Sezioni unite civili; sentenza 11 aprile 1964, n. 849; Pres. Celentano P., Est. Modigliani, P. M.Tavolaro (concl. conf.); I.n.p.s. (Avv. Nardone) c. Degan (Avv. Bussi)Source: Il Foro Italiano, Vol. 87, No. 5 (1964), pp. 927/928-931/932Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23155061 .
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927 PARTE PRIMA 928
stato soggetto all'annullamento e come tale non sarebbe stato idoneo a consentire la usucapione nel termine ab breviato.
Questa Corte suprema ha avuto già occasione di pre cisare, qui si conferma, che l'usucapione abbreviata è pos sibile solo se l'inidoneità del titolo derivi dal fatto che l'alienante ha disposto di un immobile altrui ; in tutti gli altri casi di invalidità od inefficacia del titolo l'usucapione si compie soltanto con il decorso del termine ordinario.
Invero il trasferimento da parte del rappresentante senza poteri, o privo della necessaria autorizzazione, dando vita ad un negozio annullabile, come tale non idoneo a tra
sferire la proprietà, non consente l'applicazione della regola circa l'acquisto a non domino ; perchè la rappresentanza senza poteri implica la irrilevanza come « negozio » del
negozio compiuto, non potendosi ritenere obbligata nè la
persona del rappresentato, mancando la sua autorizza
zione, nè quella del rappresentante, in quanto avendo questi
speso il nome altrui ha dimostrato con ciò di non contrarre in proprio (sent. n. 2974 del 1955, Foro it., Rep. 1955, voce Mandato, nn. 50-52 ; n. 1060 del 1960, id., 1960,1, 723).
Fermo quindi che il titolo di acquisto, riguardato nel
suo contenuto oggettivo tra le parti contraenti (non do
minila, terzo acquirente possessore), lasciava fuori ogni ipotesi di invalidità (donde la ritenuta buona fede del
l'acquirente riscontrata appunto in relazione al titolo
stesso), a ragione il tribunale ha considerato che il caso di specie ipotizzava la fattispecie tipica dell'acquisto a non domino in quanto l'alienante affermava insincera
mente di essere lui stesso proprietario del bene oggetto di contestazione.
Infatti nel sistema dell'usucapione abbreviata il dominus è ovviamente estraneo al negozio che pur interessa così sensibilmente il suo patrimonio, e il negozio stesso nei
riguardi di esso dominus costituisce un mero fatto che per virtù di legge può essere produttivo di effetti giuridici (quali appunto quelli conducenti all'usucapione da parte del terzo possessore che ha acquistato a non domino) ; sicché non vi è ostacolo ad ammettere che la posizione del legale rappresentante del minore che venda un immobile
a quest'ultimo appartenente, ma lo venda a nome proprio, e non nella qualità, sia identica, ai fini dell'usucapione decennale, a quella, di chi vende un immobile altrui senza alcun collegamento negoziale con il suo proprietario. An
che nel caso della vendita del bene del minore è certo che l'inidoneità del titolo deriva esclusivamente dal fatto che l'alienante ha disposto di un immobile altrui, e ricorre
quindi precisamente l'ipotesi prevista dall'art. 1159 cod. civ. secondo cui il solo vizio sanato (del titolo) è quello della non appartenenza della cosa all'alienante medesimo.
L'usucapione abbreviata vuole essere sostanzialmente una tutela del possesso di buona fede e ciò è dimostrato dalla collocazione delle relative norme nel capo che regola gli effetti del possesso. L'ordinamento giuridico, nel con corso di determinati presupposti, protegge l'acquisto del terzo per effetto del possesso continuato in conformità al
titolo, nonostante la carenza di legittimazione dell'alie
nante, con conseguente implicito sacrificio del diritto del dominus.
Inoltre è da aggiungere che, ai fini dell'usucapione decennale, in caso di acquisto a non domino, il requisito dell'esistenza di un titolo che sia idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, e che sia
stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il
titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a deter minare il trasferimento (o la costituzione) del diritto reale, ossia tale che l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare (sent. n. 1307 del 1960, Foro it., Rep. 1960, voce Usucapione, nn. 20, 21). E nella fattispecie concreta non è infatti da dubitare che se il Longo Domenico fosse stato titolare del bene, che era invece di proprietà aliena (ossia dei minori suoi figli), l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro verificato.
Nè può dirsi, come sostengono i ricorrenti, che con l'ammettere il tribunale la possibilità, nel caso concreto,
di un valido compiersi dell'usucapione decennale in danno
del dominus (minore) sarebbero rimaste praticamente in
difese le ragioni del minore stesso, in quanto proprio quegli che avrebbe dovuto agire (il padre) a tutela di dette ragioni era l'autore del negozio da impugnare.
Al riguardo è da rilevare che il padre è il legittimo
rappresentante dei figli minori e l'ordinamento giuridico
appresta adeguati rimedi quando il genitore viola o tra
scura i suoi specifici doveri (decadenza della patria po
testà, rimozione dell'amministrazione, nomina di un cura
tore speciale in caso di conflitto d'interessi) ; sicché, alla
stregua del vigente ordinamento positivo, fin quando il
padre conserva la sua qualità di legittimo rappresentante dei figli minori non sussistono impedimenti al verificarsi
della usucapione abbreviata da parte di terzi possessori sui beni dei minori stessi. L'impedimento, per il combinato
disposto degli art. 1165, 1166 e 2942 cod. civ., sorge sol
tanto per il tempo in cui i minori non hanno rappresen tante legale.
In effetti ai sensi dell'art. 1166 cod. civ. nell'usucapione ventennale non si applicano le cause di sospensione indi
cate nell'art. 2942 ; quindi esse si applicano nell'usuca
pione decennale (sent. 1737 del 1962, Foro it., 1963, I, 191). E tra le cause di sospensione della prescrizione (e della
usucapione abbreviata) dipendenti dalla condizione del
titolare del diritto è appunto prevista, come già detto,
l'ipotesi dei minori non emancipati, ma unicamente per il tempo in cui costoro non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo o alla
cessazione dell'incapacità (relazione al cod. civ. n. 1202). Ora, nella fattispecie concreta, il rappresentante legale,
e cioè il padre esercente la patria potestà, c'è sempre stato, è perciò non si è verificata alcuna sospensione, a norma del
codice vigente. È da tener presente, è vero, che la vendita in oggetto
avvenne nel 1933 e che da tale data ebbe inizio il pos sesso dell'acquirente. Ma tale circostanza non può indurre
a soluzione diversa da quella adottata dai giudici di merito.
Sotto l'impero del codice del 1865 vi era una disposizione simile a quella dell'art. 1166 innanzi richiamato circa
l'inefficacia delle cause di impedimento e di sospensione
rispetto al terzo possessore (art. 2121) ; peraltro l'usuca
pione abbreviata era sospesa nei riguardi dei minori non
emancipati, a prescindere dal fatto che essi avessero o non
un rappresentante legale (art. 2120). Quindi nella specie si ebbe sospensione dell'usucapione fino al 21 aprile 1942, data di entrata in vigore del nuovo codice ; non però suc
cessivamente perchè, ai sensi dell'art. 247 disp. trans,
cod. civ., quella causa di sospensione (ossia la sospensione della prescrizione o dell'usucapione abbreviata quando i
minori non emancipati hanno un rappresentante legale), non più ammessa dalla nuova legge, cessò di avere effetto. E poiché dal 21 aprile 1942 alla data della citazione (15 febbraio 1957) sono decorsi più di dieci anni, l'usucapione si è verificata.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato e al rigetto
consegue la perdita del deposito. Si ravvisa giusto compen sare dalle parti le spese in questo giudizio di cassazione.
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezioni unite civili ; sentenza 11 aprile 1964, n. 849 ; Pres.
Celentano P., Est. Modigliani, P. M. Tavolarci (conci, conf.) ; I.n.p.s. (Avv. Nardone) c. Degan (Avv. Bussi).
(Conferma App. Venezia 3 agosto 1961)
Previdenza sociale — Assegni familiari — Ricorso
amministrativo — Silenzio del ministero del la voro — Azione «(indiziaria —- Proponibilità (Cod.
proo. civ., art. 460 ; r. d. 1. 4 ottobre 1935 n. 1827, sulla previdenza sociale, art. 97, 98, 99 ; r. d. 21 luglio 1937 n. 1239, norme integrative per l'attuazione del
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929 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 930
r. d. 1. 17 giugno 1937 n. 1048, art. 10; d. pres. 30
maggio 1955 n. 797, t. u. sugli assegni familiari, art. 55,
57, 58).
Nelle controversie per la corresponsione di assegni familiari l'interessato può proporre la domanda dinanzi al giudice ordinario dopo l'inutile decorso del termine di novanta
giorni dalla proposizione del ricorso amministrativo. (1)
La Corte, ecc. — Con l'unico mezzo di annullamento
l'istituto ricorrente denunzia la violazione e la falsa appli cazione dell'art. 58 del t. u., approvato con decreto pres. 30 maggio 1955 n. 797 e degli art. 98 e 99 del r. decreto
legge 4 ottobre 1935 n. 1827, nel testo modificato della
legge 5 febbraio 1937 n. 8, in relazione all'art. 460 cod.
proc. civ. In proposito deduce che, in tema di previdenza sociale, la disciplina del contenzioso di cui agli art. 97, 98 e 99 del r. decreto legge 4 ottobre 1935 n. 1827, non
ha portata generale, ma è. stata dettata con riguardo alla
materia prevista nello stesso decreto (invalidità, vecchiaia,
tubercolosi, disoccupazione volontaria, maternità) e non è
applicabile ad altri istituti, contemplati dalla legge che
regolano ex professo ed in modo autonomo la materia, tra
i quali vanno annoverate le norme sugli assegni familiari.
Indi deduce che il richiamo contenuto nell'art. 58 del t. u.
approvato con decreto pres. n. 797 del 1955 al titolo V
del decreto n. 1827 del 1935 non attiene alle condizioni di
proponibilità dell'azione giudiziale e che, conseguentemente, in materia di assegni familiari, non può trovare applica zione la norma per la quale, trascorso il termine di novanta
giorni dalla proposizione del ricorso senza che sia stata
pronunciata la decisione amministrativa, l'interessato ha
la facoltà di adire l'autorità giudiziaria. La censura ripropone a questo Supremo collegio la que
stione se, in materia di assegni familiari, la domanda giudi ziale sia proponibile prima che il ministero del lavoro abbia
deciso sul ricorso amministrativo e dopo che sia trascorso
il termine di novanta giorni dalla presentazione del ricorso, stabilito dall'art. 98 del r. decreto n. 1827 del 1935.
In varie decisioni (tra le altre le sentenze n. 2269 del
1959, Foro it., Rep. 1959, voce Previdenza sociale, nn. 762
765 ; n. 2072 del 1962, id., 1963, I, 636 ; n. 3165 del 1962,
id., Rep. 1962, voce cit., nn. 743-746 ; n. 952 del 1963, id.,
Rep. 1963, voce cit., n. 512) questa Suprema corte ha rite
nuto che il richiamo dell'ult. comma dell'art. 58 del t. u.
delle norme concernenti gli assegni familiari (decreto pres. 30 maggio n. 797), il quale dispone che « per la decisione
dei ricorsi in materia di corresponsione di assegni familiari
si osservano le disposizioni di cui al titolo V del decreto
n. 1827 del 1935 », deve intendersi fatto con riferimento
alle sole disposizioni di carattere processuale, quali per
esempio quelle relative all'organo competente e alle forme
del procedimento, e non anche a quelle relative all'esercizio
dell'azione giudiziaria, che toccano profili di diritto sostan
ziale. Conseguentemente, ha escluso che il detto richiamo
possa comprendere la norma dell'art. 98 (contenuta nel citato titolo V del decreto n. 1827 del 1935), secondo cui può essere adita l'autorità giudiziaria quando siano trascorsi
novanta giorni dalla data del ricorso amministrativo senza
che sia intervenuta la decisione del ministero. In proposito ha osservato che quest'ultima disposizione riguarda, ap
punto, l'esperibilità dell'azione giudiziaria ed il relativo
termine e, quindi, un profilo di diritto sostanziale.
(1) Noi contrasto giurisprudenziale delle sezioni semplici, le
Sezioni unite prendono posizione a favore del più recente orienta
mento, segnato da Cass. 12 dicembre 11(63, n. 3142, retro, 48, con ampia nota di richiami.
Le Sezioni unite non esaminano l'ulteriore problema del decorso del termine di decadenza per l'azione giudiziaria (e, nella
parte finale della motivazione, si spiega come la questione non
rilevasse ai fini del decidere) ; mentre la sentenza n. 3142 del
1963, appena citata, precisa, in motivazione, che in caso di si
lenzio-rigetto, all'interessato non è prefisso alcun termine per l'a-zione giudi?iaiia, termine che invece comincia a decorrere se, nel frattempo, l'ammiri infrazione comunica la sua decisione.
li. Foro Italiano — Volume LXXXVli — ! am l 59.
In una recente decisione (sentenza n. 3142 del 1963, Foro it., 1964, I, 48), questa Suprema corte lia, invece, affermato che la norma, di cui al citato art. 98 del decreto
1827 del 1935, deve essere applicata anche alle controversie in materia di assegni familiari e che, conseguentemente, in caso di mancata pronuncia sul ricorso da parte del mi
nistero del lavoro, nel termine di novanta giorni della
proposizione del ricorso medesimo, l'interessato ha la fa
coltà di adire l'autorità giudiziaria. Queste Sezioni unite ritengono che tale recente orien
tamento giurisprudenziale sia esatto e debba essere, per tanto, confermato. Infatti, premesso che il richiamo conte nuto nell'art. 58 del ricordato t. u. riguarda genericamente le disposizioni relative alla decisione dei ricorsi, contenute nel titolo V del r. decreto n. 1827 del 1935, va rilevato che
(come è stato giustamente osservato nella menzionata
sentenza n. 3142 del 1963) tra tali disposizioni non può non farsi rientrare quella contenuta nell'art. 98 del decreto
1827 del 1935, che attiene alla decisione del ricorso in quanto stabilisce il termine (novanta giorni) entro il quale la deci
sione amministrativa deve essere emessa, attribuendo in
conseguenza all'interessato la facoltà di adire l'autorità
giudiziaria, ove tale termine trascorra senza che venga
pronunciato alcun provvedimento e, quindi, attribuendo
implicitamente, in via di presunzione assoluta, al silenzio
dell'amministrazione, il significato di rigetto del ricorso. A conferma dell'esattezza di tale soluzione della que
stione, è da osservare ohe, a ben considerare, il richiamo
in parola appare dettato precipuamente con riferimento
alla norma dell'art. 98, nella parte in cui equipara, agli effetti della proponibilità dell'azione giudiziaria, il silenzio
dell'amministrazione al rigetto del ricorso.
Infatti, innanzi tutto, è da escludere che il detto ri chiamo riguardi le norme, relative alla risoluzione delle
controversie in via giudiziale e contenute negli art. 100 e
segg. del più volte menzionato titolo V.
Per vero, mentre l'art. 20, 1° comma, del r. decreto 21 luglio 1937 n. 1239, che introdusse per la prima volta nella legislazione relativa agli assegni familiari il rinvio al titolo V del r. decreto legge del 4 ottobre 1935 n. 1827, richiamava la disciplina del detto titolo « per la decisione dei ricorsi e per la risoluzione in via giudiziaria di tutte le controversie in materia di corresponsione di assegni familiari », nel vigente t. u. il richiamo al titolo V, relativa mente alla parte giudiziaria, è stato soppresso, giacché, come è spiegato nella relazione del ministero del lavoro e della previdenza sociale al testo unico, fu ritenuto superato dalla disciplina, che, per trattazione delle controversie pre videnziali innanzi l'autorità giudiziaria, era stata, nel frat
tempo, dettata dal codice di rito (art. 459 e segg.). Quanto poi alle altre norme contenute nello stesso
titolo V e relative alla decisione dei ricorsi in via ammini
strativa, va rilevato che le disposizioni dell'art. 97, 1° e 2° comma, del r. decreto legge n. 1827 del 1935, le quali ammettono un solo ricorso in via amministrativa avverso il provvedimento dell'istituto e stabiliscono che sui ricorsi concernenti l'assicurazione per l'invalidità e la vecchiaia decide il comitato esecutivo e su quelli concernenti le assi curazioni obbligatorie per la tubercolosi, per la disoccupa zione involontaria e per la maternità decidono i rispettivi comitati speciali, sono manifestamente incompatibili con le disposizioni degli art. 55, n. 5, e 58, 1° comma, del t. u., le quali ammettono due ricorsi in via amministrativa e attribuiscono la competenza a statuire su di essi a organi diversi da quelli previsti dal r. decreto n. 1827 del 1935,
giacché la decisione dei ricorsi è demandata, in primo grado, al comitato speciale per gli assegni familiari e, in secondo
grado, al ministero del lavoro e della previdenza sociale. Le
dette disposizioni, essendo dunque del tutto inapplicabili in materia di assegni familiari, non possono ritenersi incluse
nel richiamo in parola. Lo stesso è da dirsi per la disposizione della prima parte
dell'art. 98, che fissa il termine per la proposizione del ricorso
amministrativo in novanta giorni, ed è, come tale, incompa tibile con le norme degli art. 57 e 58, 1° comma, le quali fissano il termine per la proposizione dei ricorsi, in cento
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931 PABTk PRIMA 932
venti giorni per quello al comitato sociale e in trenta giorni
per quello al ministero.
^Vero è clie il richiamo in discussione concerne la dispo sizione contenuta nel 3° comma dell'art. 97, che conferisce
ai comitati, cui è demandata la decisione dei ricorsi in via
amministrativa, la facoltà di delegare l'istruttoria a speciali commissioni elette nel loro seno o ai comitati provinciali della previdenza sociale. E oggetto del rinvio è indubbia
mente anche la disposizione contenuta nel 1° comma del
l'art. 98, la quale prescrive che la decisione « deve essere
pronunciata entro i novanta giorni successivi alla data del
ricorso ». Senonchè non sembra che possa, con fondamento, sostenersi che il rinvio, espresso senza distinzioni e limiti, alle norme sulla decisione dei ricorsi riguardi solo la dispo sizione che concerne il termine per la decisione, e non anche
la successiva disposizione dello stesso art. 98, che stabi
lisce gli effetti conseguenziali alla mancata pronuncia nel
predetto termine. D'altra parte è chiaro che se il legisla tore avesse inteso richiamare solo le singole, e d'altronde
secondarie, disposizioni, di cui sopra si è fatto cenno, le
avrebbe indicate specificamente e non avrebbe richiamato
l'intero titolo della legge, in cui esse sono contenute.
È da aggiungere che il principio, per il quale, nelle
controversie in materia di previdenza e di assistenza obbli
gatorie, condizione di proponibilità dell'azione giudiziale è, non soltanto la definizione del procedimento contenzioso
amministrativo, ma anche la decorrenza dei termini sta
biliti per il compimento del procedimento stesso, è sancito, oltre che dal più delle volte ricordato art. 98 del r. decreto
legge n. 1827 del 1935 (che riguarda le controversie relative
alle prestazioni assicurative previste dallo stesso decreto), dall'art. 460 del vigente cod. proc. civile. Si tratta dunque di un principio generale per le controversie in materia di
previdenza e di assistenza obbligatorie, che non è applica bile nella predetta materia solo se sia diversamente stabi
lito da una legge speciale : il che induce, anche per questo
aspetto, a ritenere che sia stato intendimento del legisla tore di coordinare e armonizzare, mediante il richiamo in
discussione, la legislazione in tema di assegni familiari con
i principi e i criteri direttivi propri della materia previden ziale e assistenziale, eliminando, anche in tema di assegni familiari, i gravi inconvenienti che sarebbero derivati agli interessati dalla mancata osservanza, da parte dell'ammi
nistrazione, dei termini stabiliti per l'espletamento del pro cedimento amministrativo.
Alla stregua delle dianzi svolte considerazioni si deve,
pertanto, concludere che anche al contenzioso in materia
di assegni familiari è applicabile il principio, per il quale l'azione giudiziaria è proponibile dopo che sia decorso il
termine stabilito per la definizione del procedimento am
ministrativo.
L'istituto ricorrente ha dedotto, nella memoria difen
siva, che, ammettendosi l'applicabilità dell'art. 98 al con
tenzioso in materia di assegni familiari, se ne dovrebbe
trarre la conseguenza che, in caso di mancata pronuncia sul ricorso da parte del ministero nel termine di novanta
giorni dalla proposizione del ricorso medesimo, l'interes
sato, in base al disposto del 2° comma dell'art. 58 del t. u., sarebbe tenuto ad adire l'autorità giudiziaria nei trenta
giorni successivi allo scadere dei novanta giorni, pena la
decadenza della relativa azione. Senonchè tale questione, sollevata (come accennatosi) solo nella memoria difensiva, e non con riferimento al caso in esame, ma allo scopo di
stabilire quale criterio debba essere seguito nelle contro
versie che potranno eventualmente insorgere, non può essere presa in considerazione in questa sede, non avendo
alcuna incidenza sulla risoluzione della presente contro
versia.
Emerge da quanto si è esposto che la sentenza denun
ciata resiste alle censure prospettate con l'unico mezzo di
annullamento.
Per questi motivi, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 10 aprile 1964, n. 829 ; Pres.
Varallo P., Est. Bianchi d'Espinosa, P. M. Mac
carone (conci, conf.) ; Soc. p. a. Marvisa, Soc. coop, a r. 1. Aedes (Avv. Barbera, Eotondi) c. Soc. coop, a r. 1. Case economiche commercianti e professionisti La Edile (Avv. A. Tabet, Montel).
(Cassa App. Torino 13 luglio 1961)
Kinvio civile — Principio (li diritto ■— Nullità della
trasformazione «li cooperativa in società lucrativa — Costituzione della società preesistente — Inam
missibilità (Cod. proc. civ., art. 394). Rinvio civile — Domanda di restituzione di immo
bile — Omessa pronuncia— Sussistenza (Cod. proc. civ., art. 112, 389).
Nel giudizio di rinvio, a seguito della sentenza con la quale la Cassazione, pronunciando nei confronti della so/ietti
per azioni, aveva enunciato il principio di diritto che
è nulla la trasformazione da cooperativa in società
lucrativa, è inammissibile l'intervento della cooperativa stessa. (1)
Incorre nel vizio di omessa pronuncia il giudice di rinvio
che non provvede sulla domanda di restituzione dell'im
mobile, di cui il resistente aveva conseguito il rilascio in
dipendenza della sentenza cassata : domanda proposta dal
ricorrente nell'atto di riassunzione e riprodotta nelle conclu
sioni definitive formulate davanti all'istruttore. (2)
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo.
— Il rag. Edmondo Grilli, dichiarato fallito dal Tribunale di Milano
con sentenza 3 dicembre 1948, propose il 9 gennaio 1950
un concordato, nel quale intervenne come assuntore, con
liberazione immediata del debitore, la società cooperativa a r. 1. Aedes. I patti del concordato contemplavano il
trasferimento alla Aedes di tutte le attività fallimentari, tra le quali era compreso un immobile posto in Milano, via Marco Polo 7. Il concordato fu omologato con sentenza
5 maggio 1950.
Successivamente, cioè il 7 ottobre dello stesso anno, il rag. Grilli, con atto pubblico trascritto l'8 novembre
1950, vendè l'immobile di via Marco Polo 7 alla soc. a
r. 1. cooperativa La Edile. In seguito (16 luglio 1951) fu emesso dal giudice delegato al fallimento il decreto di
cui all'art. 136 r. decreto 16 marzo 1942 n. 267, che atte
stava la completa esecuzione del concordato. Il decreto
fu trascritto nei registri immobiliari il 22 ottobre 1951.
Frattanto la cooperativa Aedes, con atto 2 luglio 1951, aveva deliberato la propria trasformazione in società per azioni ; la società così sorta assunse la denominazione di
Marvisa. Detta società, con atto di citazione 12 agosto 1945, convenne innanzi al Tribunale di Milano le eredi di
Edmondo Grilli (deceduto nel 1952), e cioè Maria Luigia Grilli e Maria Calitti vedova Grilli, nonché la società coope rativa La Edile ed in base alle cicostanze di fatto già esposte
(1) La sentenza della Corte d'appello di Torino 13 luglio 1001, confermata sul punto dalla Cassazione, leggesi in Foro
it., 1962, I, 790, con nota di richiami.
(2) Secondo Cass. 22 agosto 1963, n. 2353, Foro it., Rep. 1963, voce Sentenza civ., n. 123 bis, costituisce vizio di omessa
pronuncia l'omissione di qualsiasi decisione su alcuni capi di
domanda, intesi per capi di domanda le richieste rivolte ad otte nere l'attuazione in concreto di una volontà di legge che garan tisce un bene della vita alla parte richiedente, nonché, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto, ritualmente formulata in conclusione specifica, sulla quale debba perciò essere emessa una pronuncia di accoglimento o di rigetto da. parte del giudice.
Sui limiti della competenza del giudice di rinvio in ordine alle domande di cui all'art. 389 ccd. ptoc. civ., cons. Cass. 10
giugno 1961, n. 1401, id., 1961, I, 1470, con nota di richiami. In dottrina, cons. G-ahbagnate, Domandi! di restituzione e
giudizio di rinvio, in Studi in onore iti F. Mesxinco, III.
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