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Sezioni unite civili; sentenza 16 aprile 1984, n. 2430; Pres. Mirabelli, Est. Quaglione, P. M....

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Sezioni unite civili; sentenza 16 aprile 1984, n. 2430; Pres. Mirabelli, Est. Quaglione, P. M. Miccio (concl. conf.); Siligato (Avv. V. M. Trimarchi) c. Comune di Letojanni (Avv. Iaria). Conferma Trib. Messina 29 giugno 1981 Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 9 (SETTEMBRE 1984), pp. 2235/2236-2239/2240 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23177309 . Accessed: 28/06/2014 15:57 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.142.30.77 on Sat, 28 Jun 2014 15:57:48 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezioni unite civili; sentenza 16 aprile 1984, n. 2430; Pres. Mirabelli, Est. Quaglione, P. M.Miccio (concl. conf.); Siligato (Avv. V. M. Trimarchi) c. Comune di Letojanni (Avv. Iaria).Conferma Trib. Messina 29 giugno 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 9 (SETTEMBRE 1984), pp. 2235/2236-2239/2240Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177309 .

Accessed: 28/06/2014 15:57

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2235 PARTE PRIMA 2236

contribuente e fisco, aventi quindi, come esattamente osservato

dalla decisione impugnata, una propria e diversa fonte; pertanto, non appare decisivo l'argomento accessorium sequitur principale addotto dall'amministrazione ricorrente per sostenere che, non

essendo deducibile l'imposta, non lo sarebbero neppure i relativi

interessi sul debito tributario. Inoltre, va osservato che, se è vero

che per il diritto comune la disciplina giuridica del debito

accessorio è quella del debito principale, è altrettanto vero che

ciò vale per la regolamentazione privatistica dei rapporti fra le

parti, ned senso che ogni disposizione regolamentante l'obbligazione

principale si estende anche a quella accessoria (ad es. in caso di

prescrizione, di rinuncia, di modificazione soggettiva dell'obbliga

zione, ecc.). Lo stesso principio non può invece applicarsi nel campo

pubblicistico, specie in quello tributario, al quale non possono

estendersi, in tutto e per tutto, i principi del diritto comune, trattandosi di un diritto speciale che regolamenta rapporti del

tutto diversi; e la prova della non estensibilità del principio, nei

sensi pretesi dall'amministrazione ricorrente, si ricava proprio dalla normativa sull'i.r.p.e.f., e proprio dalla nuova formulazione

della lett. c) dell'art. 10 d.p.r. n. 597/73, risultante dall'art. 5 1. n.

114/77, che prevede appunto la deducibilità dell'imponibile degli interessi dipendenti da mutui, pur non essendo affatto prevista la

deducibilità dei mutui stessi, il che dimostra che in campo

tributario, ai fini della deducibilità, la regolamentazione dei movi

menti di capitale non è affatto uguale a quella degli interessi

connessi a detti movimenti.

Inoltre, proprio il fatto che il legislatore abbia inteso, con le

innovazioni della 1. n. 114/77, restringere a determinate specifiche

ipotesi la deducibilità dell'imponibile degli interessi passivi, di

mostra che in precedenza non erano possibili distinzioni, e che di

conseguenza qualsiasi tipo di interesse, in quanto decurtazione

periodica di un reddito periodicamente assoggettato ad imposizio

ne, era deducibile, il che, d'altronde, appare pienamente conforme

al principio costituzionale della commisurazione dell'imposta alla

capacità contributiva (del che, invece, potrebbe dubitarsi proprio in relazione all'innovazione apportata dall'art. 7 1. n. 114/77).

Comunque, ritiene questa corte che non trovi affatto fondamen

to, in base alla normativa sull'i.r.p.e.f., il principio affermato dalla

ricorrente, secondo cui sarebbero ammissibili, ai fini della deter

minazione del reddito netto imponibile, solo gli oneri direttamen

te gravanti e conseguenti alle attività e alle fonti di produzione del reddito tassabile. Un principio del genere, infatti, non si trova

affatto formulato della legge delega in. 825 del 9 settembre 1971,

il cui art. 2, che detta al legislatore delegato i principi informato

ri della disciplina dell'i.r.p.e.f., nel prevedere, al n. 6, le deduzio

ni da calcolarsi al fine della quantificazione del reddito netto

imponibile, non fa alcun accenno alle fonti di reddito, ma

prevede come obiettivamente deducibili dal reddito complessivo

(e quindi non dalle sue singole componenti) puramente e sempli cemente gli oneri e le spese rilevanti che incidono sulla capacità

personale del soggetto (ergo: sulla capacità contributiva): rile

vanza, senza alcun dubbio, a tali fini, non già giuridica, ma

meramente economica, il cui apprezzamento deve intendersi ri

messo al legislatore delegato. E la conferma di ciò si ha proprio dall'art. 10 d.p.r. n. 587/73

<anche nella nuova formulazione conseguente alla 1. n. 114/77), che prevede al 1° comma la deducibilità dal reddito complessivo di determinati oneri, « se non sono deducibili nella determinazio

ne dei singoli redditi che concorrono a formarlo », il che dimo

stra che non esiste stretta correlazione fra fonti di reddito e

deduzioni dal reddito complessivo (che è quello che rileva ai fini

della contribuzione); e la casistica che segue al 1° comma

conferma questa conclusione, posto che la maggior parte delle

passività ammesse a detrazione (nella nuova formulazione, dalle

lett. d in poi e nella precedente formulazione della lett. c in

poi) non ha alcun rapporto con attività o cespiti produttivi di

reddito e costituisce delle vere e proprie poste passive del conto

economico complessivo annuo fra entrate ed uscite, ritenute

rilevanti per ciò solo ed in se e per se, al fine del rispetto del

principio della capacità contributiva.

Non sussistono validi ragioni, pertanto, per una interpretazione della lett. c) dell'art. 10 in esame, nella sua originaria formula

zione, diversa da quella che risulta dalla inequivocabile generici

tà, senza alcuna limitazione, della sua dizione letterale, essendo

l'interpretazione letterale confortata (se ve ne fosse bisogno, data

la chiarezza della norma) dalle osservazioni innanzi formulate in

base a criteri di interpretazione sistematica.

Il ricorso va pertanto respinto. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite civili; sentenza 16

aprile 1984, n. 2430; Pres. Mirabelli, Est. Quaglione, P. M.

Miccio (conci, conf.); Siligato (Avv. V. M. Trimarchi) c. Co

mune di Letojanni (Avv. Iaria). Conferma Trib. Messina 29

giugno 1981.

Ufficiale giudiziario e messo di conciliazione — Messo di con

ciliazione non dipendente comunale — Controversie — Giurisdi

zione amministrativa (R.d. 28 dicembre 1924 n. 2271, testo orga nico dell'ordinamento del personale addetto agli uffici di conci

liazione, art. 249; r.d. 3 marzo 1934 n. 383, t.u. della legge comu

nale e provinciale, art. 91; 1. 25 giugno 1940 n. 763, ordinamento

degli uffici di conciliazione, art. 9; r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, ordinamento giudiziario, art. 28; 1. 3 febbraio 1957 n. 16,

disposizioni sul servizio e la denominazione degli uscieri di

conciliazione, art. 2; 1. 24 febbraio 1971 o. 93, ripartizione dei

proventi di cancelleria agli uffici di conciliazione previsti dalla

1. 28 luglio 1895 n. 455, art. 1).

La domanda proposta da un messo dell'ufficio di conciliazione

non dipendente comunale nei confronti del comune, con la

quale si deducano prestazioni lavorative inquadrabili nell'ambi

to del lavoro subordinato e si avanzino pretese inerenti a tali

prestazioni, è devoluta alla cognizione esclusiva del giudice

amministrativo. (!)

(1) La Cassazione in questi ultimi tanni si è trovata diverse volte a

dover affrontare questioni di giurisdizione concernenti il rapporto che

intercorre tra il comune ed il messo di conciliazione non dipendente comunale. Tanto che, riguardo a tale problematica, si è avuta nella giurisprudenza della corte una vera e propria evoluzione che

trova nella sentenza in epigrafe la sua più recente e riassuntiva

espressione. Prima di passare in rassegna le teppe fondamentali di questa

evoluzione è opportuno sottolineare che le dispute in materia derivano dal fatto che la figura del messo di conciliazione non dipendente comunale è di per sé una figura ibrida, dai confini non ben definiti e che quindi si presta a varie e differenti interpretazioni giuridiche. Infatti dalle disposizioni normative in materia si ricava che le funzioni di messo di conciliazione possono essere attribuite o agli «inservienti comunali » o ad « altre persone ». Riguardo agli « inservienti » la legge presuppone esistente un rapporto di pubblico impiego alle dipendenze del comune, mentre riguardo alle « altre persone » il legislatore non ha fornito alcuna indicazione utile all'interprete circa la natura del

rapporto di servizio esistente. Come se ciò non bastasse, anche la restante disciplina giuridica del

messo di conciliazione è fonte di non poche incertezze per chi intenda individuare la natura del rapporto intercorrente con il comune: il messo è nominato con decreto del presidente del tribunale ed è addetto ad un uffioio giudiziario che è perciò un organo dello Stato, però allo stesso tempo è soggetto di un rapporto giuridico faoente capo al comune il quale è tenuto non solo alla corresponsione dei compensi e degli altri oneri connessi di natura patrimoniale che di regola gravano sul datore di lavoro (fra cui quelli a contenuto previdenziale e mutualistico) ma ranche all'approntamento dei mezzi materiali (immobi li, mobilio, attrezzature) e alla provviste del personale occorrente all'ufficio.

Le sezioni unite civili con la sentenza 15 febbraio 1979, n. 978, Foro it., 1979, I, 1810, si limitarono ad affermare che « nel silenzio della legge, il rapporto sul quale si innesta lo svolgimento delle funzioni affidate ai messi di conciliazione Sion dipendenti comunali, può, in astratto, configurarsi come svolto in regime di autonomia, ovvero di subordinazione; come debba nei singoli casi essere qualificato, dipende dal suo concreto atteggiarsi ». Alla luce di tale principio la Cassazione, nella sentenza 978/79, si preoccupava quindi di individuare quegli elementi la cui presenza nel caso concreto testimonia la esistenza o meno di un vincolo di subordinazione (assoggettamento del prestatore d'opera ad un potere direttivo, limitazione della sua libertà, ecc.). Inoltre si aggiungeva che non ci si trova di fronte ad un rapporto di pubblico impiego, sia pure « non di ruolo », qualora manchi l'atto di nomina.

La successiva decisione, sempre delle sezioni unite 26 ottobre 1981, n. 5573, id., Rep. 1981, voce Ufficiale giudiziario, n. 12 e per esteso in Giust. civ., 1982, I, 984, con nota di Patroni Griffi, sembra riassumere il mutato orientamento giurisprudenziale in materia matura to tramite le precedenti sentenze Cass. 18 marzo 1981, n. 1592, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 29; 24 marzo 1981, n. 1678, ibid., n. 22; 8 aprile 1981, n. 1981, ibid., n. 14. La sentenza n. 5573/81, ohe prende come punto di partenza il contenuto della sentenza n. 978/79, cit., sancisce che, in tutti quei casi nei quali venga dedotto un rapporto inquadrabile in astratto nello schema del lavoro subordinato, il medesimo debba considerarsi instaurato con il comune e quindi integri l'ipotesi del pubblico impiego.

Ciò anche se le prestazioni effettuate dai messi riguardino l'ufficio di conciliazione rientrante nell'ambito dell'amministrazione della giustizia. Pertanto le relative controversie rientrano nella giurisdizione esclusiva amministrativa. Le motivazioni di questa scelte sono ricavate dalla Cassazione dalla normativa riguardante i messi di conciliazione e dalle caratteristiche generali delle loro funzioni. Inoltre la sentenza n.

5573/81 tende a sminuire la rilevanza dell'atto di nomina ai fini della

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Svolgimento del processo. — Con ricorso al Pretore di Taormi

na, in funzione di giudice del lavoro, Carmelo Siligato esponeva che dal novembre 1971 in poi aveva espletato le mansioni di messo presso l'ufficio di conciliazione di Letojanni, percependo soltanto, a titolo di retribuzione, i proventi di cancelleria, senza

usufruire, peraltro, di alcuna assistenza previdenziale. Il Siligato chiedeva, pertanto, la condanna del comune di Letojanni al

pagamento, in suo favore, della differenza spettantegli fra le somme percepite e la retribuzione stabilita per i messi comunali, oltre che di tutte le indennità inerenti alla sua qualifica.

Il comune, costituitosi in giudizio, eccepiva preliminarmente il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria; deduce

va, in subordine, il difetto di legittimazione passiva del comune

e, in ogni caso, l'infondatezza della domanda. Il Pretore di Taormina, con sentenza del 25 giugno 1980,

disattesa l'eccezione pregiudiziale dell'ente convenuto, condannava il comune di Letojanni al pagamento, in favore dell'istante, della somma di Idee 180.000.000, liquidata con criterio equitativo. Ma, su appello del comune, il Tribunale di Messina con sentenza in

data 29 giugno 1981 dichiarava il difetto di giurisdizione dell'au torità giudiziaria ordinaria, ritenendo spettare al giudice ammi nistrativo la decisione della controversia. Premesso che il rappor to di lavoro dei messi di conciliazione è regolato dal r.d. 28 dicembre 1924 n. 2271, dalla 1. 25 giugno 1940 n. 763 e dal r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, osservava il Tribunale di Messina che —

fatta eccezione per la parte relativa alla scelta e alla nomina del

messo — tutto il rapporto è devoluto alla competenza organizza tiva ed economica del comune per cui il rapporto stesso, di

natura subordinata, deve ritenersi instaurato con il comune con la

conseguenza che, trattandosi di rapporto di pubblico impiego, la

relativa giurisdizione spetta al giudice amministrativo.

Avverso tale sentenza il Siligato ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, con un solo mezzo, la natura privata del

rapporto di lavoro e la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria. Il comune di Letojanni resiste mediante controricorso. Il Siligato ha anche presentato memoria.

Motivi della decisione. — Con l'unico mezzo il Siligato, al fine di sostenere la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 249 r.d. 28

dicembre 1924 n. 2271, 91 r.d. 3 marzo 1934 n. 383, 9 1. 25

giugno 1940 n. 763, 28 r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, 2 1. 3 febbraio 1957 n. 16 e 1 1. 24 febbraio 1971 n. 93 nonché l'omessa o

insufficiente motivazione circa punti decisivi della controversia. Premette il ricorrente, col richiamo alla sentenza 15 febbraio

1979, n. 978 di queste sezioni unite {Foro it., 1979, I, 1810), che, ove i messi di conciliazione non siano già dipendenti comunali, il

loro rapporto può in astratto configurarsi come svolto in regime sia di autonomia, sia di subordinazione e che le pubbliche funzioni possono essere esercitate anche in base ad un rapporto

qualificazione pubblicistica di un rapporto di lavoro subordinato. In essa sd legge infatti che per considerarsi instaurato tale rapporto di

pubblico impiego con il messo comunale non dipendente « non occorre

accertare, volta per volta, se vi sia stato o no da parte degli organi deliberanti del comune, una consapevole e volontaria adesione —

esplicita o implicita — all'instaurazione del rapporto di lavoro in

quanto detto rapporto pubblicistico trova il suo titolo nella legge ». La sentenza in epigrafe ricalca la falsariga della precedente sentenza

5573/81, cit. giungendo alle stesse conclusioni. Essa è però estremamen te interessante perché riassume in modo chiaro i termini della disputa ed allo stesso tempo si sofferma sulle motivazioni delle scelte effettua te. Appare così chiaro che la tesi ivi espressa trova il suo fondamento nelle seguenti argomentazioni:

— nella riferibdlità della organizzazione e dell'onere economico degli uffici di conciliazione all'amministrazione comunale;

— nella sostanziale affinità della posizione dei messi comunali

dipendenti da quelli non dipendenti; — nella corresponsione da parte del comune al messo dei compensi

e degli altri oneri connessi di natura patrimoniale; — nel fatto che non occorre procedere di volta in volta all'indagine

se vi sia stata, o meno, da parte degli organi deliberanti del comune la

volontà esplicita o implicita di instaurare il rapporto di lavoro con il messo comunale non dipendente in quanto, qualora il rapporto abbia

avuto svolgimento con i connotati della subordinazione e della conti

nuità, esso trova il suo titolo nella legge per cui non può essere

qualificato che come rapporto di pubblico impiego; — mei fatto che la mancanza dell'atto di nomina (a tale

proposito, da ultimo, in generale cfr., la nota di richiami, id., 1984, I,

516) non esclude di per sé la esistenza di un rapporto di pubblico impiego in quanto si considera ad essa equivalente « qualsiasi altro atto che dimostri la volontà dell'ente pubblico non economico di

costituire il rapporto, con l'utilizzazione delle prestazioni lavorative del

soggetto ed il loro inserimento nella propria struttura organizzativa »

(Oass. 18 novembre 1982, n. 6178, id., Rep. 1982, voce Impiegato dello

Stato, n. 160; 26 maggio 1979, n. 3076, id., 1979, I, 1708, con nota di C.M. Barone).

di diritto privato. Lamenta, quindi, il Siligato che il tribunale

abbia omesso la necessaria indagine intesa ad accertare la natura

del rapporto e, in particolare, che non abbia tenuto conto della

mancanza di un atto di nomina da parte del comune di Letojan

ni, della circostanza che tra quest'ultimo ed il Siligato esiste solo

un rapporto di fatto nonché della mancanza di una certa e

inequivoca manifestazione di volontà del comune di inserire il

Siligato nella propria organizzazione pubblicistica. Il ricorso è infondato. In realtà si tratta di stabilire — sulla

base delle circostanze di fatto allegate dal Siligato nel ricorso,

prodotto al Pretore di Taormina e alla stregua della disciplina

giuridica cui sono soggette le attività dei messi di conciliazione — se si sia istituito, o meno, nella specie, un rapporto di lavoro

subordinato, con continuità di prestazioni svolte alle dipendenze del comune.

In tale indagine, peraltro, non ha decisiva incidenza la man

canza dell'atto di nomina, in quanto, al fine dell'identificazione di

un rapporto di pubblico impiego, come tale soggetto alla giurisdi zione del giudice amministrativo, si considera ad esso equivalente

qualsiasi altro atto che dimostri la volontà dell'ente pubblico non

economico di costituire il rapporto, con l'utilizzazione delle pre stazioni lavorative del soggetto ed il loro inserimento nella

propria struttura organizzativa (Cass., sez. un., 18 novembre 1982, n. 6178, id., Rep. 1982, voce Impiegato dello Stato, n. 160).

In ordine al particolare caso che ne occupa queste sezioni

unite hanno già avuto occasione di stabilire attraverso il compiu to esame della normativa disciplinante la struttura e le funzioni

degli uffici di conciliazione, che questi, sotto il profilo della loro

istituzione, sono organi statali, mentre l'onere economico relativo

all'organizzazione degli uffici ed alla provvista del personale grava sui comuni (Cass., sez. un., 15 febbraio 1979, n. 978, cit.; 8 aprile 1981, n. 1981, id., Rep. 1981, voce Ufficiale giudizia rio, n. 14; 26 ottobre 1981, n. 5573, ibid., n. 12).

Infatti, i messi di conciliazione — cosi qualificati nell'art. 2 1. 3

febbraio 1957 n. 16 — ricevono la nomina con decreto del

presidente del tribunale e sono scelti, ove non siano già inser

vienti comunali, fra le persone che, residenti nel luogo, presentino le necessarie garanzie di capacità e moralità (art. 249 r.d. 28

dicembre 1924 n. 2271, 9 1. 25 giugno 1940 n. 763, 28 r.d. 30

gennaio 1941 n. 12). Per quanto concerne l'aspetto organizzativo degli uffici di

conciliazione, l'art. 91, lett. d), n. 1, t.u. della legge comunale e

provinciale 3 marzo 1934 n. 383 prevede fra le spese obbligatorie

poste a carico dei comuni quelle relative all'istituzione e al

funzionamento di detti uffici sebbene questi siano destinati all'e

sercizio di funzioni attinenti all'amministrazione della giustizia, la

quale è propria dello Stato {art. 1 r.d. 30 gennaio 1941 n. 12).

Inoltre, l'art, unico della 1. 24 febbraio 1971 n. 93 stabilisce che

le somme riscosse per i proventi di cancelleria, detratti i diritti

spettanti ai cancellieri, siano devolute al comune e destinate al

funzionamento degli uffici di conciliazione « ivi compreso il

pagamento dei compensi dei messi di conciliazione e degli ama

nuensi non dipendenti delle amministrazioni comunali ».

In questo quadro normativo va stabilita l'esatta posizione

giuridica dei messi di conciliazione non dipendenti comunali i

quali — sebbene nominati dal presidente del tribunale e addetti

ad un ufficio giudiziario che è perciò un organo dello Stato —

sono soggetti di un rapporto giuridico (di servizio) facente capo ad un diverso ente pubblico, cioè al comune, il quale è tenuto

non solo alla corresponsione dei compensi e degli altri oneri

connessi di natura patrimoniale, di regola gravanti sul datore di

lavoro — fra cui quelli a contenuto previdenziale e mutualistico — ma anche all'approntamento dei mezzi materiali (immobili,

mobilio, attrezzature) e alla provvista del personale occorrente

all'ufficio.

Ebbene, a parte la particolare posizione del conciliatore e del

vice conciliatore, la cui funzione è dichiarata gratuita e onoraria

dall'art. 21 r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 e la cui nomina compete al

Consiglio superiore della magistratura, gravano esclusivamente sui

comuni l'onere del personale di cancelleria degli uffici di conci

liazione, dato che le relative funzioni sono esercitate dal segreta rio comunale o da altro impiegato della segreteria (art. 9 1. 25

giugno 1940 n. 763 e 28 r.d. 30 gennaio 1941 n. 12), nonché

l'onere di retribuzione dei messi i quali o sono dipendenti comunali ovvero sono altre persone remunerate anch'esse dal

comune, come si è visto.

Per quanto riguarda, dunque, questi ultimi soggetti, della cui

posizione qui si discute, allorché si assume che si sia instaurato

un rapporto di servizio con vincolo di subordinazione e con

continuità, non può non ritenersi che le persone investite delle

funzioni di messo di conciliazione si trovino nella medesima

posizione giuridica dei messi dipendenti comunali, stante l'identità

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2239 PARTE PRIMA 2240

delle funzioni esercitate, con la conseguenza che anche nell'ipote si considerata il rapporto di lavoro deve ritenersi stabilito con il

comune, trovando esso il suo titolo nel descritto sistema normati

vo e nell'organizzazione concreta dell'ufficio.

In definitiva, rispetto ai messi di conciliazione non dipendenti

comunali, non occorre procedere di volta in volta all'indagine se

vi sia stata, o meno, da parte degli organi deliberanti del

comune, una consapevole e volontaria adesione, esplicita o impli

cita, all'instaurazione del rapporto di lavoro (come, invece, ha

ritenuto la sentenza di questa corte in data 15 febbraio 1979, n.

978, cit.), giaoché, qualora il rapporto abbia avuto svolgi mento con i connotati della subordinazione e della continui

tà, la consapevolezza — da parte degli organi dell'ente — della

sua sussistenza non può non riconoscersi, dovendo i medesimi prov

vedere, con apposite deliberazioni, al pagamento dei compensi

previsti dalla citata 1. 93/71. Pertanto la domanda proposta da un messo di conciliazione,

nei confronti del comune, intesa ad ottenere le competenze inerenti alle proprie prestazioni lavorative va devoluta — secondo

il criterio del petitum sostanziale, cioè avuto riguardo allo spe cifico oggetto e alla reale natura della controversia — alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, qualora venga

ricollegato alla affermazione di situazioni e circostanze idonee ad

evidenziare un rapporto di lavoro subordinato, giacché questo non può essere qualificato altrimenti che come rapporto di

pubblico impiego (Cass., sez. un., 18 marzo 1981, n. 1592, id.,

Rep. 1981, voce cit., n. 29; 26 ottobre 1981, n. 5573, cit.; 5 otto

bre 1982, n. 5107, id., Rep. 1982, voce cit., n. 3). Si è, peraltro, puntualmente osservato nelle indicate sentenze di

questa corte che non osta alla declaratoria della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo l'oggetto della domanda con

sistente nella condanna del comune al pagamento di spettanze retributive e alla regolarizzazione delle singole posizioni assicura

tive e previdenziali giacché, in tema di rapporto di pubblico

impiego, quella giurisdizione si estende a tutte le controversie

che, derivanti dal rapporto stesso, abbiano per oggetto la tutela

sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi; in particolare, è

costante giurisprudenza di questa corte che al giudice competente a conoscere del rapporto di impiego spetta anche la cognizione delle controversie riguardanti le conseguenze di omissioni contri

butive previdenziali. Il ricorso deve essere, dunque, rigettato. La declaratoria della

giurisdizione del giudice amministrativo lascia naturalmente im

pregiudicata ogni valutazione di questo circa la sussistenza, o

meno, del dedotto rapporto di lavoro subordinato. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite civili; sentenza 9 aprile 1984, n. 2255; Pres. Mazzacane, Rei. Scanzano, Est. Bile, P. M.

Fabi (conci, diff.); Istituto mobiliare italiano (Aw. G. Ferri,

Guazzugli-Marini) c. Fall. soc. Cartiera di Cairate; Fall. soc.

Cartiera di Cairate (Avv. A. Vianello, Fabozzi) c. Istituto mobiliare 'italiano. Cassa Trib. Milano, decr. 5 novembre 1980.

Fallimento — Provvedimento del giudice delegato in materia di pia ni di riparto — Reclamo al tribunale — Decreto — Ricorribilità

per cassazione — Sentenza 42/81 della Corte costituzionale —

Effetti (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 23, 26, 110).

Fallimento — Ammissione al passivo di credito — Domanda di

insinuazione con due diverse cause di prelazione — Ammissio

ne generica con rango privilegiato — Riconoscimento di en

trambe le prelazioni (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, art. 93, 96,

97). Fallimento — Ammissione al passivo — Generico riconoscimento

di causa di prelazione — Questioni circa la sua estensione —

Risoluzione in sede di riparto (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, art.

96, 97, 110). Ipoteca — Macchinari inseriti in complesso industriale — Assog

gettamento quali pertinenze — Esclusione — Limiti della

garanzia (Cod. civ., art. 812, 817, 2810, 2811).

Poiché la sentenza n. 4-2/81 della Corte costituzionale (che ha

dichiarato illegittimo l'art. 26 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, nella

parte in cui assoggetta a reclamo, disciplinato nel modo ivi

previsto, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in

materia di piani di riparto dell'attivo) ha caducato non

l'istituto del reclamo nella sua interezza, ma soltanto gli aspetti della sua disciplina positiva in contrasto con la tutela costitu

zionale del diritto di difesa (dovendo le lacune discendenti

dalla pronuncia di inconstituzionalità essere colmate con le

regole generali disciplinanti i procedimenti in camera di consi

glio), è ammissibile il ricorso per cassazione ex art. Ill Cost,

avverso il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo

contro il decreto con cui il giudice delegato ha stabilito un

piano di riparto rendendolo esecutivo, e per contro inammissi

bile il ricorso per cassazione direttamente proposto avverso il

decreto del giudice delegato (la corte ha ritenuto che il ricorso

contro il decreto del tribunale, proposto prima della pronuncia di incostituzionalità, potesse essere esaminato nel merito non

essendo state formulate censure circa violazioni del diritto di

difesa verificatesi nella fase di reclamo). (1)

(1) A seguito della pronuncia della Corte costituzionale (sent. 23 marzo 1981, n. 42, Foro it., 1981, I, 1228, nonché in Dir. fall., 1981, II, 225, con nota di Del Vecchio e in Giur. comm., 1981, II, 553, con nota di Pajardi, che ha ritenuto illegittimo per violazione dell'art. 24 Cost, l'airt. 26 1. fall. raeHa parte in cui assoggetta a reclamo, senza assicurare adeguate garanzie di difesa, i provvedimenti decisori del g.d. in tema di piani di riparto: la questione di costituzionalità era stata sollevata da Oass., sez. un., ord. n. 304 del 5 aprile 1975, Foro it., 1975, I, 2544, con nota di G. Pezzano, L'art. Ili, 2" comma, Cost, e la materia fallimentare), la corte regolatrice, anche a sezioni unite, non ebbe a nutrite dubbio alcuno circa l'eliminazione dalla realtà giuridica del reclamo ex art. 26, soltanto esercitandosi: a) nel risolvere i

problemi derivanti dall'immediata applicazione nei giudizi in corso

dell'espunzione operata dalla Corte costituzionale (secondo alcune sentenze gli effetti invalidanti discendenti dalla sentenza della Corte cost, non si sarebbero riflessi sui provvedimenti emessi nell'ambito di

procedimenti di reclamo svoltisi senza contestazione della loro legitti mità: cfr. Cass., sez. un., 10 maggio 1982, n. 2879, id., 1982, I, 2226, con osservazioni di G. Pezzano; 29 gennaio 1982, n. 569, id., Rep. 1982, voce Fallimento, n. 496; 13 dicembre 1982, n. 6820, id., 1983, I, 1294; secondo altre pronunzie la sentenza della Corte cost., incidendo immediatamente sui rapporti processuali pendenti, avrebbe determinato in ogni caso l'inapplicabilità dell'istituto del reclamo e 'l'annullamento senza rinvio del provvedimento reso dal tribunale: cfr. Cass. 8 settembre 1983, n. 5526, id., Rep. 1983, voce cit., n. 547; 21 maggio 1983, n. 3519, id., 1983, I, 2708; 17 novembre 1982, n. 6153, id., Rep. 1983, voce cit., n. 215; 24 luglio 1982, n. 4315, id., 1983, I, 91, con osservazioni di G. Pezzano, e in Giust. civ., 1983, I, 500, con nota di

Lanfranchi, La tutela giurisdizionale ordinaria dei diritti nelle proce dure concorsuali dopo la sentenza n. 42 del 1981 della Corte costituzionale e la giurisprudenza della Cassazione, e in Riv. dir. proc., 1983, 696, con nota di Balbi; b) nell'individuare il mezzo di

impugnazione avverso i decreti deoisori del g.d. (cfr. Oass. 3 novembre 1981, n. 5784, Foro it., 1982, I, 423, con osservazioni di G. Pezzano; 11 novembre 1982, n. 5954, id., 1983, I, 1294, con nota di M. Pagano, Effetti delle sentenze di incostituzionalità di norme processuali: nuovi

profili; 13 settembre 1983, n. 5546, id., 1983, I, 2708, con nota di M.

Pagano, Ancora sugli effetti della dichiarazione d'incostituzionalità dell'art. 26 l. fall.; c) nell'individuare soluzioni per il superamento della preclusione formatasi per il decorso del tempo in relazione al mezzo di impugnazione da proporsi avverso i decreti del g.d. (dopo che le sezioni unite, con la sentenza n. 2879/82, pronunciata nel procedimen to in relazione al quale era stato sollevato l'incidente di costituzionali

tà, avevano avvertito che il ricorso per cassazione, solo rimedio

esperibile contro il provvedimento del g.d., sarebbe risultato precluso dalla soadenza del termine di cui all'art. 325 c.p.c. finendo per configurare un vuoto giurisdizionale e una nuova questione di legitti mità costituzionale e che comunque tali problemi avrebbero dovuto essere risolti dal giudice dell'impugnazione), Cass. 14 luglio 1982, n.

4315, id., 1983, I, 91, con osservazioni di G. Pezzano, aveva ritenuto che il decreto del g.d. è impugnabile ex art. Ill Cost, entro il termine decorrente dalla comunicazione della sentenza che ha cassato senza rinvio il provvedimento del tribunale; per Cass. 21 maggio 1983, n.

3519, id., 1983, I, 2708, il detto termine decorre dal giorno della

pubblicazione della sentenza che ha oassato senza rinvio il decreto del tribunale mentre per Cass. 8 e 13 settembre 1983, on. 5526 e 5546, cit., il termine (individuato peraltro in quello di sessanta giorni; in

egual senso su tale punto Cass. 13 febbraio 1983, n. 1307, id., Rep. 1983, voce oit., n. 219) prende l'avvio dal giorno successivo alla

pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della sentenza della Corte cost, n. 42/81.

Le sezioni unite si sono industriate di superare la ricostruzione del sistema delle impugnazioni dei decreti deoisori emessi dal g.d. in sede di ripartizione dell'attivo (operata dalla sua stessa giurisprudenza e da quella delle sezioni semplici, a seguito del dictum della Corte costitu zionale), dopo averne riconosciuto la palese inadeguatezza (esso « offri rebbe all'interessato un grado di tutela addirittura inferiore a quello garantito dal pur imperfetto tessuto normativo sul quale la sentenza ha

operato »). Come si è avuto modo di denunciare in varie occasioni (v. mia

osservazione a Cass. n. 5784/81, in Foro it., 1982, I, 427) l'incongruità della sequenza decreto del g.d. - ricorso per cassazione appariva evidente non solo in termini di coordinamento con la struttura del

processo fallimentare (e di opportunità di onerare in via normale e

generale la corte di legittimità di « una massa di ricorsi postulanti ben altre delibazioni »), ma soprattutto in termini di contenuto della tutela accordata. In effetti, un'impugnazione ex art. Ill Cost, in sede di

legittimità in tanto avrebbe potuto ritenersi ammissibile avverso un

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