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Sezioni unite civili; ordinanza 28 gennaio 1984, n. 55; Pres. Gambogi, Rel. Virgilio, P. M....

Date post: 27-Jan-2017
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Sezioni unite civili; ordinanza 28 gennaio 1984, n. 55; Pres. Gambogi, Rel. Virgilio, P. M. Tamburrino (concl. conf.); Pascasio ed altri (Avv. Pascasio, Palermo, Jezzi) c. Pres. cons. ministri ed altri. Dichiara inammissibile istanza di ricusazione Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 4 (APRILE 1984), pp. 977/978-979/980 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23175968 . Accessed: 25/06/2014 07:57 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.134 on Wed, 25 Jun 2014 07:57:34 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezioni unite civili; ordinanza 28 gennaio 1984, n. 55; Pres. Gambogi, Rel. Virgilio, P. M.Tamburrino (concl. conf.); Pascasio ed altri (Avv. Pascasio, Palermo, Jezzi) c. Pres. cons.ministri ed altri. Dichiara inammissibile istanza di ricusazioneSource: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 4 (APRILE 1984), pp. 977/978-979/980Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175968 .

Accessed: 25/06/2014 07:57

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

ricorrente — non si attaglia al caso, che ora interessa, in cui alla mancata utilizzazione dei beni espropriati si accompagni una

successiva variante che modifichi, sostituendole con altre incom

patibili, le previsioni del piano o di una precedente variante per la cui attuazione quegli immobili sono stati appresi; nella quale situazione queste sezioni unite si erano già espresse in senso

contrario, riconoscendo, cioè, il diritto del privato alla retroces

sione (v. sent. n. 836 del 1965, id., Rep. 1965, voce cit., n. 172). È evidente, anzitutto, che siffatte innovazioni, quando si tratti

di varianti generali propriamente urbanistiche (e non soltanto

normative), possono modificare radicalmente l'assetto territoriale

programmato, per modo che questo venga ad assumere caratteri

stiche oggettive tali da renderlo altro da quello originariamente stabilito; e sembra arduo, pure nell'ottica dell'opera complessa, invocare il principio di esecuzione parziale della medesima, che,

per essere stata sostituita con altra sostanzialmente diversa, deve

ritenersi abbandonata e, dunque, ineseguita; quel principio potrà valere, come si è detto, per le prescrizioni del nuovo programma urbanistico, non per quelle inattuate del programma precedente.

A parte questo rilievo, con riferimento alla generalità dei casi

occorre considerare, da un lato, che la dichiarazione di pubblica utilità, che accede all'approvazione del piano particolareggiato, in

concreto afferisce — come testualmente precisa, del resto, lo

stesso art. 16 cit. — alle singole opere di interesse pubblico per cui si richiede lo strumento ablatorio, le quali costituiscono

perciò la specifica causa di pubblica utilità giustificativa dell'ap

prensione degli immobili o delle zone destinate alla loro realizza

zione; e, dall'altro, che l'approvazione della variante — la quale del pari implica dichiarazione di pubblica utilità delle opere di

interesse generale in essa previste (art. 16, ult. comma) —

modifica in maniera corrispondente l'originaria dichiarazione, che

deve ritenersi revocata quanto alle previsioni sostituite o, comun

que, caducate per incompatibilità (sent. n. 836 del 1965, cit.). Da ciò consegue che le espropriazioni disposte per l'esecuzione

delle opere oggetto di tali previsioni del piano cessano di essere

sorrette dalla dichiarazione di pubblica utilità, sicché gli immobili

cosi' acquisiti, di fatto già non usati, diventano giuridicamente inutilizzabili per lo scopo stabilito, tanto se con la variante siano

stati liberati da qualsiasi vincolo espropriativo, quanto se siano

stati assoggettati ad una nuova e diversa destinazione pubblica. Ai fini della retrocessione di questi beni non soccorre più,

allora, il criterio di valutazione del piano quale opera unitaria

complessa, essendo irrilevante la circostanza che l'iniziale pro

gramma di sistemazione territoriale sia stato in altre parti attuato.

La disciplina dei relitti è applicabile sempre che il mancato uso

dei beni si verifichi nell'ambito della realizzazione di un'opera

composita rimasta inalterata nella configurazione risultante dalla

dichiarazione di pubblica utilità posta a base del provvedimento ablatorio, in quanto rimanga ferma, cioè, la destinazione data ai

beni medesimi. Nelle ipotesi in esame, invece, per effetto della

modifica introdotta con la variante, gli immobili risultano giuridi camente e di fatto sottratti in modo irreversibile alla destinazione

loro impressa con la dichiarazione di pubblica utilità giustificativa

dell'espropriazione; e pertanto, anche tenendo fermo il riferimen

to al piano nella globalità delle sue prescrizioni, la vicenda si

inquadra nell'istituto della retrocessione regolato dall'art. 63, nel

l'estensione che ad esso si riconosce dalla consolidata esegesi dianzi ricordata: se si guarda, infatti, alla specifica opera prevista dalla disposizione di piano caducata dalla variante, si ha inesecu

zione dell'opera pubblica, oggettivamente considerata; se si guar da al piano come opera complessa, ugualmente si realizza il

presupposto della fattispecie, secondo il principio per cui equivale ad inesecuzione la situazione di inutilizzabilità che si determina

quando l'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, invece

che rispetto all'intera opera, venga meno limitatamente ai beni

appresi con il provvedimento ablatorio, non più suscettibili di

impiego nella specifica finalità pubblica cui sono stati vincolati

(questo profilo non risulta considerato dalle sentenze sopra men

zionate, nella prima delle quali — la n. 239 del 1977 — era

anche irrilevante, siccome la variante aveva tenuto ferma la

precedente destinazione del bene inutilizzato). Si deve conclusivamente riaffermare, quindi, che nelle espro

priazioni disposte in attuazione di un piano particolareggiato, o

di una variante, l'approvazione di una successiva variante che

incida sulla destinazione dei beni espropriati, ma non utilizzati, liberandoli da ogni vincolo espropriativo o destinandoli ad un'o

pera affatto diversa, fa venir meno, rispetto a tali beni, la

specifica causa di interesse pubblico per la quale sono stati

appresi, posto che la variante comporta la revoca della preceden te dichiarazione di pubblica utilità in ordine alle previsioni del

piano sostituite o caducate; non essendo perciò più possibile dare

agli immobili la destinazione prevista nel decreto di espropriazio ne e non attuata, si determina una situazione di giuridica

inutilizzabilità degli stessi, che attribuisce al privato il diritto di ottenerne la retrocessione, ai sensi dell'art. 63 1. n. 2359 del 1865, salva la facoltà della p.a. di promuovere una nuova e diversa

espropriazione in base alle mutate previsioni della variante. 5. - Nel caso oggetto della presente controversia, la disposizione

del piano per la cui attuazione il fabbricato era stato espropriato, cioè la sua demolizione e ricostruzione .in posizione arretrata per l'allargamento della strada, fu sostituita dalla successiva variante

nona, che, nell'escludere tale intervento viario, stabili altresì che

l'immobile dovesse essere conservato nella sua integrità, perciò

assoggettandolo a vincolo di rispetto strutturale ed architettonico; e venne conseguenzialmente a cadere la causa di pubblica utilità

che giustificava il trasferimento coattivo, sostituita con una desti

nazione conservativa chiaramente incompatibile (e, per giunta, non idonea a legittimare, di per sé, lo strumento espropriativo,

posto che il fine pubblicistico di conservazione di un edificio, per le sue caratteristiche strutturali e architettoniche, ben può essere

raggiunto attraverso il relativo vincolo, senza l'ablazione del

bene). La statuizione impugnata deve, quindi, essere tenuta ferma per

le ragioni ora svolte, in parte diverse da quella addotte dalla

corte di merito. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite civili; ordinanza 28 gen naio 1984, n. 55; Pres. Gambogi, Rei. Virgilio, P. M. Tambur

inino (conci, conf.); Pascasio ed altri (Avv. Pascasio, Palermo,

Jezzi) c. Pres. cons, ministri ed altri. Dichiara inammissibile

istanza di ricusazione.

Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice — Istanza di

ricusazione — Presentazione decorso il termine di due giorni

prima dell'udienza — Inammissibilità — Conoscibilità dei nomi

dei giudici — Sufficienza (Cod. proc. civ., art. 52, 54).

Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice — Motivi di

ricusazione — Istanza fondata su fatti non inquadrabili nei

casi tassativamente stabiliti — Inammissibilità — Fattispecie

(Cod. proc. civ., art. 51, 54).

È inammissibile l'istanza di ricusazione presentata dopo lo scade

re del termine di due giorni prima dell'udienza, per il cui

decorso è sufficiente la conoscibilità dei nomi dei magistrati chiamati a decidere la causa, coincidente, per il procedimento davanti la Cassazione, con l'avviso di cui all'art. 377 c.p.c., non

essendo necessaria la prova che il ricusante abbia effettivamen te acquisito la conoscenza del nome dei giudici. (1)

È inammissibile l'istanza di ricusazione fondata su circostanze

non inquadrabili, neppure in astratto, nelle fattispecie tipiche tassativamente previste dall'art. 51 c.p.c., in relazione alle quali

la legge prescrive l'obbligo del giudice di astenersi e, correlati

vamente, la facoltà di proporre la ricusazione (nella specie, è

(1) Nel senso che, se alle parti o al difensore non sono noti i nomi

dei giudici chiamati a trattare o a decidere la causa, l'istanza di

ricusazione deve essere presentata prima dell'inizio della trattazione o

della discussione, v. Cass. 8 agosto 1951, n. 2448, Foro it., Rep. 1951, voce Procedimento civile, n. 164.

Sul concetto di udienza di trattazione, di cui all'art. 52, 2° comma,

c.p.c., v. Trib. Napoli 8 febbraio 1971, id., Rep. 1971, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 10, e Trib. Bologna, ord.

18 maggio 1959, id., Rep. 1959, voce Ricusa del giudice, n. 10, secondo

cui essa è la prima udienza in senso assoluto e cronologico, quando a

tale data sia già noto il motivo di ricusazione, altrimenti è la prima udienza successiva al verificarsi del presupposto.

Sulla natura perentoria o ordinatoria del termine per presentare istanza di ricusazione e sulla possibilità di far valere anche i motivi di

ricusazione sorti dopo la scadere dei termini previsti dai codici di rito, v. Cass. 27 novembre 1973, Toffolutti, id., Rep. 1974, voce Astensione, ricusazione e responsabilità del giudice, n. 22, secondo cui il termine

per la ricusazione deve ritenersi prorogato fino al verificarsi del fatto, del rapporto o della situazione costituenti il motivo di ricusazione e, in dottrina, Nappi, Commentario al codice di procedura civile, 1941,

358; Menestrina, in II nuovo codice di procedura civile, diretto da

D'Amelio, 1943, 264; Saia, Sul termine per la dichiarazione di ricusa zione del giudice, in Giur. Cass. pen., 1946, 364; S. Satta, Astensione e ricusazione del giudice (dir. proc. civ.), voce dell'Enciclopedia del

diritto, 1958, III, 951; Costa, Astensione e ricusazione (dir. proc. civ.), voce del Novissimo digesto, 1968, I, 2, 1466; Grevi, Perplessità e limiti inaccettaibili in tema di ricusazione, in Giur. it., 1971, II, 554-56; Segrè, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, 1973, 640-43; Paoluzzi, Nuovi indirizzi antiformalistici in tema di ricusazio

ne, in Cass. pen., 1975, 866-69.

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PARTE PRIMA

stato ritenuto che i « termini ostili » o l'« ingiustificata acredi ne » che un giudice avrebbe mostrato verso l'Associazione naz.

magistrati in pensione, rifiutando loro un locale nel palazzo di

giustizia, nonché di fornire loro notizie, non sono, neppure in

astratto, elementi idonei a configurare « la grave inimicizia »

con una delle parti o alcuno dei difensori) (2).

Premesso in fatto: Con ricorso del 5 ottobre 1983, deposita to nella udienza delle sezioni unite di questa corte in data 6 ottobre 1983, l'avv. Emanuele lezzi (nella qualità di ricorrente avverso la decisione emessa dalle sezioni riunite della Corte dei conti il 6 ottobre-17 novembre 1982) proponeva istanza di ricusa zione del dott. Francesco Greco, designato a presiedere il collegio giudicante nella indicata udienza del 6 ottobre 1983;

— a seguito della proposizione della istanza di ricusazione, le sezioni unite di questa corte, nella stessa udienza del 6 ottobre

1983, dichiararono la sospensione del procedimento distinto con il numero di ruolo 1913/83 (nel quale il ricusante ha la qualità di

ricorrente) ai sensi dell'art. 52, ultimo comma, c.p.c.; — con provvedimento del 10 novembre 1983 il primo presiden

te di questa corte fissava per l'udienza odierna delle sezioni unite la decisione sulla istanza di ricusazione;

— il pubblico ministero, con requisitoria scritta del 7 novem bre 1983, ha concluso per la declaratoria di inammissibilità della ricusazione con le conseguenze di legge.

Ritenuto in diritto: La ricusazione deve essere dichiarata inammissibile (art. 54, 2° comma, c.p.c.) in conformità della richiesta del pubblico ministero, per due concorrenti ragioni: 1)

perché non è stata proposta nel termine di cui all'art. 52, 2°

comma, c.p.c.; 2) perché i motivi addotti a sostegno della ricusazione non sono inquadrabili nelle ipotesi tassative previste dal combinato disposto degli art. 51 e 52 c.p.c.

A) Sotto il primo profilo esattamente ha rilevato il p.m. che nel procedimento dinanzi la Corte di cassazione il ruolo delle cause con la indicazione dei componenti il collegio giudicante in ciascuna udienza è posto (in cancelleria) a disposizione delle

parti e dei difensori fin da quando è spedito l'avviso di cui all'art. 377 c.p.c., sicché per un periodo di tempo certamente

congruo (in quanto l'avviso è normalmente spedito con largo anticipo rispetto alla data di udienza) esiste una situazione di « conoscibilità » dei nomi dei magistrati chiamati a decidere la causa.

Tale conoscibilità (come risulta anche dalle sentenze di questa corte n. 3427/75, Foro it., Rep. 1975, voce Astensione, ricusa zione e responsabilità del giudice, n. 17, e 1716/74 id., Rep. 1974, voce cit., n. 7) è elemento sufficiente per la realizzazione della

prima delle fattispecie previste dall'art. 52 (« se al ricusante è noto il nome dei giudici »), non essendo necessaria la prova che il ricusante abbia effettivamente acquisito la conoscenza del nome dei giudici, per cui dal momento di detta conoscibilità, coinciden te con la ricezione dell'avviso suindicato, comincia a decorrere il termine utile, che scade due giorni prima della udienza, entro il

quale le parti possono proporre la ricusazione. Nel caso in esame, come si è già detto, l'istanza fu presentata

nella stessa udienza del 7 ottobre 1983, e dunque tardivamente.

B) Sotto il secondo profilo va rilevato — pur prescindendo dal controllo sulla veridicità delle circostanze indicate dal ricu sante — che esse non sono inquadrabili, neppure in astratto, nelle fattispecie tipiche (tassativamente stabilite nell'art. 51

c.p.c., e perciò insuscettibili di interpretazione estensiva e tanto meno analogica: v. Cass. 2455/72, id., Rep. 1972, voce cit., n. 1, e 270/58, id., Rep. 1958, voce Ricusa, n. 2) in relazione alle

quali la legge prescrive l'obbligo del giudice di astenersi e, correlativamente, la facoltà di proporre ricusazione.

Infatti, i generici riferimenti ai « termini ostili » con cui il dr. Greco si sarebbe espresso nei confronti dei magistrati in pensione e alla « ingiustificata acredine » che avrebbe dimostrato nei con fronti dell'Associazione nazionale magistrati in pensione, rifiutan do ad essa un locale nel palazzo di giustizia e rifiutando anche di fornire risposte, notizie, ecc., non sono nemmeno in astratto elementi idonei a configurare la « grave inimicizia con una delle

parti o alcuni dei difensori » (sola fattispecie alla quale può, in linea ipotetica, accostarsi il caso concreto) che è invece indispen sabile per concretare la causa di ricusazione.

(2) Per il carattere tassativo dei motivi di ricusazione previsti dall'art. 51 c.p.c. v., da ultimo, Trib. Genova, ord. 16 gennaio 1982, Foro it., 1982, II, 437 con nota di richiami, cui si rinvia anche per riferimenti alla nozione di « inimicizia grave », per la quale v. pure Cons. sup. magistratura, sez. disciplinare, 2 luglio 1982, Marrone, ibid., Ili, 515, con nota di richiami.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 14 gennaio 1984, n. 321; Pres. Bonelli, Est. Patierno, P. M. Martinelli

(conci, conf.); Tinghi (Avv. Spallina) c. Ditta Calzaturificio G. e N. (Avv. Fiore). Conferma App. Roma 13 luglio 1979.

Agenzia (contratto di) — Affari promossi dall'agente — Conclu sione — Mancata esecuzione — Diritto alla provvigione —

Limiti (Cod. civ., art. 1749, 2697).

L'agente non ha diritto alla provvigione per gli affari da lui

promossi e dal preponente conclusi ma non eseguiti se non

prova che si tratta di affari non andati a buon fine per colpa dello stesso preponente. (1)

Svolgimento del processo. — Con citazione del 30 luglio 1970,

Tinghi Wando premesso che, quale agente di commercio, aveva accettato l'incarico, a partire dal mese di aprile 1980, di svolgere la propria attività di agenzia con corrispondenza commerciale in

favore del Calzaturificio G. e N. di Guardiani e Nasini, con sede in Monte San Giusto (Macerata), per la vendita dei prodotti dello

stesso calzaturificio e con la provvigione del 6 % sugli affari; che a tutto il mese di giugno 1970 erano stati procurati affari per complessive lire 25.687.900; affari che quasi nella totalità erano

stati accettati e confermati dalla ditta preponente; che, approssi mandosi le previste date di consegna della merce, il calzaturificio

aveva, però, comunicato che non avrebbe dato esecuzione agli affari promossi, adducendo a motivo la pretesa insolvibilità dei

clienti; che, a causa di tale illegittimo comportamento, esso Tin

ghi era costretto a recedere dal mandato e a richiedere in via

giudiziaria il pagamento di quanto dovutogli; che a titolo di

provvigioni, di indennità sostitutiva di preavviso nonché di inden

nità di risoluzione del rapporto, gli spettava la complessiva somma

di lire 3.029.280 oltre i danni ed i contributi previdenziali, questi ultimi da versarsi all'E.n.a.s.a.r.c.o.; tanto premesso, con

veniva, davanti al Tribunale di Roma, la ditta Calzaturificio G. e

N. di Guardiani e Nasini, in persona del titolare e legale

rappresentante pro tempore, per sentirla condannare al pagamento, in suo favore, della suddetta somma di lire 3.029.280, o di altra

maggiore o minore ritenuta di giustizia, oltre interessi legali, risarcimento danni da liquidarsi in via equitativa e declaratoria

dell'obbligo del versamento dei contributi previdenziali al

l'E.n.a.s.a.r.c.o. Instauratosi il contraddittorio, la ditta convenuta

rimaneva contumace. Dopo la acquisizione di documenti, il tribu nale con sentenza 24 novembre 1971 - 5 aprile 1972 rigettava tut

le domande dell'attore, osservando che lo stesso non aveva

provato, cosi come era suo onere, quali fossero gli affari

promossi e quale fosse il loro rispettivo importo. Contro la

sentenza il Tinghi proponeva appello, instando per il riconosci

mento dei suoi diritti. La ditta, costituitasi, resisteva al gravame. Ammesso ed espletato giuramento decisorio deferito dal Tinghi al

calzaturificio, la Corte d'appello di Roma, sezione lavoro, con

sentenza 13 luglio 1979 rigettava il gravame avverso la sentenza

impugnata, condannando l'appellante al pagamento delle spese del

giudizio di secondo grado. La corte d'appello osservava in motivazione che il Tinghi per

avere diritto alla provvigione sugli affari da lui promossi avrebbe

dovuto dimostrare la regolare esecuzione degli affari ovvero che

gli stessi non avevano avuto esecuzione per causa imputabile al

preponente. Nella specie, poiché era risultato che il calzaturificio

pur avendo accettato gli ordini che gli erano stati trasmessi dal

Tinghi non aveva effettuato la consegna della merce ordinata, si

era verificata l'ipotesi dell'affare non andato a buon fine, nel qual caso, siccome la legge pone a carico dell'agente il rischio della

mancata esecuzione dell'affare, la provvigione sarebbe spettata soltanto qualora la mancata esecuzione fosse dipesa dal comporta mento colposo dal preponente, del quale peraltro, in base al

principio della ripartizione dell'onere della prova, il Tinghi avreb

(1) In senso conforme la Cassazione si era già pronunciata per la

prima volta sulla questione inerente agli affari promossi, conclusi e non eseguiti, e al relativo onere probatorio, con sent. 16 novembre 1973, n. 3073, Foro it., 1974, I, 714, con nota di richiami. Al medesimo orientamento si uniformano tutte le successive decisioni

giurisprudenziali in materia: v. Cass. 17 gennaio 1975, n. 219, id., Rep. 1975, voce Agenzia (contratto) n. 27; 20 gennaio 1975, n. 238, ibid., n. 29; Trib. Milano 3 aprile 1978, id., Rep. 1979, voce cit., n. 13; Cass. 2 giugno 1980, n. 3601, id., Rep. 1980, voce cit., n. 29; 18 novembre 1980, n. 6149, ibid., n. 27; 6 marzo 1982, n. 1435, id., Rep. 1982, voce cit., n. 16; 15 aprile 1982, n. 2311, ibid., n. 17; 19 aprile 1983, n. 2698, id., Mass., 564; 26 ottobre 1983, n. 6323, ibid., 1286.

Sempre nello stesso senso in dottrina v. Formiggini, Il contratto di agenzia, in Trattato, diretto da Vassalli, Torino, 1958, 123 ss.; Ghezzi, Contratto di agenzia, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, 156-158; Baldi, Il contratto di agenzia ', Milano, 1981, 121 ss.

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