sezioni unite civili; sentenza 10 marzo 1997, n. 2131; Pres. La Torre, Est. Varrone, P.M.Amirante (concl. conf.); Inail (Avv. Tedesco, Varone) c. Maurizi e altra (Avv. Biondo, IsabellaValenzi), Barretta e altri. Conferma Trib. Roma 7 novembre 1995Source: Il Foro Italiano, Vol. 120, No. 6 (GIUGNO 1997), pp. 1841/1842-1847/1848Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23192022 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
quenze assegnabili e, comunque, nell'ambito di un intervento
che mostrò di voler estendere (art. 31) — e non mai restringere — le opportunità applicative della sanzione amministrativa deli
neata dalla legge del 1983. In sostanza, se è indubbio che la
tutela delle bande di frequenza riservate alla navigazione aerea
ed alla assistenza al volo ben riguardava — in termini di appli cabilità dei precetti e delle sanzioni — tutti gli esercenti di im pianti di radio-tele comunicazione ai sensi dell'art. 3 1. 110/83; e se è indubbio che tali esercenti (meramente autorizzati alla
proroga di fatto in base all'art. 3 d.l. 807/84 conv. in 1. 10/85)
erano, dunque, già esposti alla repressione amministrativa delle
menzionate violazioni alla vigilia della entrata in vigore della
legge del 1990; non può non rilevarsi come una disposizione
(l'art. 18, 3° comma) la cui finalità palese è quella di estendere
sfere di tutela debbasi interpretare nel senso che, da un canto, estende la sfera dei soggetti tutelati (aggiungendo le bande di
frequenza riservate alla polizia ed «agli altri servizi pubblici es
senziali») e, dall'altro, estende — e non certo restringe — la
sfera dei destinatari della strumentazione preventiva/repressiva
(la 1. 110/83) includendovi i «concessionari privati». E di qui la constatazione per la quale se il legislatore avesse inteso esclu
dere dal sistema sanzionatorio contestualmente richiamato (e con
testualmente esteso a nuovo bande di frequenza) la totalità de
gli esercenti (tutti i richiedenti la concessione dovendosi ritenere
«autorizzati», ai sensi dell'art. 32, 1° comma), ciò avrebbe do
vuto ragionevolmente fare in modo esplicito ed in ragione di
una ben precisa, e ponderata, «incompatibilità» del regime di
autorizzazione temporanea con la estensione della tutela (anche di quella apprestata per le radioemissioni delle forze di poli
zia!). E posto che tal esplicita esclusione è del tutto mancata
e che, di contro, si è in presenza di una previsione letteralmente
e razionalmente inclusiva della categoria dei «concessionari pri vati» (apprestata dalla stessa legge) ne discende, all'evidenza; che appare inconferente — contrariamente all'assunto di Tele
lombardia — che l'art. 18 sia o meno richiamato tra le norme
della 1. 223/90 dichiarate applicabili ai soggetti «autorizzati»,
l'applicazione stessa essendo, al contempo, generale e preesi stente con riguardo alla tutela di cui alla 1. 110/83 e per tutti
gli esercenti privati di impianti e nuove essendo, in forza della
disposizione in discorso, dimensioni e appartenenza delle fre
quenze assunte a tutela, cosiccome nuove sono — in forza delle
disposizioni contenute nei commi 8-9-10-11 dell'art. 31 — le
previsioni sulla «competenza», sul procedimento e sulla sanzio
ne dell'illecito amministrativo del richiamato art. 18.
Peraltro, e venendo all'esame delle altre disposizioni della legge del 1990, l'art. 33, pur intitolato «norme per i soggetti autoriz
zati», alla stregua del suo contenuto — dianzi sintetizzato —
non consente, come già affermato da questa-corte nella ridetta
sentenza 6255/96, di essere interpretato nel senso divisato dalla
ricorrente (ed apparentemente esplicitato dalla titolazione): in
fatti, se nel 1° comma sono indicate alcune disposizioni appli cabili ai soggetti «autorizzati» ed in relazione alle sanzioni di
cui agli art. 30 e 31, nel 2° comma sono elencate disposizioni la cui efficacia temporale è differita anche per i soggetti auto
rizzati, così implicitamente presupponendo, vieppiù in difetto di coordinamento logico con il 1° comma, che anche a questi ultimi siano applicabili le residue disposizioni (la cui estensione
non sia altrimenti, ed espressamente, esclusa). Ma non solo da
tal palese carenza di coordinamento è lecito argomentare nel
senso del modesto significato della mancata menzione dell'art.
18 nel 1° comma dell'art. 33 in esame. Ed invero, l'art. 33
all'atto di indicare i soggetti «autorizzati» ai quali rendere ap
plicabili le (sole) norme elencate al 1° comma, lungi dall'opera re puro e semplice rinvio alla definizione (affatto completa) di
soggetto autorizzato contenuta nel 1° comma del precedente art.
32, si premura di limitarne i contorni statuendo che la ridetta
applicazione sia riferita a quei soggetti di cui all'art. 32 che
eserciscano reti nazionali od emittenti locali quali definite dal
l'art. 3, 11° comma, e dall'art. 21, 3° comma (reti locali con
penetrazione di almeno il 70% del relativo bacino di utenza
e con eventuale diffusione in contemporanea per non oltre sei
ore). E ciò implica, all'evidenza, che il richiamo di specifiche norme correlato al requisito di specifica consistenza della emit
tente (appunto, nazionale o locale di «rilievo»), unitamente al
fatto che tutte le norme richiamate disciplinano oneri compati bili solo con la consistenza rilevante della emittente (l'art. 10
disciplina la regolamentazione dei telegiornali e dell'onere di ret
II Foro Italiano — 1997.
tifica; l'art. 11 regola le iniziative per garentire le pari opportu
nità; l'art. 13 prevede le comunicazioni al garante dei trasferi
menti proprietari; l'art. 14 disciplina la pubblicazione dei bilan ci, ecc.), attesti l'impossibilità di escludere la diretta applicazione delle norme che non presuppongono affatto la gestione di un
impianto, e su bacino, di rilevanti dimensioni. E non par minimamente dubbio il fatto che le norme — vec
chie e nuove — di riserva ai pubblici poteri o alla concessiona
ria pubblica di bande di frequenza e statuenti oneri di «non
interferenza» con le relative emissioni (e comminanti sanzioni
per la inosservanza), non appaiono in alcun modo correlate a
requisiti dimensionali dell'emittente e/o all'ampiezza delle sue
emissioni, trattandosi, esclusivamente, di modulare il proprio
segnale nei limiti assentiti (per i concessionari) o di fatto fruibili (per i c.d. «autorizzati»).
Ditalché, vuoi in base ad una corretta e sistematica lettura
dell'art. 18 della legge del 1990, vuoi in relazione ad una attenta
interpretazione delle disposizioni di cui agli art. 31-32-33 della
stessa legge, può conclusivamente affermarsi che a tutti i sog
getti «autorizzati» di cui all'art. 32 sia interamente applicabile il disposto dell'art. 3 1. 110/83 come novellato dagli art. 18, 3° comma, e 31, commi da 8 a 11, 1. n. 223 del 1990.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 10 mar
zo 1997, n. 2131; Pres. La Torre, Est. Varrone, P.M. Ado
rante (conci, conf.); Inail (Avv. Tedesco, Varone) c. Mau
rizi e altra (Avv. Biondo, Isabella Valenzi), Barretta e altri.
Conferma Trib. Roma 7 novembre 1995.
Locazione — Legge 392/78 — Immobili adibiti ad abitazione — Equo canone — Determinazione — Coefficiente tipologi co — Classamento catastale — Potere di disapplicazione del
giudice ordinario (L. 20 marzo 1865 n. 2248, ali. E, sul con
tenzioso amministrativo, art. 5; 1. 27 luglio 1978 n. 392, disci
plina delle locazioni di immobili urbani, art. 16).
Nella controversia tra il locatore ed il conduttore per la deter
minazione dell'equo canone, ai sensi degli art. 12 ss. I. 392/78, il giudice ordinario può disapplicare, con effetti limitati al caso concreto e ai soli fini della decisione sulla misura del
canone, l'atto di classamento dell'unità immobiliare operato dall'autorità amministrativa, ove lo ritenga non conforme al
la legge. (1)
(1) La pronunzia ribadisce un principio ormai da tempo consolidato, nel solco di Corte cost. 7 aprile 1983, n. 84 (Foro it., 1983, I, 1826, con nota di richiami di D. Piombo) e Cass., sez., un., 17 novembre
1984, n. 5845 (id., 1985, I, 768, con osservazioni di D. Piombo) e n. 5844 (id., Rep. 1984, voce Locazione, n. 348; annotata, tra gli altri, da R. Preden, in Giust. civ., 1985, I, 1131). Secondo queste ultime, il potere di disapplicazione del giudice ordinario sussiste anche qualora risultino «tutte le circostanze di fatto rilevanti per un diverso classa mento dell'immobile locato, in conseguenza di modificazioni intervenu te in esso e nell'assetto urbanistico, non ancora registrate in catasto...»; ma in realtà, a ben vedere, come ora le stesse sezioni unite puntualizza no con la sentenza in rassegna (e come, del resto, sostanzialmente già si osservava nell'annotare la citata Cass. 5845/84), in tale eventualità
(così come in altre, in cui l'atto amministrativo di classamento non esiste ovvero è il mutamento della destinazione d'uso che fa sorgere l'esigenza di attribuire all'immobile, ai soli effetti della locazione, una
tipologia catastale abitativa), «l'istituto della disapplicazione non ope ra», non potendo parlarsi di non conformità alla legge dell'atto ammi nistrativo di classamento.
In effetti, però, come si può ricavare sia dalla motivazione di Cass.
5845/84, cit., sia da successive pronunzie, il pensiero della corte di le
gittimità sembra nel senso che l'art. 16 1. 392/78 non attribuisca al classamento dell'unità immobiliare da parte dall'autorità amministrati va un valore «tassativo e vincolante» tra le parti del rapporto locativo,
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1843 PARTE PRIMA 1844
Svolgimento del processo. — Con ricorso ex art. 45 1. n. 392
del 1978 notificato il 27 settembre 1991 Maurizi Gabriella ed altri 137 inquilini di appartamenti di proprietà dell'Inail e siti in Roma, via Libero Leonardi n. 130, chiedevano al Pretore
di Roma che, previa disapplicazione del provvedimento ammi
nistrativo con il quale l'Ute aveva attribuito agli alloggi da essi
detenuti in locazione la categoria catastale A/2 (abitazione di
tipo civile), fosse dichiarato il coefficiente A/3 (abitazione di tipo economico) ai fini della determinazione dell'equo canone.
L'istituto si costituiva eccependo preliminarmente la carenza di
giurisdizione del giudice ordinario. Espletata c.t.u., l'adito pretore, con sentenza 3 novembre 1994,
accoglieva la domanda dei ricorrenti, dichiarando che con ri
guardo all'applicazione dell'equo canone, la tipologia catastale
doveva ritenersi A/3 e condannava il convenuto alla rifusione
delle spese giudiziali (ivi comprese le spettanze liquidate al c.t.u.).
Proponeva appello Inail ma nella resistenza dei summenzio
nati conduttori il Tribunale di Roma, con sentenza 7 novembre
1995, lo rigettava, condannando l'appellante alle spese del gra do ed affermando:
— che gli atti amministrativi inetrenti alla classificazione ca
tastale non hanno un valore tassativo e vincolante tra le parti di un rapporto di locazione;
— che nella specie gli inquilini avevano contestato gli atti
di classificazione, chiedendone la disapplicazione, previo accer
tamento incidentale della loro illegittimità; — che il giudice ordinario poteva determinare, in via inci
dentale ed al limitato fine del computo del canone, la categoria catastale da attribuire all'immobile in questione, senza che a
ciò fosse di ostacolo il mancato ricorso alla commissione tri
butaria; — che nella specie l'atto di classificazione catastale era ap
punto illegittimo, dovendo gli appartamenti, per le loro caratte
ristiche, evidenziate dalla consulenza tecnica, essere classificate
nella categoria A/3; — che l'applicabilità di tale categoria andava fatta risalire
fino al momento dell'entrata in vigore della 1. n. 392 del 1978.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso l'Inail, affidandolo a sei motivi. Hanno resistito soltanto 86 degi inti
mati, con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione. — Con il primo e quarto motivo, da
esaminare congiuntamente per la stretta connessione delle ri
spettive censure, l'istituto, denunciando la violazione e la falsa
applicazione degli art. 2 e 37 c.p.c. nonché il vizio della motiva
zione su un punto decisivo della controversia, in relazione al
l'art. 360, nn. 3 e 5, del codice di rito, da un lato ribadisce
l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario nella
presente controversia (primo motivo) e, dall'altro, contesta al
giudice dell'appello di avere disapplicato l'atto amministrativo
di accatastamento degli immobili a seguito di un'erronea lettura
delle sentenze delle supreme magistrature e, segnatamente, della
fondamentale sentenza n. 84 del 1983 della Corte costituzionale
(.Foro it., 1983, I, 1826, quarto motivo). La duplice censura non coglie nel segno. Il suddetto giudice,
rigettando l'analogo motivo di gravame, ha confermato la deci
ma soltanto un valore di «presunzione semplice» (suscettibile, quindi, di prova contraria) circa la qualità dell'immobile; il che consente al
giudice di discostarsene, allo specifico fine della determinazione del ca none di locazione, anche quando la mancanza di corrispondenza delle risultanze catastali alla situazione effettiva dell'immobile dipenda non
già da violazioni di legge o errori di apprezzamento della pubblica am
ministrazione, bensì da modificazioni sopravvenute (v. Cass. 7 aprile 1987, n. 3364, Foro it., Rep. 1987, voce cit., n. 326; 14 ottobre 1987, n. 7615, id., 1988, I, 1625, con nota di richiami; 15 marzo 1995, n.
3023, id., Rep. 1995, voce cit., n. 303). Con riferimento al caso in cui l'immobile non sia censito, v., nel
senso che il giudice ben può procedere incidenter tantum alla individua zione della sua tipologia catastale, ai fini dell'applicazione della norma tiva sul c.d. equo canone dettata dagli art. 12 ss. 1. 392/78, anche qua lora manchi l'accertamento dell'Ute previsto dall'art. 16, 2° comma, 1. 392/78 (che, come rileva la pronunzia in epigrafe, non ha valenza di atto amministrativo di classamento, come tale, suscettibile di disap plicazione, ma costituisce «atto atipico di classificazione per similari
tà...»), v., da ultimo, Cass. 20 settembre 1996, n. 8370, id., 1997, I, 530, con nota di richiami.
In tema di classamento catastale degli immobili, v. anche, in dottri
na, M. Annecchino, Beni culturali e benefici fiscali (nota a Cass. 19 novembre 1993, n. 11445), id., 1994, I, 3489.
Il Foro Italiano — 1997.
sione del pretore che, pervenuto alla corretta classificazione in
A/3 degli immobili de quibus, aveva accertato incidentalmente
la non conformità alla legge dell'accatastamento in A/2 com
piuto dall'amministrazione finanziaria, prescindendo dall'esisten
za di una controversia sulla legittimità dell'atto amministrativo
o del procedimento a suo tempo seguito dall'amministrazione
medesima; ed ha precisato che a fronte delle contestazioni dei
conduttori rilevatrici della difformità tra i dati catastali e l'ef
fettiva situazione di fatto, l'atto di classamento era stato, nel
caso concreto, disapplicato, in quanto viziato da eccesso di po tere e violazione di legge, rimanendo pero tale pronuncia limi
tata ai soli effetti della determinazione del canone.
Così statuendo il tribunale romano si è perfettamente unifor
mato, indicando con puntualità le più importanti sentenze, ad
un indirizzo giurisprudenziale, ormai pacifico, delle supreme ma
gistrature, che risale alla nota sentenza 7 aprile 1983, n. 84, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, 1° comma,
1. n. 392 del 1978, sollevata sul presupposto che, con riguardo alla tipologia dell'immobile quale coefficiente correttivo per il
calcolo dell'equo canone, la categoria catastale stabilita dall'uf
ficio finanziario sarebbe vincolante e non consentirebbe al con
duttore alcuna tutela giurisdizionale. Negando tale presuppo
sto, la corte ha ribadito il principio che l'accertamento fiscale,
trasferito in un procedimento tra privati avente necessariamente
carattere e contenuto diversi, è soggetto, per quanto concerne
la sua legittimità, all'apprezzamento del giudice al quale spetta la cognizione del diritto controverso (cfr., in particolare, nella
materia locatizia, le sentenze n. 132 del 1972, id., 1972, I, 2721;
n. 255 del 1976, id., 1976, I, 2745, e n. 56 del 1980, id., 1980, I, 2670). Ciò premesso, la corte ha affermato che dalla mancata
previsione, nella norma denunciata, di una specifica tutela giu
risdizionale, non poteva senz'altro dedursi che tale tutela fosse
esclusa, in ispregio del dettato costituzionale, ed indicava al
l'uopo due strumenti: la possibilità, anche da parte del condut
tore, di ricorrere alle commissioni tributarie ai sensi dell'art.
1, ultimo comma, d.p.r. n. 636 del 1972; il potere-dovere, co
munque spettante al giudice ordinario ex art. 5 1. n. 2248 del
1865, ali. E), nelle controversie fra privati, di accertare inciden
talmente la legittimità dell'atto amministrativo da cui deriva il
diritto dedotto in giudizio, legittimità nella cui nozione rientra
no pure le condizioni di fatto richieste dalla legge per l'emana
zione dell'atto nonché i meri accertamenti tecnici; con la conse
guenza che, in caso di accertata illegittimità (sia originaria che
sopravvenuta), l'accertamento catastale nessun effetto può espli care nel rapporto di locazione, ancorché la pronuncia giudiziale
possa valere esclusivamente nei limiti soggettivi ed oggettivi del
caso deciso, ai soli fini della determinazione del canone.
Nel solco di tale dictum le sezioni unite di questa corte hanno
compiuto un'ulteriore opera di chiarificazione e di approfondi
mento, riconoscendo, da un lato, la possibilità di contestare
la classificazione catastale — per evidenti ragioni di simmetria
processuale e costituzionale — anche al locatore; dall'altro, l'im
praticabilità dell'impugnazione, da parte del conduttore, del
l'atto di «classamento» catastale davanti alle commissioni tri
butarie, trattandosi di soggetto estraneo al rapporto tributario
ed essendo attribuita, dalla vigente legislazione, la legittimazio ne ad agire davanti alle suddette commissióni soltanto al pro
prietario o titolare di altro diritto reale. Tuttavia restava salva
la possibilità alle parti del rapporto di locazione di contestare
il tipo, la classe e la categoria dell'unità immobiliare davanti
al giudice competente a provvedere sui diritti soggettivi contro
versi tra le stesse parti, chiedendo a tale giudice la disapplica zione dell'atto amministrativo secondo i principi generali del
l'ordinamento, con effetti limitati al caso concreto dedotto in
giudizio ed ai soli fini della controversia insorta in ordine alla
determinazione dell'equo canone (Cass., sez. un., 17 novembre
1984, n. 5844, id., Rep. 1984, voce Locazione, n. 348). A que sto indirizzo si è uniformata costantentemente la successiva giuris
prudenza di legittimità, precisando che la disapplicazione del
l'atto di classamento illegittimo non trova ostacolo nel mancato
ricorso, ove configurabile, alla commissione tributaria avverso
il classamento stesso (da ultimo, ex plurimis, Cass. 13 maggio
1995, n. 5274, id., Rep. 1995, voce cit., n. 302). Orbene, questo essendo lo stadio attuale dello sviluppo giuris
prudenziale, il discorso può peraltro arricchirsi con due ulterio
ri osservazioni. La prima è che il complesso delle controversie
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
relative alla categoria catastale dell'immobile locato non sempre
può risolversi con lo strumento della disapplicazione dell'atto
amministrativo di classamento. Infatti, accanto all'ipotesi tipica dell'atto compiuto ai fini fiscali e viziato per erronea applica zione delle norme sulla classificazione e/o per erroneo apprez zamento dei presupposti di fatto rilevanti (ipotesi alla quale si
riferisce l'art. 16, 1° comma, 1. n. 392 del 1978, cit.), esistono
altre eventualità per le quali l'istituto della disapplicazione non
opera, vuoi perché non esiste un atto amministrativo (ma quel l'atto atipico di classificazione per similarità effettuato dall'Ute
ai sensi dell'art. 16, 2° comma, 1. cit. per gli immobili non censiti, riguardo al quale la dottrina parla di un'attività di «con
sulenza informale» da parte dell'ufficio), ovvero esiste ma è
conforme a legge, atteso che la valutazione di tale conformità
deve essere compiuta con riferimento alla situazione di diritto
e di fatto esistente al momento in cui l'atto stesso è stato ema
nato (da ultimo, Cons. Stato 29 maggio 1995, n. 381, id., Rep.
1995, voce Giustizia amministrativa, n. 879). Sono le ipotesi di non corrispondenza tra la qualificazione originariamente at
tribuita ai fini fiscali e le attuali caratteristiche dell'immobile, determinate però da modificazioni successive, in meglio od in
peggio, dell'immobile in sé o del contesto urbanistico; ovvero
della necessità di determinare, ai soli effetti locatizi, la tipologia catastale da attribuire ad un immobile classificato correttamen
te come ufficio (A/10), a seguito del consolidamento del muta
mento della destinazione d'uso, da non abitativa ad abitativa, alla stregua del principio generale di cui all'art. 80, 2° comma, 1. n. 392 del 1978.
Chiarito quanto innanzi, è agevole rilevare che, nella specie, ben ha fatto il tribunale romano ad utilizzare lo strumento della
disapplicazione; infatti, trattandosi di costruzioni ultimate nel
biennio 1985/86 ed accatastate nel biennio successivo (1987/1988) — come lo stesso Inail aferma nel ricorso — poiché la c.t.u.
è stata espletata soltanto qualche anno dopo e non risultano
intervenuti mutamenti sostanziali nelle condizioni degli immo
bili (come rilevano già dalla sentenza pretorile, non impugnata sul punto), deve ritenersi (come si vedrà meglio nell'esame del
quinto motivo) che gli atti di classificazione siano dipesi da un'er
ronea valutazione delle caratteristiche delle varie unità; si trat
ta, pertanto, del caso tipico dell'accertamento incidentale del
l'illegittimità dell'atto amministrativo di classamento, al fine della
sua disapplicazione, con la correlata facoltà per il giudice ordi
nario di accertare l'effettiva categoria catastale ai soli fini locatizi.
In secondo luogo è opportuno approfondire i caratteri del
l'atto amministrativo disapplicato. Com'è noto deve trattarsi
di atti amministrativi «non conformi alle leggi» (art 5 1. n. 2248
del 1865, ali. E) e questa formula, dopo un'iniziale limitazione
al vizio della violazione di legge (ormai pacificamente conside
rato un vizio residuale), è stata estesa fino a ricomprendere an
che il vizio di eccesso di potere. Ora l'atto di classificazione illegittimo per un'erronea valuta
zione delle caratteristiche dell'immobile è atto che viola non
tanto norme di legge (gli art. 11 ss. r.d.l. 13 aprile 1939 n.
652, convertito nella 1. 11 agosto 1939 n. 1249. modificata suc cessivamente con d.leg. 8 aprile 1949 n. 514, nonché 61 ss. d.p.r. 1° dicembre 1949 n. 1142 di approvazione del regolamento per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano) quanto i crite
ri di massima seguiti per l'attribuzione della categoria e della
classe alle unità immobiliari urbane, quei criteri, cioè, che indi
cano le caratteristiche alla stregua delle quali, nell'ambito della
stessa categoria (abitazione/A) vengono distinte le diverse sot
tocategorie (A/1: tipo signorile; A/2: tipo civile; A/3: tipo eco
nomico; ecc.). Trattasi di norme interne, direttive ed istruzioni
di carattere precettivo dettate dall'amministrazione finanziaria
ai propri uffici (nella specie, all'Ute) contenute in atti di varia denominazione (circolari, ordinanze, istruzioni, ecc.), la cui vio
lazione da parte degli uffici può costituire una tipica figura sin tomatica di quel caratteristico vizio funzionale dell'atto ammi
nistrativo denominato appunto eccesso di potere. E sotto que sto profilo correttamente il giudice del merito, rilevata la
difformità tra le condizioni effettive degli immobili e la loro classificazione catastale, ha provveduto a disapplicare quest'ul
tima, lucidamente prospettando — come sopra ricordato — an
che la configurabilità, nell'atto dell'amministrazione fiscale, del
vizio di eccesso di potere, in quanto difforme dai criteri di rife rimento di massima, contenuti in una circolare interna, alla quale
Il Foro Italiano — 1997.
si attiene l'Ute di Roma nell'assegnazione della categoria ca
tastale.
Concludendo, il primo ed il quarto motivo vanno rigettati. Con il secondo mezzo il ricorrente, denunciando la violazione
e la falsa applicazione degli art. 99 e 102 c.p.c. nonché l'omessa
motivazione sul punto decisivo della controversia attinente al
l'integrità del contraddittorio (il tutto in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, del codice di rito), lamenta che non sia stata ricono
sciuta all'amministrazione finanziaria la qualità di litisconsorte
necessario, con la conseguente necessità di integrare il contrad
dittorio nei suoi confronti. La doglianza non ha pregio. Un volta chiarito che l'accerta
mento incidentale di illegittimità dell'atto amministrativo di clas sificazione effettuato dal giudice ha una portata limitata alle
parti private ed al rapporto di locazione dedotto in giudizio, ne consegue che tale atto rimane pienamente valido ed efficace
nel rapporto tributario fra il proprietario-contribuente e l'am
ministrazione finanziaria che, pertanto, resta estranea alla con
troversia privatistica, alla quale non deve partecipare. Anche il secondo mezzo viene rigettato. Con il terzo motivo l'Inail, denunciando la violazione e la
falsa applicazione dell'art. 11 1. 8 agosto 1992 n. 359 anche
sotto il profilo dell'omessa motivazione su altro punto decisivo
della controversia, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., lamenta che il giudice del gravame non abbia tenuto conto del
l'intervenuta sostanziale modifica della normativa sull'equo ca
none costituita dall'introduzione dei c.d. «patti in deroga» (cioè della possibilità, a certe condizioni e modalità, di stipulare, con tratti di locazione abitativa in deroga alle norme della 1. n. 392
del 1978), nonché della c.d. circolare Cristofori (dal nome del
ministro proponente al consiglio dei ministri del 27 novembre
1992 che l'approvò), volta a disciplinare, nelle locazioni stipula te dagli enti previdenziali, un trapasso meno brusco alla libera
contrattazione. La doglianza è stata esposta più diffusamente
nella memoria, arrivando a chiedere la declaratoria di cessazio
ne della materia del contendere per quegli inquilini (peraltro
neppure indicati) che, sottoscrivendo dei patti in deroga, avreb
bero tacitamente rinunciato alla domanda.
Trattasi di una tematica affatto nuova, non dedotta nei pre cedenti gradi e che, pertanto, deve essere dichiarata inammissi
bile. Non è superfluo aggiungere che l'eventuale stipulazione di nuovi contratti in deroga (dei quali comunque si disconosco
no le parti e le modalità) non potrebbe valere che per l'avveni
re, senza incidere sui rapporti precedenti Con il quinto motivo l'Inail, denunciando la violazione e la
falsa applicazione degli art. 61, 62, 115, 116 e 196 c.p.c. nonché
il vizio della motivazione sul punto decisivo della controversia
relativo alla classificazione degli immobili nella categoria A/3 (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.), nella sostanza critica il giudice del
l'appello per avere proceduto, sulla scorta delle risultanze della
c.t.u., a tale dequalificazione, senza adeguata giustificazione e
malgrado il contrario accertamento dell'Ute.
Neppure questa censura coglie nel segno. Essa si infrange con
tro l'apprezzamento del suddetto giudice il quale ha condiviso le conclusioni della consulenza in modo consapevole e critico, con ampia ed argomentata motivazione, rilevando che il c.t.u.
aveva effettuato un accurato esame del complesso del fabbrica
to anche in relazione al quartiere (Cinecittà, posta alla periferia est di Roma), nonché dei singoli alloggi e delle loro caratteristi
che costruttive, evidenziandone le caratteristiche più rilevanti:
numero delle scale, dislocazione degli appartamenti, composi zione e superficie dei medesimi, maiolicatura ed ampiezza dei
servizi, sanitari e rubinetterie di tipo commerciale, pavimenta zione in piastrelle di monocottura, rivestimenti in comune carta
da parati, soffitti tinteggiati a tempera, porte cosiddette da can
tiere, infissi di alluminio anodizzato e modeste dimensioni dei balconi. Tutti elementi, manifestati anche visivamente dall'am
pia documentazione fotografica acquisita, tali da indurre il tri
bunale ad attribuire la classificazione in A/3, trattandosi di co
struzioni, ancorché edificate di recente, che rientrano «nella sfera
dell'edilizia a carattere prettamente intensivo, dove si è badato
principalmente al massimo sfruttamento degli spazi in funzione
di un miglior rendimento sia economico che strutturale». E ad
ulteriore e definitivo conforto di questa conclusione, ha sottoli
neato che lo stesso Ute, autore dell'originaria classificazione in
A/2, rispondendo alla richiesta di valutazione provvisoria avan
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1847 PARTE PRIMA 1848
zata dal c.t.u nel corso delle operazioni peritali, su accordo del
le parti, ha espresso parere per la classificazione in A/3.
Trattasi di motivazione priva di errori giuridici e che, sotto
il profilo logico, raggiunge un grado di completezza e di per suasività da renderla incensurabile in Cassazione.
Il quinto motivo va, pertanto, rigettato. Resta da esaminare il sesto mezzo con il quale l'Inail, denun
ciando la violazione e la falsa applicazione degli art. 112 e 113
c.p.c., contesta anche sotto il profilo motivazionale l'afferma
zione dell'impugnata sentenza secondo la quale l'applicabilità della categoria A/3 va fatta risalire al momento dell'entrata in
vigore della 1. n. 392 del 1978 (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.). La censura è inammissibile. Infatti, ancorché la contestata
affermazione sia erronea (in quanto trattasi di edifici ultimati
diversi anni dopo l'entrata in vigore della legge citata e, inoltre,
perché gli effetti della tipologia catastale vanno fatti risalire al
momento della sussistenza delle relative condizioni dell'immo
bile, indipendentemente dalla pronuncia degli organi competen
ti: Cass. 5 luglio 1984, n. 3926, id., 1984, I, 2758), tuttavia essa non ha valore decisivo nella trama argomentativa della sen
tenza dal momento che — come la stessa sentenza comunque
rileva — «la domanda di restituzione delle somme per canoni
corrisposti in misura superiore al dovuto risulta abbandonata
dai ricorrenti nel corso del giudizio pretorile». Pertanto l'Inail
non ha più interesse ad una pronuncia al riguardo. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 7 marzo
1997, n. 2091; Pres. Corda, Est. Macioce, P.M. Buonajuto
(conci, diff.); Comune di Genova (Avv. E. Romanelli, Na
poli) c. Orecchia e altri (Avv. Prosperi, Vigotti). Cassa App. Genova 5 ottobre 1993.
Espropriazione per pubblico interesse — Cessione volontaria del
l'area — Contratto di diritto pubblico — Nullità della clauso
la determinativa del prezzo — Sostituzione automatica con
il vigente parametro legale d'indennizzo (Cod. civ., art. 1419;
1. 25 giugno 1865 n. 2359, espropriazioni per causa di pubbli ca utilità, art. 39; 1. 22 ottobre 1971 n. 865, programmi e
coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica, norme sul
l'espropriazione per pubblica utilità, modifiche ed integrazio ni delle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n. 167,
29 settembre 1964 n. 847 ed autorizzazione di spesa per inter
venti straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevo lata e convenzionata, art. 12).
Espropriazione per pubblico interesse — Cessione volontaria del
l'area — Parametro legale di fissazione del prezzo — Norma
tiva sopravvenuta — Giudizio avanti alla Corte di cassazione — Applicabilità — Limiti (L. 25 giugno 1865 n. 2359, art. 39; d. 1. 11 luglio 1992 n. 333, misure urgenti per il risana
mento della finanza pubblica, art. 5 bis; 1. 8 agosto 1992 n.
359, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 11 lu
glio 1992 n. 333, art. 1; 1. 28 dicembre 1995 n. 549, misure
di razionalizzazione della finanza pubblica, art. 1, 65° comma).
L'accordo di cessione volontaria dell'immobile espropriando va
dichiarato parzialmente nullo con sostituzione automatica con
il criterio di ragguaglio ricavato dal vigente parametro legale
d'indennizzo nel caso in cui sia utilizzato un parametro di
fissazione del prezzo già invalidato dalla Corte costitu
zionale. (1)
(1-3) I. - Le due pronunce affrontano, seguendo diversi criteri risolu
tori, un medesimo problema applicativo, dato dalla necessità d'indivi
II Foro Italiano — 1997.
Il nuovo parametro di valutazione dell'indennizzo espropriativo introdotto dall'art. 5 bis /. 359/92, sulla cui base va determi
nato il prezzo di cessione volontaria dell'area espropriando, è applicabile, quale ius superveniens, anche ai giudizi penden ti avanti alla Corte di cassazione, qualora i motivi di ricorso
investano direttamente la legge regolatrice dell'indennizzo. (2)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 29 gen naio 1997, n. 922; Pres. Senofonte, Est. Proto, P.M. Mac
carone (conci, conf.); Comune di Latina (Avv. Di Maio,
Minà) c. Petrillo e altri (Avv. Tamburini). Conferma App. Roma 3 agosto 1992.
Espropriazione per pubblico interesse — Cessione volontaria del
l'area — Revoca della proposta prima della ricezione dell'ac
cettazione — Ammissibilità (Cod. civ., art. 1328; 1. 22 otto
bre 1971 n. 865, art. 12; d.l. 2 maggio 1974 n. 115, norme
per accelerare i programmi di edilizia residenziale, art. 6; 1.
27 giugno 1974 n. 247, conversione in legge, con modificazio
ni, del d.l. 2 maggio 1974 n. 115; d.l. 11 luglio 1992 n. 333, art. 5 bis; 1. 8 agosto 1992 n. 359, art. 1).
Alla cessione volontaria dell'area espropriando ex art. 12 l.
865/71 sono applicabili i principi civilistici che regolano la conclusione del contratto, in particolare il principio della re
vocabilità della proposta fino alla ricezione dell'accettazione,
a nulla rilevando che ex lege è configurabile un diritto del
privato alla stipulazione, in quanto il trasferimento della pro
prietà del bene opera solo con la formazione del consenso
unanime, e non con la manifestazione della volontà del priva to di addivenire alla cessione. (3)
duare una disciplina giuridica alla cessione volontaria delle aree espro
priande ex art. 12 1. 865/71. Nella prima sentenza, l'inquadramento dell'accordo de quo nella ca
tegoria dei negozi di diritto pubblico fornisce uno strumento logico
giuridico risolutivo, perché consente di qualificare come inderogabili le disposizioni di legge regolatrici e rende pertanto applicabile l'art. 1419
c.c. ogni volta in cui esse risultino violate.
Nella seconda sentenza invece i principi civilistici che regolano la con
clusione del contratto (in particolare quello della revocabilità della pro
posta fino a quando la sua accettazione non sia pervenuta a cognizione del proponente) sono a priori ritenuti applicabili alla cessione de qua,
indipendentemente dall'inquadramento della figura nella categoria dei
contratti di diritto pubblico o in quelli di diritto privato, in considera
zione del fatto che il legislatore ha comunque voluto sostituire all'inter
vento autoritativo uno strumento di carattere negoziale. Si consideri che la giurisprudenza ha escluso l'incidenza della norma
tiva introdotta dalla 1. 241/90 (c.d. legge generale sul procedimento amministrativo) sulla disciplina della cessione volontaria delle aree. Il
problema si è posto con riguardo all'art. 11 1. cit., ove, rchiamando
la possibilità per l'amministrazione procedente di concludere accordi
sostitutivi di provvedimenti, nei casi già previsti dalla legge, si assogget tano questi ultimi ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili, riservando alla giurisdizione ammini strativa del giudice amministrativo le controversie in materia di forma
zione, conclusione ed esecuzione dei medesimi.
Qualificando come accordo sostitutivo, ai sensi del cit. art. 11, anche la cessione volontaria dei beni espropriandi, si sarebbero automatica mente risolti i problemi applicativi affrontati dalle sentenze in epigrafe. Ma la Corte di cassazione (sez. un. 4 novembre 1994, n. 9130, Foro
it., Rep. 1995, voce Espropriazione per p.i., n. 175) ha espressamente
negato l'applicabilità della disposizione cit. alla figura de qua, fondan
do tale decisione sul principio di specialità che regola il settore dell'e
spropriazione: il procedimento espropriativo ha connotati tali, e soddi sfa esigenze tali, da non tollerare commistioni con la disciplina generale sul procedimento amministrativo. La cessione volontaria è considerata come un modo tipico di chiusura del procedimento espropriativo, e non come un accordo sostitutivo del medesimo, in quanto essa è rigorosa mente predeterminata ex lege per modalità e contenuti, mentre i veri accordi sostitutivi son liberi non solo nell'an, ma anche nel quomodo.
II. - Non si rinvengono precedenti editi in ordine alla revocabilità della proposta, ai sensi dell'art. 1328 c.c., nel corso della trattativa per la cessione volontaria delle aree da espropriare. Cfr. però Tar Toscana 22 maggio 1987, n. 437, id., Rep. 1987, voce cit., n. 208, ove la cessio ne de qua viene inserita in un contesto precontrattuale che determina,
per l'amministrazione che vi abbia aderito, l'obbligo di comportarsi se condo buona fede: tale obbligo impedisce di emanare il decreto di espro prio senza aver preventivamente accertato l'effettiva intenzione dei sog
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