sezione VI penale; sentenza 28 febbraio 1985; Pres. Marvasi, Est. Ormanni, P.M. Cucco (concl.conf.); ric. Giannaccini e altro. Annulla senza rinvio Trib. Lucca 23 gennaio 1984Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 9 (SETTEMBRE 1986), pp. 477/478-491/492Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180687 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; decreto 10 marzo
1986; Pres. Carnevale, Rei. Dinacci, P.M. (conci, diff.); ric.
Scarantino. Annulla senza rinvio App. Palermo, decr. 25 giugno 1985 e Trib. Palermo, decr. 21 gennaio 1985.
Misure di prevenzione — Procedimento — Obbligo della conte
stazione — Correlazione fra contestazione e decisione — E
stremi (Cod. proc. pen., art. 477; 1. 27 dicembre 1956 n. 1423, misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose
per la sicurezza e per la pubblica moralità, art. 4).
Nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione, ai fini dell'osservanza dell'obbligo della contestazione, occorre
l'indicazione, non solo della misura di cui si chiede l'applica zione, ma anche della forma di pericolosità posta a fondamento della richiesta; si configura pertanto una violazione del princi
pio di correlazione fra contestazione e pronuncia, qualora,
proposta l'applicazione di una misura di prevenzione con
riferimento ad una forma di pericolosità, il provvedimento
applicativo della misura risulta fondato su forme di pericolosità mai comunicate all'interessato e sulle quali questi non abbia
avuto modo di difendersi. (1)
(1) La Corte di cassazione ribadisce un suo recente orientamento secondo il quale nel procedimento di prevenzione, ai fini dell'obbligo della contestazione dell'accusa, non è sufficiente l'indicazione della misura di cui si chiede l'applicazione, ma occorre precisare anche la forma di pericolosità posta a fondamento della richiesta (v. sent. 11 novembre 1985, P.m. e Nicoletti, Foro it., 1986, II, 69; cfr., pure. Trib. Roma, ord. 1° aprile 1985 (due), id., 11984, II, 112; 51 marzo 1983, id., Rep. 1984, voce Misure di prevenzione, n. 30; 22
luglio 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 50). Tale indirizzo, di notevolissimo rilievo, si discosta recisamente dalla
precedente giurisprudenza orientata nel senso che, nel procedimento di
prevenzione, il principio di contestazione dell'accusa non è applicabile nella stessa estensione del procedimento ordinario, ma si attua esclusi vamente con la comunicazione all'interessato dell'udienza di discussione della proposta, con l'avviso a comparire e con l'indicazione della misura di prevenzione di cui si chiede l'applicazione, senza che sia necessario rendere noti gli elementi su cui si fonda la richiesta di
applicazione della misura (Cass. 11 aprile 1985, Giuliano, id., Rep. 1984, voce cit., n. 27; 7 febbraio 1979, D'Agnolo, id., Rep. 1979, voce cit., n. 41; 28 gennaio 1977, Orfano, id., Rep. 1977, voce cit., n. 26; 28 gennaio 1977, Milazzo, ibid., n. 27).
La Cassazione ha ritenuto opportunamente di non potere mantenere fermo il proprio precedente orientamento facendo leva, in primo luogo, sulla disciplina prevista per il procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza che, come è noto, è espressamente richiamato dall'art. 4, 2° comma, 1. n. 1425/56. Al riguardo la Corte costituziona le, con la sentenza del 29 maggio 1968, n. 53 (id., 1968, I, 1375), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli art. 656 e 657 c.p.p. nella
parte in cui comportavano che i provvedimenti del giudice di sorve
glianza fossero adottati senza la tutela del diritto di difesa; e, con le successive sentenze del 20 novembre 1972, n. 168 (id., 1975, I, 545) e del 25 aprile 1974, n. 110, (id., 1974, I, 1558), ha precisato, in
motivazione, che l'interessato deve essere tempestivamente edotto sui fatti in merito ai quali è chiamato a fare dichiarazioni o che costituiscono oggetto di investigazioni ed accertamenti, in quanto « in ordine ad essi ed ai relativi risultati sia posto in grado di svolgere le
proprie difese ». Ed ancora la stessa Corte costituzionale, con sentenza del 25 marzo
1975, n. 69 (id., 1975, I, 1052), ha stabilito che il principio della contestazione non può non valere anche nel procedimento di preven zione disciplinato dall'art. 4, 2° comma, 1. n. 1423/56, che all'art. 636
c.p.p. (oltre che all'art. 637 dello stesso codice) espressamente rinvia. Peraltro, nel provvedimento che si riporta, si sottolinea come
l'esigenza della specifica indicazione della forma di pericolosità costi tuisca un imprescindibile presupposto per l'effettivo esercizio del diritto di difesa, soprattutto in un procedimento, quale quello per l'applica zione delle misure di prevenzione, « per gli inevitabili riflessi soggettivi cui si legano » le relative scelte.
Da qui discende la piena applicazione, anche nel procedimento di
prevenzione, del principio di correlazione tra accusa e pronuncia giurisdizionale, analogamente a quanto previsto dall'art. 477 c.p.p. per il processo penale. Principio, che deve considerarsi violato, qualora, nel
provvedimento applicativo della misura di prevenzione, si attribuisca rilievo giuridico a forme di pericolosità non comunicate all'interessato
(nel caso di specie, peraltro, si era contestata la formula normativa della « proclività a delinquere », dichiarata costituzionalmente illegitti ma dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 177 del 22 dicembre
1980, id., 1981, I, 350 e in Giur. costit., 1980, I, 1555, con nota di M.
Branca, In tema di fattispecie penale e riserva di legge). In sostanza — osserva la corte — nel procedimento di prevenzione
l'intervento dell'organo giurisdizionale « deve conformarsi a regole di
giudizio legalmente prestabilite; diversamente la riserva di giurisdizio ne, formulata dall'art, il 5 Cost., si ridurrebbe ad una etichetta formali stica », priva di ogni contenuto (sui problemi del recupero della
legalità processuale nel sistema delle misure di prevenzione, nel quale
Rileva. — Con decreto in epigrafe, la Corte d'appello di
Palermo — in accoglimento d'un motivo subordinato di gravame — ha ridotto ad un anno la misura della sorveglianza speciale di
p.s. disposta dal tribunale della stessa città a carico di Umberto
Scarantino.
Avverso tale decreto ricorre per cassazione lo Scarantino, deducendone la nullità. Denuncia, attraverso il suo difensore, la
« violazione dei principi della contestazione dell'accusa e del
contraddittorio ».
Il ricorso è fondato. La pericolosità del prevenuto — sulla base
della contestazione — risulta essere stata correlata alla formula
normativa (dichiarata illegittima dalla Corte cost, con dee. n.
177/80, Foro it., 1981, I, 330) della «proclività a delinquere», anche se i giudici — nei provvedimenti impugnati — si sono
basati su altre espressioni di pericolosità. Di qui il vizio che si
coglie soprattutto nella mancata correlazione tra accusa e decreto.
Invero, come per la citazione a giudizio, l'invito è da considerare
un veicolo di contestazione dell'accusa; la quale, nel corso del
procedimento, non può subire variazioni, restando cosi definiti
vamente fissata. E, quanto agli elementi che a tal fine debbono
essere resi noti, occorre — analogamente a quanto si richiede per le misure di sicurezza (di cui, peraltro, la legge — almeno nella
maggioranza dei casi — prevede la « specie ») — la indicazione
della forma di pericolosità con la specificazione della misura « minacciata ». Siffatta esigenza, che si addimostra particolarmente
pressante nel sistema delle misure di prevenzione (per gli inevita
bili riflessi soggettivi cui si legano le scelte), è un presupposto
imprescindibile per l'esercizio del diritto di difesa. Vale a dire
che, in difetto della menzione della forma di pericolosità e della
misura che alla prima si connette, l'interessato non è in grado di
attendere ad una responsabile attività difensiva. Ora, nella specie, non solo è mancata una contestazione nei termini spiegati (essen dosi fatto riferimento ad una formula normativa giudicata illegit tima dalla Corte cost.), ma si è annesso rilievo giuridico a forme
di pericolosità mai comunicate al prevenuto. Di qui, a prescinde re da ogni altra questione, il vizio innanzi riferito (mancata correlazione tra accusa e decreto). Né può contestarsi la operati vità degli enunciati schemi garantistici nel procedimento di pre venzione. Se di essi dovesse soltanto dubitarsi, si eluderebbe tutto
il rigore logico-sistematico-probatorio della giurisdizionalità. L'intervento del giudice, dunque, anche qui deve conformarsi a
regole di giudizio legalmente prestabilite; diversamente la riserva
di giurisdizione, formulata dall'art. 13 Cost., si ridurrebbe ad
un'etichetta formalistica, priva di significazione. Vi sarebbe, in
altri termini, una mera illusione di giurisdizionalità. Per l'accertata violazione i decreti del Tribunale e della Corte
d'appello di Palermo vanno annullati senza rinvio, trasmettendosi
gli atti al procuratore della repubblica di quella città per la
eventuale instaurazione ex novo della procedura.
si avverte la profonda carenza di legalità sul piano sostanziale, v., per tutti, Amodio, II processo di prevenzione: l'illusione della giurisdizio nalità, in Giust. pen., 1975, III, 498 s.; Cavallari, Il procedimento delle misure di prevenzione: analisi e spunti critici, in Le misure di
prevenzioni (Atti del convegno De Nicola), Milano, 1975, 90 s.; Nuvolone, Le misure di prevenzione nel sistema penale italiano, in Indi ce pen., 1973, 461 s.). [A. Scaglione]
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione VI penale; sentenza 28 febbraio 1985; Pres. Marvasi, Est. Ormanni, P.M. Cucco (conci, conf.); ric. Giannaccini e altro. Annulla senza rinvio Trib. Lucca 23 gennaio 1984.
Esercizio abusivo di una professione — Professione di ragioniere — Reato — Insussistenza — Fattispecie (Cod. pen., art. 348; d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1068, norme per l'ordinamento della
professione di ragioniere e perito commerciale, art. 1).
Non risponde del reato di esercizio abusivo di una professione il
ragioniere, il quale, benché non iscritto all'albo professionale, svolga attività elementari di contabilità e consulenza tributaria,
poiché per l'esercizio di esse non è richiesta dalla legge la
speciale competenza professionale di chi possiede la prescritta abilitazione. (1)
(1-4) Dalle sentenze su riportate può ricavarsi una conferma dell'opinione, secondo cui i più gravi problemi interpretativi in tema
Il Foro Italiano — 1986.
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PARTE SECONDA
II
CORTE D'APPELLO DI TRENTO; sentenza 9 dicembre 1985; Pres. Jacoviello, Est. Caccin; imp. Klocker.
Esercizio abusivo di una professione — Professione di consulente
del lavoro — Reato — Sussistenza — Fattispecie (Cod. pen., art. 81, 348; 1. 11 gennaio 1979 n. 12, norme per l'ordinamento
della professione di consulente del lavoro, art. 1, 2).
Risponde del reato di esercizio abusivo continuato della profes sione di consulente del lavoro colui il quale, senza avere
conseguito la relativa abilitazione, curi per incarico di una o
più imprese gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e
assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, anche se tale attivi
tà si limiti a prestazioni di natura intellettuale poco elevata e
concretante un'assistenza incompleta e marginale. (2)
III
TRIBUNALE DI PISA; sentenza 18 giugno 1984; Pres. Scarfì, Est. Bargagna; imp. Matteoli.
Esercizio abusivo di una professione — Consulente del lavoro
esercente consulenza tributaria — Esercizio abusivo della pro fessione di commercialista — Reato — Insussistenza — Fatti
specie (Cod. pen., art. 348; d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1067, norme per l'ordinamento della professione di dottore commer
cialista, art. 1; d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1068, art. 1; 1. 11
gennaio 1979 n. 12, art. 2).
Non risponde del reato di esercizio abusivo della professione di
dottore commercialista e ragioniere il consulente del lavoro che
eserciti attività di consulenza in materia tributaria, poiché l'attività del consulente tributario deve ritenersi libera in assen
za di specifiche disposizioni legislative che ne riservino l'eserci
zio ai dottori commercialisti e ai ragionieri iscritti ai relativi
albi. (3)
IV
PRETURA DI PONTEDERA; sentenza 9 novembre 1983; Giud.
Manna; imp. Matteoli.
Esercizio abusivo di una professione — Consulente del lavoro
esercente consulenza tributaria — Esercizio abusivo della pro fessione di commercialista — Reato — Sussistenza — Fattispe cie (Cod. pen., art. 348; d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1067, art. 1;
d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1068, art. 1; 1. 11 gennaio 1979 n. 12,
art. 2).
Risponde del reato di esercizio abusivo della professione di
dottore commercialista e di ragioniere il consulente del lavoro
che eserciti attività di consulenza tributaria. (4)
di esercizio abusivo di una professione hanno origine, per lo più, nella
difficoltà di coordinare il complesso delle disposizioni legislative che
disciplinano l'esercizio delle professioni intellettuali (cfr. Antolisei,
Manuale di diritto penale, parte speciale, Milano, 1982, II, 831). Ed
invero, la legislazione speciale, cui rinvia l'art. 348 c.p., appare spesso
inadeguata: o perché arretrata rispetto ad una realtà economica e
sociale nella quale la prassi sopperisce al ritardo legislativo, autono
mamente « riconoscendo » nuove professioni ovvero dilatando gli ambi
ti di competenza di quelle già legalmente disciplinate; o perché condizionata nella sua evoluzione dall'opera di pressione degli ordini
professionali (caso sintomatico di entrambi i fenomeni descritti è
quello recentemente conclusosi con l'emanazione di un decreto legge ad hoc, che, legittimando l'attività ormai assai diffusa dei « medici
analisti », ha placato le polemiche suscitate dalla sentenza di condanna
Cass. 23 ottobre 1985, Dell'Erba, Foro it., 1985, II, 529, con nota di
Ingroia; cfr., anche, Pret. Taranto 21 dicembre 1984, ibid., 415, con
nota di Ingroia; e, in generale, Lega, Le libere professioni intellettuali
nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, 587 s.). Un esempio di tale inadeguatezza è ravvisabile anche nella regola
mentazione legislativa delle professioni di ragioniere, dottore commer
cialista e consulente del lavoro, oggetto delle decisioni in epigrafe. Ed
invero, la carenza di un'adeguata tipizzazione delle attività professiona
li, rientranti in ognuna delle figure predette, comporta la sussistenza di
margini di incertezza, tali da avere ingenerato una prassi per cui una
stessa attività viene non di rado esercitata da professionisti diversa
mente qualificati. Peraltro, a rendere ancor più urgente un intervento legislativo che
precisamente definisca le rispettive sfere di competenza esclusiva, concorre l'esigenza di una tutela più rigorosa del cliente, maggiormente avvertibile di fronte al sempre più frequente ricorso, da parte degli
operatori economici alle prese con le crescenti difficoltà tecniche di
gestione della propria attività, alla figura del c.d. consulente, sia esso
legale, tributario, ecc.
I
Svolgimento del processo e motivi della decisione. — Con la
suindicata sentenza il Tribunale di Lucca (Foro it., Rep. 1984, voce Professioni intellettuali, n. 50) riconosceva Giannaccini
Giorgio e Ricci Roberto Giuseppe colpevoli del reato di cui
all'art. 348 c.p., per aver esercitato abusivamente la professione di
ragionieri.
Ora, benché il legislatore abbia di recente istituito la professione di consulente del lavoro (v. Prosperetti, in Nuove leggi civ., 1979, 821; per la ricca giurisprudenza che si va formando intorno alla figura professionale del consulente del lavoro, v., tra le sentenze civili, Cass. 5 novembre 1984, n. 5598, Foro it., 1985, I, 1392; 14 ottobre 1983, n.
5998, ibid.; e, tra quelle penali, Pret. Milano 14 giugno 1984, id., Rep. 1985, voce Esercizio abusivo di una professione, n. 10; Pret. Sanluri 18 gennaio 1984, id., 1985, II, 415, con nota di Ingroia), non ha però provveduto ad un coordinamento della nuova normativa con
quella disciplinante l'esercizio delle professioni di ragioniere e dottore
commercialista, specie in riferimento all'attività di consulenza « tributa ria » (va, d'altronde, segnalato che è al vaglio del parlamento una
proposta di legge, accolta non senza perplessità dagli ordini professio nali interessati, diretta ad istituire la professione di « tributarista »: cfr. Il Sole - 24 Ore del 25 febbraio 1986).
Tale situazione, evidentemente, poco soddisfa l'esigenza di certezza del diritto: i professionisti delle tre categorie suddette spesso esercita no di fatto l'attività di consulente tributario, senza che sia ben chiaro se essa debba considerarsi attività « Ubera » o di competenza esclusiva dei ragionieri e dei dottori commercialisti iscritti al relativo albo
professionale (del resto, non sono chiaramente distinti nemmeno i
rispettivi ambiti di competenza di queste ultime due professioni: cfr. Cass. 6 settembre 1985, n. 4645, Foro it., Rep. 1985, voce Professioni intellettuali, n. 34).
Ben si comprendono, allora, le controversie interpretative che emer
gono dal confronto delle sentenze in epigrafe. Anche senza scendere nel dettaglio delle specifiche questioni di diritto affrontate, è agevole intuire che il problema essenziale sta nel bilanciare due interessi
contrapposti, entrambi riconosciuti nella Costituzione, dal prevalere dell'uno dei quali deriva una diversa interpretazione teleologica della
singola norma coinvolta: l'uno si esprime nel principio della libera
esplicazione dell'attività lavorativa (art. 4 Cost.), e l'altro è tutelato dall'art. 33, 5° comma, Cost., che prescrive un esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio professionale. Come più volte ha ribadito la
Suprema corte, il bilanciamento va effettuato secondo la regola per cui il principio della libera esplicazione di qualsiasi attività, materiale o
intellettuale, vaile finché non urti contro un divieto di legge; sicché la necessità di preventive iscrizioni o autorizzazioni, costituendo eccezione a tale principio fondamentale, non può estendersi oltre i casi dalla
legge previsti (cfr., soprattutto, Cass. 14 luglio 1955, n. 2233, id., Rep. 1955, voce cit., nn. 43, 44). Senonché, come si è detto, la legislazione è tutt'altro che improntata a criteri di determinatezza (va segnalato che, di recente, la Corte costituzionale, con l'ordinanza 13 giugno 1983, n. 169, id., Rep. 1983, voce cit., n. 68, ha dichiarato infondata
la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del
l'art. 348 c.p. e dell'art. 1 d.p.r. 1068/53, sollevata sotto il profilo della
carenza di tassatività da Pret. Orvieto 20 aprile 1978, id., Rep. 1980, voce Esercizio abusivo di una professione, n. 5).
Cosi, da un lato, la sentenza della Cassazione (che ha annullato
Trib. Lucca 23 gennaio 1984, id., Rep. 1984, voce Professioni intellet
tuali, n. 50) e quella del Tribunale di iPisa, valorizzando il principio della libera esplicazione dell'attività lavorativa, hanno ritenuto legittimo l'esercizio di attività elementari di consulenza tributaria da parte dei
ragionieri non iscritti all'albo e dei consulenti del lavoro. Dall'altro
lato, ispirandosi anche all'esigenza di una maggiore tutela del cittadi
no-cliente, la sentenza della Corte d'appello di Trento e, soprattutto, quella della Pretura di Pontedera (peraltro riformata dalla riportata Trib. Pisa 18 giugno 1984) accedono ad un'interpretazione estensiva della normativa, fondata sull'attribuzione di un ruolo preminente all'abilitazione professionale.
Peraltro, si è osservato che la natura di « attività di pensiero, di
opinione, di giudizio » propria della c.d. « consulenza », poco sembra
prestarsi ad essere racchiusa entro i rigidi steccati della competenza esclusiva di questa o quella professione (v. Musatti, Libertà di
consulenza, nota a Cass. 10 maggio 1957, n. 1651, id., 1958, I, 92); a
maggior ragione, poi, quando manca un'esplicita riserva legislativa (sul
principio della necessaria tipizzazione legislativa delle attività profes sionali esclusive, v. ancora Cass. 11 maggio 1966, Rizzo, id., Rep.
1967, voce Esercizio abusivo di una professione, n. 8; 10 maggio 1957, n. 1651, cit.; Pret. Thiene (senza data), id., Rep. 1979, voce cit., n. 7).
Può, a tal punto, dubitarsi che risulti davvero sufficiente, per dirimere i dubbi che sorgono « nella zona grigia fra il lecito e
l'illecito », quel « prudente apprezzamento del giudice », cui si rimette
una autorevole dottrina (v. Antolisei, op. cit., 83tl). Al contrario, si
conferma la grave inadeguatezza di una legislazione, frutto di interven ti disorganici, che, tutelando gli interesi contrapposti dei diversi ordini
professionali, spesso disattende la primaria esigenza di garantire all'u
tente la capacità professionale del prestatore d'opera intellettuale.
Va, infine, segnalata la decisione della Corte d'appello di Trento
Il Foro Italiano — 1986.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Propongono ricorso in questa sede, con un motivo comune ad entrambi: errata interpretazione della legge, e nel caso di specie dell'art. 1 d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1068 che regola la posizione di ragioniere.
In ordine a tale motivo il ricorso è fondato. L'art. 1 d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1068 è costituito da una
prima parte, generica, e certo non ordinativa, nella quale è detto soltanto che chi è iscritto all'albo dei ragionieri ha competenza
che, nel confermare la sentenza di primo grado, ha ammesso la costituzione di parte civile del consiglio provinciale dei consulenti del lavoro, in quanto parte danneggiata sul piano morale, quale ente esponenziale degli interessi della categoria e dei singoli iscritti e quindi titolare di interessi diffusi.
Secondo l'orientamento prevalente invece, in base alla premessa per cui l'art. 348 c.p. è diretto a tutelare la p.a. nel senso di garantirne la potestà di abilitare i singoli all'esercizio di determinate professioni, unico soggetto passivo del reato sarebbe lo Stato, e non gli ordini professionali, che pertanto non sarebbero legittimati a costituirsi parte civile (cfr. Cass. 30 novembre 1966, n. 2808, Foro il., Rep. 1967, voce Professioni intellettuali, n. 88; Pret. Padova 21 giugno 1968, id., Rep. 1969, voce Esercizio abusivo di una professione, n. 6; e, in dottrina, per tutti, Contieri, Esercizio abusivo di professioni, arti e mestieri, voce dell 'Enciclopedia del diritto, 1966, XV, 606 s. Contra Pret. Bolzano 19 febbraio 1971, Foro it., Rep. 1971, voce cit., n. 13, che ha ammesso anch'essa la costituzione di parte civile degli organi profes sionali dei consulenti del lavoro). L'impostazione tradizionale, però, trascura che il soggetto danneggiato del reato non necessariamente coincide sempre col soggetto passivo (cfr., da ultimo, Fiandaca-Musco Diritto penale, Bologna, 1985, 69), sicché può apparire ingiustificata l'aprioristica esclusione della sussistenza di un danno immediato a carico dell'ordine professionale, quantunque esso sia soggetto passivo soltanto secondario ed eventuale. [A. Ingroia]
* * *
Per una migliore intelligenza pubblichiamo la circolare con cui il ministero del lavoro ha invitato tutti gli ispettori regionali e provinciali del lavoro ad intensificare l'azione di vigilanza diretta ad accertare e perseguire le violazioni delle norme poste a tutela del legittimo esercizio della professione di consulente del lavoro.
Il ministero del lavoro (cfr. Economia e tributi, n. 17 del 18 set tembre, p. 10) ha nel frattempo reso nota una circolare di modifica (che sarà riportata in un prossimo fascicolo) di quella di seguito ri prodotta.
Circolare ministero del lavoro 27 maggio 1986 n. 65.
La 1. 12/79, all'art, il, 4° comma, prescrive che le « imprese artigiane identificabili ai sensi della 1. n. 860/56, nonché le altre piccole imprese, anche in forma cooperativa, possono affidare l'esecu zione degli adempimenti di cui al 1° comma (dello stesso art. 1) a servizi istituiti dalle rispettive associazioni di categoria » e che « tali servizi (4° comma, 2° inciso) possono essere organizzati a mezzo dei consulenti del lavoro, anche se dipendenti dalle predette associazioni ».
L'articolata formulazione normativa evidenzia taluni problemi inter pretativi relativi a identificazione delle imprese artigiane; identifica zione delle piccole imprese; affidamento dei servizi a consulenti del lavoro, anche se dipendenti dalle associazioni di categoria.
Circa il primo punto, è da rilevare che la disciplina di cui alla 1. 860/56 è stata formalmente abrogata dalla recente 1. n. 443 dell'8 agosto 1985 (legge quadro per l'artigianato) la quale ha fissato diversi ed aggiornati criteri di valutazione al fine dell'identificazione della figura dell'imprenditore e dell'impresa artigiana.
Pertanto, ai fini della corretta applicazione della normativa di cui all'art. 1, 4° comma, 1. n. 12 — notoriamente rivolta ad agevolare quei datori di lavoro che abbiano dimensioni organizzative e potenzia lità economiche limitate — dovrà assumersi, quale oggettivo parametro, la cennata 1. 443/85.
Per quanto ha tratto con il secondo punto, sembra opportuno precisare che la nozione « piccola impresa » è desumibile sostanzialmente dalle fonti normative di cui all'art. 2083 c.c. e all'art. 1 r.d. n. 267/42 (legge sul fallimento), che costituiscono, ambedue, i criteri di valutazione, dei quali — come è noto, secondo una consolidata interpretazione civili stica — l'uno (caratterizzato da un elemento «qualitativo»; preva lenza del lavoro) è integrativo dell'altro (basato su un elemento « quantitativo » ; il capitale impiegato).
In ordine al terzo punto, è da far presente che la corretta interpretazione della legge è nel senso che l'espletamento dei servizi di consulenza affidati alle associazioni di categoria delle piccole imprese e di quelle artigiane deve far comunque capo a soggetti che siano consulenti del lavoro, dipendenti o meno delle associazioni medesime: ossia soggetti che siano iscritti nell'albo di cui all'art. 8 1. n. 12/79.
Sulla base della triplice considerazione innanzi formulata, al fine di verificare la piena osservanza delle norme di legge, gli ispettorati regionali e provinciali del lavoro dovranno accertare: l'esistenza dei requisiti della piccola impresa e dell'impresa artigiana quali prescritti dalle richiamate norme legislative; il requisito del vincolo associativo o, quanto meno, del mandato con il quale si affida l'incarico di consulenza; l'esistenza, nell'ambito del servizio gestito dall'associazione
tecnica in materia di amministrazione aziendale, ragioneria, ecc. Il che è abbastanza ovvio, dato che l'albo professionale ha
appunto lo scopo di riconoscere e poi salvaguardare proprio quelle doti di copertura.
Ma, in più, l'albo professionale non è soltanto questo: è
soprattutto lo strumento per la tutela degli iscritti — e la tutela dell'affidamento dei terzi — nell'esercizio di particolari, delicate funzioni che non tutti coloro i quali hanno un diploma di
ragioniere possono svolgere.
di categoria, di consulenti del lavoro, dipendenti o non dalle medesime.
L'applicazione del 4° comma dell'art. 1 della legge in esame pone la necessità di definire, altresì', le seguenti questioni interpretative: a) imprese artigiane o piccole imprese che aderiscano ad associazioni che
inquadrano anche altre categorie merceologiche; 6) imprese non
artigiane e imprese « non piccole » che aderiscano rispettivamente ad associazioni artigiane o di piccole imprese.
In proposito è da puntualizzare che, ai fini dell'applicazione del richiamato 4° comma, ciò che rileva è la qualificazione giuridica — o come artigiana o come piccola — che l'impresa assume, a prescindere dal suo inquadramento sindacale.
Si richiama inoltre l'attenzione degli ispettorati regionali e provincia li del lavoro sulla necessità di attentamente vigilare al fine di
prevenire e reprimere le frequenti ipotesi di irregolare esercizio della
professione che si concretano nelle seguenti forme: attività svolta da
quei diplomati o laureati (avvocati e procuratori legali, dottori com
mercialisti, ragionieri e periti commerciali) i quali, iscritti nei rispettivi albi professionali, omettano di dare all'ispettorato del lavoro competen te la comunicazione prescritta dall'art. 1, 1° comma, 1. 12/79; attività eventualmente svolta da soggetti ex dipendenti del ministero del lavoro che non risultino aver prestato funzioni di ispettore del lavoro per almeno 15 anni e per i quali vige il noto divieto di iscrizione all'albo della provincia dove abbiano prestato servizio prima di quattro anni dalla cessazione di quest'ultimo.
Relativamente a questa circostanza che si concreta nella possibilità — ai sensi dell'art. 1, 2° comma, della legge 12/79 — per gli ex ispetto ri del lavoro di esercitare la professione di consulente del lavoro è
appena necessario puntualizzare che la disposizione di carattere genera le di cui all'art. 8, 2° comma, della richiamata 1. 12, trova un limite nella norma di cui al citato 2° comma dell'art. 1, nel senso che, di
fatto, i soggetti di cui trattasi potranno esercitare la professione —
una volta iscritti all'albo — in tutto il territorio nazionale, eccezion fatta per la provincia ove abbiano prestato servizio, nella quale potranno esercitare la professione solo dopo che siano trascorsi quattro anni dalla cessazione dal servizio.
Corre inoltre l'obbligo di affidare alla prudente attenzione degli ispettorati del lavoro le eventuali situazioni contrassegnate dalla pre senza di « centri elettronici di elaborazione dati » che, generalmente costituiti in forma societaria, curino concreti adempimenti in materia di lavoro.
Orbene, i compiti di consulenza del lavoro (con particolare riferi mento all'elaborazione di prospetti-paga e contributi ed alle connesse operazioni) affidati a quegli organismi versano in condizioni di illegit timità, atteso che questi ultimi sono al di fuori della tassativa indicazione normativa relativa ai soggetti legittimati all'esercizio della
professione di consulente del lavoro (v. art. 1 1. n. 12/79). D'altra parte, siffatti « centri elaborazione dati » non appaiono
legittimati neanche a compiti « esecutivi » inerenti all'attività professio nale, atteso il successivo art. 2, il quale riserva esclusivamente la loro effettuazione ai dipendenti del consulente del lavoro.
Si astrae, ovviamente, dalle suesposte considerazioni nelle ipotesi in cui si tratti di « centri » costituiti da società di persone formate esclusivamente da soggetti che siano legittimati all'esercizio della professione di consulente del lavoro ai sensi del citato art. 1 1. n. 12. relativa allo svolgimento da parte dei consulenti del lavoro — « su delega e in rappresentanza degli interessati » — « di ogni altra funzione che sia affine, connessa e conseguente agli adempimenti previsti da norme vigenti per l'amministrazione del personale dipenden te », si ritiene di far presente quanto segue.
Precisato che dalla formula « su delega e in rappresentanza » è dato rilevare che si fa luogo ad una forma di rappresentanza volontaria conferita appunto mediante atto di delega (rectius, procura), è da osservare che quest'ultima — secondo la tipologia ad essa propria —
può essere conferita in forma espressa oppure tacita (ossia risultante comunque da fatti univoci e concludenti); può essere rilasciata per un solo affare (procura speciale) ovvero per tutti gli affari del soggetto rappresentato (procura generale o ad negotia) e che la medesima deve essere esibita ai terzi con i quali il consulente-rappresentante venga in contatto per ragioni dell'incarico ricevuto.
In ordine poi alla materia che forma oggetto delle « funzioni affini, connesse e conseguenti agli adempimenti di cui all'art. 2, 2° comma, 1. n. 12 », è da ritenere che, essendo essa articolata in un numero estremamente vasto di fattispecie, non sia opportuna alcuna e semplificazione, la quale, per il carattere ovviamente non esaustivo, sarebbe di scarsa utilità pratica.
Si reputa opportuno inoltre far presente che i dipendenti da studi professionali non hanno titolo per ingerire in compiti afferenti all'atti vità propriamente professionale, essendo legittimati ad una attività
Il Foro Italiano — 1986 — Parte II
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PARTE SECONDA
La generica dizione delle parti introduttive dell'art. 1,
quindi, va raccordata necessariamente con la elencazione imme
diatamente successiva, dove, in otto punti, vengono specificate le
attività professionali del ragioniere, per svolgere le quali è
necessaria l'appartenenza all'albo professionale. Dalla lettura di
quelle attività si comprende bene come esse — proprio per la
tutela degli iscritti all'albo e per l'affidamento dei terzi —
possono essere svolte solo da chi abbia innanzi tutto il titolo di
ragioniere, e abbia poi, sulla base di esso, svolto un'ulteriore
prova selettiva per ottenere appunto l'iscrizione all'albo.
Non tutte le attività che un ragioniere può svolgere, quindi, sono riservate a coloro che, tra i ragionieri, abbiano ottenuto
l'iscrizione all'albo professionale. Una serie di consulenze, attività
di contabilità elementare, tenuta di libri i.v.a., dichiarazioni fiscali
(i.r.p.e.f., ecc.), possono invece far capo a un tecnico — ché
appunto il ragioniere lo è, nel suo ramo — ma non necessaria
mente ad un tecnico iscritto in un albo professionale, dato che
da un lato non sono queste attività elementari quelle che qua lificano una professione si da renderla degna di tutela, e dall'altro
va comunque fatto salvo il principio della libertà di svolgere la
propria attività lavorativa.
L'ultimo comma dell'art. 1 d.p.r. 1068/53 chiarisce quanto ora
detto, con l'indicare che quella elencazione fatta in precedenza non pregiudica ai ragionieri iscritti all'albo l'esercizio delle nor
mali, generiche attività che un ragioniere può svolgere, e non
pregiudica quanto possa esservi di tecnico nella attività di altri
professionisti, iscritti in diversi albi professionali, i quali, peraltro — si aggiunge in questa sede — svolgono attività professionale
nei limiti delle norme che istituiscono e regolano i rispettivi albi.
Non si può, cioè, sostenere che un avvocato può svolgere
attività di ragioniere, anche se contenuta in quelle forme
elementari più sopra ricordate, dato che l'esplicazione di quelle
mansioni richiede comunque una conoscenza tecnica di base che
certo l'avvocato — per rimanere nell'esempio fatto — non può
avere; ma può avere, invece, un laureato in economia e commer
cio.
In questi limiti e con questi parametri va interpretato l'art. 1
del d.p.r. in esame, anche sulla base della riflessione che un albo
professionale non è istituito allo scopo di creare un cieco ed
assoluto monopolio di tutte le attività che un dato titolo di
studio consente, ma vuole essere, invece, una nobilitazione di
alcune tra quelle mansioni, le più delicate e complesse, le quali
appunto per la loro natura richiedono — esse si — che per il
loro espletamento si faccia necessariamente parte di un albo
professionale. L'attività svolta, dunque, dai ricorrenti Giannaccini e Ricci —
muniti, si badi, del titolo di studio in ragioneria — non riveste
gli estremi del reato loro contestato.
L'accoglimento del primo, comune, motivo di ricorso rende
superfluo l'esame degli altri motivi addotti dal Ricci.
limitata — come dice la norma di cui al 3° comma dell'art. 2 1. n. 12 — unicamente a compiti «esecutivi»; intendendo per tali — a titolo meramente indicativo — quelli che si identificano verosimilmente nei
profili professionali stabiliti dal contratto collettivo di categoria. Non appare inopportuno, inoltre, richiamare l'attenzione sul divieto
di iscrizione all'albo professionale in costanza di determinati rapporti di lavoro (art. 4 1. n. 12).
Oltre a ciò, si ritiene opportuno far presente che l'azione di
vigilanza deve appuntarsi su talune rilevate situazioni che configurano forme di non corretta applicazione della disciplina del « praticantato », necessario per l'ammissione all'esame di Stato per il conseguimento dell'abilitazione all'esercizio della professione di consulente del lavoro.
Cosi, in particolare, dovrà valutarsi l'opportunità di segnalare ai
competenti consigli provinciali dei consulenti del lavoro situazioni nelle
quali sia dato accertare che il ritolare di studio di consulenza del lavoro ammette presso il medesimo più di due soggetti praticanti; che il praticante gestisce lo studio professionale in forma autonoma, esercitando prerogative proprie del titolare il quale svolga la professio ne in via non esclusiva; che il praticante emette, in proprio, « parcelle » a carico dei clienti dello studio professionale.
Da ultimo, con riferimento alle configurabili ipotesi di reato, si richiama l'attenzione, oltre che su quelli contravenzionali perseguibili a norma dell'art. 7 1. n. 1815/39 — il quale non è stato abrogato dall'art. 41 1. n. 12/79 — anche sull'applicabilità, nel caso di esercizio della professione di consulente del lavoro fuori delle richiamate ipotesi contravvenzionali, della norma di cui all'art. 348 c.p. (esercizio abusivo di professione richiedente speciale abilitazione dello Stato), atteso che, anche per la professione di consulente del lavoro, si esige il previo superamento di un esame di Stato (art. 3 1. n. 12).
II
Fatto e diritto. — A seguito dell'esposto 7 febbraio 1985
presentato dal presidente del consiglio provinciale dei consulenti
del lavoro della provincia di Bolzano, Klocker Gottfried veniva
tratto a giudizio per esercizio abusivo della professione di consu
lente del lavoro dal Pretore di Monguelfo che, con sentenza 18
aprile successivo, lo condannava, concessa la non menzione, alla
pena di lire 250.000 di multa, oltre al pagamento delle spese
processuali e alla rifusione dei danni morali al predetto consiglio nella misura di lire 1.000.000, ritenendo che l'attività svolta, per
quanto rimasta limitata a prestazioni di natura intellettuale poco elevata e concretante un'assistenza incompleta ed in certi casi
forse addirittura marginale, era sempre venuta ad integrare auten
tici « adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza
sociale dei lavoratori dipendenti che, ai sensi dell'art. 1 1. 11
gennaio 1979, n. 12, sarebbero dovuti essere espletati, se non
curati dal datore di lavoro direttamente o a mezzo di propri
dipendenti, in via esclusiva o da professionisti iscritti nell'albo
dei consulenti del lavoro ovvero da avvocati o procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri o periti commerciali.
In quella sede il Klocker dichiarava che, nel tempo libero dal
suo lavoro di dipendente della azienda elettrica di Verniaco, « curava per alcuni imprenditori della zona di San Candido gli
adempimenti in materia di lavoro e previdenza, in tutto per circa
dieci ditte, predisponendo le buste paga per i dipendenti e
calcolando le ritenute dovute », cosi percependo nell'anno in
corso circa lire 2.000.000. I testi assunti precisavano, a loro volta,
che l'imputato aveva dato loro una mano per la compilazione delle buste paga, per il calcolo delle retribuzioni e delle ritenute
dei loro dipendenti. Contro la indicata sentenza il Klocker Gottfried proponeva
appello, chiedendo la assoluzione con la formula piena perché il
fatto non costituisce reato trattandosi di attività non rientrante in
quella di competenza dei consulenti del lavoro e la inammissibili
tà della costituzione di parte civile perché nessun danno specifico era derivato al consiglio dei consulenti del lavoro.
A seguito dell'odierno dibattimento, svoltosi in contumacia
dell'appellante e sentiti il rappresentante della parte civile, quello del pubblico ministero e la difesa, la corte pronunciava la
sentenza che ora passa a motivare.
L'appello va rigettato perché destituito di fondamento giuridico e la relativa sentenza deve essere confermata, con le ulteriori
conseguenze. È bene avere presente che la 1. 11 gennaio 1979 n. 12,
contenente le norme per l'ordinamento della professione del
consulente del lavoro, è maturata dalle necessità di individuare,
di qualificare e di tutelare la categoria professionale dei consulen
ti del lavoro, ormai resasi indispensabile per le ingerenze e le
interferenze in ampi settori economico-finanziari dello Stato. In
questo quadro storico-giuridico, peraltro già avvertito dalla giu
risprudenza (Cass. 24 giugno 1969, n. 2266, Foro it., Rep. 1969,
voce Professioni intellettuali, n. 19; e Corte cost. 23 maggio 1973,
n. 67, id. 1973, I, 1663), la citata legge ha previsto la tenuta
dell'albo e la iscrizione, la posizione dei consigli provinciali e del
consiglio nazionale e, infine, la materia disciplinare.
La istituzione dell'albo professionale autonomamente regolato e
la correlativa previsione degli esami di abilitazione per l'iscrizione
nell'albo stesso rendono operante la fattispecie criminosa dell'art.
348 c.p. per chi svolga abusivamente attività di consulente del
lavoro, al pari dell'esercizio abusivo di una qualsiasi altra libera
professione. Ora, tenuto conto che il Klocker era dipendente della azienda elettrica di Verniaco e che non era iscritto in
alcuno degli albi indicati nel 1° comma dell'art. 1 della legge in
esame, deve esaminarsi se la descritta attività da lui svolta rientri
tra quelle presidiate e tutelate dalla disposizione ora richiamata,
pur dovendosi confermare, come leggesi nella sentenza di primo
grado, che essa attività è rimasta limitata a prestazioni di natura
intellettuale poco elevata e concretante un'assistenza incompleta ed in certi casi forse addirittura marginale.
A giudizio di questo collegio l'attività svolta dall'appellante deve ritenersi abusiva. Infatti la legge, dopo avere precisato che
« tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed
assistenza sociale dei lavoratori dipendeqti non possono essere
assunti se non dai consulenti del lavoro », salve alcune eccezioni
(art. 1, 1° comma), precisa in aggiunta che « i consulenti del
lavoro svolgono per conto di qualsiasi datore di lavoro tutti gli
adempimenti previsti da norme vigenti per l'amministrazione del
personale dipendente » (art. 2, 1° comma) e che « essi inoltre, su
delega e in rappresentanza degli interessati, sono competenti in
ordine allo svolgimento di ogni altra funzione che sia affine,
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GIURISPRUDENZA PENALE
connessa e conseguente a quanto previsto nel comma preceden te » (art. 2, 2° comma).
Appare all'evidenza che da tale corpo normativo la competenza dei consulenti del lavoro, nonché di coloro che sono iscritti negli
albi degli avvocati e procuratori legali, dei dottori commercialisti,
dei ragionieri e periti commerciali (i quali in tal caso sono tenuti
a darne comunicazione agli ispettorati del lavoro nel cui ambito
territoriale intendono svolgere gli adempimenti in materia di
lavoro, previdenza ed assistenza) è esclusiva perché ricomprensiva anche delle minime e marginali attività del tipo esposto. Sulla
interpretazione estensiva delle norme riportate non vi può essere
dubbio alcuno, non potendosi immaginare eccezioni che destabi
lizzerebbero tutto il sistema e che comprometterebbero i rapporti datore di lavoro-lavoratore-consulente del lavoro, cui la legge ha
inteso invece assicurare tutta la tutela possibile. Sulla seconda richiesta dell'appellante, questa corte ritiene che
il consiglio provinciale dei consulenti del lavoro, quale ente
esponenziale degli interessi della categoria e dei singoli iscritti, e
quindi portatore titolare di interessi diffusi, possa costituirsi parte
civile e che bene il pretore ha al riguardo sentenziato: sul piano
morale, certamente il citato consiglio ha subito un danno che
deve essere soddisfatto.
Con la conferma della sentenza impugnata, il Klocker va
condannato al pagamento delle ulteriori spese processuali e alla
rifusione alla parte civile delle spese ed onorari che si liquidano
in lire 500.000 complessive.
Ili
Fatto e diritto. — Con rapporti in data 23 aprile-2 giugno 1983,
la guardia di finanza di Pontedera, nel corso di un controllo
sulla società di fatto « Tognoni e Romboli » di Perignano, rileva
va tra l'altro che Matteoli Mauro, quale consulente fiscale della
ditta, curando la compilazione delle scritture contabili, dei libri e
registri obbligatori ai fini tributari, la presentazione (previa reda
zione) delle dichiarazioni i.v.a. ed imposte sui redditi, la liquida
zione periodica ed i correlativi versamenti fiscali, esercitava
attività di assistenza e rappresentanza, rientranti tra i compiti
professionali dei ragionieri e dottori commercialisti, pur non
essendo iscritto al relativo albo. L'imputato, a sua giustificazione, esibiva certificato, attestante la sua iscrizione all'albo dei consu
lenti del lavoro, asserendo che era per ciò solo abilitato all'attivi
tà di consulente in materia tributaria. Lo stesso veniva rinviato a
giudizio dal Pretore di Pontedera, per rispondere del delitto ex
art. 348 c.p. Con sentenza in data 9 novembre 1983 il primo giudice
condannava il Matteoli alla pena sopra indicata, osservando in
motivazione: essendo la competenza in materia tributaria espres
samente riconosciuta ai ragionieri e periti commerciali dal d.p.r.
n. 1068/53 ed ai dottori commercialisti dal d.p.r. n. 1067/53 e
non risultando alcuna analoga specifica previsione nella I. n.
12/79, istitutiva dell'albo dei consulenti del lavoro, occorreva
verificare se era possibile una eventuale interpretazione estensiva;
tale interpretazione non era desumibile dall'art. 2, 2° comma, 1. n.
12/79, relativo alla competenza nello « svolgimento di ogni altra
funzione affine, connessa e conseguente » alla consentita attività in
materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori
dipendenti (amministrazione del personale), perché, se ciò era
ammissibile per funzioni tributarie attinenti al trattamento del
personale (ritenute fiscali), ciò non poteva dirsi, se non con un
salto logico, per adempimenti attinenti alla capacità contributiva
del datore di lavoro non in quanto tale, ma come contribuente;
né una qualche legittimazione all'attività di consulente fiscale
poteva desumersi dall'art. 30 d.p.r. n. 636/72, laddove, ammetten
dosi davanti alle commissioni tributarie la presenza del ricorrente
senza assistenza tecnica, si ammette anche l'assistenza e la rap
presentanza di varie categorie di consulenti, tra cui quelli del
lavoro, anche perché, in caso contrario, la competenza in materia
tributaria dovrebbe estendersi a categorie del tutto estranee al
settore (quali gli ingegneri, gli architetti, i periti agrari, ecc.); la
riserva legislativa è giustificata dall'interesse pubblico a che
determinate professioni vengano esercitate da categorie in astratto
con sufficienti garanzie di preparazione e serietà, desumibili dal
valore legale dei titoli di studio.
Interponeva appello il difensore, osservando nei motivi: la
cosiddetta consulenza tributaria (intesa per tale ogni attività svolta,
su incarico del contribuente, in ogni circostanza e sede per
agevolarne l'adempimento degli obblighi fiscali, di qualsiasi gene
re) si distingue in tre settori: la rappresentanza in nome e per
conto del contribuente, nei limiti della procura, davanti agli uffici
finanziari ed agli organi giurisdizionali, l'assistenza davanti a detti
uffici del contribuente che agisce personalmente, l'attività residua
le (consulenza tributaria in senso stretto), comprensiva della
esplicitazione di pareri e della collaborazione nella predisposizio ne di atti, poi direttamente sottoscritti dal contribuente; i consu
lenti del lavoro operano in tutte e tre le direzioni citate, quanto alla consulenza in senso stretto perché trattasi di prestazioni
d'opera intellettuale libera, per cui non esiste riserva di legge
(per la materia tributaria Cass., sez. II, 10 maggio 1957, n. 1651,
Foro it., 1958, I, 92; per la materia legale Cass. 14 luglio 1955, n.
2233, id., Rep. 1955, voce Professioni intellettuali, nn. 43, 44), tanto più allorquando trattasi di persone iscritte ad un albo ed
esercitanti funzioni nel settore « fisco nel lavoro », che ne com
provano la capacità tecnica, quanto all'assistenza tributaria per ché, ai sensi dell'art. 63 d.p.r. n. 600/73 confermato in tale
interpretazione della giurisprudenza della Cassazione, tra i colla
boratori tecnici necessari del contribuente sono previsti anche i
consulenti del lavoro, per capacità ed iscrizione all'albo, quanto alla rappresentanza e difesa davanti alle commissioni tributarie,
perché il d.p.r. 3 novembre 1981 n. 739 estendeva alla categoria
quanto già previsto per altre dall'art. 30 d.p.r. 26 ottobre 1976 n.
636, con ciò accogliendosi un parere del ministero di grazia e
giustizia, che già riconosceva le attribuzioni a professioni tecniche,
iscritte ad albi, idonee per titolo di studio ed oggetto di attività
professionali; sarebbe comunque applicabile alla fattispecie l'art.
47 c.p., trattandosi di errore extra-penale per la genericità della
normativa-precetto, necessitante per l'interprete di un esame com
parato con le disposizioni di altri ordini professionali, e pertanto difetterebbe il dolo; in linea subordinata, la pena era ritenuta
eccessiva, per la scelta di quella detentiva, nella specie alternati
va, cosi come la pena accessoria.
All'udienza del 18 giugno 1984 davanti al tribunale, alla presenza del Matteoli, p.m. e difensori concludevano come da verbale.
L'appello è fondato.
Gli art. 1 d.p.r. n. 1067 e n. 1068 del 1953 contengono una
esposizione delle competenze tecniche degli iscritti agli albi dei
ragionieri e dottori commercialisti, tra le quali si indicano anche
genericamente per i primi la materia dei tributi e per i secondi
quelle finanziarie e tributarie, senza ulteriori specificazioni nei commi successivi allorquando si tratta dei settori formanti parti colare oggetto della professione. Di contro la 1. n. 12/79, nell'e
splicitare le materie di competenza dei consulenti del lavoro, attinente all'amministrazione del personale (attività in materia di
lavoro, previdenza ed assistenza dei lavoratori dipendenti), ag giunge tra le attribuzioni quella attinente allo « svolgimento di
ogni altra funzione affine, connessa e conseguente », ed è pa cificamente ammessa la competenza di questi professionisti per le funzioni tributarie attinenti al trattamento del personale.
Poiché trattasi di materia riguardante la libera esplicazione di attività intellettuali, costituzionalmente garantita, è da ritenere, come più volte ribadito in dottrina e giuriprudenza, che la riserva debba essere dal legislatore chiaramente esplicitata, perché l'interesse pubblico ad un corretto esercizio di attività incidenti sulla persona o sul patrimonio del singolo deve essere volta a volta riaffermato ed ha normalmente come contraltare il divieto
per lo stesso di esercitare in proprio dette attività; basti pensare alla difesa davanti alla giurisdizione ordinaria, civile o penale, dove solo in casi eccezionali il legislatore consente al privato l'autodifesa ed individua in linea generale il collaboratore tecnico necessario nell'avvocato o procuratore legale, e ciò in relazione alla complessità della procedura, che rischia di costituire per il
cittadino, pur difensore dei propri interessi, un ostacolo insor montabile. È allora evidente che in un settore, nel quale al contribuente è consentito di compilare direttamente libri e registri
obbligatori a fini tributari, redarre e presentare le dichiarazioni dei redditi, effettuare i correlativi versamenti fiscali, difendersi senza assistenza tecnica davanti agli uffici tributari e financo nei ricorsi alle commissioni tributarie, farsi eventualmente (ma solo
eventualmente) assistere o rappresentare da professionisti vari,
specificamente competenti, tra cui i consulenti del lavoro, non
possa parlarsi in linea astratta di una riserva, desumibile da una
interpretazione del complesso della normativa vigente, e si debba
richiedere, per l'affermazione di tale riserva, di una specifica norma, allo stato insussistente. Ne consegue che l'attività del
cosiddetto consulente tributario è di per se stessa libera e solo, ma
in via non cogente quale indicazione delle categorie in astratto
più competenti, è stata individuata tra i compiti dei dottori
commercialisti e dei ragionieri; del resto, la preparazione profes sionale del consulente del lavoro nel settore tributario è confer
mata dalla previsione, nella 1. n. 12/79, di una prova scritta ed
orale su elementi di diritto tributario e dalla concreta effettuazio
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PARTE SECONDA
ne, tra gli esami di abilitazione, di una prova scritta teorico-prati ca ed una orale in diritto tributario, ciò' che qualifica l'iscrizione nel relativo albo professionale quanto alla conoscenza del sistema fiscale italiano. Non potendosi dedurre dalle generiche indicazioni dei d.p.r. n. 1067/69 una enumerazione di atti tipici delle due
professioni, non è necessario ritenere la competenza tributaria dei consulenti del lavoro legata alla indicazione della 1. n. 12/79 sulle attività affini, connesse o conseguenti al trattamento del personale, riproponendosi per tale via una contraria riserva di legge, anche in questo caso inaccettabile per la genericità del dettato legislativo.
Di quanto sopra ritenuto si ha una indiretta, ma non meno
probante, conferma nella 1. 28 dicembre 1952 n. 3060, con cui, delegandosi il governo di provvedere alla riforma degli ordina menti delle professioni di esercente in economia e commercio e di ragioniere, si affermava che « la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva »; ciò significa, quantomeno per le materie genericamente indicate e comuni ad altre attività profes sionali, l'assenza di una riserva di legge, comunque intesa.
In conclusione, l'art. 348 c.p., norma penale in bianco, richiede
per la sua integrazione espliciti riferimenti normativi su una riserva di legge, enumerante gli atti tipici della professione tutelata, nella specie non desumibile dai d.p.r. n. 1067 e n. 1068. Né è priva di significato la specifica indicazione in altre norme di
competenze del consulente del lavoro nel settore tributario, che
qualifica la relativa iscrizione all'albo come abilitazione tecnica, e
quindi teorica affermazione di una effettiva competenza e prepa razione. Si impone l'assoluzione del Matteoli, perché il fatto non sussiste.
IV
Motivi della decisione. — Non è controverso il fatto storico dell'esercizio di attività di consulente tributario da parte dell'im
putato, considerate le dichiarazioni dello stesso, le risultanze testimoniali ed il rapporto in atti (con relativi allegati); inoltre anche il difensore ha insistito sulla legittimità della condotta, effettivamente tenuta, in quanto ricompresa implicitamente nell'a bilitazione allo svolgimento dell'attività di consulente del lavoro.
La questione (sulla quale non constano precedenti editi) si
presenta, dunque, in termini di puro diritto.
Posto che la competenza tecnica in materia tributaria è espres samente riconosciuta a ragionieri, periti commerciali (art. 1 d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1068) e a dottori commercialisti (art. 1 d.p.r. 27 ottobre 1953 n. 1067) e che tale attribuzione avviene in via
esclusiva per gli iscritti ai relativi albi professionali, il nucleo
dell'accertamento penale — nella fattispecie — è dato dalla
verifica d'una eventuale interpretazione estensiva dell'oggetto del
l'attività di consulente del lavoro, in mancanza d'una espressa
previsione legislativa in tal senso.
Infatti la 1. 11 gennaio 1979 n. 12, istitutiva dell'albo e
disciplinante l'ordinamento professionale dei consulenti del lavo
ro, nel definire l'oggetto di attività in relazione a tutti gli adem
pimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale dei
lavoratori dipendenti (art. 1, 1° comma, 1. cit.), nulla dice in
merito a possibili competenze in materia tributaria. L'assunto
difensivo, però, le desume da due disposizioni: a) dall'art. 2, 2°
comma, 1. cit., nella parte in cui riconosce la competenza «... in
ordine allo svolgimento di ogni altra funzione che sia affine,
connessa e conseguente a quanto previsto nel comma preceden te » (che rinvia a tutti gli adempimenti prescritti dalle norme
vigenti per l'amministrazione del personale) e, dovendosi conside
rare tale ogni attività tributaria connessa alla erogazione dei
compensi retributivi, per traslato sarebbe ricompresa una generale
competenza in materia; b) dall'art. 30, 3° comma, d.p.r. 26
ottobre 1972 n. 636 come novellato dall'art. 17 d.p.r. 3 novembre
1981 n. 739 che, inserendo nel testo previgente anche la figura
professionale del consulente di lavoro tra quelle già abilitate
all'assistenza e rappresentanza in giudizio davanti alle commissio
ni tributarie, implicitamente estenderebbe le competenze all'intera
attività in materia fiscale (come effettivamente svolta dall'imputa
to) poiché chi è autorizzato a difendere l'operato del contribuente
nel rapporto tributario a maggiore ragione deve esserlo nel porre in essere gli atti in cui si estrinseca lo stesso: in questo caso il
più conterrebbe il meno.
In realtà tali argomentazioni non sono da condividersi.
Ipotesi sub a). A riguardo è opportuno esplicitare nei particola ri l'attività che la legge genericamente definisce di « amministra
zione del personale ». Oltre — ovviamente — alla tenuta dei libri
paga e matricola un consulente del lavoro può occuparsi, ad es.,
di quanto segue: 1) pratiche di assunzione dei lavoratori median
te richieste numeriche e/o nominative all'UPLMO e conseguenti rapporti con l'ufficio di collocamento, anche in relazione ad assun
zioni obbligatorie ex lege 487/68; 2) retribuzione dei dipendenti e, quindi, redazione dei prospetti paga di ciascuno di essi
tenendo conto di qualifica, mansioni e anzianità lavorativa, dell'o
rario di lavoro, di ferie, festività e riposi settimanali, dell'aggior namento dell'indennità di contingenza, del trattamento integrativo nel caso di malattia previsto dai c.c.n.l., dell'anticipo del tratta
mento economico di c.i.g., delle ritenute alla fonte ai fini del
l'i.r.p.e.f. sui redditi da lavoro dipendente, delle ritenute assicura
tive, nonché liquidazione delle spettanze di fine lavoro; 3) reda
zione delle domande di ammissione al trattamento di c.i.g., determinazione dei contributi da versare all'I.n.p.s. ed all'I.n.a.i.l.
per assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e
superstiti, assicurazione contro la tubercolosi, assegni familiari, assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali; 4) contabilizzazione delle retribuzioni, cal
colo del costo orario d'un nucleo di lavoro, registrazione in
partita doppia delle retribuzioni e dei contributi, ecc.
Come ben si nota dalla suestesa elencazione (esemplificativa e
non esaustiva) nulla lascia pensare a particolari competenze ed a
funzioni tributarie da considerarsi connesse e conseguenti a quelle di gestione del personale se non la funzione di sostituto d'impo sta del datore di lavoro e, quindi, la determinazione delle relative
ritenute fiscali. Ma per affermare che tale adempimento —
indubbiamente connesso a quelli inerenti al trattamento del
personale di lavoro — costituisca titolo d'una generale competen za in materia tributaria si richiede un vero salto logico: sono
cose ben distinte la tenuta dei libri e dei registri obbligatori per
l'i.v.a, la dichiarazione relativa ad essa nonché alle imposte sui
redditi gravanti sul contribuente, trattandosi inoltre di adempi menti che, proprio in quanto concernenti la capacità contributiva
(diretta o presunta) della parte (pur se non imprenditore) e non
dei suoi lavoratori, sono dovuti anche dal piccolo imprenditore, dal libero professionista, dall'artigiano e da qualsiasi altro lavora
tore autonomo che abbia o meno prestatori alle sue dipendenze. In tal caso è di tutta evidenza il difetto di quel vincolo di
connessione e conseguenzialità cui l'art. 2, 2° comma, 1. 12/79 cit.
riconnette l'estensione dell'oggetto principale dell'attività, vale a
dire l'amministrazione del personale.
Peraltro ad analogo risultato si perviene facendo uso della
norma generale inclusiva laddove l'art. 2 (norma di chiusura) riconosce la competenza professionale dei consulenti del lavoro
anche per ogni altra funzione affine, considerando tale l'attività
di consulenza fiscale: al contrario la materia tributaria presenta autonomia e tradizione scientifica di data più antica rispetto a
quella di gestione degli aspetti contabili e previdenziali del
rapporto di lavoro, sicché sarebbe arduo considerare la prima come una sorta di ramificazione della seconda tanto da meritare
ingresso nell'oggetto dell'attività di cui in parola solo attraverso
contorta via interpretativa. Non soccorre Veadem ratio ma, anche
a volerla ravvisare, resterebbe inintellegibile il silenzio della
norma sul punto, contenuta in una legge molto recente (11
gennaio 1979 n. 12) rispetto a quelle sugli ordinamenti professio nali di ragioniere, perito commerciale e dottore commercialista,
per cui non sarebbe neppure da parlare di interpretazione stori
co/evolutiva: anzi, l'argumentum a contrariis trova, nella fatti
specie, una applicazione che oseremmo definire scolastica ove si
tenga conto che proprio l'art. 1, 1° comma, 1. cit. abilita all'attività
di consulente del lavoro gli iscritti agli albi di avvocati e
procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti com
merciali (che, appunto, hanno, fra l'altro, competenza in ma
teria tributaria), ma non esprime — pur potendolo fare claris
verbis nella sede più adatta — anche la proposizione reciproca,
neppure limitatamente alla sola attività di consulenza fiscale.
Mai come in questo caso anche chi faccia uso giustamente cauto del citato canone ermeneutico (troppo spesso ancorato ad
anacronismi giuspositivisti) può serenamente concludere che ubi
lex tacuit, noluit.
Ipotesi sub b. La legittimazione a svolgere attività di
consulenza fiscale non può desumersi nemmeno dall'esegesi del
l'art. 20, 3° comma, d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636 proposta dalla
tesi difensiva, poiché l'argomento costituisce invece conferma
dell'assunto contrario. A differenza che nei giudizi davanti al
giudice ordinario, in cui vige la regola dell'obbligatorietà dell'as
sistenza tecnica della parte salvo deroghe tassative (art. 82, 1° e
2° comma, 86 — col limite, però, della particolare qualità
professionale della parte che possa esercitare l'ufficio di difensore con procura — e 417, 1° comma, c.p.c.), nel giudizio davanti alle
commissioni tributarie il contribuente agisce di persona senza
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GIURISPRUDENZA PENALE
assistenza tecnica cui, tuttavia, può eventualmente far ricorso facendosi assistere e rappresentare da varie categorie di profes sionisti, fra cui, appunto, i consulenti del lavoro all'uopo espres samente abilitati dalla novella legislativa dell'art. 17 d.p.r. 3 novembre 1983 n. 739, entrata in vigore — per effetto dell'art. 28 — solo il 1" gennaio 1982. Si noti che il Matteoli esercitava già da diversi anni l'attività di consulenza fiscale in favore della so cietà di fatto « Tognoni e Romboli ».
Nell'approfondire la portata dell'art. 30, 3° comma, cit. si rinviene l'improponibilità dell'esegesi tendente all'implicita esten sione della competenza professionale in base ad un preteso rapporto di continenza fra l'attività di rappresentanza e difesa in
giudizio e quella di mera consulenza tributaria. Se in questo caso il più ricomprende il meno, lo stesso principio valido per i consulenti del lavoro va applicato alle altre categorie indicate dalla norma, come ad es. ingegneri, architetti, dottori in agraria, geometri, periti agrari, ecc. Logica inevitabile ma aberrante
conseguenza sarebbe, dunque, quella di consentire, ad es., ad un
perito agrario o ad un architetto di aprire uno studio — nel
rispetto della relativa disciplina giuridica ex lege 23 novembre 1939 n. 1815 — usando nel suo ufficio e nei rapporti coi terzi, accanto al nome ed al titolo professionale, la denominazione di « studio tributario » (art. 1, 1° comma, 1. 1815/39).
Ma v'è di più al limite (ma sarebbe paradossale) la medesima cosa potrebbe fare qualsiasi contribuente, giacché se il legislatore lo ha sempre legittimato a stare in giudizio personalmente anche
per lui varrebbe il principio secondo cui il più contiene il meno. In contrario avviso non può addursi che uguale effetto si
produrrebbe per l'attività di procuratore legale ed avvocato,
giacché nel campo giurisdizionale ordinario vige il principio dell'obbligatorietà del patrocinatore tecnico, né può obiettarsi che la estensione della competenza professionale del consulente del lavoro si verifica in quanto concorre comunque la garanzia d'una determinata qualificazione attestata dall'iscrizione all'albo.
È pur vero che quel che la parte è libera di fare (e di
rischiare) per sé, non altrettanto può formare l'oggetto d'una attività professionale, consentita — invece — al professionista dotato — in quanto tale — di adeguate capacità.
Ma se un consulente del lavoro può assistere la parte per libera scelta di quest'ultima e su espressa autorizzazione legislati va davanti alle commissioni tributarie, non per questo può « spendere » una determinata competenza anche verso terzi poi ché questa o deriva da una particolare abilitazione (il che è da
negarsi per i consulenti del lavoro, come si è detto) o da
personali cognizioni tecniche aliunde acquisite ma che, in difetto di iscrizione ad un albo, non possono utilizzarsi per un esercizio di attività remunerata, stante l'esclusività della riserva (recepita anche a livello costituzionale ex art. 33, 5° comma, Cost.) in tale senso prevista e sanzionata dall'art. 348 c.p. in favore delle
professioni per cui si richiedono titoli abilitativi. In sintesi, non si può sostenere che la legittimazione ex art. 30
cit. all'attività di consulente tributario valga per i consulenti del lavoro se non la si estende, ad esempio, anche ai periti agrari: né per i primi è ravvisabile l'indizio favorevole (ma in questa sede respinto) costituito dall'art. 2, 2° comma, 1. 12/79 cit., poiché quest'ultimo o è di per sé idoneo allo scopo — e allora non c'è bisogno di ricorrere ad altro — o non lo è per cui non
può diventarlo sol perché sovrapposto all'assunto che sarebbe destinato a provare; la somma di due argomenti deboli non ne
produce uno convincente.
Trascurabile appare, infine, la pretesa conferma indiretta della tesi difensiva che si ricaverebbe dal fatto che l'esame per l'abilitazione dei consulenti del lavoro prevede comunque (art. 3, ult. comma, 1. 12/79) una prova di elementi di diritto tributario
(n.b.: non di diritto tributario), poiché ciò può giustificarsi, semmai, per il fatto di dover svolgere per conto del cliente
(datore di lavoro) funzioni di sostituto d'imposta, ma non può avere significati ulteriori: la comune esperienza dimostra che vi sono numerosissimi concorsi od esami che prevedono prove analoghe (si provi a sfogliare qualche G.U.), ma non per questo abilitano alla relativa professione.
La soluzione negativa della questione in oggetto è conforme alla ratio dell'art. 348 c.p., intesa a tutelare l'interesse pubblico, strumentale a quello collettivo, a che determinate professioni
vengano svolte solo da persone che diano sufficienti garanzie di
preparazione e serietà, per evitare al privato di incorrere in
esercenti indegni o incauti. Orbene, prescindendo dalle concrete
capacità dell'imputato (che nella fattispecie non vengono in
rilievo), non è chi non veda che la riserva legislativa di determi nate attività mira a garantire la qualificazione e l'individuazione
dei singoli profili professionali per consentire all'utente di sceglie re e, quindi, di fruire della competenza più idonea al suo
bisogno, soprattutto in tempi in cui la complessità dei rapporti sociali e la gravità degli effetti d'una errata o « disinvolta »
prestazione richiedono livelli specialistici sempre più elevati: va da
sé che tale duplice esigenza — vale a dire quella di ricorrere al
professionista più specificamente preparato e quella di godere di
un'adeguata prestazione intellettuale — pretende massima chiarez
za dei ruoli ed un sistema legislativo a garanzia dal pericolo di
abbassamento del tenore professionale. Non può dunque ammettersi che, a fronte di una crescente
domanda di specializzazione intellettuale, il legislatore risponda con un indeterminato confine di attribuzioni tale da lasciare ampi
margini di incertezza utilizzabili non dai puù preparati e validi
ma dai più abili nell'assicurarsi il mercato.
A fortiori il discorso vale per la figura del consulente del
lavoro che — provvisto di adeguate capacità nel suo ramo —
non sembra però fornire uguali garanzie in quello tributario, tenendo presente che il sistema di istruzione pubblica è basato
sul principio (discutibile quanto si voglia, ma tutt'ora vigente) del
valore legale dei titoli di studio: orbene, anche se per l'ammis
sione all'esame di Stato ai fini dell'abilitazione all'esercizio della
professione di consulente del lavoro è considerato equipollente un
diploma di maturità di scuola secondaria superiore, conseguito in
non meglio specificati indirizzi riconducibili all'area delle scienze
sociali, rispetto alle lauree in giurisprudenza, scienze economiche
e commerciali o in scienze politiche, di fatto l'iscrizione nell'albo
in oggetto viene prevalentemente riservata a persone sprovviste sia di tali lauree che del diploma di ragioniere o perito commer
ciale — poiché, altrimenti, troverebbero molto più conveniente
l'iscrizione negli albi degli avvocati e dei procuratori legali, dei
dottori commercialisti o dei ragionieri e periti commerciali, così
potendo contare su un oggetto di attività molto più amplio (che
ricomprende anche la consulenza del lavoro: cfr. l'art. 1, 1°
comma, 1. 12/79) — munite invece solo di quei titoli di scuola
secondaria superiore privi di sufficiente peculiarità culturale ai
fini della competenza in materia tributaria.
Se ciò è accettabile limitatamente ad una branca particolare —
quella dell'amministrazione del personale dipendente — tradizio
nalmente estranea a certe categorie di professionisti ugualmente abilitati per legge, lo stesso non può dirsi per una materia —
quella di consulenza tributaria — per la quale si dispone già di
professionisti dotati (sia pure per presunzione normativa) di
particolare competenza, quali i ragionieri e, soprattutto, i dottori
commercialisti. L'anomala estensione derivante dall'assunto difen
sivo allarga la base degli esercenti tale attività, ma ne riduce il
tasso di specializzazione e, quindi, il livello di professionalità (che — ripetiamo — costituisce l'aspetto qualificante dell'oggetto
giuridico della figura incrimmatrice delineata nell'art. 348 c.p.) stante il gap culturale (presunto iuris et de iure, grazie al sopra ricordato principio del valore legale dei titoli di studio) creatosi
fra i vari operatori del settore.
Benché in sede di discussione la difesa abbia segnalato l'assen
za di contenzioso — circa la ripartizione delle competenze in
materia tributaria — fra le categorie interessate (consulenti del
lavoro da un lato e ragionieri e dottori commercialisti dall'altro), la circostanza è valutabile solo in termini sociologici ma non
giuridici. Invero ciò dipende dalla minor forza corporativa di cui
dispongono i relativi collegi ed ordini professionali, evidentemente
privi di quella spinta aggregativa ed esclusivista propria dei
gruppi contraddistinti da comunanza d'interessi, in quanto di
origine ed esperienza storica più recente rispetto ad altre forma
zioni sociali, quali ad esempio l'ordine dei medici, tradizional
mente battaglieri nella difesa della loro identità professionale: ne
è sintomatico l'orientamento della giurisprudenza che, investita e
pressata da una diretta domanda in tal senso, ha risposto con
interpretazioni restrittive del campo di attività riservato a lavora
tori del settore paramedico, ravvisando — ad es. — il delitto
previsto ex art. 348 c.p. nel fatto di un infermiere che pratichi iniezioni indovenose: invece che intramuscolari (Cass., sez. II, 24
marzo 1970, Di Pino, Foro it., Rep. 1972, voce Esercizio abusivo
di una professione, n. 6) o dell'odontotecnico che esegua presta zioni riservate al sanitario (Cass., sez. VI, 16 gennaio 1973,
Baglioni, id., Rep. 1973, voce cit., n. 2).
Ma poiché l'interesse protetto da una norma non è quello
corporativo di tutelare la categoria da indebite ingerenze concor
renziali, bensì quello del singolo utente di prestazioni d'opera intellettuale di poter contare su un valido apporto del professio nista senza rischiare di incorrere in esercenti impreparati e/o di
dubbia correttezza deontologica, l'interprete non può che prende
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PARTE SECONDA
re in considerazione quest'ultima esigenza, pertanto prescindendo dalla forza e dalle finalità eventualmente perseguite dai vari
collegi ed ordini professionali. Alla stregua di quanto precede deve, quindi, ravvisarsi nella
condotta denunciata l'elemento oggettivo della fattispecie incrimi natrice dell'art. 348 c.p. Analogo discorso vale per l'elemento
psicologico, riscontrabile nell'atteggiamento dell'imputato, che ha voluto svolgere e svolge tutt'ora attività di consulenza ed assi stenza tributaria.
In contrario avviso non può accogliersi che la tesi della erronea interpretazione del precetto penale (tale dovendosi consi derare la disciplina integrante una norma penale in bianco come
quella dell'art. 348 c.p.: cfr. Cass., sez. VI, 28 gennaio 1978, n. 854) riverberantesi sulla conoscibilità dell'antigiuridicità, prospet tazione in sé tecnicamente ineccepibile ma non coincidente col caso di specie.
Invero è noto che dottrina e giurisprudenza più avanzate danno una lettura evolutiva dall'art. 27, 1° comma Cost., giusta mente ravvisandovi la fonte del principio di soggettività e non
semplicemente de! divieto di responsabilità penale per fatto altrui
(la qual cosa sarebbe assai banale), principio che, consistendo nell'affermazione della necessaria attribuibilità del fatto alla sfera
psichica del suo autore, presuppone la conoscibilità del reato, id est del giudizio negativo di relazione (antigiuridicità) che lo
contraddistingue: conoscibilità che si armonizza con l'art. 5 c.p. rettamente restringendo quest'ultimo alla sola ignoranza inescusa bile del precetto penale (tenuto conto dello iato sussistente fra sistema sociale di valori ed ordinamento giuridico).
In merito la giurisprudenza ha da tempo considerato inescusa bile l'ignoranza del reo in presenza di conoscibilità (sostanziale, non formale — come invece sostenuto da una sentenza interpre tativa di rigetto della Corte cost. 25 marzo 1975, n. 74, id., 1975, I, 1323 — grazie alla semplice pubblicazione della norma sulla
G.U., cosa del tutto irrilevante a questi fini perché la legge non
pubblicata, prima ancora che inconoscibile e quindi escludente la
colpevolezza, non è addirittura in vigore) dell'antigiuridicità o, almeno, di coscienza dell'illiceità sociale della condotta, cosi combinando insieme i due possibili aspetti del momento cognitivo del dolo.
Ma nella fattispecie, pur potendosi ipotizzare il difetto della
seconda, non è riscontrabile l'assenza della prima nel comporta mento dell'imputato, che ben poteva rendersi conto dei limiti che il legislatore aveva fissato per l'attività di cui si controverte. In
proposito è opportuno separare le due diverse fonti cui il Matteoli si è riferito per giustificare l'attività svolta: l'art. 2, 2°
comma, 1. 12/79 e l'art. 30, 3° comma, d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636.
Riguardo alla prima non è ammissibile che una persona avvez
za — per motivi professionali — al contatto con l'interpretazione della norma non fosse in grado di desumere l'esatta portata che, come si è detto, ne esclude nettamente l'estensione alla consulen
za tributaria, poiché, è bene ribadirlo, gli adempimenti per l'i.v.a. — ad es. — non sono minimamente conseguenziali al pagamento delle retribuzioni o a qualsiasi altra attività di gestione del
personale, essendone svincolato il presupposto dell'i.v.a. (cessioni di beni, prestazioni di servizi ed importazioni).
In ordine alla seconda — cui l'imputato ha fatto espresso riferimento per ritenersi abilitato — anche a voler dubitare della
concreta conoscibilità dell'antigiuridicità del fatto a causa dell'in
felice novella apportata al citato art. 30 dall'art. 17 d.p.r. 3
novembre 1981 n. 739 (norma ambigua non tanto nella formula
zione quanto nei presumibili motivi che ne sono stati all'origine), tale rilievo perde efficacia appena si ricordi che il Matteoli
svolgeva già — almeno sin dal 1981 — attività di consulenza
tributaria, mentre l'art. 17 d.p.r. 739/81 (che, a dire del giudicabi
le, l'avrebbe legittimato a tale esercizio) è entrato in vigore solo
il 1° gennaio 1982 (v. art. 28 d.p.r. ult. cit.).
Dunque viene ad essere anticipato ad epoca non sospetta il
momento cognitivo del dolo da parte del prevenuto, di cui va
affermata la responsabilità in ordine al reato ascrittogli in epigra fe.
Quoad poenam; visti i criteri dell'art. 133 c.p. e considerata la
reiterazione della condotta — sia pure non coincidente con la
figura dell'art. 81, cpv., c.p. — già da alcuni anni (si ricordi, al
riguardo, che l'ipotesi dell'art. 348 c.p. — secondo giurisprudenza costante non è a condotta abituale, essendo sufficiente a configu rarla anche un solo atto di esercizio abusivo: cfr. Cass. 13 marzo
1980; 26 febbraio 1976; 1° ottobre 1975, Di Furia, id., Rep.
1976, voce cit., n. 1), si ritiene di disattendere la richiesta del
p.m. d'udienza e di irrogare la pena detentiva in luogo di quella
pecuniaria, sia pure contenendola nel limite di mesi 1.
Conseguono la condanna al pagamento delle spese processuali
nonché, ex art. 30 e 31 c.p., all'interdizione temporanea dall'eser
cizio della professione di consulente del lavoro per la durata di
mesi sei, cosi quantificata da un lato per non renderla eccessiva
mente afflittiva per l'imputato (che non lo meriterebbe, poiché ha
tenuto un corretto comportamento processuale), dall'altro per renderla concretamente avvertibile per sensibilizzare il prevenuto
sull'importanza della questione dibattuta in questa sede.
La mancanza di precedenti penali del Matteoli consiglia di
concedergli i doppi benefici di legge.
CORTE D'APPELLO DI ROMA; ordinanza 20 marzo 1985; Pres.
Rispoli, Rei. Carnevali; imp. iSparapano e altro. CORTE D'APPELLO DI ROMA;
Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice — Componen te del tribunale della libertà e del collegio giudicante
—
Incompatibilità — Insussistenza (Cod. proc. pen., art. 61,
263 ter).
Non ricorre causa d'incompatibilità nell'ipotesi in cui venga
chiamato a far parte del collegio giudicante di primo grado lo
stesso giudice che, nella qualità di componente del tribunale
della libertà, nello stesso processo penale, abbia partecipato al
riesame di un provvedimento restrittivo della libertà persona le. (1)
(1) I. - La presente ordinanza pone, per la prima volta, la questione della compatibilità, con riferimento all'art. 61 c.p.p., tra la funzione di
membro del collegio giudicante e quella di componente del « tribunale
della libertà » che, nello stesso processo penale, abbia partecipato al
riesame di un provvedimento restrittivo della libertà personale. E invero, le precedenti pronunzie (edite) si erano occupate della
compatibilità tra la funzione di componente del tribunale della libertà
e quella di giudice istruttore nello stesso processo penale. In particola
re, con una prima decisione (sent. 24 novembre 1982, Guzzo, Foro it.,
Rep. 1985, voce Libertà personale dell'imputato, n. 211) la Corte di
cassazione, prendendo in considerazione il caso in cui il membro del
collegio competente per il riesame aveva precedentemente compiuto
singoli atti istruttori diversi dall'emissione del provvedimento restrittivo della libertà personale, aveva ritenuto che, in tal caso, l'ordinanza con cui si decide sulla richiesta di riesame non è nulla, ma viziata « da semplice irregolarità attinente alla composizione dell'organo, non
rilevante agli effetti penali ». Successivamente, la stessa Cassazione
(sent. 11 gennaio 1984, Liberati, id., Rep. 1984, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 26), valutando il caso del
giudice istruttore che ha emesso il provvedimento restrittivo e che
viene chiamato a far parte del collegio per il riesame, aveva affermato la conformità al nostro sistema processuale dell'ordinanza con cui si
decide sul riesame, in quanto l'ipotesi in questione non rientrerebbe tra le cause d'incompatibilità previste dall'art. 61 c.p.p., che vengono ritenute nella stessa sentenza tassative, conformemente alla costante
giurisprudenza (Cass. 13 gennaio 1983, Mannetti, ibid., n. 27; 29
giugno 1982, Saja, id., Rep. 1983, voce cit.„ n. 24; 23 gennaio 1980, Vecchies, id., Rep. .1980, voce cit., n. 12).
La dottrina, dal canto suo, si è espressa in termini non unanimi.
Cosi, da una parte si è affermato (Giambruno, Davvero regolare il
tribunale della libertà composto col giudice autore del provvedimento da riesaminare?, in Cass, pen., 1984, 2241 s.; Id., Ancora sulla
composizione del tribunale della libertà, id., 1985, 154 s.) che l'art. 61
c.p.p. è applicabile analogicamente, in quanto si tratta di una norma che esprime la generale esigenza dell'imparzialità del giudice, precisan dosi (Tranchina, Il tribunale della libertà tra garantismo e demagogia, in Riv. dir. proc., 1984, 577 s.) che ciò è possibile, sempre che si
voglia intendere la 1. 532/82 come una normativa autenticamente
garantista, che rappresenti « il primo, importante passo verso la
ridefmizione dei ruoli degli organi dell'istruzione in vista della più
completa separazione tra potestà investigativa e potestà decisoria»; ovvero che la norma si possa interpretare estensivamente (v. Fortuna, Tribunale della libertà e problemi di ordinamento giudiziario, in
AA.VV., Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna, 1983, 312 s.).
Altra dottrina, invece, ha escluso che possa configurarsi incompatibi lità tra la funzione di giudice istruttore e quella di membro del tribunale della libertà nello stesso processo. In questa prospettiva, si è
osservato che, al di là della 1. 532/82, esistono casi simili, come quello del giudice istruttore che ha adottato il provvedimento restrittivo, che viene poi a pronunziarsi sulla richiesta di scarcerazione per mancanza di sufficienti indizi, aggiungendo che, con la richiesta di riesame, non si instaura un vero e proprio procedimento d'impugnazione, e che il riesame viene comunque svolto da un collegio in cui l'incidenza del
singolo giudice è relativa (Lemmo, Luci ed ombre nei primi orienta menti giurisprudenziali sul tribunale della libertà, in AA.VV., Tribuna le della libertà e garanzie individuali, cit., 273 s.). Altri hanno
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