvero al loro

contenuto diretto a prevenire od a rimuovere fattori di rischio o

condizioni nocive di lavoro, in tutti i casi in cui non risultino

formulate speciali prescrizioni dal legislatore, in guisa da renderne

l'attuazione immediata, non subordinata alla determinazione di

modalità applicative e rimedi tecnici a discrezione degli organi

preposti alla sicurezza del lavoro.

Osserva l'avvocatura che alla stregua di tale interpretazione si

perverrebbe alla violazione del criterio fondamentale che presiede

all'impugnabilità davanti al giudice amministrativo degli atti di

vigilanza degli ispettori del lavoro, rendendosene incerta l'appli

cazione nei confronti delle cosi' dette diffide o prescrizioni, cui è

attribuita natura non provvedimentale amministrativa, ma di

rapporto all'autorità giudiziaria ordinaria circa le omissioni, da

parte degli imprenditori intimati, delle misure di prevenzione

stabilite dalla legge. Omissioni il cui accertamento si assume

costituisca oggetto di attività di polizia giudiziaria, escludendosi

che sulla relativa configurazione giuridica incidano le concrete

metodologie e modalità delle rilevazioni compiute con l'ausilio o

non di particolari procedimenti tecnici o di strumenti.

La censura va disattesa nei sensi di seguito chiariti.

Nella decisione impugnata, invero, non si disconosce sostan

zialmente il principio, desumibile dal sistema normativo in esame

(d.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, art. 8-9; d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547,

art. 401 ss.; d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, in applicazione della

delegazione di cui a 1. 12 febbraio 1955 n. 51, art. 3 e 4), che

assumono rilevanza quali atti di denunzia obbligatoria e rapporto di polizia giudiziaria, preordinati all'esercizio dell'azione penale a

carico dei trasgressori, ad iniziativa degli uffici giudiziari compe

tenti, gli atti (emanati ai sensi dell'art. 8 d.p.r. n. 520/55) di

accertamento della violazione di precetti recanti compiuta pre scrizione di comportamento cui i datori di lavoro sono tenuti, nei

propri stabilimenti e luoghi di lavoro, per la sicurezza dei

prestatori d'opera. Il che si verifica laddove la determinazione dell'obbligo di

condotta del datore di lavoro risulta avere lo stesso ambito

formale della fattispecie legale sanzionata come reato, e non

richieda l'ulteriore intervento dispositivo o attuativo dell'autorità

amministrativa di vigilanza. Con corretta applicazione dei criteri di riparto delle giurisdi

zioni rispettivamente spettanti all'autorità giudiziaria penale ed al

giudice amministrativo relativamente agli atti di tale categoria, si

afferma, pertanto, nella sentenza di primo grado esserne esclusa

l'impugnabilità sotto profili di legittimità amministrativa, posto che l'esame della loro fondatezza si risolverebbe nella valutazione

di mera notitia criminis, avente la sola funzione di atto prelimi nare al pronunciamento del giudizio penale, non implicante valutazioni discrezionali, ed esclusivamente dirette al magistero

penale. La cognizione del giudice amministrativo, nel quadro della

pienezza di tutela nei confronti degli atti e provvedimenti ammi

nistrativi (art. 113 Cost.), non può essere esclusa, invece, in tutte

le ipotesi nelle quali dalla legge è rimesso alla competente autorità amministrativa il potere di procedere a verifica tecni

co-discrezionale degli indici di rischio o pericolosità delle condi

zioni ambientali di lavoro, sia stabilendo la congruenza delle

Stato, sez. VI, 16 maggio 1983, n. 354, Foro it., 1983, voce Infortuni sul lavoro, nn. 229-231).

Per l'esame di una fattispecie concreta — l'affezione lamentata dal lavoratore è l'ipoacusia — cfr. Cass. 10 ottobre 1984, n. 5082, id., 1985, I, 814, con nota di richiami.

Il Foro Italiano — 1985.

concrete misure di prevenzione, ove già poste in atto dagli

imprenditori anche con riguardo a generiche indicazioni normati

ve, sia determinando i rimedi e gli accorgimenti dei quali si

palesi opportuna l'adozione. È evidente, infatti, che delle ipotesi testé accennate le disposizioni degli organi ispettivi hanno fun

zione (sotto il duplice aspetto della obiettiva considerazione della

circostanza cui è discrezionalmente subordinata l'esigenza dell'an

provideatur, nonché dell'effettivo contenuto determinativo e della

scelta dei rimedi alla insalubrità e pericolosità delle condizioni di

lavoro) di provvedimenti volti a costituire specificamente a carico

dei soggetti destinatari l'obbligo di condotta che, se da un lato è

suscettibile di valutazione sotto il profilo omissivo ai fini della

interpretazione di fattispecie penale (per la cui configurazione l'ordine dell'ispettorato del lavoro legalmente emanato costituisce

elemento di completamento del precetto penale « in bianco »),

incide, dall'altro, sostanzialmente, sulla sfera di iniziativa impren ditoriale, condizionandone l'esplicazione.

Dal che discende l'esigenza di tutela di posizioni soggettive a

fronte di provvedimenti limitativi aventi l'effetto di affievolire, nella cornice delle leggi a salvaguardia dell'interesse pubblico alla

prevenzione degli infortuni ed all'igiene del lavoro, la consistenza della manifestazione del diritto di impresa riguardanti l'assetto

organizzativo dell'ambiente della produzione, in conformità del

principio fondamentale dell'art. 41, 2° e 3° comma, Cost. Di tal

che, con riferimento alla natura di fonte provvedimentale degli obblighi imposti all'imprenditore (ed in quanto fonte extrapenale che, se legittima, integra la configurazione dell'illecito penale), deve ammettersi il sindacato sugli atti prescrittivi dell'ispettorato del lavoro nei modi e limiti previsti dall'ordinamento. Sindacato che assume chiara funzione pregiudiziale, pertanto, in ragione della necessità, posta dall'ordinamento, che le questioni sulla

legittimità degli atti implicanti discrezionalità di emanazione (nei sensi sopra accennati) siano definite, con l'efficacia propria del

giudicato, dal giudice amministrativo, secondo le disposizioni degli art. 20 e 21 c.p.p., salva la potestà del giudice penale, in difetto di esercizio del ricorso per annullamento da parte dell'in

teressato, di conoscerne ai soli effetti della disapplicazione, cosi come previsto dall'art. 4 1. 20 marzo 1865 n. 2248, ali. E.

A maggior chiarimento deve conclusivamente aggiungersi che la

giurisdizione amministrativa ha, nella materia in esame, ed in

conformità di un principio generale, la stessa area che espressa mente è accordata (art. 10 d.p.r. n. 520/55 e art. 66 d.p.r. n.

303/56) alla tutela giustiziale in via gerarchica in correlazione con la natura discrezionale degli interventi di polizia amministra

tiva per la prevenzione sul lavoro. Alla stregua dei principi enunciati, sul caso in esame deve

ritenersi, quindi, correttamente adito il giudice amministrativo, ai

fini del sindacato sugli atti impugnati, atteso che il contenuto

degli stessi non è strettamente ricognitivo della omissione di

adempimenti prescritti in via generale ed astratta da norme

aventi valore di legge, ma riposa sugli apprezzamenti enunciati

discrezionalmente in sede ispettiva, in correlazione alla scelta

delle modalità applicative dei rimedi tecnici da preordinare al

perseguimento dei fini genericamente individuati dal legislatore: salubrità dell'ambiente di lavorazioni nocive e pericolose per l'incolumità fisica degli addetti, nei sensi1 precisati dagli art. 18 ss.

d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303.

Ritenuta, conseguentemente la giurisdizione nella materia in

oggetto, quale risulta concretamente devoluta all'esame di questo

consiglio per effetto della proposizione dell'appello dell'ammini

strazione (e nei limiti, quindi, della parziale soccombenza da

questa subita a seguito della decisione di primo grado, che solo

in parte ha ravvisato ammissibili le domande prospettate con i

ricorsi riuniti della s.p.a. F.i.a.t.-autoveicoli industriali) devesi

procedere all'esame del secondo motivo d'impugnazione, attinente

al merito della controversia.

Con tale ulteriore censura l'avvocatura dello Stato ritiene

viziata per errore in iudicando la decisione in oggetto, nella parte in cui questa ha riconosciuto sussistere nei confronti degli atti

prescrittivi impugnati l'eccesso di potere dell'autorità amministra

tiva per insufficienza dell'istruttoria compiuta -nello stabilimento

della parte ricorrente, attuale appellata. Anche tale censura va ad avviso del collegio disattesa per le

seguenti considerazioni.

Deve ritenersi, invero, insufficiente l'acquisizione dei dati tecni

co-ambientali o riferibili al grado di idoneità degli impianti di

aerazione o depurazione o di - schermatura di radiazioni nocive,

qualora non siano nel contempo fornite agli imprenditori destina

tari delle prescrizioni gli opportuni suggerimenti ed i criteri per soluzioni e rimedi effettivamente migliorativi.

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PARTE TERZA

Il che comporta, in ispecie, che nei casi nei quali è dalla legge

imposta l'adozione di iniziative imprenditoriali atte ad impedire lo sviluppo e la diffusione di esalazioni e fumi nei locali delle

lavorazioni, « per quanto è possibile » o nei limiti posti con

analoga locuzione (art. 20 ss. d.p.r. n. 303/56 cit.), incombe agli

organi di vigilanza il dovere di esternare concretamente sulla

base di specifiche esperienze o raffronti, le osservazioni, in base

alla quali essi ritengano più opportuna o necessaria per l'igiene del lavoro la diversa realizzazione o la nuova introduzione di

impianti disponibili a tal fine: il riferimento a semplici dati

astrattamente rappresentati circa la pericolosità ambientale per effetto di esalazioni e radiazioni, è, d'altra parte, inidoneo a

giustificare l'intimazione di prescrizioni, onerosamente incidenti

sulla sfera di autorganizzazione aziendale, qualora in modo sicu

ramente attendibile ed occorrendo con l'ausilio di adeguata stru

mentazione, non sia accertato in sede ispettiva il grado di

tollerabilità, in considerazione della entità e concentrazione dei

fumi o di altri elementi inquinanti. Non può infatti, ritenersi

sufficiente al riguardo l'asserita percezione soggettiva della diffu

sione nell'ambiente di lavoro di siffatti elementi, ove non sia

suffragata da specifica misurazione e dal riscontro con gli indici e

valori limite all'uopo predisposti sul piano della medicina preven tiva del lavoro e della sicurezza sociale, in relazione all'efficienza

degli impianti già posti dall'imprenditore in esercizio.

Ciò posto e nei sensi chiariti la decisione di primo grado

merita, quindi, di essere confermata. (Omissis)

II

Diritto. — Preliminarmente è necessario individuare esattamen

te il contenuto del provvedimento impugnato alla luce delle

progressive modifiche apportate dall'U.s.l. al provvedimento origi

nario in parte di sua iniziativa ed in parte per effetto della

decisione presa dal presidente della giunta regionale su ricorso

della ricorrente. Questo allo scopo di stabilire innanzitutto se si

tratti veramente di una diffida o, come ha prospettato la difesa

dell'amministrazione in sede di discussione orale, di un semplice

invito a studiare il problema dell'insonorizzazione dei locali della

società ricorrente.

In data 29-30 marzo 1983 l'ispettore recatosi nei luoghi di

lavoro della ricorrente riteneva di accertare livelli di rumore assai

alti, ma non procedeva ad accertamenti tecnici; invitava invece la

ditta a documentare il livello di rumorosità dei locali (così

peraltro rimettendo all'interessato di provare ciò che era compito

dell'amministrazione accertare), facendo presente che il livello da

rispettare per 8 ore lavorative doveva intendersi di 85 Dba.

In data 27 gennaio 1984 lo stesso ispettore procedeva ad un

nuovo controllo, dopo che la società aveva documentato (come

esposto in fatto) che il rumore superava di poco gli 85 Dba, ma

scendeva al di sotto di questo limite se si teneva conto dell'uso

che i lavoratori facevano dei tappi auricolari. Invitava quindi la

ditta ad adottare idonei sistemi di insonorizzazione cosf da scen

dere sotto il livello di 85 Dba, disponendo in alternativa e nel

frattempo che si effettuassero turni di lavoro non superiori a tre

ore. Seguiva, in data 15 marzo 1984, formale diffida dell'U.s.l. a

presentare entro 120 giorni un piano per la riduzione del livello

sonoro entro limiti tali da non richiedere da parte dei lavoratori

l'uso di mezzi personali di protezione contro il rumore, con

l'indicazione dei tempi necessari per l'attuazione del piano, non

ché ad adottare nel frattempo i provvedimenti tecnici suggeriti

dall'ispettore nella visita del 27 gennaio 1984.

La società proponeva ricorso al presidente della giunta regio

nale, il quale lo accoglieva e sospendeva la diffida limitatamente

al termine di 120 giorni, ritenuto troppo esiguo. Con provvedimento in data 4 ottobre 1984, I'UjS.1. prolungava

il termine per la presentazione del piano di insonorizzazione al

31 ottobre 1984, disponendo che nel frattempo i lavoratori espo

sti al rumore usassero continuamente i mezzi personali di prote zione acustica.

Ritiene il collegio di dover osservare che in un sistema di con

trollo seriamente organizzato ed efficiente in primo luogo do

vrebbe essere l'amministrazione a svolgere in proprio gli accer

tamenti sulle condizioni in cui si svolge il lavoro, non sembrando

quantomeno corretto delegare tale accertamento (come è avvenu

to nel caso in esame) al datore di lavoro interessato a sostenere

la legittimità della situazione di fatto. In secondo luogo non

sembra che spetti all'amministrazione l'approvazione di even

tuali piani (nel caso: dii insonorizzazione) per la regolarizza zione dello stato dei luoghi, dal momento che all'amministra

zione interessa e può interessare solo il risultato, restando

Il Foro Italiano — 1985.

rimessa all'autonomia organizzativa dell'impresa la scelta dei mezzi per ricondurre l'ambiente nei limiti di legge.

Si tratta ora di valutare in concreto il comportamento tenuto dall'U.s.l. e dalla regione nel caso in esame alla luce delle

premesse suesposte. Sia pure per effetto di indagini che la ricorrente si è voluta

mente assunta di effettuare, è stata accertata l'esistenza di una rumorosità eccedente i livelli definiti dall'ACGIH, per 8 ore di lavoro (85 Dba), riconducibile sotto questi limiti mediante l'uso di cuffie acustiche. Questo dato di fatto è dunque ammesso da entrambe le parti.

Quanto alla diffida, sembra difficile accettare la tesi dell'ammi nistrazione e ritenere che tutto si sia ridotto ad un invito a studiare il problema del rumore. In verità l'amministrazione, sia

pure con l'uso di formule non approfonditamente meditate sul

piano giuridico, ha diffidato la ricorrente a predisporre un piano di insonorizzazione, esecutivo anche sotto il profilo temporale, tale da portare la rumorosità sotto gli 85 Dba senza bisogno di usare mezzi personali di protezione, fin d'ora mostrando di accettare i tempi necessari indicati dalla società per l'attuazione del piano stesso, salva naturalmente la persistente possibilità (fi ulteriori interventi per eventualmente ridurre questi tempi. Ritie ne dunque il tribunale che la diffida sia veramente tale, dovendo si ritenere il termine per l'adempimento coincidente (per ora) con i tempi indicati come necessari per l'attuazione del piano e dovendosi escludere che l'amministrazione pretendesse di control lare tale piano nel merito, bastando ad essa che il risultato fosse

quello da essa indicato. In altre parole, nella sostanza si è

ingiunto alla ricorrente di realizzare il piano nei tempi che essa indicherà in progetto, imponendo nel frattempo l'uso continuato di mezzi personali di protezione.

Esistendo, dunque, un risultato da raggiungere ed un termine

per l'esecuzione (sia pure rimesso, allo stato, alla valutazione

dell'impresa), esistono tutti gli elementi essenziali per una vera e

propria diffida. Prima di passare all'esame della fondatezza o

meno dei motivi di ricorso, va però affrontato il problema

dell'impugnabilità delle diffide davanti al giudice amministrativo,

argomento che questo stesso tribunale ha affrontato nella sentenza

3 giugno 1980, n. 414 (Foro it., 1981, III, 533), affermando che le

diffide, quali atti di accertamento ricognitivo di obblighi giuridici

preesistenti, sarebbero atti amministrativi privi di natura prowe

dimentale, contenenti un mero richiamo sollecitatorio all'osservan

za di un dovere già enunciato puntualmente dalla legge, rispetto

ai quali, quindi, non vi sarebbe interesse a ricorrere, non in

ragione di una pretesa natura processuale di tali atti, ma piutto sto per la carenza di un interesse sostanziale in capo al destinata

rio, che da essi non riceverebbe alcun pregiudizio. La questione merita un approfondimento che, re melius per

pensa, porta a conclusioni differenti.

Nella sentenza citata è ampiamente dimostrata la natura ammi

tiva e non processuale dell'attività che si conclude con la

diffida, nonché l'infondatezza della tesi volta ad affermare una

sorta di giurisdizione esclusiva del giudice penale, con cognizione incidentale estesa alla legittimità della diffida.

Si tratta, ora, di stabilire se la diffida sia veramente cosi

improduttiva di effetti da escludere la possibilità e l'utilità del

sindacato del giudice amministrativo su di essa.

In proposito sembra opportuno prendere l'avvio dalla sentenza

della Corte costituzionale 12 luglio 1967, n. 105 (id., 1967, I,

2493), che non ha ritenuto esista un contrasto fra il principio

dell'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ed il potere di

diffida, in quanto l'ordinamento può stabilire determinate condi

zioni per il promuovimento o la prosecuzione dell'azione penale, il cui esercizio non cessa per questo dal restare obbligatorio. Ne

deriva che in quelle situazioni nelle quali, come nel caso in

esame, si è in presenza solo di un reato di mero pericolo, in

situazioni cioè che sono le sole rispetto alle quali la diffida si

trova nella possibilità di adempiere alla funzione che le è tipica, essa (ed il conseguente inadempimento ad essa) si pongono come

condizioni per il promuovimento dell'azione penale e cioè come

vere e proprie condizioni di procedibilità. Solo cosi la diffida ha

un significato di rilievo giuridico e non si riduce ad un mutile

invito a rispettare la legge, che non giustificherebbe l'attribuzione

di un « potere » di diffida né il necessario preventivo conferimen

to della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria al titolare del

potere suddetto. Nell'interno della fattispecie condizionante l'eser

cizio dell'azione penale, la diffida non si pone però come atto

meramente processuale, bensì come esercizio di un potere ammi

nistrativo che deve essere obbligatoriamente esercitato nel rispetto di tutte le norme di legge. Come tale essa è quindi sindacabile

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Page 5: sezione VI; decisione 5 marzo 1985, n. 82; Pres. Caianiello, Est. Berruti; Min. lavoro e previdenza sociale, Ispettorato provinciale del lavoro di Novara (Avv. dello Stato Ferri) c.

GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA

dal giudice amministrativo, come discende dal fatto che la Corte

costituzionale, nella citata sentenza, ha avuto cura di precisare che l'esercizio della funzione ispettiva non è affatto senza limiti,

sottoposto com'è a limiti soggettivi ed oggettivi. Se a ciò si

aggiunge la riconosciuta necessità di cautela e di ragionevolezza nell'esercizio dei poteri ispettivi per la complessità e delicatezza

dei rapporti su cui essi sono chiamati ad incidere, vi è quanto basta per convincere che, proprio perché esistono ampi margini di discrezionalità nel concreto esercizio della funzione in esame,

non solo è consentito, ma si impone il controllo giurisdizionale amministrativo.

Dimostrato cosi l'interesse a ricorrere, si tratta allora di

vedere se sono fondati i motivi di ricorso prospettati dalla

ricorrente. Il primo motivo da prendere in considerazione riguarda

la legittimità dell'individuazione del limite massimo di rumo

rosità in 85 Dba per 8 ore di lavoro. È noto che la legge italiana

non fissa livelli precisi a questo proposito, limitandosi a prescrivere, con formula volutamente elastica, l'adozione dei provvedimenti

consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensità dei rumori dan

nosi ai lavoratori (art. 24 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303). Trattan

dosi di valutare la norma sotto il profilo amministrativo e non

penalistico, la genericità o — meglio — l'elasticità del criterio

seguito dal legislatore non crea particolari problemi a livello

normativo. I problemi si pongono, invece, a livello applicativo,

perché quando il precetto generale diventa una prescrizione concreta, proprio per la continua evoluzione della tecnica si

impone che l'amministrazione indichi i motivi per i quali ritiene

che vi sia una situazione di pericolo di danni che impone una

diminuzione della intensità dei rumori al di sotto di un certo

limite. Nel caso in esame, però, il limite di 85 Dba per 8 ore di

lavoro è chiaramente desunto dai valori di soglia stabiliti nella

nota tabella ACGIH che, seppure indicativa, è pur sempre il

risultato di indagini e ricerche largamente fatte proprie nelle

moderne società civili. Sembra corretto, quindi, conferire alla

tabella suddetta il valore di motivazione della scelta amministra

tiva in questione, anche per la preferenza che sembra bene

accordare a criteri di uso generale rispetto all'inevitabile alterna tiva di richiedere caso per caso specifiche motivazioni, che

facilmente porterebbero scompiglio, incertezza e disuguaglianza nel mondo del lavoro, sia dal punto di vista della tutela dei

lavoratori, sia da quello dell'interesse degli imprenditori. Il vero

problema da risolvere è allora quello posto dal primo motivo di ricorso: se il limite di 85 Dba debba essere rispettato con o senza l'ausilio di mezzi personali di protezione. Ai fini dalla

soluzione del problema si impone il coordinamento di tre norme:

l'art. 4 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, che impone ai datori di

lavoro di fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione e di

esigerne l'uso; l'art. 24 dello stesso d.p.r., che impone nelle

lavorazioni che producono rumori dannosi ai lavoratori l'adozione

dei provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensi

tà, e l'art. 377 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, che prevede l'obbligo di fornire mezzi personali di protezione quando manchino o

siano insufficienti i mezzi tecnici di protezione. Le due ipotizzabili interpretazioni estreme possono essere cosi

formulate: 1) l'imprenditore deve predisporre i mezzi tecnici di

protezione necessari per mantenere l'ambiente di lavoro al di sotto

(per quel che riguarda il caso in esame) degli 85 Dba per 8 ore di lavoro e, una volta raggiunto questo risultato, deve munire i dipen denti dei mezzi di protezione personali; 2) la rumorosità dell'am biente di lavoro deve essere valutata dal punto di vista soggettivo del singolo lavoratore e quindi tenendo conto degli effetti dell'uso di mezzi di protezione personali; solo se, nonostante ciò, permanga una rumorosità superiore ai limiti prescritti l'amministrazione può pretendere la predisposizione di mezzi tecnici di protezione. La

prima tesi è sostenuta dall'amministrazione; la seconda è sostenu

ta, come tesi principale, dalla ricorrente, la quale però, in

subordine, prospetta l'obbligo per l'amministrazione di motivare la propria scelta sub 1) tenendo conto anche delle conseguenze economiche di quanto chiede.

Nella loro assolutezza sia l'una che l'altra tesi non sem brano fondate. Non sembra corretto, infatti, che una volta

raggiunto un livello di rumorosità ritenuto conforme a leg ge si debba pretendere dai lavoratori anche l'uso di mez zi personali di protezione, in quanto quest'ultima pretesa difetterebbe del suo logico presupposto, costituito dall'esistenza di una situazione di rischio. D'altro canto, però, il complesso delle norme sulla prevenzione degli infortuni e sull'igiene dei luoghi di lavoro tende essenzialmente a realizzare un ambiente obiettiva mente sicuro e sano, nel quale sia ridotta al minimo la necessità

li. Foro Italiano — 1985.

di precauzioni soggettive, sempre facilmente eludibili o comunque meno sicure. I mezzi di protezione personale, quindi, si pongono come complementari alla realizzazione di una situazione di sicu

rezza e di igiene, ma in posizione subordinata rispetto ai mezzi

tecnici di protezione. Queste considerazioni portano inevitabilmente ad avallare la

tesi sostenuta dalla ricorrente in via subordinata. Questo vuol

dire che l'amministrazione, quando riscontra una situazione di

lavoro in cui i livelli di sicurezza e di igiene sono rispettati solo

mediante il ricorso a mezzi di protezione personale, ha titolo per

pretendere che si adottino tutti quegli accorgimenti tecnici che

possono assicurare definitivamente ed obiettivamente il rispetto delle norme di legge.

Prima di imboccare, però, questa strada, soprattutto in una

epoca come la nostra, nella quale a rigore si può ritenere che

qualsiasi risultato possa essere raggiunto con i sofisticati mezzi

che la tecnica pone a disposizione, è necessario che l'amministra

zione si ponga fra l'altro anche il problema dei costi di ciò che

chiede, e cioè della compatibilità economica fra le esigenze di

sicurezza e quelle della produzione. Questo non significa, ovvia

mente, fare riferimento alle capacità economiche della singola

impresa, quasicché le imprese più deboli possano per questo sacrificare impunemente la sicurezza dei propri dipendenti. Né

questo vuol dire che al posto di lavoro si possa sacrificare la

salute del lavoratore. Il tribunale intende dire soltanto che anche

il momento economico deve essere preso nella sua attenta e

giusta considerazione quando si opta, per una situazione di

assoluta sicurezza tecnica piuttosto che per una sicurezza legata anche a precauzioni soggettive. Aderendo in questo all'orienta mento manifestato dalla difesa della regione in sede di discussio

ne orale, il collegio ritiene che sia troppo astratto ed alla fine in

giusto affermare che il posto di lavoro deve essere sacrificato se non si può realizzare una sicurezza tecnica assoluta anche quan do una situazione di sicurezza sia raggiungibile con precauzioni personali.

Sia il diritto alla salute che il diritto al lavoro sono diritti

costituzionalmente garantiti ed è compito dell'interprete cosi come

dell'amministrazione curarne, nei limiti del possibile e del ragio nevole, un equo contemperamento prima che l'uno (e ci si riferisce ovviamente al lavoro) debba cedere all'altro (e cioè alla

salute). Ed è proprio questa esigenza di contemperamento che induce ad addossare all'amministrazione, in casi come quello in

esame, l'onere di darsi carico delle compatibilità sia tecniche che economiche prima di accedere alla tesi che comporta la rinuncia totale all'uso dei mezzi personali di protezione.

E si è detto rinuncia totale perché è chiaro che, una volta risanato l'ambiente di lavoro, viene meno il presupposto per chiedere l'uso di mezzi personali.

Ritiene dunque il collegio di dover accogliere il prospettato vizio di difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati, laddove si lamenta che la scelta dell'amministrazione sia stata

effettuata senza darsi carico della compatibilità fra la richiesta e

l'economicità della gestione (da valutarsi astraendo da eventuali

difficoltà di carattere soggettivo), nonché quello di contraddittorie

tà laddove si pretende che anche dopo il risanamento ambientale si usino mezzi personali di protezione. A quest'ultimo proposito il

collegio non può esimersi dal rilevare la contraddittorietà che

inficia la tesi difensiva delle amministrazioni costituite, laddove si afferma la pericolosità dei tappi auricolari e delle cuffie nel mentre se ne impone comunque l'uso. Nelle future scelte, quindi, sarà bene che si valuti meglio anche questo aspetto della questio ne, perché o il mezzo di tutela personale è valido e allora si può prescriverne l'uso e, se del caso, consentirlo o imporlo; oppure non lo è, o è addirittura esso stesso pericoloso, ed allora non si tratta di un mezzo di tutela.

Per le considerazioni suesposte, nelle quali restano assorbiti tutti gli altri motivi di ricorso, il ricorso va accolto, con conse

guente annullamento dei provvedimenti impugnati. (Omissis)

CONSIGLIO DI STATO; sezione IV; decisione 26 febbraio

1985, n. 63; Pres. De Roberto, Est. Lignani; Gianella (Avv. Dal Piaz, Biagini) c. Comune di Biella (Avv. Siniscalco, Guarino). Annulla T.A.R. Piemonte 31 gennaio 1984, n. 17.

Farmacia — Gestione comunale — Cessione a titolo oneroso —

Ricorso — Titolare di farmacia rurale — Proprietario di farmacia — Giurisdizione amministrativa — Sussistenza dell'in teresse.

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